Islamismo
di Francesco Gabrieli
Islamismo
sommario: 1. Consistenza e diffusione dell'Islàm nel mondo odierno. 2. Islàm medievale e moderno. L'Ottocento e il colonialismo. 3. L'Islàm nel Novecento: panorama e problemi. 4. Il califfato: suo mito e suo tramonto. 5. L'Islàm, le nazionalità, il nazionalismo. 6. L'Islàm e il socialismo. 7. Dogma, diritto e culto nell'Islàm odierno. L'Islàm e le altre fedi. Filiazioni e dissidenze islamiche nel nostro tempo. 8. Essenza e vitalità dell'Islàm nel mondo moderno. □ Bibliografia.
1. Consistenza e diffusione dell'Islàm nel mondo odierno
Con l'approssimatività che statistiche di tal genere comportano, i musulmani nel mondo d'oggi si avvicinano a raggiungere i 500 milioni, un sesto della popolazione del globo. L'odierna cifra, secondo le rilevazioni dell'ultimo decennio, si aggirerebbe sui 475 milioni, che all'attuale ritmo di accrescimento demografico non tarderà a raggiungere il mezzo miliardo. Viene in testa il continente asiatico con circa 360 milioni, ove i quozienti massimi (85 milioni per ciascuno) sono dati dall'Indonesia e dall'ex Pākistan unitario (oggi Pākistan e Bangla Desh). Seguono l'India con 45 milioni, la Turchia con 35, l'Irān con 25, le repubbliche asiatiche dell'URSS con 20, l'Afghānistān con 16, la Cina (cifre assai incerte e discordanti) con una quindicina, la penisola araba (Arabia Saudiana, i due Yemen, e staterelli minori) con una dozzina, ‛Irāq 6, Siria 5, Malesia 5, Giordania 2, Libano mezzo, e disperse comunità minori. L'Africa conta a sua volta circa 110 milioni, coi 27 dell'Egitto, i 25 della Nigeria, i 15 del Marocco, i 13 dell'Algeria, i 10 dei vari Stati dell'ex Africa Occidentale Francese, i 7 del Sudan, 4 della Tunisia, 3 dell'Etiopia, 2 della Somalia, 2 della Libia. L'Europa infine contribuisce per circa 4 milioni, di cui uno e mezzo in Iugoslavia, uno in Albania, uno in Bulgaria. E uno o due altri milioni potranno ancora aggiungersi dal resto del mondo, America e Oceania, fra piccole colonie indigene, neo-convertiti bianchi, e sette di colore come i Black Muslims degli Stati Uniti (per cui v. sotto, cap. 7).
Questa distribuzione geografica e statistica rispecchia le vicende del sorgere e diffondersi della religione musulmana. La penisola araba, ove essa nacque tredici secoli or sono, fu il nucleo generatore delle conquiste, che in meno di un secolo cambiarono il volto del mondo antico, e portarono l'Islàm fino all'Atlantico e all'Asia centrale. Questi furono allora gli estremi confini della diaspora araba, mantenutisi poi verso occidente sul suolo africano, ridottisi a oriente col riflusso dell'arabismo (ma non dell'islamismo) dall'altipiano iranico sino all'‛Irāq: perciò, dopo la perdita della Spagna, l'Islàm arabo ha mantenuto fra il Marocco e l'‛Irāq la sua area di diffusione, mentre le ulteriori avanzate dell'Islàm in direzione nord (Turchia asiatica ed europea, Balcani, Russia meridionale) e verso est (India, Asia centrale, Indonesia, Cina) sono state dovute, per conquista, all'elemento turco, o, per pacifica penetrazione missionaria e commerciale, ad Arabi, Persiani, Turchi commisti. A mercanti, viaggiatori, propagandisti e schiavisti arabi è infine dovuta la diffusione dell'Islàm nell'Africa Nera, che è la più cospicua e ancor progrediente avanzata della fede di Maometto nei secoli a noi più vicini.
Naturalmente, su un'area così vasta e a livelli di civiltà così diversi, non può parlarsi di un blocco coerente e omogeneo, cui si possano attribuire caratteristiche, gradi di sviluppo, ideali ed energie comuni. La stessa consistenza numerica è talora dubbia, per la positiva tendenza di alcuni Stati, come l'Unione Sovietica, a disinteressarsi ufficialmente della confessione religiosa dei loro cittadini, o, come in Cina, a gonfiare, per motivi di prestigio e propaganda, le reali proporzioni di talune comunità. Anche a parte ciò, le varie aree geopolitiche, economiche e culturali condizionano fino a un certo punto le relative popolazioni musulmane. Un primo ed essenziale criterio di differenziazione è a seconda che l'Islàm sia la religione predominante nel paese, o sia solo una confessione minoritaria, accanto ad altre in posizione di parità o superiorità. La profondità e antichità della islamizzazione, lo sviluppo economico e sociale, l'influsso passato e presente dell'Occidente, costituiscono altrettanti fattori differenzianti, nell'imponente massa demografica che le cifre su enunciate rappresentano. Ciò non toglie che quella generale caratteristica congenita ab antico all'Islàm, di imprimere una relativa uniformità ai popoli e alle culture ove esso si diffonde, serba tuttora una parte del suo valore. V'è un fondo, un esiguo, se si vuole, ma sostanziale fondo comune, che abbraccia dall'un capo all'altro della terra i popoli professanti l'Islàm: e questo fondo non è soltanto la shahāda, la duplice professione di fede nell'unico Allāh e nella dignità profetica di Maometto, né il semplice complesso di credenze e riti a quella professione collegati; bensì anche una disposizione spirituale, un modo di concepire il posto dell'individuo e della società umana nell'universo, una coscienza e autocoscienza della storia, che da forme elementarissime e quasi istintive potranno assurgere ad alta complessità e problematicità, pur sempre serbando un'innegabile continuità. Questa constatazione di una tradizione comune e di un'adesione ad essa uniformemente orientata, pur a diversissimi livelli di sviluppo, giustifica la trattazione d'insieme che segue, e che ovviamente cerca di seguire lo stato e l'evoluzione dell'Islàm odierno nelle sue manifestazioni più avanzate e caratterizzanti, senza ignorare però le vaste masse in cui quella evoluzione e problematica ha più lenta e smorzata eco. Anche qui, anzi soprattutto qui, la storia procede per movimenti di élites che permeano e trascinano le folle; e lo storico deve aver l'occhio all'ala marciante dello sviluppo umano, non meno che alla più lenta avanzata di quelle masse senza il cui seguito l'attività dei pionieri cadrebbe nel vuoto.
2. Islàm medievale e moderno. L'Ottocento e il colonialismo
Non si può intendere la situazione dell'Islàm contemporaneo senza rifarsi alla sua crisi dell'Ottocento, quando il mondo musulmano, e orientale in genere, fu scosso e sopraffatto dalla penetrazione e invasione europea. Il Medioevo aveva visto la nascita e la stupefacente diffusione dell'islamismo, che fu insieme una religione e uno Stato: impero unitario, dapprima, poi frazionatosi in una molteplicità di potenze politiche nominalmente unite dal riconoscimento di una comune superiore autorità religiosa (il califfo), e, dopo la scomparsa di questa nel XIII secolo, dalla comune fede, che di quella autorità mostrò di poter fare a meno. Contemporaneamente, nei primi secoli del califfato e oltre il Mille, si sviluppava su tutta l'area dell'Islàm la grande civiltà e cultura musulmana classica, nutrita della fede di Maometto e degli assimilati succhi delle civiltà ellenistico-orientali. L'originalità e fecondità di tale cultura musulmana andò scemando col XII-XIII secolo, e sempre più decadendo nell'età del Rinascimento europeo, un intimo moto di rinnovamento che mancò del tutto all'Islàm. Dal Cinquecento all'Ottocento, mentre l'Europa maturava e ascendeva, l'Islàm ristagnò come forza di pensiero e autocoscienza creatrice, pur vivendo con l'Impero ottomano la sua ultima avventura di espansione politica. E una volta contenuta questa, l'Occidente passò nel sec. XIX al contrattacco, invadendo spiritualmente e materialmente il mondo sino allora autonomo e autarchico dell'Islàm. Dalla spedizione napoleonica d'Egitto alla creazione degli imperi coloniali inglese, francese, olandese, russo, e in parte anche tedesco e italiano, su terre musulmane, sono noti i fasti e nefasti della colonizzazione europea in Africa e in Asia nell'Ottocento e primo Novecento.
Questa realtà politica veniva a sconvolgere e sovvertire le storiche basi dell'islamismo, sorto e affermatosi come sfida al mondo infedele, e verso di esso in teorica guerra perpetua e in dilatata conquista. Viceversa, all'alba del Novecento, la maggior parte dei paesi islamici erano essi stessi sotto il più o meno diretto dominio degli infedeli d'Occidente, e anche là dove sussistevano Stati musulmani nominalmente indipendenti (Impero ottomano, Persia, Afghānistān), la presenza e pressione dell'Occidente era o rassegnatamente accettata o sospettosamente temuta e combattuta, ma comunque sempre incombente. Nè si trattava di solo esterno e imposto predominio politico: una non meno profonda ferita per l'orgoglio musulmano era il trionfo della scienza e tecnica europea (arma essa stessa primaria della sua politica di penetrazione), la conclamata superiorità dell'Occidente in saggezza ed efficienza di istituzioni politiche, la dinamica attività delle missioni cristiane, che affiancavano e spesso precedevano e preparavano la penetrazione coloniale.
Per l'Europa ottocentesca, e la sua politica d'espansione in Oriente, l'Islàm era la religione del passato, anchilosata e irrigidita su posizioni retrive, incapace di sviluppo e rinnovamento. Il Renan la dichiarava congenitamente inconciliabile con la scienza moderna, l'orientalistica europea le applicava freddamente i suoi positivistici metodi di analisi e dissezione, i proconsoli e funzionari coloniali non dissimulavano per essa il loro disprezzo (l'opposto atteggiamento di L.-H.-G. Lyautey nel Marocco fu per quell'epoca del tutto eccezionale). E i movimenti di resistenza e riscossa politico-religiosa qua e là prorompenti nel mondo islamico contro il predominio europeo (si pensi al madismo in Egitto e Sudan), nella loro cruda e brutale reazione, avvaloravano l'impressione che, ai ‛lumi' provenienti dall'Occidente, l'Oriente altro non potesse opporre che selvagge esplosioni di barbarie. Lo sforzo riformistico, d'altra parte, che taluni Stati musulmani tentavano per fronteggiare la crisi e rimontare il distacco (periodo delle Tanẓīmāt nell'Impero ottomano, rivoluzione costituzionale del 1905 in Persia), se finiva di smantellare la classica concezione e prassi politico-giuridica dell'islamismo, non arrivava a stornare le cupidige imperialistiche dell'Europa, nè a infondere nuovo vigore nella decrepita struttura di quegli Stati, destinati, pareva, a un'inarrestabile cancrena fino all'intervento decisivo e diretto dell'Occidente.
Decadenza e soggezione politica e ristagno sociale e religioso sembravano così, su tutta l'estensione dell'antica e gloriosa umma musulmana, fatalmente congiunti.
A questa desolante constatazione si oppose, con uno slancio spirituale che torna ad alto onore degli individui e gruppi promotori, il moto del riformismo e modernismo musulmano, iniziatosi già nella seconda metà dell'Otto- cento, e giunto a piena fioritura nel Novecento. Occorre distinguere queste correnti rinnovatrici, fiorite nei paesi musulmani che più risentirono della materiale e spirituale penetrazione europea, dai moti di puro revival islamico, direttamente rampollanti dalla tradizione del rigorismo in questa stessa fede, come il wahhabismo. Mentre quest'ultimo fu, almeno nelle sue origini e nella sua età classica, una pura e semplice riaffermazione dei valori del primo Islàm, il modernismo egiziano e indiano (ché in Egitto e in India sono stati i centri del movimento) fu, o volle essere, una Auseinandersetzung dell'Islàm con il pensiero e la civiltà europea, una scelta e un rifiuto insieme dei suoi valori, una reinterpretazione di ciò che era sentito come perennemente vivo nel messaggio del Profeta, e una sua riapplicazione ai problemi e alle necessità dei tempi moderni.
In Egitto, la favilla fu accesa nel secondo Ottocento dall'opera di un musulmano di origine afghana o persiana, Giamāl ad-dīn al-Afghānī (morto nel 1897), eccezionale e problematica figura di agitatore politico non meno che religioso, di cospiratore e avventuriero. La sincerità e ortodossia della sua intima fede, non meno che la moralità dei suoi mezzi, sono oggi controverse: certa è la sua indomita convinzione di una necessaria riscossa dei paesi islamici contro l'oppressione politica dell'Occidente, il suo credo antimperialista e anticolonialista, che ne fa l'antesignano di un intero secolo di lotta dell'Oriente non soltanto musulmano in questo senso. Più che nei pubblici scritti (pochi pamphlets, e la rivista di corta vita ‟al-‛Urwat al-wuthqā", redatta a Parigi col suo discepolo Muḥammad ‛Abduh), l'opera di al-Afghānī si esplicò nella propaganda orale, nella corrispondenza, nell'instancabile predicazione. Espulso dall'Egitto, errò per vari paesi d'Oriente, e finì a Costantinopoli, ospite e prigioniero insieme dell'assai poco progressista e riformista sultano ‛Abd ul-Ḥamīd. Ma, in Egitto, fu suo valido e più equilibrato continuatore l'ora nominato Muḥammad ‛Abduh (morto nel 1905), che può considerarsi il vero padre del modernismo egiziano.
Tempra meno tumultuosa e ardente del maestro, ma assai più intimamente religiosa, avversa allo sfruttamento colonialistico ma soprattutto sollecita di un ringiovanimento e di una purificazione della fede avita, e invisa perciò tanto al gretto conservatorismo che al filoccidentalismo opportunista, la irenica figura di Muḥammad ‛Abduh incarnò sulla fine del secolo scorso la più nobile espressione di un illuminato Islàm moderno. La principale sua opera apologetica, la Risālat at-tawḥīd (Trattato della fede monoteistica), traccia le linee di tale fede, che dogmaticamente non si distacca molto dal ‛rinnovamento' ghazaliano, pur tendendo a distinguere lo stretto e intoccabile patrimonio dogmatico dalle transeunti disposizioni (anche se consacrate dal Corano) in materia sociale, giuridica, commerciale. In tutti questi campi, l'interesse (maṣlaḥa) dei musulmani può giustificare per lui riforme, innovazioni, ammodernamenti; e fecero rumore a tal proposito taluni pareri giuridici di ‛Abduh, gran mufti d'Egitto, su questioni rituali ed economiche che parvero ai tradizionalisti scandalosamente innovatrici. La scuola che Muḥammad ‛Abduh lasciò dietro di sé, e che prese il nome di Salafiyyah (cioè ispirata al pensiero e alla prassi degli ‛Antichi', Salaf, nei primi aurei tempi dell'Islàm) si è continuata nel nostro secolo, e dovremo perciò riparlarne.
