Islamismo
Sommario: 1. Introduzione. 2. Il risveglio islamico: gli uomini e le poste in gioco. 3. La svolta degli anni settanta. 4. La nuova ideologia islamista. 5. Tecnici e ulema. 6. Alla conquista della società civile. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il ritorno dell'Islam sulla scena politica è uno dei fenomeni più inattesi dell'ultimo quarto del Novecento. Negli anni sessanta, quando la fede nel progresso e nella modernità erano al culmine, si riteneva che questa religione, ancor più del cristianesimo e del giudaismo, avrebbe conosciuto un declino ineluttabile: alla maggior parte degli osservatori, in Occidente come negli stessi paesi musulmani, essa appariva arcaica e retrograda. Sembrava incapace di far fronte alle straordinarie sfide poste alle sue tradizionali categorie di pensiero dai mutamenti scientifici e tecnici, i quali trasformavano a tal punto la vita quotidiana da far sembrare che la religiosità dovesse essere relegata nell'ambito della salvezza individuale, se non addirittura del folclore.
In quest'ultimo decennio del secolo si tende invece a considerare l'Islam un po' ovunque in crescita e a far risalire a esso, inteso in modo improprio, tutti i fenomeni che hanno luogo nel mondo musulmano. Ci si risparmia così un'analisi delle dimensioni sociali e politiche di tali fenomeni e si attribuisce a essi una causa unica, onnicomprensiva, che forse riflette soprattutto il nostro disagio intellettuale di fronte ad avvenimenti complessi.
Dalla rivoluzione iraniana all'algerino Fronte Islamico di Salvezza (FIS), passando per ‛il caso Rushdie' (v. Ruthven, 1990) e la guerra del Golfo, l'Islam contemporaneo tende a essere visto dall'esterno come un insieme di manifestazioni violente o cariche di odio, che rientrerebbero nella patologia sociale e che sarebbero dovute al particolare carattere di una cultura religiosa, ritenuta immutabile nella sua opposizione alla modernità occidentale. Sempre più spesso l'Islam è indicato come la nuova sede di un multiforme ‛impero del male', nel quadro del passaggio dall'antagonismo Est-Ovest allo scontro tra Nord e Sud: un Sud a cui l'Islam fornirebbe una nuova forma d'identità, il lessico ideologico della mobilitazione e della lotta.
Questo modo di vedere, largamente diffuso, consolida molti apriorismi; non tiene conto però del fatto che i movimenti di re-islamizzazione contemporanei si inscrivono puntualmente, oltre che in uno specifico retaggio di civiltà, nella logica dei rivolgimenti di questo scorcio di secolo e in una situazione economica e culturale di dimensioni mondiali. Le difficoltà di analisi e d'interpretazione di quei movimenti nascono proprio dall'esigenza di comprendere come si articolano queste due dimensioni.
L'emergere di questi movimenti nella forma attuale risale alla metà degli anni settanta, un periodo di svolta caratterizzato dalla confluenza di due fenomeni. Da un lato vi sono notevoli mutamenti e tensioni - in termini demografici, di esodo rurale, di sottoccupazione di massa - che incidono sui giovani che, nati dopo l'indipendenza, raggiungono ormai l'età adulta con un livello d'istruzione molto più elevato di quello della generazione precedente; dall'altro, arriva a maturazione un'ideologia islamista contestatrice (erede di quella dei Fratelli Musulmani, risalente all'epoca coloniale), che ha elaborato una critica radicale dei fondamenti nazionalisti dell'ordine costituito e può dar voce alle rivendicazioni della nuova generazione. La confluenza dei due fenomeni - gli sconvolgimenti degli equilibri sociali e l'emergere di un'ideologia contestatrice - spiega l'origine dei movimenti di re-islamizzazione.
Inizialmente, questi movimenti hanno come ‛catalizzatori' i giovani intellettuali di formazione moderna (ingegneri, medici, informatici, ecc.), che configurano un nuovo agente sociale, un ibrido, appassionato di scienze e tecniche ma al tempo stesso ansioso d'instaurare uno Stato che applichi la Legge islamica, la sharī‛a. Nella loro opposizione ai poteri costituiti questi ‛tecnici barbuti' dispongono di due gruppi di alleati potenziali: da una parte, la plebe delle periferie urbane, che vede nell'ideale della sharī‛a la promessa di un sovvertimento delle gerarchie sociali e di una ridistribuzione radicale della ricchezza; dall'altra, una borghesia di pii musulmani - imprenditori, commercianti, professionisti - che si sente esclusa dalla gestione degli affari perché le dinastie, la nomenklatura e le gerarchie militari hanno monopolizzato il potere politico dopo la decolonizzazione e controllano a loro vantaggio il sistema economico.
Per questi tre gruppi il riferimento allo Stato islamico rappresenta una rottura con l'ordine politico esistente; in questo senso, sotto l'egida di uno slogan piuttosto vago come l'applicazione della sharī‛a, essi possono concludere tra loro delle alleanze che rimandano a dopo la conquista del potere il confronto tra i rispettivi interessi. Ai ceti medi la futura applicazione della sharī‛a permetterebbe di congelare a proprio vantaggio l'ordine nuovo e di evitare una rivoluzione sociale; ciò peraltro li farebbe entrare in conflitto con la ‛plebe', con i ‛diseredati' che hanno contribuito al rovesciamento del vecchio regime proprio in vista della rivoluzione sociale. Nel caso iraniano, ad esempio, l'alleanza tra intellettuali islamisti, borghesia di pii musulmani e plebe urbana arriva nel 1979 a rovesciare lo shāh; ma i ‛diseredati', dopo la vittoria ottenuta in gran parte proprio grazie alla loro mobilitazione, vengono mandati a morire in massa sui campi minati iracheni e tornano sulla scena politica solo come ‛martiri', dei quali le nuove classi dirigenti - ‛tecnici barbuti', alto clero e mercanti dei bazar - celebrano la memoria e sovvenzionano le famiglie.
Così, lungi dal rappresentare un fenomeno monolitico e incontenibile, l'uso dell'Islam a fini politici è tipico oggi di gruppi sociali con interessi diversi, che stringono tra loro alleanze precarie, la cui evoluzione è soggetta a molteplici fattori aleatori. Inoltre, da due decenni i poteri costituiti hanno messo in conto questa realtà, associando alla repressione di certi gruppi la cooptazione di altri; ciò amplia ulteriormente la gamma degli scenari politici futuri.
Nell'analisi occorre dunque evitare anzitutto due errori: la demonizzazione del fenomeno, percepito con sgomento come un blocco unitario, e la sua banalizzazione, che pretende di ritrovare sotto le parvenze della religione solo i classici conflitti di potere o di classe. Il riferimento politico all'Islam non è infatti neutro: esso condiziona, ad esempio, i comportamenti riguardanti lo status della donna, la democrazia, l'organizzazione della produzione e degli scambi, l'equilibrio mondiale. Soprattutto, esso dà origine ad aspri conflitti quando si tratta di stabilire, in mancanza di una Chiesa istituzionale, chi sia autorizzato a interpretare i testi sacri. Di fronte ai ‛tecnici barbuti' che utilizzano il Corano a modo loro, che peso hanno gli ulema, i dottori della Legge? Quale prezzo politico, giuridico, culturale impongono essi ai regimi costituiti per sostenerli e legittimarli di fronte alle opposizioni islamiste?
Sono questi gli schemi di analisi che ci sembra necessario impostare per valutare le possibilità e i rischi insiti nell'evoluzione di un mondo musulmano in cui i movimenti islamisti occupano ormai un posto importante. Quali tipi di convergenze e di scontri si possono dunque prevedere tra i due sistemi di valori dell'Occidente e dell'Islam, peraltro già in buona parte compenetrati e interdipendenti, a causa dei movimenti migratori e del flusso delle immagini televisive?