L'altro centro del modernismo islamico ottocentesco fu l'India britannica, dove la diffusione della cultura ed educazione europea importata dai dominatori si svolse senza le remore e gli ostacoli oscurantistici (da parte egiziana e ottomana) che in certi momenti le si frapposero in Egitto. Il Muḥammad ‛Abduh dell'Islàm indiano fu sayyid Aḥmād Khān (1817-1898) di Delhi, la cui opera fu insieme di predicazione e azione organizzatrice ed educatnce. Egli fondò infatti la rivista in urdu ‟Tahdhīb al-akhlāq", la Muslim Educational Conference, e quella Aligarh High School, poi divenuta Università Musulmana di Aligarh, che è stata per mezzo secolo la fucina di una classe colta di musulmani d'India, dalle illuminate idee liberali e riformatrici. Alla base di tali idee di Aḥmād Khān e dei suoi discepoli, sta, all'opposto di Renan, la convinzione della piena conciliabilità dell'Islàm con la civiltà e la scienza moderne: una tesi ben sostenibile, se si restringe l'Islàm alla sua fondamentale intuizione monoteistica, più delicata e controversa se si accetta in blocco come immutabile verità tutto il contenuto del Libro Sacro, la sua interpretazione e l'evoluzione susseguitane.
Il modernismo indiano, assai più audacemente e radicalmente di quello egiziano, continuava per suo conto tale interpretazione, sviluppandone modernamente l'indirizzo allegoristico: e quindi additava già nel Corano, con questo sistema esegetico, i germi del liberalismo e parlamentarismo politico, della libera indagine scientifica, della giustizia sociale. Rifiutava, con più facile gioco, norme e costumi invalsi nell'Islàm in età più tarda, come la reclusione e il velo femminile, considerava la guerra santa come una misura puramente difensiva, apriva infine la via per un franco ravvicinamento fra Islàm e cristianesimo, rifiutando la tradizionale interpretazione di passi coranici sulla alterazione e corruzione delle Scritture ebreo-cristiane, e la tendenziosità e faziosità di un'apologetica secolare. Questo atteggiamento liberale e irenico di Aḥmād Khān è il presupposto dell'opera di pensiero e di poesia di Iqb̄l, l'apostolo dell'Islàm indiano, che però cade quasi interamente nel Novecento, e di cui tratteremo nel capitolo seguente.
A questo protoriformismo indiano, nello scatenarsi del nazionalismo novecentesco, è stata rimproverata un'eccessiva arrendevolezza verso il predominio straniero, cioè un'assenza di nazionalistico fanatismo. In realtà, quelle generazioni furono anzitutto sensibili ai problemi religiosi e filosofici, sorgenti dal contrasto fra l'Islàm tradizionale e lo spirito dell'Occidente, e questi attesero in buona fede a conciliare e risolvere; toccava a un'altra età e a un'altra mentalità di portare in primo piano il momento del contrasto politico e di travagliarsi con spirito non sempre altrettanto aperto su di esso.
3. L'Islàm nel Novecento: panorama e problemi
L'Ottocento, come è noto, si continuò fino al 1914: e in quell'inizio del XX secolo l'Europa si illuse di perfezionare la sua supremazia sull'Oriente in genere, e su quello musulmano in particolare (occupazione italiana della Libia, protettorato francese sul Marocco, solenne incoronazione di Giorgio V a Delhi come imperatore delle Indie). L'Islàm, pur percorso e scosso qua e là dai tentativi di galvanizzazione e riforma del secondo Ottocento, seguitava ad apparire un peso morto sul cammino della civiltà occidentale, e le sue reviviscenze sembravano semplici sussulti reazionari, o agitazione di chimere del passato. Tale si rivelò infatti l'ideale e il programma del panislamismo (una parola coniata da un pubblicista europeo), che a quei lumi di luna imperialistici e colonialistici cercò di opporre il sogno di un Islàm risorto, riunificato, conquistatore. Tale utopia politica fu alla fine dell'Ottocento e ai primi del nostro secolo accarezzata o piuttosto sventolata dal sultano ottomano ‛Abd ul-Ḥamīd, ricoprente col manto idealistico degli ideali di Giamāl ad-dīn la propria politica tirannica e reazionaria. Le pretese califfali del sultano (v. sotto, cap. 4) dettero a questo fantasma un'illusoria base giuridica; la vanagloria e avventatezza di qualche capo di Stato europeo (brindisi di Guglielmo II a Damasco) sembrò perfino assicurare un appoggio dall'Occidente a questa che non fu se non un'ultima arma di difesa e minaccia del cadente Impero ottomano.
In accordo a questa concezione, scoppiato il conflitto del 1914, da Costantinopoli, schieratasi con gli Imperi Centrali, fu proclamata la guerra santa contro gli infedeli, che effettivamente tenevano in soggezione i tre quarti delle terre musulmane. Ma quell'arma apparve subito spuntata e inefficace: i sudditi musulmani della Gran Bretagna e della Francia combatterono disciplinati nelle file degli eserciti dell'Intesa, e la solidarietà d'armi fra la Germania e l'Impero ottomano si rivelò presto di natura prettamente politica, con nulli o scarsi riflessi sulla sperata mobilitazione panislamica. Il fatto decisivo che emerse invece nel corso della Grande Guerra, e determinò tutte le successive sorti dei popoli musulmani, fu il passaggio in secondo piano del vincolo universalistico della fede comune, per la riaffermazione in primo luogo delle coscienze e aspirazioni nazionali. Questo processo, che ebbe le sue avvisaglie nella ‛rivolta araba' del 1916 di Faisal e T. E. Lawrence, i suoi sviluppi, delusioni e accomodamenti con la sistemazione del Vicino Oriente, nel dopoguerra, entro il regime dei mandati, le sue ulteriori crisi nel ventennio fra le due guerre, e il suo sbocco alla fine della seconda guerra mondiale, si è compiuto in massima parte entro il quadro religioso dell'Islàm, ma non già con questo come forza determinante. La nuova idea-forza è stata invece quella delle nazionalità, con le quali già nella sua storia medievale l'Islàm aveva dovuto fare i conti, ma allora piuttosto in sede culturale anziché politica, e comunque con caratteri ed esiti del tutto diversi da quelli della sua storia moderna. Ora il nazionalismo, in parte istintivo, in parte inoculato dallo stesso Occidente colonizzatore, è stato l'ispiratore e il protagonista del nuovo corso, di cui non spetta qui a noi rintracciare le tappe.
L'imponente suo risultato, l'affrancamento e l'autonoma affermazione del Terzo Mondo, quasi per intero già compiutosi sotto i nostri occhi a partire dal 1945, ha avuto per teatro, geograficamente e religiosamente, l'intero territorio musulmano (trascendendolo del resto largamente in Africa e in Asia), ma col principio, estraneo e intimamente ripugnante all'Islàm storico, degli Stati nazionali. E il nostro compito è qui di passare in rassegna lo schieramento di questi Stati, ricercando le azioni e reazioni che la loro formazione, le loro crisi, i loro sviluppi e problemi, hanno avuto con l'avita fede comune: le sorti di questa, insomma, nel nuovo quadro in cui le vicende storiche l'han collocata, assai diverso da quello del suo glorioso primato medievale, come da quello mortificante della susseguita decadenza. I rapporti di principio fra l'Islàm e il nazionalismo saranno da noi esaminati nel cap. 5. Ora vediamo i fatti: come l'Islàm si sia accomodato, evoluto, avvantaggiato o abbia sofferto nella nuova fase storica del Novecento.
La stessa analisi settoriale che dovremo ora intraprendere, oltre alle ovvie necessità e varietà geopolitiche, è dovuta al nuovo principio delle nazionalità e degli Stati, che han frazionato l'antica unitaria Dār al-Islām: il processo, s'intende, è già antico, ma lo spirito è oggi nuovo, in conformità delle nuove ideologie.
Il primo posto in questa rassegna spetta naturalmente ai due paesi che già vedemmo nel secolo precedente all'avanguardia nel tentativo di rivitalizzare e modernizzare la fede degli avi: l'Egitto e l'India musulmana. L'Egitto, ove operarono Giamāl ad-dīn e Muḥammad ‛Abduh, si affacciò al nuovo secolo sotto il proconsolato britannico di E. B. Cromer, e conobbe poi il protettorato (1914), la lotta per l'indipendenza riconosciutagli nel 1922 sotto la dinastia di Moḥammed ‛Ali, un trentennio di vita parlamentare e, dal 1952, la rivoluzione e dittatura nasseriana. Tutta questa è storia della nazione egiziana più che dell'Islàm, e alla storia politica più che religiosa dell'Egitto appartengono i suoi leaders, Muṣṭafa Kāmil, Sa‛d Zaghlūl, Giamāl ‛Abd an-Nāṣir; ma non senza che anche l'Islàm abbia avuto una parte nel risorgimento egiziano, sostenendo il popolo nella sua lotta prima per la totale indipendenza, poi nelle crisi interne e internazionali susseguite. Il movimento modernizzante, che paradossalmente si richiamava nel nome all'antico (Salafiyyah, cioè ritorno alla fede dei padri, alle genuine origini) proseguì vigorosamente, dopo Muḥammad ‛Abduh, col suo discepolo Muh. Rashīd Riḍā (morto nel 1935) e la sua rivista ‟al-Manar"; la sua battaglia non ebbe nulla di estremistico, fondata com'era su una piena adesione ai valori tradizionali dell'Islàm, interpretati però modernamente e sceverati da superstizioni, usi e costumanze incompatibili col moderno progresso (la poligamia e segregazione della donna, l'uso del velo, ecc.).
A quest'ala liberale del modernismo egiziano si oppose lo stretto conservatorismo che fece a lungo capo alla università religiosa di al-Azhar, roccaforte dell'Islàm tradizionale non solo nell'insegnamento ma in tutta la vita sociale e spirituale del paese: di qui è partita la ripulsa e condanna ufficiale di tesi ardite della pubblicistica e scienza egiziana, come quella sostenuta dallo shaikh ‛Alī ‛Abd ar-Rāziq sul contenuto puramente religioso della predicazione di Maometto (L'Islàm e i principî del governo, 1925) o quella di Taha il usain sul carattere apocrifo dell'antica poesia preislamica (La poesia della Giāhlliyya), che implicava una trattazione critica radicale degli inizi della ‛storia sacra' musulmana e dello stesso Libro Sacro. Questo rigido conservatorismo, duro a morire, ha sofferto certo fieri colpi dalla evoluzione e rivoluzione dell'Egitto negli ultimi decenni, non ultima la riforma radicale di al-Azhar, che ne ha smantellato la struttura e il potere tradizionale: ma ci si può domandare quanto ciò sia stato effetto di un'intima maturazione riformistica, e quanto di un intervento autoritario del potere statale, deciso a eliminare e livellare quei centri di resistenza.
Che il nuovo corso della vita pubblica egiziana, pur nel pieno rispetto dell'ortodossia, non tolleri nel suo seno potenziali o effettive dissidenze religiosamente ispirate, è provato dalla vicenda dei Fratelli Musulmani (al-Ikhwān al-muslimūn), un movimento di rigoroso revival islamico, fondato in Egitto fra le due guerre da Ḥasan al-Bannā', e per qualche tempo proceduto di pari passo col più acceso nazionalismo, nella sua esigenza di un'integrale adesione e applicazione della religione avita, rifatta unica guida e norma della società. Ma presto quell'apparente concordia si ruppe, e i due diversi totalitarismi, religioso e politico, si affrontarono. Caduto assassinato nel 1949 al-Bannā', i suoi successori furono rigettati dal nasserismo all'opposizione, all'azione clandestina e alla cospirazione. È difficile dire oggi quanto di tale movimento, e di ogni altro moto non conformista, sopravviva nel sottosuolo della vita pubblica egiziana; nella quale, concludendo, l'Islàm resta ovviamente la fede della gran maggioranza della popolazione, sentita e praticata in forme di sopravvivente pietà popolare e di moderato e illuminato modernismo, l'una e l'altro trovanti il loro limite nel prevalente motivo nazionalistico e nella correlativa pressione e controllo dello Stato.
Diversa è stata la vicenda e funzione dell'Islàm nell'altro centro di rinnovamento e riforma che vedemmo allignare nell'Ottocento, l'India. Qui il blando moto riformistico profilatosi nel secolo scorso acquistò dinamica e vigore nel nostro con l'opera di un pensatore e poeta, Muḥammad Iqbāl (morto nel 1938), la cui azione può dirsi veramente demiurgica per l'Islàm indiano. Nutrito di larga cultura filosofica orientale e occidentale, e convinto che l'Islàm avesse compromesso la sua iniziale purezza già nel Medioevo, con l'accoglimento del pensiero greco-ellenistico, Iqbāl propugnò anch'egli un ritorno alle origini, che però, a differenza di altri più obiettivi rigoristi, interpretava a sua volta e contaminava con le sue personali vedute filosofiche e sociali, ove entra in larga parte, più o meno autenticamente assimilato, il pensiero europeo. Il succo del credo iqbaliano è la convinzione di enormi possibilità racchiuse potenzialmente nell'Islàm, poco o punto tradotte in atto nella sua storica evoluzione, e capaci, ove rettamente intese e applicate, di rimettere la società islamica al passo col moderno progresso occidentale, anzi di superarlo in quanto puramente spiritualista e opposta al crasso materialismo dell'Occidente. In termini politici, il suo sogno fu la creazione di un libero Stato musulmano d'India, che attuasse un siffatto Islàm: sogno che, come è noto, per la sua parte politica si realizzò nel 1947, con la scissione dell'India musulmana da quella induistica, e la creazione del duplice Pākistan.
Questo nuovo Stato sorto veramente, contro l'attuale generale tendenza, da un prevalere della coscienza religiosa su quella nazionale, ha voluto raccoglier l'appello del suo precursore, presentandosi come modello di Stato musulmano moderno, accogliente a braccia aperte la moderna tecnica, e mantenente insieme fede alla religione avita, intesa con larghezza e profondità, oltre ogni gretto formalismo. Questo il programma, cui nel solco e dietro la bandiera innalzata da Iqbal si è dedicata in questi decenni la più illuminata élite dell'Islàm indiano (non si dimentichi peraltro che circa 50 milioni di musulmani sono rimasti come minoranza nell'altro Stato induistico dell'India). Le difficoltà, le contraddizioni, le crisi cui nella realtà è andato incontro quel seducente programma formano la storia del giovane Pākistan, dai sanguinosi inizi dell'indipendenza alla recente (1971), non meno sanguinosa, secessione del Pākistan orientale (oggi Bangla Desh) che con un ritorno di nazionalistica fiamma e sotto l'incalzare di urgenti problemi economico-sociali ha rotto l'unità appena formatasi di umma musulmana d'India. La dura realtà politica e la prava natura umana hanno qui esposto a gravi prove l'ottimistico ideale iqbaliano, senza che perciò se ne possa o debba dichiarare il fallimento. E il pur dimidiato Pākistan resta un campo sperimentale di ciò che possa una moderna società ispirantesi ancora in primo luogo, anziché a dottrine materialistiche o a un miope nazionalismo, all'alto universalismo dell'Islàm: un ideale e un compito su cui pende ancora il giudizio.