2. Il risveglio islamico: gli uomini e le poste in gioco
Per definire le possibili conseguenze del riemergere sulla scena politica del riferimento all'Islam in società che da mezzo secolo sembravano invece avviate verso una modernità caratterizzata dalla secolarizzazione, occorre anzitutto inquadrare il problema in una duplice prospettiva: il ‛lungo periodo' della storia dell'Islam, segnato dal costante richiamo all'età d'oro delle origini, e il ‛breve periodo' della colonizzazione, dell'indipendenza e dei vari sistemi politici sperimentati dopo di essa, segnati retrospettivamente da una sensazione dominante di crisi e d'insuccesso.
Alla morte del Profeta (632 d.C.) si pose il problema del suo successore come capo di Stato. Si stabilì che sarebbe stato eletto ‛califfo' (dall'arabo khalīfa, ‛sostituto') il migliore dei musulmani, indicato dal consenso dei credenti più saggi. Fu questo il modo di designazione dei primi quattro califfi, ritenuti i rappresentanti dell'epoca d'oro dell'Islam; ma nel 657 il quarto califfo, ‛Alī (‛Alī ibn ben Abī Ṭālib), fu sconfitto da uno dei suoi governatori di provincia, che gli succedette, fondando la dinastia degli Omayyadi. Da allora nelle società musulmane l'assunzione del potere è avvenuta sempre per successione o mediante un colpo di Stato militare, senza mai rispettare i precetti dell'Islam sull'origine legittima del sovrano.
Inoltre i seguaci di ‛Alī, gli sciiti, hanno considerato come sole guide legittime i loro imām, discendenti da ‛Alī, e non i califfi riconosciuti dalla maggior parte dei musulmani, i sunniti. Nell'874 l'‛occultamento' del dodicesimo imām sciita ha ‟riempito il mondo di tenebre e d'ingiustizia", che dureranno fino all'atteso ‛ritorno del Messia'. In pratica, fino alla rivoluzione iraniana del 1979 gli sciiti hanno prestato un'obbedienza puramente formale al potere politico, riservando quella sostanziale ai loro capi religiosi (mullah), organizzati, a differenza degli ulema sunniti, in gerarchie clericali.
Nel mondo sunnita il sovrano (califfo, sultano, sultano mamelucco, ecc.) è sempre stato in una condizione di forte dipendenza dagli ulema: spettava a questi legittimarlo o meno nei riguardi dell'Islam, a seconda che giudicassero conforme o no ai testi sacri la sua prassi di governo. Quest'equilibrio precario tra vita politica e vita religiosa si è formato in un contesto dinamico, caratterizzato fin dal primo secolo dell'egira da un'espansione territoriale folgorante, frutto di successi militari che consolidavano la posizione del sovrano.
Nel 732, un secolo dopo la morte del Profeta, l'espansione araba verso ovest tocca il suo culmine e viene fermata a Poitiers; poco prima, nel 711, eserciti arabi si erano spinti verso est fino a penetrare in India. L'espansione continuò in varie forme: l'Impero ottomano succeduto alla dominazione araba, dopo aver conquistato nel 1453 Costantinopoli, s'impadronì dei Balcani, arrivando ad assediare senza successo Vienna (1683). Nell'Africa Nera e nel Sudest asiatico l'avanzata islamica avvenne invece lungo le vie del commercio, soprattutto a partire dal XV secolo.
Nonostante qualche ripiegamento localizzato (riconquista cristiana della penisola iberica, conclusa nel 1492) o temporaneo (Stati crociati, dall'XI al XIII secolo), questo ‛lungo periodo' dell'Islam è stato caratterizzato da una costante espansione territoriale.
Il ‛breve periodo' dell'epoca moderna, dalla spedizione di Bonaparte in Egitto (1798) ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale, è segnato invece da un generale declino politico del mondo musulmano, che passa quasi interamente sotto la dominazione coloniale europea. In questo periodo la capacità dei dottori della Legge di garantire gli equilibri politici diminuisce, perché il potere è detenuto soprattutto da europei non musulmani, che si preoccupano molto meno di essere legittimati dall'Islam. Prendono inoltre il sopravvento nuove concezioni importate dall'Europa, come il nazionalismo, il panarabismo, le varie forme di socialismo, ecc., che riducono l'importanza del riferimento all'Islam in campo politico.