Se Egitto e India rappresentano i punti focali nel confronto spirituale oltre che materiale fra l'Islàm e la civiltà moderna, la penisola araba, sua culla, ha vissuto nel Novecento una reviviscenza di questa fede in senso rigoristico e tradizionale, che almeno come dottrina ignora qualsiasi influsso dell'Occidente. Si tratta piuttosto qui del proseguimento di una linea interna di autocritica e riforma musulmana, i cui precedenti nell'Alto e Basso Medioevo sono rispettivamente il giurista e tradizionista Ibn Ḥanbal (IX secolo) e il giurista e teologo Ibn Taimiyya (XIII-XIV secolo).
Ambedue questi dottori propugnarono una letterale adesione ai precetti del Libro Sacro senza alcuna esegesi interpretativa, il rifiuto di ogni sviluppo seriore nel credo e nel culto, il ritorno insomma all'Islàm delle prime generazioni, senza superfetazioni, innovazioni e compromessi: una Salafiyyah avanti lettera, puritana e rigorista, assai più povera e lineare di quella riformistica e modernizzante del Novecento. Questa corrente ḥanbalita propugnata da Ibn Taimiyya (una sorta di al-Ghazzālī del rigorismo islamico) è alla base del movimento wahhabita, nato in Arabia nel sec. XVIII ad opera del riformatore religioso Muḥammad ibn ‛Abd al-Wahhāb, e, grazie all'appoggio di talune forze politiche locali, impostosi ai primi dell'Ottocento, e poi di nuovo durevolmente nel Novecento, nell'assetto politico-religioso della penisola araba. Nel primo Ottocento, i wahhabiti d'Arabia erano stati il terrore del mondo musulmano ortodosso, con il loro radicalismo violento: impadronitisi per qualche tempo delle città sante del Ḥigiāz, ne erano stati a fatica espulsi, per mandato della Porta, dal pascià d'Egitto Moḥammed ‛Alī, e avevano poi vegetato oscuramente nel Nagd, all'ombra della piccola dinastia saudiana. La fortuna di questa e del connesso wahhabismo rifiorì nel nostro secolo, quando l'emiro ‛Abd al-‛Azīz Āl Sa‛ūd, ricostituito e allargato l'avito dominio nagdiano, passò di qui, negli anni venti, alla conquista del Ḥigiaz, abbattendovi la dinastia hashimita dello sceriffo Ḥusain, che nella grande guerra era insorto contro i Turchi e aveva da poco fondato il suo Regno higiazeno. A questo sottentrò nel 1925 il Regno saudita, a tutt'oggi la maggior potenza d'Arabia, le cui vicende non ci interessano qui se non sotto l'aspetto religioso.
Nel quasi mezzo secolo del suo dominio in Arabia, il wahhabismo del Novecento ha saputo infatti smorzare le apprensioni e prevenzioni che la sua intransigenza e violenza avevano destato nell'Islàm ortodosso del secolo scorso; e ciò grazie alla forte personalità dei suoi capi (i sovrani della dinastia saudiana, in primo luogo il suo rinnovatore ‛Abd al-‛Azīz), a favorevoli congiunture politico-economiche (scoperta e valorizzazione del petrolio) e a un'accorta politica panaraba e internazionale. Dottrinalmente, ciò non ha comportato nessuna rinuncia alle sue posizioni puritane, che proprio per aver semplicemente ignorato in sul nascere l'Occidente, gli han poi permesso di accoglierne della tecnica tutto ciò che non fosse in stridente contrasto col contenuto positivo dell'Islàm, di pacificare e arricchire il paese (o almeno la sua classe dirigente), e di apparire a un tempo, di fronte al resto del mondo islamico, come modello di Stato tradizionale, indipendente, e niente affatto chiuso al progresso moderno. È appena necessario aggiungere che questa superficiale armonia fra esigenze islamiche e cauto accoglimento della civiltà occidentale è conseguita al prezzo di un paternalismo dinastico, di una vita sociale ancora assai primitiva (nonostante i meritori sforzi del regime per fissare i nomadi al suolo), e di un livello intellettuale assai rudimentale, rimasto al di qua dei problemi filosofici e religiosi su cui si è tormentato il modernismo egiziano e indiano. Singolarmente adatto, si direbbe, alle attuali condizioni d'Arabia, il wahhabismo non è certo merce d'esportazione al di là dei suoi confini, e la elementarità del suo credo puritano, che ne ha costituito la forza nella penisola, diventerebbe la sua debolezza in un più evoluto ambiente, alle prese con i più complessi e ardui problemi della civiltà moderna.
Sorvolando rapidamente a ovest dell'Egitto, per l'Islàm maghrebino dovremo ripetere la ormai banale constatazione di un suo associarsi complementare, non già dominante e condizionatore, al prevalente motivo statale e nazionalistico: la più significativa riprova ci viene proprio dalla Libia, ove quella confraternita senussita, che aveva costituito il più cospicuo fenomeno nella vita interna, del paese, e il fulcro della sua resistenza al colonialismo italiano nel nostro secolo, è stata spazzata via agevolmente, come forza politica, dalla rivoluzione militare del 1969, che ha liquidato la dinastia del senusso re Idris. L'Islàm si è qui potuto prendere la soddisfazione di ridurre a moschea qualche chiesa cristiana, ma, a parte talune rigoristiche manifestazioni del suo leader Gheddafi, non si può dire abbia veramente inciso sulla politica del gruppo al potere. E questo discorso ci pare valga, mutatis mutandis, per gli altri paesi maghrebini: in Tunisia, per esempio, certo il più progredito ed equilibrato paese del Maghreb come coscienza civile e sviluppo culturale, decisivi passi sono stati compiuti in deroga, se non in dispregio, di norme fondamentali dell'Islàm, come la legale abolizione della poligamia e un atteggiamento ufficiale assai spregiudicato sui problemi giuridici e sociali connessi al digiuno del ramaḍān. In Algeria, ove il moto per il progresso e l'indipendenza ebbe nella sua fase preparatoria un considerevole appoggio negli ambienti religiosi (basti pensare all'associazione fra gli Uleina e all'opera di singoli precursori come lo shaikh al-Ibrahīmī), l'oltranzismo socialisteggiante del nuovo regime nazionale non pare trovare alcun limite e remora in opposte forze tradizionali e conservatrici, come dovremo constatare parlando di Islàm e socialismo. Nel Marocco infine, senza dubbio il più arretrato e paternalistico fra gli Stati maghrebini, la funzione e il peso della religione sembrano ancor notevoli, in convergenza con la politica assolutistica del sovrano, e in più netto contrasto con il liberalismo progressista o il radicalismo rivoluzionario della ormai semiclandestina opposizione. Qui si può forse ancor parlare di una santa alleanza fra trono e altare, ma a tutto vantaggio e in funzione di interessi del trono; esteriormente almeno, la struttura della fede tradizionale permane intatta, con le accentuate caratteristiche dell'Islàm maghrebino (confraternite, culto dei santi, tipo di insegnamento). Scavalcato quasi ovunque e relegato in funzione ancillare dal nazionalismo regionale (son rimasti sinora sulla carta tutti i progetti di una unità maghrebina), l'Islàm d'occidente è pur quello che serba una più forte presa sulle sue masse popolari, e una più netta avversione a moti modernistici e riformatori.
A nord dell'Egitto e dell'Arabia troviamo il Crescente fertile: Palestina, Siria col Libano, Giordania, ‛Irāq, dove gli Arabi portarono l'Islàm nel primo periodo delle conquiste, e dove si svolsero i fasti più gloriosi dell'antico arabismo. L'Islàm, religione della enorme maggioranza del- la popolazione (solo nel piccolo Libano vi è un condominio islamico-cristiano), subì qui nel Medioevo l'attacco delle crociate, che seppe contenere e rintuzzare in una vicenda bisecolare, ove il contrasto fu, medievalmente, non di genti ma di fedi. Rarissima, negli storici arabi di quel periodo, l'espressione di sentimenti di nazionalità (Arabi e Turchi minacciati e offesi dall'invasione dei Franchi), e unanime, per contro, la concezione ‛cattolica' dell'Islàm, solidale nella difesa e offesa pur nel frazionamento politico ed etnico che già quell'età presentava. Il grido di guerra del curdo Saladino sul campo di battaglia di Tiberiade fu ‟Avanti, per l'Islàm!", e l'imbelle califfo di Baghdad tornò per un istante a figurare quasi simbolo della fede comune minacciata. Tutt'altra la situazione e la reazione, da parte musulmana, nella crisi palestinese del nostro tempo, che ha visto di nuovo un elemento straniero prender piede e fondare un suo proprio Stato entro i territori mediterranei che dal VII secolo erano stati acquistati all'Islàm.
L'intrusione ‛sionista' e la creazione dello Stato d'Israele, assai più che un'offesa e minaccia all'Islàm, sono oggi sentiti nel Vicino Oriente, in termini di nazionalità, come un'usurpazione ai danni del popolo arabo di Palestina, e dell'arabismo tutto, che nella sua tenace reazione all'invasore ha trovato uno dei più schietti motivi di solidarietà. Una riprova di tale diversa impostazione è la tepidezza o indifferenza di fatto, con cui il resto del mondo musulmano non arabo ha seguito e segue il conflitto, non andando oltre generiche affermazioni di solidarietà. Se taluni episodi singoli, come l'incendio della venerata moschea al-Aqsā, han commosso tutti i popoli musulmani, l'essenza del conflitto resta un fatto arabo assai più che islamico, nazionale assai più che religioso, in cui l'universalismo dell'Islàm appare ancora una volta svigorito e svuotato di fronte al fiammeggiare della passione etnica e nazionale.
Gli Arabi cristiani del Libano hanno solidarizzato fino alla guerra civile con i loro connazionali musulmani nell'avversione a Israele, e la più o meno fattiva solidarietà con la quale tutto il mondo arabo d'Asia e d'Africa sostiene la causa palestinese non si misura in termini di zelo religioso ma di impegno politico, di ideologia nazionalistica e di maggiore o minor adesione ai contrapposti blocchi mondiali che fan da sfondo nel conflitto. Prima di giungere a questo che riempie di sé i più recenti decenni, il nazionalismo arabo aveva fatto, proprio nella disputata zona del Crescente fertile, le sue prime prove, mobilitando contro l'Impero ottomano, cioè contro uno Stato islamico plurinazionale, tutte le giovani energie, lottando a fianco degli infedeli dell'Intesa per il miraggio della nazionale indipendenza e libertà.
L'amara delusione alla fine della prima guerra mondiale alienò, si direbbe per sempre, agli Occidentali le simpatie dei popoli arabi, li espose alle tentazioni e collusioni col nazismo, e li tenne in disparte nel secondo conflitto, salvo raccoglierne i frutti con le complete indipendenze allora conseguite: frutti che la contemporanea creazione d'Israele e il relativo conflitto dovevano avvelenare. Ma tutto ciò, ripetiamo, è storia dell'arabismo e del Vicino Oriente assai più che dell'Islàm: quest'ultimo ha dato solo un vago colorito di sfondo a contrasti essenzialmente etnico-politici, e alla perdita di Gerusalemme, che è anche per i musulmani città santa, non ha reagito con efficacia maggiore di quanto abbia fatto il cristianesimo dopo il definitivo fallimento delle crociate. Le crociate odierne hanno altri obiettivi, altre parole d'ordine, e l'Islàm del Vicino Oriente non fa eccezione a tale mutata prospettiva.
Il conflitto palestinese, di cui abbiamo cercato qui di chiarire i rapporti solo secondari con il problema religioso, tende a far passare in seconda linea altre questioni a esso più pertinenti, nel territorio di cui parliamo. Tali la delicata conservazione (che la crisi del 1975-1978 ha ora messo in forse) dell'Ausgleich cristiano-musulmano nel Libano, col connesso clima di tolleranza reciproca, che ogni ventilato assorbimento del paese in più ampie formazioni politiche comprometterebbe; tale, anche in Giordania, la pacifica convivenza di elementi cristiani con la maggioranza araba, affratellati gli uni e l'altra nei dolori e gli odi verso Israele. Assai meno facile, anche a prescindere dall'attuale conflitto, è risultata invece tale convivenza di diverse confessioni e fedi nell'‛Irāq, dove già in seno all'Islàm si contrappongono in parti quasi uguali sunniti e scuti, e fuori dell'Islàm restano varie altre comunità e dissidenze religiose (cattolici, assiro-caldei, yazidi), così come in sede etnica, ai 5 milioni di Arabi si contrappongono oltre un milione di Curdi, e poi Turchi, Assiro-Caldei, Persiani. Questa situazione variegata di fedi e di stirpi ha dato luogo prima e dopo la nascita dello Stato iracheno (1921) a contrasti e conflitti, in cui la parte dell'elemento religioso, contrariamente al generale processo qui delineato, è ancora, se non esclusiva, sensibilissima: in questa terra, ab antico matrice di eresie, eterodossie, fedi perseguitate e clandestine, corre, si direbbe, un lievito religioso, inestinguibile, con i correlativi germi di intolleranza e fanatismo: e minoranze e dissidenze ne hanno fatto in ogni tempo le spese.
Anche sul terreno puramente religioso, questo persistente medievalismo segna nell'Islàm iracheno inconfondibili impronte.
Il sostituirsi di un principio e ideale nazionale a quello religioso universalistico dell'Islàm, che nei paesi arabi è avvenuto gradualmente e pacificamente, ha avuto un corso movimentato e drammatico fuori dell'area araba, al centro di quello che fu l'ultimo impero musulmano, la Turchia. Per tutto l'Ottocento; la coscienza colà dell'urgenza di riforme modernizzatrici, che guarissero l'‛uomo malato' e lo mettessero al passo con l'Europa, non aveva ancor toccato le basi della fede tradizionale. I riformatori e predicatori di riforma, attratti dall'Occidente e al tempo stesso sinceri patrioti ottomani, erano stati in generale buoni musulmani, e non avevan pensato a fare l'Islàm responsabile dell'arretramento del loro paese. Anche la rivoluzione dei Giovani Turchi, che al principio del secolo depose il Sultano rosso, il sedicente califfo panislamista ‛Abd ul-Ḥamīd, si svolse nel pieno rispetto, almeno formale, della fede avita, che qualche pubblicista e poeta liberale e progressista come Ziya Gök Alp celebrò ancora come forza valida e ispiratrice, concorrente con gli ideali nazionali e libertari a un rinnovamento della patria, concertato con una ripresa della forza espansiva dell'Islàm nel mondo.