Il nazionalismo arabo nasce nel Vicino Oriente verso la metà del XIX secolo, sul modello dei contemporanei nazionalismi europei: esso è innanzi tutto antiottomano, sostituisce l'identità araba dei suoi aderenti (tra i quali vi sono molti cristiani di Siria) all'identità islamica dell'Impero e prende contatti con le potenze europee per arrivare all'indipendenza dei paesi arabi. Ma dopo il crollo ottomano conseguente alla guerra del 1914-1918, la tutela inglese e francese sul Vicino Oriente farà diventare questo nazionalismo arabo uno dei principali fattori della lotta anticolonialista, fino al raggiungimento dell'indipendenza negli anni cinquanta e sessanta.
Un altro tipo di nazionalismo si manifesta in Turchia sotto la guida di Atatürk, con la proclamazione della repubblica, l'abolizione del califfato (1924) e la laicizzazione dello Stato; questa rottura radicale con la visione islamica della società viene imitata nella vicina Persia dello shāh Riẓā Pahlavī (1925).
Per reazione ai traumi della laicizzazione nascono i primi movimenti di re-islamizzazione del XX secolo, tra cui il Tablīç islāmī (missione musulmana) in India (1927), i Fratelli Musulmani in Egitto (1928), l'Associazione degli ulema in Algeria (1931). Contrariamente ai nazionalisti, che lottano per uno Stato indipendente ispirato ai modelli politici occidentali, questi movimenti tendono a ripristinare un'organizzazione sociale basata sulla rigorosa osservanza dei comandamenti dell'Islam.
Il Tablīġ islāmī - un movimento di tipo pietistico e volto al proselitismo, che è presente oggi in tutto il mondo e svolge un ruolo primario nel processo di re-islamizzazione di base - propugna una rottura con l'ambiente ‛empio' sul piano della vita quotidiana, del costume e dei valori, e il ritorno a una stretta imitazione del modello del Profeta; non ha però alcuna ambizione politica esplicita. Al contrario, il movimento ‛islamista' propriamente detto, derivato da quello dei Fratelli Musulmani, ritiene necessario ristabilire uno Stato islamico che applichi la sharī‛a. Negli anni trenta, al tempo delle manifestazioni di piazza in Egitto, ai nazionalisti che reclamavano la partenza degli Inglesi e una costituzione i Fratelli Musulmani ribattevano: ‟La nostra costituzione è il Corano".
Subito dopo la conquista dell'indipendenza il rapporto tra le forze politiche divenne in complesso favorevole alle correnti nazionaliste: in Egitto Nasser (Giamāl ‛Abd an-NaṢir) soppresse nel 1954 l'associazione dei Fratelli Musulmani, mandando al patibolo i suoi capi e in prigione o in esilio i suoi quadri. Si riteneva allora che costoro andassero contro corrente rispetto al cammino della storia; ma negli anni settanta, quando il nasserismo e i nazionalismi saranno oggetto di una critica radicale, essi verranno onorati come i protomartiri della causa islamista.
Nel mondo musulmano la conquista dell'indipendenza appare fin dall'inizio gravata da alcune ambiguità. Nell'area araba le ambizioni panarabiste dei movimenti di liberazione si scontrano con l'esistenza di Stati che hanno ereditato dall'età coloniale le loro frontiere e tra i quali si moltiplicano i conflitti. La breve fusione tra l'Egitto e la Siria (1958-1961) non resiste alle rivalità tra il partito del Ba‛th e il nasserismo.