Le cose cambiarono con la prima guerra mondiale, da cui la Turchia uscì sconfitta, e l'Impero ottomano smembrato e distrutto. Gli uomini, e soprattutto l'uomo (Mustafa Kemal) che alzò la bandiera della riscossa nazionale, si erano imbevuti delle idee occidentali, di ispirazione soprattutto francese, di laicismo antireligioso o irreligioso, di un radicalismo illuministico che vedeva nella religione un'oscurantistica forza retrograda, avversa al progresso, alla nazionalità, alla civiltà moderna. In seno ai Giovani Turchi, dalle cui file provenivano, questi uomini avevan rappresentato un'ala di rigoroso laicismo, cui solo i tempi immaturi e il prestigio dei maggiori leaders diversamente orientati, non avevano allora permesso di prevalere. Ora, uscito il paese vittorioso dalla lotta di riscossa sotto la loro guida, liquidato come oltre vedremo ogni residuo medievalistico di califfato e proclamata in suo luogo una repubblica laica e democratica su base puramente nazionale, Kemal e il suo gruppo misero mano alle radicali riforme che dovevan mutare il volto della nuova Turchia.
Le riforme imposte con metodi dittatoriali negli anni venti (nel costume, nella lingua, nell'alfabeto, nella struttura giuridica, nell'insegnamento, nel culto) non solo separarono rigorosamente lo Stato da ogni interferenza confessionale, e annullarono lo storico vincolo tra fede religiosa e potere pubblico risalente alle origini stesse dell'Islàm, ma relegarono questo, come ogni altra fede e culto, a puro affare privato, controllato sospettosamente e vessatoriamente dallo Stato (scioglimento delle confraternite religiose, chiusura delle tekke o conventi, divieto dell'abito talare fuor del culto, appello alla preghiera imposto in turco, traduzione in turco del Corano, pratica abolizione dell'insegnamento religioso). La laicizzazione della società e dello Stato, in conformità dei suoi giacobini modelli, trapassò in intolleranza persecutoria; e la reazione dell'Islàm, almeno in quel primo momento, fu di passiva rassegnazione, o di sporadici moti reazionari prontamente repressi.
Dovevano passare vari anni, dopo la morte di Kemal Atatürk (1938) e la seconda guerra mondiale, perché il mondo si accorgesse quasi con sorpresa che l'Islàm non era affatto morto in Turchia sotto l'ondata illuministica, ma aveva serbato una sua presa sulle masse rurali e sulla borghesia cittadina, che la ufficiale laicizzazione dello Stato e la persecuzione poliziesca non erano riuscite a intaccare. L'allentamento del regime dittatoriale con la fondazione di un altro partito oltre quello kemalista ‛del popolo' sino allora imperante, e gli inizi di una reale vita parlamentare e democratica che condusse nel 1950 questo stesso partito di moderata opposizione al potere, mostrarono alla Turchia e al mondo che l'intima religiosità del popolo turco era stata appena sfiorata, e che, pur senza ritorni al passato, c'era ancor posto in una democratica repubblica laica per la fede tradizionale e una parte almeno dei suoi istituti e ideali.
È questo il processo cui abbiamo assistito nei più recenti decenni della storia turca, con una graduale attenuazione della politica di intollerante laicismo, una rivalutazione sentimentale e culturale del passato musulmano della Turchia, persino qualche larvata ripresa di intolleranza nell'opposto senso, che la lotta politica ha messo in luce e successivamente controbattuto (caduta del regime ‛democratico', o senz'altro reazionario, di A. Menderes, levata di scudi militare del 1960, ribadita fedeltà ufficiale agli ideali di Atatürk). In conclusione, la posizione dell'Islàm presso il popolo che ne fu l'ultimo propagatore con le armi è oggi senza dubbio irrevocabilmente scaduta dall'egemonia di un tempo, senza che con ciò si possa parlare di una sua estinta vitalità nelle masse, e in una parte della élite stessa al potere. La sua difesa e ripresa è stata in verità affidata, più che a una combattiva apologetica, alle latenti forze profonde della sua diffusione secolare in Anatolia, ai non estinti fermenti mistici ed emozionali, e anche a un attenuarsi dell'acre, preconcetta ostilità della classe dirigente, apertasi a una più liberale e magari agnostica tolleranza. L'Islàm in Turchia è tuttora una forza sociale, non più una forza politica; e nonostante questa sua reviviscenza all'interno, ogni moto di solidarietà internazionale panislamica non ha trovato più da mezzo secolo eco alcuna in Turchia.
Matrice culturale dell'Islàm turco era stato a suo tempo quello persiano, ricco già di una tradizione propria, risalente alle origini della sua diffusione in Asia. La Persia o Irān fu infatti nell'Alto Medioevo la prima terra islamizzata a svincolarsi in parte dall'egemonia iniziale dell'arabismo, a rivendicare la sua antica cultura, a creare una sua letteratura musulmana nella lingua nazionale. Contemporaneamente, essa dava alla civiltà islamica un apporto essenziale, di cui si possono discutere la misura e le componenti, non la indisconoscibile realtà. In questa rassegna limitata al nostro secolo, non ha luogo una caratteristica dell'Islàm persiano, che a partire dal Seicento ha assunto la sua definitiva connotazione scuta, sviluppando al tempo stesso un pensiero teologico e metafisico ove i dogmi islamici si combinano con una corrente di speculazione gnostica ab immemorabili connaturata all'anima persiana. Ma questa fecondità dell'islàm iranico parve esaurirsi, almeno entro i confini della fede musulmana, sia anche eterodossa, nel corso del sec. XIX, quando dal suo seno rampollò bensì la fede Babi-Bahai (v. sotto, cap. 7), che fu però respinta dalle masse, e finì con l'uscire totalmente dal grembo dell'Islàm. Questo in Persia rimase irrigidito nella sua confessione dell'imamismo duodecimano (di contro al rigoroso sunnismo turco), e nel corso dell'Ottocento, sotto il sonnolento e retrivo regime qagiaro perdé ogni contatto col modernismo e riformismo musulmano, benché proprio dalla terra iranica (Afghānistān, o forse anche la Persia stessa) sia venuto all'Islàm, con Giamāl ad-dīn, l'apostolo ottocentesco della sua riscossa.
La rivoluzione costituzionale-liberale del 1905-1907 vide l'elemento religioso (i molla) affiancato al laico nel suo sforzo di rinnovamento, ma le convulsioni della grande guerra e del suo dopoguerra travolsero questo generoso tentativo e sboccarono nell'assolutismo progressista della nuova dinastia Pahlavi. Tratto caratteristico del nuovo regime fu un acuto nazionalismo riformistico, non molto diverso, nelle intenzioni e nei metodi, da quello kemalista della vicina Turchia. Ma mentre, ripudiando e combattendo l'Islàm, il kemalismo non aveva da sostituirgli che la mitologia di un'autoctona sapienza e potenza turca preislamica (fantasticando di legami del mondo prototurco con Ittiti e Sumeri), il nazionalismo persiano aveva una salda e gloriosa realtà cui richiamarsi, il passato della Persia premusulmana. Questo, da alcuni decenni, è diventato l'idea-forza del nuovo Iran, che non la contrappone esplicitamente alla fede e civiltà dell'islàm, ma piuttosto insiste (anche oltre i limiti della storica realtà, sfruttando più o meno assimilate idee dell'orientalismo occidentale) sulla continuità di tale elemento iranico entro la storia e civiltà della stessa Persia musulmana. L'Islàm rifiutato in blocco dall'illuminismo turco è stato dunque ‛contaminato' dal nazionalismo persiano dei nostri giorni con l'antica tradizione religiosa dualistica, l'asserita funzione permanente della regalità attraverso tutte le fasi della storia persiana, e un culto ingenuo e smodato della propria antichità preislamica, sotto il cui segno si sono svolte le celebrazioni del bimillenario di Ciro nel 1971. Da questa ideologia ufficiale, alquanto confusionaria e antistorica, l'Islàm, pur sempre rispettato e onorato in Persia come religione nazionale, corre rischio di essere declassato ancor più di quanto è avvenuto in Turchia, ove, una volta cessata l'ostilità e il disprezzo della classe dirigente, è riemersa l'antica, radicata fede della maggioranza della popolazione.
In Turchia, l'Islàm non ha avuto che da ripiegarsi su se stesso e attendere il passare della tempesta; in Persia, serbando esteriormente la sua posizione di privilegio, esso ha lasciato insensibilmente il posto presso le classi elevate ad altre ideologie politico-culturali, subendo al tempo stesso, nella propaganda clandestina, la critica corrosiva del marxismo. Una sua riconciliazione con lo spirito dell'Occidente che ne mantenga intatti i valori, quale abbiam visto tentata in Egitto e nel Pākistan, non ha almeno finora attecchito in Irān. Resta l'orgogliosa coscienza dell'enorme apporto persiano alla civiltà arabo-musulmana, coscienza però che, oggi, dalla pura consapevolezza storica trapassa ed è distorta ad altri fini.
Islàm turco e persiano amalgamati insieme si continuano nelle repubbliche socialiste dell'Asia facenti parte dell'Unione Sovietica: alcune sono quelle della Transcaucasia (Azerbaigian e Dagestan), già celebri per la tenace resistenza opposta nell'Ottocento alla penetrazione russa; altre, le maggiori, sono in Asia centrale (Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan): terre, queste ultime, di antica e illustre tradizione religiosa e culturale islamica, corrispondendo al medievale Khorāsān orientale e alla Transoxiana.
Cadute, nella seconda metà dell'Ottocento, sotto il dominio della Russia zarista, sono passate con la rivoluzione sotto quello sovietico, dopo avere per qualche tempo nutrito velleità di ricuperata indipendenza, e appoggiato movimenti controrivoluzionari. Lo zarismo, dopo la conquista, si era occupato di questi suoi possedimenti islamici con mentalità di paternalistica ‛protezione'; il regime sovietico vi ha applicato la sua politica delle nazionalità, riconoscente ai singoli popoli una formale autonomia amministrativa, linguistica e culturale, entro il quadro politico e ideologico dell'URSS. Parte di tale programma, come è noto, è il formale rispetto delle confessioni religiose e del relativo culto, cui l'ambigua formula della Costituzione sovietica riconosce libertà di esercizio ma non di propaganda, che viceversa è riconosciuta all'avverso movimento antireligioso, di ispirazione e appoggio statale. Sia osservato di passaggio che l'Islàm è stato qui ripagato della sua stessa moneta, per chi ricordi la sua medievale tolleranza della fede dei popoli ‛scritturati' (Ahl al-Kitāb), che ne impediva però la propaganda, ammetteva il culto nelle chiese cristiane esistenti ma ne vietava a un tempo il restauro o la costruzione di nuove, e così via. Comunque, l'Islàm caucasico e quello centroasiatico hanno finora resistito alla meglio alla bufera, e han trovato un loro posto tollerato e non certo privilegiato nella struttura dello Stato plurinazionale marxista. L'interruzione, per lunghi periodi assoluta, dei rapporti con il resto del mondo musulmano, l'ostruzionistica ostilità burocratica aggravante l'ambiguità della legge e la martellante propaganda antireligiosa hanno naturalmente contribuito a un progressivo impoverimento e indebolimento della fede islamica là dove essa, nel Medioevo, aveva celebrato alcuni dei suoi maggiori trionfi (si pensi alla sua passiva resistenza all'invasione dei Mongoli, che da micidiali invasori agli inizi, furono poi guadagnati alla religione, alla società e alla cultura musulmana; e ancor prima, nell'Alto Medioevo, all'assorbimento dell'elemento turco pagano, contro cui l'Islàm arabo si aprì con le armi la via verso l'Asia centrale).
Se le apparenze non ingannano, questo Islàm dell'Asia sovietica, cui pure fanno capo, nelle statistiche, una ventina di milioni di uomini, è in lenta decadenza per anemia o asfissia, e, senza bisogno di persecuzioni violente, rischia di ridursi a un archeologico richiamo turistico. Spietate misure punitive sono state per contro adottate nell'URSS, al termine della seconda guerra mondiale, contro i musulmani tartari di Crimea, resisi colpevoli di collaborazione con l'invasore tedesco: sradicati dalla loro terra, essi sono stati deportati in massa in Siberia, e la loro repubblica autonoma è scomparsa dalla carta geopolitica dell'Unione Sovietica, che spedisce in manicomio come infermo di mente chi con troppo molesta insistenza torni oggi a perorare la causa di questa disgraziata minoranza condannata alla morte civile. La ragion politica, e non già l'intolleranza religiosa, ha comunque ispirato tali drastiche misure, che han distrutto la più pittoresca sopravvivenza dell'Islàm turco-tartaro su suolo europeo.
Procedendo ancora verso oriente, troviamo il subcontinente indiano spezzato dal 1947 in due, e dal 1971 in tre Stati, di cui due musulmani (Pākistan e Bangla Desh), e il terzo e maggiore, l'India, con una forte minoranza musulmana. Abbiamo già parlato del Pākistan, presentantesi in teoria come Stato musulmano modello (in pratica, ha conosciuto tutte le miserie e le violenze della lotta politica moderna); e della secessione dell'ex Pākistan Orientale altro non è possibile ancor dire se non che è stata frutto di problemi economici e sociali che la concezione unitaria non ha saputo risolvere. Ma per dir qualcosa dei 50 milioni di musulmani rimasti nell'India, ricorderemo come la Costituzione indiana riconosca a questa minoranza parità di diritti, ed elementi musulmani siano anche entrati nel governo indiano; ma di fatto l'Islàm è qui sulla difensiva, in una lotta non sempre facile e fortunata per mantenere le sue posizioni in uno Stato e società di diverso carattere e tradizione. Gandhi cadde proprio per aver tesa la mano ai suoi fratelli musulmani; ma l'India, che in lui riconosce il ‛padre della patria', non ha mancato di far valere la forza per incorporare a sé ogni nucleo musulmano riluttante o di discutibile pertinenza (assorbimento manu militari del Hyderābād e contestata occupazione del Kashmīr; più recentemente, appoggio armato alla secessione del Pakistan Orientale, per indebolire il suo rivale del Punjab).
L'altro grande Stato musulmano dell'Asia orientale è la Repubblica d'Indonesia, che con i suoi 85 milioni di musulmani (il 95% della popolazione totale) ha il primato assoluto fra gli Stati islamici del mondo. L'islamizzazione delle isole della Sonda ebbe inizio intorno al 1300, e si sviluppò disugualmente da luogo a luogo, in concorrenza con la penetrazione induistica; Sumatra in particolare conobbe dal sec. XIV al sec. XIX il fiorente sultanato musulmano di Atjeh. L'indipendenza rivendicata e ottenuta dopo oltre un secolo di colonizzazione olandese (la rottura di ogni residuo vincolo con l'Olanda è del 1950) ha trovato il paese quasi totalmente islamizzato. Ma l'Islàm indonesiano ha delle caratteristiche proprie, tra cui uno spiccato attaccamento alla patria cultura induistico-giavanese, che senza escluderlo dal seno della comunità musulmana gli conferiscono una posizione a parte, assai diversa da quella del Pākistan. Esso rappresenta comunque uno dei più interessanti esempi di adattamento di questa fede e cultura a climi e ambienti lontanissimi da quelli della sua prima origine; e un analogo fenomeno, mutatis mutandis, ci offre l'Islàm cinese.
L'Islàm penetrò nel Celeste Impero per via di terra, attraverso missioni e ambascerie, fin dall'VIII secolo, ma si diffuse soprattutto, a partire dal X secolo, sulla costa di sud-est, con viaggiatori, mercanti e marinai venuti dal Golfo Persico. Oggi esso conta probabilmente quindici o venti milioni di adepti (statistiche meno attendibili danno cifre assai maggiori), di cui tre o quattro nel solo Turkestan cinese (Hsin chiang), forti gruppi nel Kan su e nel Yün nan, e nuclei sparsi in altre province (si tenga presente, per le proporzioni, che l'attuale popolazione totale della Cina si aggira sui 700 milioni). Il blocco del Turkestan, lungamente in bilico fra il mondo turco e il cinese, fa capo definitivamente a quest'ultimo dal 1949. Dall'avvento del regime comunista in Cina, la politica delle nazionalità rispetta e dà diritto di rappresentanza a questa minoranza musulmana; la quale d'altra parte ha ovviamente preclusa ogni possibilità di sviluppo, e si trova oggi tagliata fuori dal resto della comunità islamica più ancora di quanto non lo sia, nei momenti più favorevoli dell'oscillante politica religiosa dell'URSS, l'elemento musulmano entro i confini dell'antica Russia.
Ci resta infine, per completare questa rassegna delle posizioni odierne dell'Islàm nel mondo, da dir qualcosa sulle sue relativamente più recenti conquiste in Africa, sull'Islàm nero. Diffusosi nei primi due secoli sulla fascia dell'Africa settentrionale fino all'Atlantico, e risalito dall'Egitto nella Nubia, dopo il Mille, l'Islàm accentuò la sua penetrazione nel mondo nero, procedendo per le piste del deserto da nord a sud (dal Marocco al Senegal e al Niger, dalla Tripolitania al Ciad, dalla Nubia al Sudan), e insieme colonizzando via mare la costa dell'Africa orientale (attuali Somalia, Kenya, Tanganica, col loro entroterra). Oggi una cinquantina di milioni di Neri, la metà circa del totale dei musulmani d'Africa, è guadagnata alla fede di Maometto, e costituisce la maggioranza, o una forte minoranza, della popolazione, in due gruppi di Stati rispettivamente nell'Africa occidentale (Senegal, Costa d'Avorio, Mali, Ghana, Nigeria) e orientale (qui ora ricordati). La nascita, la sussistenza e lo sviluppo di questo più giovane Islàm, dal tardo Medioevo ai nostri giorni è legata ai problemi del mondo nero, del suo passaggio da un'anarchica libertà di primitivi, col reciproco sterminio connesso, alla servitù del colonialismo, e alle indipendenze moderne. L'incidenza dell'Islàm sulla ‛negritudine', appassionante oggetto di studio per sociologi, etnografi, storici delle religioni, presenta questi tratti essenziali: avanzata prevalentemente pacifica, sulle vie del commercio e della propaganda missionaria, a differenza dell'Africa del Nord e del Vicino e Medio Oriente, ma in analogia con l'Asia orientale; riscatto e innalzamento delle popolazioni islamizzate dagli inferiori livelli dell'animismo e feticismo, non senza adattamenti e influssi di questi sulla nuova fede; massima diffusione di fenomeni tipici dell'Islàm africano, quali le confraternite religiose (soprattutto Qādiriyya e Shādhihyya o Tigiāniyya) e il marabuttismo; concorrenza vittoriosa, infine, con la missione cristiana. Prevalgono in questo panorama dell'Islàm nero gli aspetti arcaici, mistici, messianici (mahdismo) dell'Islàm tradizionale, ma non sono ignote nemmeno le sue correnti modernistiche e riformistiche, naturalmente adattate alle particolari condizioni di questo ambiente; esse, saltando la fase illuministica e liberale della civiltà occidentale, su cui ebbe a prender posizione il riformismo e modernismo musulmano ottocentesco, affrontano ormai i problemi del nostro secolo, nazionalismo e socialismo, dei cui rapporti con l'Islàm dovremo ancora parlare. Qui concludiamo questo panorama dell'Islàm odierno in tutta la sua estensione, ribadendo l'interferenza del momento religioso con quello politico, sociale e razziale, che, non certo assenti anche in passato, si erano prima dissimulati sotto quel comune denominatore della fede, dei suoi problemi e delle sue crisi: mentre nell'età nostra sono direttamente venuti in primo piano, riducendo spesso quello che un tempo era stato il motivo dominante a una funzione sussidiaria e ancillare.
4. Il califfato: suo mito e suo tramonto
Uno dei più vistosi segni di tale spostamento di valori, compiutosi sotto i nostri occhi nel corso del Novecento, è la definitiva liquidazione di una questione stata in qualche momento al centro del mondo musulmano, e dell'Europa stessa in quanto ad esso interessata. In certo senso, fu anzi proprio l'Europa, più o meno consapevolmente, a risuscitare e rivitalizzare in Oriente il problema del califfato, alterandone per ignoranza le storiche e giuridiche basi, e fornendo per qualche tempo all'Impero ottomano un'arma ideologico-diplomatica nella sua difesa dall'invadenza occidentale.
Sorto alla scomparsa di Maometto come suo erede nella direzione politica di tutta la comunità musulmana (non nelle funzioni intrasmissibili di Profeta e legislatore), l'istituto del califfato fu l'espressione dello Stato islamico unitario, e sopravvisse a questo per alcuni secoli anche nel suo frazionamento (i giuristi escogitarono formule adatte a conciliare tale effettiva rottura dell'unità politica dell'Islàm con il persistere di questa sua suprema magistratura, che ‛delegava' l'autorità ai singoli Stati sorti nel suo ambito, contro un formale riconoscimento di alta sovranità).
Tale funzione si trascinò per quasi cinque secoli, svuotando via via il califfato degli Abbasidi di ogni effettivo potere, e lasciandogli solo un morale e religioso prestigio, privo di quell'autorità politica che gli immediati successori di Maometto, e poi gli Omayyadi e i primi Abbasidi avevano per un paio di secoli esercitato: tanto che proprio sulla spettanza e l'esercizio di quell'effettivo potere si erano imperniati gli scismi dell'antico Islàm (shī‛a alidica, kharigismo, ecc.). Così, con la presa di Baghdād da parte dei Mongoli nel 1258 e l'uccisione dell'ultimo califfo abbaside, anche quella superstite parvenza di dignità califfale scomparve, senza troppa commozione del mondo musulmano, che vide solo ribadita la sparizione, da tempo scontata, della sua originaria unità. Dal Duecento al Settecento, il califfato fu così solo un ricordo, fino a che sulla fine del sec. XVIII esso non fu risuscitato dai sultani ottomani, che si affermarono eredi, per diritto di conquista, di una sua fantomatica e puramente nominale continuazione, fra il Duecento e il Cinquecento, presso i Mamelucchi d'Egitto. Tale rivendicata dignità di leadership e tutela ‛spirituale' dei musulmani (che andava contro ogni storica realtà di ciò che era stato il califfato ai suoi inizi, vero centro direttivo della potenza arabo-musulmana, e contro il requisito fondamentale sempre invalso, che i califfi appartenessero alla stirpe quraishita del Profeta) fu dalla diplomazia ottomana utilizzata nel trattato con la Russia di Küciük Qainarge (1774), come poi più di un secolo dopo in quello con l'Italia a Losanna (1912), per farsi riconoscere una sorta di morale sovranità in quegli stessi territori (rispettivamente la Crimea e la Libia) che la forza delle armi infedeli aveva strappato all'impero.
Nell'inarrestabile decadenza ulteriore di questo, tale pretesa califfale servì di appoggio e giustificazione all'idea panislamica, e alla dissoluzione dello Stato ottomano nel 1918, parve per un istante assicurare la sopravvivenza della dinastia, quando la Grande Assemblea Nazionale turca, decretando l'abolizione del sultanato (novembre 1922), conservava all'ultimo suo rampollo il titolo e la dignità di califfo; ma dopo poco più di un anno (marzo 1924) anche questo ambiguo compromesso veniva a cadere, sotto la spinta della intrapresa laicizzazione dello Stato turco; e di un califfato ottomano, comunque fondato e legittimato, non si parlò più.
In concomitanza con questi eventi di Turchia, il problema del califfato in genere, come suprema direzione dei musulmani, rimase però aperto per qualche tempo, in quello stesso decennio degli anni venti, e sollecitò le ambizioni e le fantasie di principi, pubblicisti, autori e dottori dell'Islàm. Nell'eclisse di questo in ambiente turco, per il kemalismo e la Rivoluzione bolscevica, fu proprio quello arabo, che aveva storicamente più certi e legittimi titoli di rivendicarlo, a tentare di rivitalizzare lo spento istituto: lo sceriffo Ḥusain, una volta proclamatosi re del Ḥigiāz, volle poi aggiungere a questo titolo profano l'altro illustre titolo storico di califfo, per il quale possedeva certo il requisito quraishita che era mancato ai sultani turchi, ma non l'ombra del potere che i veri e sedicenti califfi antichi e moderni avevano posseduto; di fatto, egli scomparve dalla scena poco dopo quella infelice rivendicazione, spodestato dai wahhabiti saudiani.
Ma il problema del califfato restava ancora nell'aria, e nel maggio del 1926 si riuniva al Cairo un Congresso Musulmano Mondiale a discuterlo. Emersero subito allora le difficoltà politiche e religiose di una siffatta riesumazione, in un mondo musulmano politicamente diviso (e soggetto ancora in massima parte, sotto più o meno ipocrite forme, a potenze europee), culturalmente e socialmente ad assai diversi livelli, e soprattutto già impegnato in rivendicazioni di indipendenza sulla base del nuovo principio di nazionalità, estraneo all'Islàm. Così le esigenze universalistiche, ancor abbastanza sentite in certi ambienti, non prevalsero sulle gare, discordie e ambizioni nazionali, e il congresso si sciolse senza esser giunto ad alcuna decisione. Fu praticamente l'affossamento dell'ideale panislamico, che da allora si è bensì manifestato in ulteriori assise intermusulmane, in manifestazioni di solidarietà religiosa e culturale, nella comune avversione all'imperialismo occidentale (quest'ultima, in comune con i sottentrati miti nazionalistici e marxistici); ma la rinascita della somma magistratura musulmana, implicante sia una forza politica unitaria, sia una direzione religiosa che nell'Islàm ortodosso è inesistente, cadde da allora, probabilmente per sempre, e simile progetto non è stato più risollevato. L'Islàm si è reso conto che la sua vitalità è ormai indipendente da quell'istituto che lo resse e guidò nelle origini, ma di cui per secoli di una nuova e diversa storia esso ha mostrato di poter fare benissimo a meno.
5. L'Islàm, le nazionalità, il nazionalismo
Scomparso il califfato e il suo mito, la comunità musulmana odierna ha vissuto intensamente i nuovi ideali nazionali, assorbiti dall'Occidente nel corso dell'ultimo secolo e divenuti primaria forza motrice dei popoli tutti d'Oriente. Nata come religione nazionale, anzi higiazena, la fede di Maometto, già forse lui vivo, si avviò per la via dell'universalismo, che poi percorse sino in fondo nel suo vittorioso cammino. Ma in età moderna le vicende storiche dei popoli musulmani han sembrato additare alla comune fede universalistica quasi un opposto cammino a ritroso, mettendo in primo piano i valori etnici e nazionali; e da questa tensione nasce il problema del rapporto tra Islàm e nazionalità.
L'elemento creatore e diffusore primo dell'Islàm è stato il popolo arabo, che dopo essersi a lungo identificato e quasi annegato nella sua fede, ha vissuto ai nostri giorni un'impetuosa presa di coscienza e risorgenza nazionale. Una parola sconosciuta all'età classica dell'Islàm, al-‛urūba (l'arabismo), è oggi su tutte le bocche e in tutti i cuori arabi, come orgogliosa autocoscienza e politica guida.
È naturale che un vincolo particolare sussista tra arabismo e islamismo, nonostante il carattere universalistico di questo ultimo: vincolo di primogenitura e di originaria unità. Il Profeta stesso, che dichiarò la sua fede soppiantatrice della miscredenza e dell'orgoglio degli Arabi pagani, sentì a un tempo il suo messaggio come prettamente arabo, esaltò la forma ‛araba' del Libro Sacro, e vide il suo Allāh piegarsi benigno sul suo popolo, che aveva accettato l'Islàm. Le conquiste diffusero la lingua e la fede araba su due continenti, il califfato, supremo presidio e magistratura esecutiva di quella fede, sorse e durò tra i Quraish meccani, i contribuli e concittadini di Maometto. Questo glorioso passato, che salda insieme arabismo e islamismo, è sempre vivo nel ricordo degli Arabi contemporanei, e mantiene tra nazionalismo arabo e fede musulmana un legame che sarebbe errato sottovalutare. È bensì vero che gli ideali e valori dell'arabismo han trovato oggi assertori anche in Arabi non musulmani (basti pensare che il fondatore e teorico del partito siro del Ba‛th, Michel ‛Aflaq, è un cristiano ortodosso), che uno Stato semicristiano come il Libano ha solidarizzato sino alla sua crisi con le passioni, con i rancori degli altri popoli arabo-islamici, che l'arabismo cristiano, in una parola, si è fuso, o proclama di volersi fondere, nella grande matrice etnica e linguistica comune.
Ciò non toglie che l'idea panaraba si senta nel suo complesso ancorata al suo sostrato musulmano, e che entro i confini del mondo arabo la più autentica affermazione dell'arabismo sia sentita, come fu in realtà, coincidente coi fasti dell'Islàm. Il pellegrinaggio alla Mecca, se è senza dubbio una grande affermazione dell'universalismo dell'Islàm, è insieme la visibile conferma di questo storico vincolo tra l'ethnos arabo, la sua lingua e la sua fede, di cui ogni musulmano ha più o meno vaga coscienza. Né si deve dimenticare d'altro lato che anche nelle sue più accese manifestazioni l'arabismo ha cercato di far leva su una comune coscienza e solidarietà musulmana: nella mobilitazione araba contro Israele, è stato giustamente osservato, il leader egiziano Nasser non si è tanto richiamato agli Arabi conquistatori della Siria e Palestina, un Khālid ibn al-Walīd o un Mu‛āwiya, ma al campione dell'Islàm contro i crociati, il curdo Saladino; e nell'Egitto stesso, in testa al nazionalismo arabo odierno, l'appartenenza alla maggioranza musulmana continua come in passato ad essere titolo preferenziale negli uffici e nella carriera, condizione tacita ma essenziale per aver le carte pienamente in regola con lo Stato e la società. L'elemento arabo, l'idea araba insomma, restano al fondo dell'islamismo contemporaneo come il suo primo nucleo generatore, l'ala marciante delle sue rivendicazioni, il lievito e quasi la materia prima (secondo un celebre detto attribuito al califfo ‛Omar) di questa fede universale. Ciò fu vero ai suoi inizi, e resta ancor vero oggi, in tanto mutata situazione storica.
Tra nazionalità e nazionalismo arabo da un lato, e universalistico Islàm dall'altro, corre dunque un rapporto affettivo e concettuale che va ben oltre la lettera delle costituzioni di singoli Stati arabi, riconoscenti all'Islàm posto e dignità di religione di Stato; un rapporto in cui entra la coscienza anche confusa di tredici secoli di storia, che ogni programma laicistico e ogni pratico indifferentismo individuale non arriveranno mai a infirmare. Col che, in sede critica, non si vuole affatto disconoscere la diversa ispirazione e orientazione dei due termini, universalistico e religioso l'uno, particolaristico e nazionale l'altro, sulla cui distinzione e opposizione di fondo siamo spesso ritornati in queste pagine; si vuole solo constatarne la speciale compresenza e coesistenza nell'area araba, ove la passata storia permette e quasi impone fra i due elementi tendenzialmente opposti una pratica conciliazione.
Fuori di quest'area, nell'altrettanto vasta e assai più popolosa zona dell'Islàm non arabo, la tensione fra nazionalismo e islamismo, mancando le speciali condizioni ora accennate, si presenta più netta. L'opposizione violenta fra Stato nazionale e religione tradizionale, che abbiamo vista in Turchia, sarebbe stata impensabile in un paese arabo, per laici e agnostici che ne fossero i dirigenti. In Turchia, per contro, il totale distacco fideistico e affettivo dall'Islàm del ‛padre della patria risorta', e di una esigua minoranza intorno a lui, permise al kemalismo di condurre brutalmente la lotta antireligiosa, scavalcando quasi un millennio di storia dei Turchi islamizzati, e ricongiungendosi se mai alla protostoria di quella stirpe, nelle sedi dell'Asia centrale e dell'Orkhon. Il ripudio (oggi da tempo revocato) di tutta in blocco la storia turco-ottomana fu agevolato dal fatto che quell'impero era stato e si era sentito come la massima affermazione della potenza islamica in età moderna, più che una manifestazione dell'ethnos turco; di fatto, lo Stato ottomano fu plurinazionale e pluriconfessionale, e in elementi etnici non turchi (greci, albanesi e slavi) trovò i più efficienti e devoti suoi servitori. Rinchiudendosi nella fortezza di un intransigente nazionalismo, la nuova Turchia dové rinnegare insieme la fase imperiale della sua storia, e la religione che l'aveva informata e sospinta. Come abbiam detto, questo radicale atteggiamento degli inizi si è poi attenuato e modificato col cadere della dittatura kemalistica, l'avvio pur contrastato e agitato di una vita parlamentare democratica, e l'accesso al potere di una classe più conservatrice. Patriottismo e lealismo nazionale non sono oggi più sentiti in Turchia come l'opposto della fede degli avi, fermo restando il concetto basilare laico della separazione tra le due sfere.
La Persia non ha conosciuto una così violenta opposizione tra Islàm e Stato nazionale, benché il fondatore della nuova dinastia non fosse personalmente alieno dalle idee e dai metodi dittatoriali di Atatürk. Senza giungere agli estremi di intolleranza della rivoluzione kemalista, l'influenza del clero scuta fu ugualmente contenuta e annullata nel nuovo corso riformistico del regime Pahlavī. L'Islàm nella sua forma scuta duodecimana è tuttora in Irān religione di Stato, e la sua presa sulle masse rurali e parte del proletariato urbano è ancor considerevole; ma il suo prestigio è scosso e compromesso, come abbiam visto, dall'ideologia ufficiale che tende a saldare, nella asserita continuità dell'iranismo, la profonda cesura fra Persia premusulmana ed islamica, e a rivalorizzare aspetti storici, culturali, religiosi dell'antico Irān che agli occhi dell'ortodossia musulmana, sunnita o scuta del pari, sono pura miscredenza. Reintegrando e dando quasi il posto d'onore a quel passato nella coscienza nazionale (lo si vide a chiari segni nelle celebrazioni bimillenarie del 1971), la visione tradizionale islamica ne esce profondamente alterata, anche se, per ora, il fenomeno è limitato alla classe dirigente e intellettuale del paese; ma continuando per questa via, senza bisogno di atti d'imperio e scosse violente, il contrasto fra locale nazionalismo e Islàm si risolverebbe in Persia a tutto favore del primo.
Tornando sotto questo punto di vista al Pākistan, ci ritroviamo innanzi al caso singolare, anzi unico nella storia moderna dell'Islàm, per cui è stata questa fede stessa il momento determinante della nascita d'una nazione e d'uno Stato. Paradossalmente, l'universalistico Islàm è stato qui il creatore di un nazionalismo che nessun altro comun denominatore etnico o linguistico giustificava. Convergendo o identificandosi fede religiosa e volontà di nazione, non vi dovrebbe esser luogo a contrasto. È comprensibile quindi la simpatia con cui l'Islàm progressista, e l'orientalismo filo-islamico, guardano all'esperimento di questo Stato; nato su una comunità di fede, e ponentesi come inveratore di quella fede purificata e modernizzata, entro una cornice di bene attrezzato Stato moderno. Non si deve tacere peraltro che anche questa civitas musulmana del XX secolo, che per vari aspetti vorrebbe rinnovare la umma dei secoli d'oro, ha conosciuto le sue crisi interne ed esterne, secondo la ineludibile dialettica politica: dittature personali, conflitti di frontiera, secessioni separatiste, le più gravi queste ultime, in quanto han gettato una parte della umma stessa, distaccatasi dal nucleo maggiore, sotto la protezione e nella sfera d'influenza di grandi Stati non musulmani. La secessione del Bengala è stata insieme la condanna della politica miopemente sfruttatrice del governo centrale, e la riprova che le istanze di un nazionalismo locale, regionalistico e autonomistico, possono rifarsi luce e prevalere su quello spirito di cattolicità islamica, che diede vita nel 1947 al duplice Pākistan.
Nel colosso demografico islamico d'Indonesia, il dualismo fra il momento nazionalistico e il religioso si presenta infine, per quanto a noi è dato sapere, attenuato, non per la mancanza almeno iniziale di uno dei due termini, come nel Pakistan, o per la loro stretta compenetrazione, come nel mondo arabo, ma per maggior duttilità e adattabilità di quello religioso, che non si accampa nella vita del paese col rigore esclusivistico del più genuino e antico Islàm, e fa larga parte, a fianco e nel suo stesso seno, ad altre correnti religiose e consuetudinarie. L'Indonesia non ha conosciuto né prepotenza clericale, né anticlericalismo e illuminismo statale, e potrebbe forse come tale offrire un modello di convivenza fra Nazione e Religione più accettabile di altre teorizzate o realizzate combinazioni.
Concludendo, l'Islàm classico, pur principialmente estraneo e sin opposto al principio nazionale, si è mostrato praticamente abbastanza conciliabile con esso, e, nell'ambito dell'arabismo, in simbiosi abbastanza felice. Esso lega tuttora insieme, sia pur con più allentati legami, tutta una fascia di popoli gelosi della recente indipendenza su base nazionale, divenuti parte attiva e propulsiva del Terzo Mondo (nella Conferenza di Bandung, del 1955, proprio dal gruppo musulmano vennero al riguardo i più significativi orientamenti e formulazioni). Ma tutta l'analisi sinora condotta dei rapporti fra l'Islàm e i singoli Stati nazionali, e della loro posizione nello schieramento internazionale, non può ignorare un altro decisivo fattore che incide profondamente sulle sorti dell'uno e degli altri, e sempre più inciderà in avvenire: l'assorbimento e la reazione al socialismo.
6. L'Islàm e il socialismo
Il mondo musulmano ha preso un largo e profondo contatto col marxismo solo dopo la seconda guerra mondiale, quando l'esigenza fino allora primaria delle indipendenze nazionali diventava quasi ovunque una realtà. La liberazione dal colonialismo, almeno nella sua forma più cruda e diretta, portava subito in primo piano il problema sociale e la soluzione marxista, realizzatasi in Russia e negli altri paesi dell'Est europeo, prese ad attirare le intellighenzie e le masse musulmane con irresistibile forza. Alla sua penetrazione e al suo trionfo, parve ad amici e nemici, una volta caduta la fede ottocentesca nella ideologia liberale e nel connesso sistema parlamentare, opporsi una sola forza valida, l'Islàm. Di qui la questione, già affrontata in sede storica dall'orientalismo europeo, e vivacemente ripresa in Oriente e Occidente in questi ultimi decenni, se l'Islàm per sé preso sia o no inconciliabile con l'ideologia e la pratica del socialismo, soprattutto nella sua forma marxistica e comunistica, sovietica o maoista che sia.
Checché si sia pensato e scritto in contrario, l'ispirazione primaria dell'Islàm non fu economico-sociale ma schiettamente religiosa. La teoria del biografo di Maometto Hubert Grimme, che alla fine dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento cercò di capovolgere questi termini, e di tutti coloro che più o meno scientificamente lo hanno seguito, non regge a uno spassionato esame critico. Muḥammad non rivestì di una sovrastruttura religiosa una fondamentale esigenza di riforma o rivoluzione sociale, ma piuttosto dal disagio e dalla ingiustizia sociale fu confermato nella sua religiosa visione di un giusto Iddio, signore degli uomini, e retributore dell'agire umano. Al suo messaggio, come a quello cristiano, aderirono, in un primo tempo, di preferenza gli umili, i poveri e gli schiavi, senza che della loro causa esso facesse il suo punto centrale, pur predicando l'uguaglianza di tutti dinanzi a Dio, e inculcando carità, benignità, misericordia verso i diseredati dai beni mondani. Col trionfo dell'Islàm, cui contribuirono poveri e ricchi, affratellati dalla cattivante personalità del Profeta, anche le classi più elevate, dapprima nel complesso ostili, si schierarono dalla parte della nuova fede, arrivando con gli Omayyadi, ricchi mercanti meccani, al vertice della nuova società, il califfato.
Vivo ancora il Profeta, non mancarono tra i suoi fedeli uomini più sensibili al problema sociale, sentito però sempre in funzione del rapporto fra l'uomo e Dio: celebre tra essi, e divenuta pour cause popolare nelle reinterpretazioni moderne delle origini islamiche, la figura del ‛compagno' del Profeta Abū Dharr al-Ghifārī, che avrebbe raccomandato e attuato per suo conto una sorta di elementare comunismo. L'ascetico-mistica raccolse naturalmente e sviluppò, ma sempre orientandoli verso una trascendente meta, questi spunti di socialismo musulmano, ove l'elemento sociale è inscindibile da una dominante visione e preparazione dell'al di là. Ma contemporaneamente si sviluppava la società e civiltà musulmana nel suo complesso, tutt'altro che rinunciataria e avversa ai beni di questo mondo, e poco o punto disposta a radicali mutamenti nella loro redistribuzione.
Già Maometto stesso al momento della vittoria, nonché debellare ed eliminare le forze economico-sociali stategli fino allora avverse, aveva pensato a conquistarle con doni e favori che turbarono i suoi stessi seguaci della prima ora. L'epopea delle conquiste, iniziatasi subito dopo la scomparsa del Profeta, dette luogo alla formazione di nuove, enormi ricchezze, che affluirono non solo nel comune erario (bait al-mal) dei musulmani, ma dilatarono a dismisura il capitale privato. L'età omayyade, che fu quella dell'egemonia araba nell'impero, vide moltiplicarsi queste grandi fortune, e la susseguita degli Abbasidi non fece che spostare il centro economico di gravità nella società musulmana dall'elemento puramente arabo a quello iranico, dalla Siria all'‛Irāq. Lo sviluppo imponente del commercio interno ed estero, che caratterizzò i secoli d'oro della civiltà medievale musulmana, si fondò esclusivamente sul capitalismo privato, individuale e di gruppo, senza che ciò apparisse in alcun modo in contrasto con lo spirito e la legge dell'Islàm.
Questo processo storico, ben noto nelle sue grandi linee, e ancor da lumeggiare per larga parte nei particolari, giustifica la conclusione di Maxime Rodinson, il più recente indagatore del problema capitalismo-Islàm. Seguendo dalle origini all'età nostra la relazione fra questi due termini, lo storico francese ha dimostrato come non si possa assolutamente parlare di un'opposizione di principio fra la religione di Maometto e il capitalismo, a tutti i livelli dell'evoluzione di entrambi. Dalle origini higiazene e sire al Medioevo islamico, quando si scrissero appositi manuali in lode e incoraggiamento del commercio, sentito anche quale opera di pietà (‟chi guadagna è caro ad Allāh", suona un detto attribuito al Profeta), fino alla formazione del gran capitale moderno e al suo investimento nel colonialismo diretto o dissimulato in terra d'Islàm, i due termini della individuale ricchezza e della fede sono stati conciliabili e conciliati, in una coesistenza che non significa però subordinazione e necessario legame. Se nulla contiene la dottrina dell'Islàm storico contro una struttura capitalistica della società, è altrettanto vero che nulla essa ha di principialmente avverso a una diversa struttura, socialistica o comunque collettivistica, e ciò proprio in forza dell'originaria sua ispirazione teologica ed extramondana, cui ogni attività umana andrebbe subordinata.
L'Islàm non è dunque, in linea di principio, né anticapitalista né anticomunista; e se nella sua evoluzione storica si è finora ben accordato col capitalismo, nulla vieterebbe che in avvenire esso possa accordarsi col socialismo, in sede di pura economia.
Ma il sistema socialista, almeno nella sua più moderna forma marxista-leninista, non è una semplice dottrina economica, non riguarda il solo homo oeconomicus, ma rivendica l'uomo intero, nè più nè meno di quanto nella sua forma classica lo rivendicava l'Islàm. La struttura politico-economica marxista implica una filosofia, una sociologia, e, in ultima analisi, una fede (poco importa se materialistica e immanentistica), con lo stesso totalitarismo con cui l'uomo medievale era assorbito e plasmato dall'Islàm. Questo medievale totalitarismo dell'Islàm è oggi caduto, sotto le istanze della civiltà moderna, e il modernismo e riformismo musulmano tendono a ridurre la fede all'essenziale sfera religiosa, accettando al di fuori di essa i frutti della scienza, della tecnica, della filosofia dell'Occidente. Ma anche depurato di queste superfetazioni, e ridotto al nocciolo essenziale della fede (anzi, tanto più intensamente quanto più drastica è stata la riduzione), il mondo spirituale dell'Islàm, trascendentistico e teocentrico, resta in diametrale opposizione al materialismo marxista, e, se genuinamente sentito, contrasta strenuamente al suo totalitarismo. Un Islàm ridotto a semplice culto esteriore, quale è quello tollerato nell'URSS e probabilmente in Cina, può vivere o vegetare in regime marxista. Ma appena trascenda la mera esteriorità e cerchi di approfondire e diffondere l'aspetto religioso e sociale del proprio messaggio, trova nel totalitarismo dello Stato comunista un insuperabile limite.
Di questa radicale incompatibilità, nonostante le formule di comodo della propaganda, è ben consapevole l'élite del mondo musulmano moderno, e questa coscienza ha finora impedito, su tutta l'area islamica meno i nuclei sovietici e cinesi, che vi si impianti un regime di rigorosa ortodossia marxista. Ciò nonostante, le simpatie delle masse musulmane e dei loro leaders, arabi e non arabi, per il ‛secondo mondo' rimangono vivissime, e costituiscono una componente ineludibile della crisi presente. Gioca in tali simpatie il momento puramente politico, il vecchio rancore verso l'Occidente imperialista e colonialista (e oggi, specie nell'opinione pubblica araba, filosionista), verso cui non par mai colma la misura della ritorsione e dell'offesa; gioca il timore non infondato di una larvata ripresa della soggezione al mondo capitalista attraverso quell'assistenza economica che i colossi comunisti profferiscono disinteressata e fraterna. Ma gioca anche l'urgenza, all'interno, dei problemi sociali, che par disperata impresa cercar più di risolvere in un quadro di libertà democratica, e cui solo l'autoritarismo collettivistico pare offrire un metodo e una via d'uscita.
Di qui, la politica socialista o socialisteggiante di parecchi degli Stati musulmani odierni, che senza arrivare mai all'applicazione integrale del marxismo e alla costruzione di uno Stato su quel modello, ne tentano or l'una or l'altra via (nazionalizzazione delle principali industrie, collettivizzazione della terra, cooperativismo), e soprattutto ne preparano gli strumenti con la esplicita o tacita soppressione della vita pluripartitica, la dittatura di un uomo o di un gruppo, la propaganda a direzione e ispirazione unica, operata dalla macchina dello Stato moderno. Emergono in tali orientamenti, come è noto, alcuni paesi del blocco arabo, soprattutto l'Algeria, la Libia, l'Egitto, la Siria e l'‛Irāq, mentre più moderate e magari reazionarie posizioni assume in genere l'Islàm non arabo (in taluni casi, come in Turchia e in Irān, almeno ufficialmente ancor allineato col mondo capitalista). In tutti gli Stati, poi, le affermazioni e gli indirizzi socialisteggianti si affiancano al più intransigente nazionalismo, con un'amalgama dei due termini che all'esperienza dell'Occidente può sembrare contraddittoria, ma che la moderna storia dell'Oriente giustifica, e la tattica sovietica, con la sua ‛politica delle nazionalità' ammette e incoraggia.
È facile profezia che il trionfo del socialismo nell'estrema sua forma marxistica segnerebbe ovunque la rapida decadenza e la finale estinzione dell'Islàm, ciò a cui la religione di Maometto non sembra affatto avviata. In taluni dei suoi paesi sottosviluppati, la fase capitalistico-borghese non ha ancor compiuto, o ha appena iniziato, il suo ciclo, ed è ben possibile che lo continui e lo compia sotto l'egida della religione tradizionale, che in generale può considerarsi una remora, e perfino un baluardo a radicali sovvertimenti sociali. Resta il fatto che un'istanza religiosa profondamente sentita, e rivestita, nel nostro caso, della veneranda veste dell'Islàm, non può chiudersi a quel profondo anelito a una maggior giustizia sociale, e a una più equa e razionale economia, che ispira il moto socialista, ben oltre le ferree strutture del totalitarismo marxista. In questo senso, l'irrequieta e irresistibile tendenza del mondo islamico odierno verso la vagheggiata ishtirākiyya (che nel mondo degli ideali e dei miti ha preso il posto di ciò che fu per l'Oriente ottocentesco la dīmūqratiyya) può esser guardata anche da un punto di vista islamico con simpatia, come rispondente a uno (non certo il primario, né l'esclusivo) dei motivi e impulsi che ispirarono il pensiero e l'azione del Profeta, più di tredici secoli fa, nel cuore d'Arabia.
7. Dogma, diritto e culto nell'Islàm odierno. L'Islàm e le altre fedi. Filiazioni e dissidenze islamiche nel nostro tempo
Nazionalismo e socialismo, le due grandi forze motrici del nostro tempo, hanno impegnato variamente l'islàm, che ha trovato o può trovare con entrambe, come abbiam visto, un modus vivendi. È ora opportuno, guardando all'Islàm in sé, nel dogma e nel culto (che, combinato col diritto, forma il classico fiqh), passare brevemente in rassegna ciò che è tuttor vivo e ciò che è morto, o piuttosto praticamente accantonato e superato, della sua medievale struttura.
Esaminando anzitutto i cinque ‛pilastri' della fede, è ovvio che nessun modernismo, o riformismo richiamantesi ancora alla sostanza dell'Islàm, ha mai pensato a intaccare il primo, espresso nella duplice formula ‟Non v'è altro dio che Allah, e Muhammad è il suo Profeta": l'essenza della sua prima parte, il tawḥīd o professione del più rigoroso monoteismo, è addirittura sinonimo in molti casi del termine stesso di islām. E la dignità e funzione specialissima di Maometto, come rivelatore e trasmissore ultimo agli uomini di quella fondamentale verità, è da questa inseparabile per ogni buon musulmano. La ‛preghiera canonica' o ṣalāt, nella sua esecuzione in comune, resta una manifestazione caratteristica della società islamica: meno vistosa di un tempo nei grandi centri urbani, per il ritmo rapinoso della vita moderna e per il progrediente indifferentismo nelle classi medie e cittadine, è più osservabile nei centri minori e nella vita rurale, come espressione di sentita pietà e pittoresco simbolo di solidarietà musulmana.
Caduta, per contro, quasi ovunque in disuso e sostituita da diversi istituti tributari, consuetudinari extra-canonici o di tipo occidentale, è la ‛elemosina legale' o zakāt, prescritta dal Corano e regolata dal fiqh, strettamente osservata nei primi secoli dell'Islàm, ma poi via via obliteratasi per l'evolvere delle condizioni economiche e sociali. Oggi praticamente sopravvive solo nell'Arabia saudiana, e in altri angoli arretrati e primitivi del mondo islamico, e la sua incidenza è minima nella economia e finanza dei singoli Stati, anche solo a metà modernizzati. Pieno valore conservano invece, anche nel mondo moderno, gli ultimi due ‛pilastri', il digiuno del ramaḍān e il pellegrinaggio. Del digiuno può dirsi che, nonostante i problemi e i disagi che crea nella vita burocratizzata e industrializzata del nostro tempo (che han provocato fra l'altro talune prese di posizione ‛modernizzanti' anche in Stati di inconcussa tradizione musulmana come la Tunisia), esso resta profondamente radicato nella vita popolare, legato a usi e costumanze inveterate, ed è tuttora praticato, come sentimentale vincolo superstite con la religione avita, anche in ambienti altrimenti tiepidi o refrattari a ogni altra pratica religiosa.
Il pellegrinaggio (ḥaġġ), infine, disciplinato e organizzato dallo Stato wahhabita d'Arabia, conciliante la stretta osservanza dell'arcaico rituale con la modernità dei mezzi di trasporto, delle misure profilattiche e di sicurezza, dell'assistenza ospitaliera, resta la grande testimonianza annua della ecumenicità dell'Islàm, che dai quattro angoli della terra conviene alla Mecca, ai luoghi e riti delle sue origini, trovando in tale adempimento un incentivo alla fede e una manifestazione della demografica e sociale sua forza: capi di Stato, politici, intellettuali, magnati dell'industria e del commercio, quali che siano le intime loro disposizioni religiose e l'osservanza di altri precetti dell'Islàm, si mescolano in questa occasione con le folle anonime, affratellati per un momento in una devozione e una coscienza comune.
Fuor dei cinque ‛pilastri' o obblighi fondamentali, ma in passato ad essi accomunato e sinistramente noto nel mondo per la sua dinamica travolgente, è l'altro precetto classico della guerra santa o gihād, un tempo temuta arma di propaganda e attivismo islamico, oggi, come abbiam visto, spuntata e abbandonata dopo infelici tentativi di riattivarla. Assurto a importanza e funzione mondiale nelle conquiste delle origini, mantenutosi come giustificazione ideale di ogni imperialismo islamico, sino all'ultimo dell'Impero ottomano, e anche di quella che agli occhi dell'Occidente era semplice pirateria, la guerra di corsa, il gihād non è oggi più che un ricordo, rimanendo il ricorso alle armi come una dura realtà della politica, nella gara delle ideologie e delle nazioni, al di fuori di ogni religiosa connotazione. In sede teorica e apologetica, il modernismo ha cercato di giustificarlo, contro l'autentico spirito missionario del primitivo Islàm, come una pura prescrizione difensiva: ciò che poteva ancora a rigore applicarsi ai sussulti di reazione del mondo musulmano dinanzi alla penetrazione colonialistica (rivolte mahdiste, ecc.). In realtà, la forza cogente di quel brutale e primitivo precetto è ormai caduta dai cuori, non perché si sia ristretta la sfera della violenza nel mondo, ma per una maggior dissociazione da essa della coscienza morale e religiosa, anche nel campo dell'Islàm.
E come singoli istituti, un tempo di capitale importanza, quali la zakāt e il gihād, levoluzione del nostro secolo ha reso inoperante e puramente teorica, in gran parte del mondo musulmano, la costruzione del classico diritto canonico (fiqh) sostituito più o meno completamente da legislazioni di tipo laico e moderno. Questo soppiantamento ha proceduto e procede naturalmente per gradi, secondo le vicende politiche e spirituali dei singoli paesi: dalla totale abrogazione del fiqh in nazioni di proclamato laicismo come la Turchia, si arriva alla sua massima conservazione in quelli più tradizionalistici, come l'Arabia saudiana o l'Afghānistan, attraverso tutta una gamma di stadi intermedi.
Le parti più resistenti sono il diritto di famiglia (che ha dovuto però subire la pratica, e in certi casi anche legale abolizione della poligamia, pur sanzionata dal Corano), quello successorio, il commerciale, ecc.; le più caduche, il diritto pubblico, ove alla già vista vanificazione del califfato ha seguito lo smantellamento di ogni struttura medievale a vantaggio dello Stato moderno, e quello internazionale con la praticamente abolita distinzione fra ‛territorio musulmano' (dār al-Islām) e ‛territorio di guerra' (dār al-ḥarb), riflettente la tradizionale dicotomia del mondo agli occhi dell'antico Islàm, oggi sostituita da altre contrapposizioni e schieramenti.
Caduta in pratica questa barriera, che per secoli divise l'impero materiale e spirituale dell'Islàm dal mondo infedele, può domandarsi quale sia oggi l'atteggiamento musulmano, o piuttosto della élite musulmana, di fronte alle altre fedi, soprattutto a quella cristiana, che per contiguità storica e geografica è sempre stata con esso in speciale rapporto. È ben noto lo strenuo sforzo compiuto da parte cristiana nei recenti decenni per colmare la distanza di incomprensione e ostilità reciproca, che ha a lungo diviso cristianesimo e Islàm: uno sforzo cui han contribuito singoli spiriti religiosi (il de Foucauld, il Massignon, ecc.), e i nuovi indirizzi irenici ed ecumenici della Chiesa cattolica, culminati nelle dichiarazioni del Concilio Vaticano Il. Lasciando cadere ogni polemica cristologica e mohammedica (lo scoglio più grave che separa le due fedi), si è insistito da parte cristiana sul comune carattere monoteistico ( ‛abramico', secondo l'espressione di Massignon) delle due religioni, sul comune patrimonio scritturario (nonostante ogni riserva islamica sulla integrità e autenticità dei Libri Sacri ebraico-cristiani), soprattutto sulla spiritualità comune espressasi, più che nella teologia e dogmatica, nella mistica. Si è accompagnato a tali aperture fraterne l'abbandono dei vecchi metodi missionari, polemici e propagandistici, che troppo spesso avevano fatto associare agli occhi dei musulmani la missione cristiana al colonialismo e allo sfruttamento europeo, dando invece sviluppo allo studio scientifico e obiettivo della religione e civiltà islamica (Istituto Domenicano del Cairo, Università St. Joseph di Beirut, Pontificio Istituto di Studi Arabi in Roma).
A questo sforzo di avvicinamento l'Islàm non è rimasto insensibile, benché l'assenza in esso di una gerarchia e disciplina ecclesiastica lasci alle sue reazioni un carattere più individuale e locale. Nella ‛spiegazione' col cristianesimo, esso si è avvantaggiato del fatto che, valutazioni teologiche a parte, la figura di Gesù Cristo è a priori circondata dai musulmani di rispetto e venerazione, ciò che non è stato certo da parte cristiana verso il Fondatore dell'Islàm. Questo dato di fatto ha permesso a singoli musulmani moderni di accostarsi alla br volta a Gesù con animo scevro di prevenzioni polemiche, anzi via via conquiso dalla grandezza morale e religiosa del personaggio, sentito altissimo uomo e inviato di Dio, se non uomo-Dio. Tale è l'atteggiamento di moderni biografi musulmani di Cristo, come al-‛Aqqad, e di pensatori e moralisti come Kāmil Ḥusain, autore del celebre libro La città iniqua (1955): una poetica reinterpretazione musulmana della Passione, che insiste sulla incompresa rivoluzione morale bandita da Gesù. Questo Cristo di Kamil, sublime novatore etico, vittirna della cecità e del miope rancore dei suoi connazionali giudei (il titolo del libro riprende un'espressione coranica), può dirsi equidistante dal Gesù rozzamente taumaturgo del Corano, e dal Cristo figlio di Dio della teologia cristiana, accampandosi comunque tra le più alte figure dell'umanità.
Altri segni di un corrisposto irenismo musulmano verso il cristianesimo posson vedersi in un principe della Chiesa (il cardinale König) che parla in solenne assemblea all'Università religiosa egiziana di al-Azhar sul monoteismo nel mondo, nella reverente accoglienza anche da parte islamica alla visita di Paolo VI nei Luoghi santi, nei messaggi scambiati in quella e altre occasioni tra le somme gerarchie cattoliche, e sovrani e dignitari musulmani; da ultimo (1976), nel Colloquio islamico-cristiano di Tripoli, al di là della sua strumentalizzazione politica. Ma pur tenuto conto di tutto questo, siamo ancor lontani da un incontro ‛a mezza strada' fra le due religioni, resistendo nell'Islàm, nel suo insieme, il vecchio antagonismo medievale e il complesso di sospetto e rancore per l'accennata, infausta solidarietà fra imperialismo occidentale e missione cristiana in un recente passato. Questa sorda ostilità politico-religiosa, e l'oppressiva invadenza dello Stato nazionalista e burocratico, due connotati comuni a quasi tutti gli Stati del risorgimento orientale, rendono spesso ancor oggi la vita difficile al cristianesimo in terra d'Islàm. Eppure, i punti di contatto e di intesa fra le due fedi son lontani dall'essere esauriti. Al di là delle divergenze dogmatiche dovrebbe affratellarle la comune visione spiritualistica e trascendentistica della vita, e quella opposizione di principio al materialismo ateo, che abbiamo constatato al fondo del rapporto tra Islàm e socialismo. Non si tratta qui, è ovvio, di un'auspicata ‛santa alleanza' reazionaria, ma della coscienza di comuni valori spirituali conciliabili con qualsiasi rivoluzione economica, e solo resistenti alle pretese del correlativo totalitarismo.
Questi, i migliorati ma ancor migliorabili rapporti fra islamismo e cristianesismo contemporanei. Il contatto con altre fedi, che si presenta tuttora in diverso ambiente storico e geografico, ha qui solo secondario valore: nell'Africa nera, per esempio, la superiorità religiosa, etica e sociale dell'Islàm su quelle religioni e quei culti primitivi è fuori discussione e ben ne spiega gli inarrestabili successi missionari. La convivenza con l'induismo nel subcontinente indiano è stata drasticamente anche se non totalmente risolta con la spartizione nei due Stati, a maggioranza rispettivamente induistica e musulmana. In Indonesia, il già accennato sincretismo e adattamento locale dell'Islàm è riuscito finora a evitare ogni fanatico esclusivismo. Ci resta solo una parola da dire sui movimenti religiosi usciti in età moderna dal seno stesso dell'Islàm e da esso poi distaccatisi, formando entro e fuori della sua area confessioni e comunità indipendenti.
Le più note di tali formazioni, entrambe di origine ottocentesca, ma sviluppatesi nel Novecento, provengono dall'Islàm indo-persiano, e si confonderebbero coi movimenti modernisti se alcune dottrine non le ponessero ormai fuori dell'orbita musulmana. Una, l'indiana, è quella degli Aḥmadiyya, che fa capo a un Ghulām Aḥmad di Qādyān (morto nel 1908), sedicente ‛rinnovatore' dell'Islàm, Mahdī e profeta. Nel suo sistema, pur dogmaticamente abbastanza vicino al sunnismo, ha una posizione particolare Gesù, che si afferma realmente crocifisso (mentre per l'ortodossia musulmana gli fu sostituito un sosia sulla croce), ma morto poi vecchissimo nel Kashmīr dove si mostra la sua tomba. Il movimento non tardò a subire uno scisma, per essersi staccato dal ceppo originario (detto, dal paese d'origine del fondatore, Qādyānī) un nucleo dissidente, i cosiddetti Aḥmadiyya di Lahore, che rifiutarono l'autorità profetica del figlio ed erede di Ghulām Aḥmad. Oggi entrambi i rami (più modernista e liberale questo secondo, più conservatore il primo) hanno sede nel Pākistan, e svolgono un'attiva propaganda missionaria, in Asia, Africa ed Europa (a Woking, presso Londra, il gruppo di Lahore ha una sua moschea). Tutti gli Aḥmadiyya ci tengono a riaffermarsi musulmani, ma l'Islàm ortodosso li considera fuori del suo seno, e li ha talora aspramente perseguitati.
Persiana, della ottocentesca Persia sciita dell'epoca dei Qāgiār, è invece l'origine dell'altro movimento di eterodossia islamica, oggi ormai anch'esso fuori dell'Islàm, e coscientemente contrapponentesi ad esso con accentuato concorrente universalismo: il Babismo-Bahaismo. Si trattava in realtà di un movimento unico, giacché il Bahaismo attuale non è se non la continuazione e universalizzazione del Babismo. Fondatore di questo, fu un sayyid ‛Alī Muḥammad di Shīrāz (1819-1850), fervido spirito religioso e sognatore, che si proclamò il Bāb, la ‛porta' cioè attraverso cui la novissima rivelazione celeste, purificatrice e rinnovatrice dell'Islàm tradizionale, veniva in contatto con l'umanità. L'Islàm ufficiale reagì duramente alla predicazione del Bāb, e mise a morte lui stesso con molti suoi seguaci. Ma il seme da lui gettato fruttificò, dentro e fuori di Persia, sotto la guida di un suo discepolo, Bahā' Allah (‛splendore di Allah', donde il nome che prese da lui il movimento di Bahaismo), il quale continuò e ampliò la dottrina del Bāb.
Essa si diffuse dapprima nei territori dell'Impero ottomano, dove Bahā' Ullāh esule dalla patria operò e morì nel 1892 ad Akka in Palestina (San Giovanni d'Acri); di qui il Bahaismo ha riguadagnato terreno in Persia (dove oggi vi è circa mezzo milione di sospettati e mal tollerati Bahai), in altre terre musulmane, e fino in Europa e in America, dove esistono piccole comunità pacifiche e rispettate di adepti della nuova dottrina. Questa, consacrata negli scritti del Bāb (il Bayān, in persiano e in arabo) e di Bahā'Allāh (Kitāb al-Aqdas, in arabo), parte dal concetto musulmano della rivelazione per cicli profetici successivi, continuandola da Maometto e gli Imām sciiti, al B̄b e a Bahā'Allāh, dichiaratosi quest'ultimo Maẓhar o manifestazione divina. Egli è stato per i suoi seguaci il profeta di turno per il nostro millennio, e la sua dottrina, via via semplificatasi e spogliatasi dalla cabalistica in cui era ancora avvolta nel pensiero del Bāb, si riduce a una professione di fede monoteistica, a una vaga promessa di immortalità dell'anima, e a un impegno di solidarietà e fratellanza pacifica dell'umanità intera, i cui diversi credi e culti dovrebbero convergere e sublimarsi nella nuova fede. Tutta la struttura cultuale dell'Islàm è abbandonata per un nuovo e semplice ordine, di preghiera informale e di amministrazione ed assistenza sociale con una gerarchia elettiva, e in uno spirito irenico e caritativo che contrasta nettamente con il duro esclusivismo islamico. La fortuna del Bahaismo presso eletti spiriti religiosi nel vecchio e nuovo mondo si spiega con tale sua estrema semplicità dogmatica (pur non avendo nemmeno esso rinunciato alla mitologia profetica, e alla sacralizzazione dei suoi fondatori), con la razionalità della sua metafisica e la purezza della sua etica e dottrina sociale. È stata ed è una comunità di perseguitati, che sono riusciti a non farsi essi stessi persecutori.
Di tutt'altri spiriti e programmi è un'ultima filiazione dell'Islàm al di fuori della sua area, frutto dei più angosciosi problemi razziali e sociali del nostro tempo: alludiamo ai Black Muslims o Musulmani Neri del Nordamerica, dura e rozza reazione della negritudine all'oppressione bianca, e alla ancor non raggiunta totale integrazione con la maggioranza del popolo degli Stati Uniti. Fondatore del movimento, negli anni trenta, fu un certo Elijah Muḥammad, che dal contatto con un visionario o avventuriero bianco (Wallace Ford) derivò una sua bizzarra dottrina cosmologica e una teoria del primato e della riscossa violenta della razza negra, nel nome dell'Islàm, contro il diabolico imperialismo dei bianchi. Quanto tali teorie sian lontane dall'effettiva realtà dell'Islàm tradizionale e moderno, apparve chiaro anche al più popolare leader e propagandista dei Black Muslims, Malcolm X (secondo la loro convenzione onomastica, di sostituire il cognome di imposizione schiavistica con questa lettera); il quale, dopo che ebbe conosciuto l'autentico Islàm nel pellegrinaggio alla Mecca, corresse e attenuò il cupo razzismo della setta, finendo poi nel 1965 assassinato dai suoi nemici. I Musulmani Neri comunque, più che un ramo aberrante dell'Islàm moderno, devono considerarsi un frutto dei contrasti e conflitti razziali che tormentano tuttora il Nuovo Mondo. E con questo estremo e torbido riflesso chiudiamo la rassegna della fenomenologia ed eresiologia islamica nel nostro tempo.
8. Essenza e vitalità dell'Islàm nel mondo moderno
Alla fine di questa panoramica sulla situazione dell'Islàm nel XX secolo, e nel quadro delle forze attive nel mondo contemporaneo, sorge spontanea la domanda sulla sua vitalità odierna, in condizioni così profondamente mutate da quelle in cui nacque e si affermò, e dominò poi per più secoli la scena della storia. Gioverà trarre a paragone, per un giudizio in tal senso, le condizioni del mondo islamico nel secolo scorso, e della religione che lo affratellava masse di popoli quasi tutti soggetti a un imperialismo straniero, o, come per l'Impero ottomano, a un invecchiato Stato islamico plurinazionale, sopravvivente a se stesso ; e su tutti una religione sderotizzata, incapace di rinnovamento, divenuta sinonimo, per l'Occidente colonizzatore, di stasi spirituale, pigro fatalismo, arretratezza tecnica, refrattarietà alla scienza moderna. Abbiam visto il profondo travaglio interno che da allora ha scosso il mondo musulmano per rompere questa cappa di piombo, rinnovarsi e adeguarsi al nostro tempo, e insieme salvare i valori essenziali del suo messaggio. È questa la storia di un secolo di lotte, all'interno e all'esterno, che la fede di Muḥammad ha sostenute per mantenere il suo diritto alla vita, difendersi dai nemici, e ritrovare in sé motivi di adattamento e sviluppo superiori al puro istinto di conservazione.
Nelle grandi linee, bisogna riconoscere che questo travaglio è stato efficace, e che l'Islàm ha vinto questo sua battaglia. L'ha vinta, è vero, perdendo il primato mantenuto fino allora nella vita spirituale dei popoli, un primato che ha dovuto cedere alla nuova idea di nazione, o a un nuovo universalismo classista, o a entrambi questi ideali commisti. Ma questa perdita è la stessa che ha conosciuto anche il suo antico avversario, il cristianesimo, passato come idea universale in seconda linea dinanzi alle stesse forze soppiantatrici. A differenza del cristianesimo, l'Islàm ha però potuto affiancarsi alle nuove forze nella lotta di riscossa contro l'oppressione straniera e nella creazione degli Stati nazionali del Terzo Mondo, senza mai o quasi mai apparire (il caso della Turchia è eccezionale) il ritardatore o sabotatore, in nome della conservazione, di quella lotta per la libertà.
Anche i nuovi regimi più laici, illuministici o addirittura anti-religiosi, han dovuto ad esso adattarsi e concedergli un posto nelle società da essi riplasmate. Il merito di aver vinta, o almeno pareggiata, questa battaglia per la sopravvivenza, va a quei religiosi spiriti di riformisti e modernisti che sentirono l'impossibilità di una resistenza rigida all'evoluzione dell'umanità, e ritennero la fede avita suscettibile di evolversi e ringiovanirsi, senza perdere con ciò l'essenziale del suo messaggio.
È chiaro che tale intima essenza (das Wesen des Islams) è la fede nella trascendenza monoteistica, una formula che ci pare possa ben rendere lo spostamento di prospettiva intervenuto in età moderna, in cui l'accento, anziché sullo scontato elemento del monoteismo, può e deve battere su quello attaccato e contestato della trascendenza. Non si tratta più di una questione aritmetica, che a lungo divise vaste parti dell'umanità, ma del riconoscimento al principio supremo dell'essere, ovviamente uno, di una preesistenza e indipendenza, o non piuttosto immanenza al pensiero e alla coscienza umana. Su questo problema, l'Islàm è allineato col cristianesimo in un fronte comune, dinanzi al quale perde valore ogni disputa cristologica e trinitaria. Ed è indubbio che, appunto per il suo assai più leggero bagaglio accessorio, il monoteismo islamico può condurre la battaglia per la trascendenza assai più speditamente.
La diversa evoluzione della sua fede, più a lungo rimasta nella sua semitica purezza, libera dal contatto col pensiero ellenistico, ha conferito all'Islàm una linearità e un logico rigore che lo han fatto parere accettabile e preferibile, nel passato e nel presente, alle masse non meno che alle élites; questa linearità e logico rigore son capaci al giorno d'oggi di conquistare del pari le tribù negre dell'Africa equatoriale come singoli intellettuali inquieti e delusi d'Europa e d'America. ‟Si je croyais en Dieu, je serais musulman", disse una volta a chi scrive queste righe un grande islamista non cristiano; e per ciò che riguarda il principio fondamentale del tawḥıid o riaffermazione senza compromessi della trascendente unità divina, non ci sembra possa trovarsi formulazione più perentoria di quella classica musulmana.
Altra cosa, per la coscienza occidentale moderna, è la seconda parte della formula di fede islamica, il riconoscimento di, speciale funzione e dignità all'uomo che tredici secoli fa la propose e impose al suo popolo, e poi a tanta parte dell'umanità. La spregiudicata conoscenza storica dell'uomo Maometto rende senza dubbio assai arduo, per chi si sia formato al di fuori della tradizione islamica, il condividerne l'atteggiamento di fideistico omaggio. Per capirlo, se non per consentirvi, bisogna rammentare ciò che gli Arabi e poi i musulmani han sentito di dovere a quest'uomo, che contro ogni suo materiale interesse spese la vita per sollevare il suo popolo a un più alto concetto della divinità, a un più elevato livello etico e sociale. Spogliato di ogni mitologia, questo può ancora significare il primato di Muḥammad, nel giudizio e nell'affetto dei suoi fedeli, su ogni generazione umana: il riconoscerlo cioè rivelatore agli Arabi e agli uomini di questo altissimo concetto del Divino, sopra l'umile ciarpame del politeismo preislamico, l'istillatore agli uomini di sommessione e abbandono (islam), di reverenza e timore ma anche di amore (secondario, questo, agli inizi, ma che la mistica musulmana sublimerà e infiammerà) verso quel Principio supremo.
Tutto il resto dell'elaborazione dogmatica, dell'apparato cultuale, della struttura sociale dell'Islàm, è frutto della sua storia, che può esser sentito come contingente e caduco, e in parte, come abbiam visto, è realmente caduto, in parte si è trasformato o è in via di trasformazione. Ma quel nudo tawḥīd iniziale resta, per dirla con Carlyle, ‟l'eterno diamante", su cui può ancor reggersi una moderna visione dell'universo e dell'uomo, nel campo islamico non meno che nel cognato campo cristiano. Si potrà domandare se a questo punto, ridotti a tale estremo nocciolo essenziale e coincidente, islamismo e cristianesimo possano ancora chiamarsi tali, o non si dissolvano in quella che fu l'elementare aspirazione monoteista dei preislamici arabi ḥanīf. La risposta a una tale domanda non può esser data che dalla singola coscienza individuale.
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