Nonostante la creazione della Lega Araba (1945), i regimi nati dall'indipendenza si contrappongono in una ‛guerra fredda araba' che riproduce, per effetto degli accordi conclusi con gli Stati Uniti o con l'URSS, il dissidio tra le due superpotenze. Gli Stati ‛progressisti' o ‛socialisti' alleati con i Sovietici (Egitto, Siria, Iraq, Algeria, e specialmente lo Yemen meridionale) estromettono dal potere l'aristocrazia terriera e la borghesia mercantile; i loro regimi, sostenuti dalle giovani élites urbane emergenti, in realtà vengono ben presto controllati da ufficiali dell'esercito, i quali, col pretesto di mobilitare e modernizzare la società, aboliscono ogni vita democratica e istituiscono delle dittature. Popolari negli anni di euforia immediatamente successivi all'indipendenza, i regimi ‛progressisti' saranno contestati radicalmente a partire dalla metà degli anni settanta, e il rigetto dell'ideologia che ne era alla base produrrà un vuoto che sarà colmato soprattutto dai movimenti contestatori islamisti.
Nei paesi alleati con gli Stati Uniti l'indipendenza porta invece al potere coalizioni di gruppi sociali in cui prevalgono le vecchie aristocrazie fondiarie o tribali. È il caso del Marocco, degli Stati della penisola arabica e specialmente della Giordania, paesi in cui rimangono al potere le preesistenti dinastie. Questi regimi, che si preoccupano maggiormente di conservare una forte legittimazione islamica proteggendo a tale scopo gruppi di ulema filogovernativi, appaiono meno esposti di quelli ‛progressisti' alla prima ondata della contestazione islamista degli anni settanta e ottanta, guidata dai ‛tecnici barbuti'. Ma l'interventismo delle famiglie reali, avide di guadagni in settori dell'economia in cui le risorse si vanno rarefacendo, susciterà l'ostilità di interi settori della borghesia mercantile e imprenditoriale, i quali negli anni novanta cominceranno a prendere contatti con le opposizioni islamiste.
Un altro importante fattore di squilibrio fra gli Stati e all'interno delle società è la disuguale ripartizione della rendita petrolifera che fornisce, specialmente tra il 1973 e la metà degli anni ottanta, enormi flussi di ricchezza. Secondo un motto di spirito arabo, ‟gli Arabi hanno ricevuto due rivelazioni: la prima proveniente dal cielo, l'Islam, che ha portato loro il Bene, l'altra proveniente dal sottosuolo e da Satana, il petrolio, che ha portato loro il Male e lo sconvolgimento della società". Il denaro facile del petrolio ha avuto in realtà, al di là della crescita del prodotto nazionale lordo dei paesi produttori, effetti destrutturanti di cui si comincia ormai a valutare il peso: l'accelerazione dell'esodo dalle campagne verso le periferie urbane sovrappopolate e i flussi migratori verso i paesi produttori, che hanno ritardato la presa di coscienza dell'esplosione demografica e dell'inadeguatezza dei mercati dell'occupazione locali a farvi fronte; l'importazione di tecnologie non competitive ed economicamente disastrose, come nel caso dell'industria pesante nell'Algeria di Houari Boumedienne; e, più in generale, il finanziamento della pace sociale mediante elargizioni, a scapito delle riforme di struttura. Oggi, dopo l'inversione di tendenza del mercato del greggio, gli effetti perversi della rendita petrolifera contribuiscono ad accelerare i mutamenti politici e il ripudio delle élites che hanno monopolizzato il potere nei decenni in cui il prezzo del barile era elevato, ma che non hanno saputo preparare il ‛dopo petrolio'.
L'unità araba ha trovato però un catalizzatore politico che le ha permesso di superare le divisioni interne fino alla metà degli anni settanta: la nascita dello Stato d'Israele (1948). La belligeranza contro lo Stato ebraico, insediato su una ‛terra araba', ha reso possibile nei vari paesi la formazione di una specie di union sacrée e ha giustificato la messa al bando di un'opposizione politica che avrebbe potuto fare il gioco del ‛nemico sionista'; si è avuta così una forte legittimazione dei poteri costituiti e in particolare dell'egemonia dei militari, soprattutto negli Stati più vicini al teatro del conflitto. La gravità della disfatta araba nella guerra dei sei giorni del giugno 1967 ha peraltro indebolito i militari; e se la situazione si è riequilibrata dopo la guerra dell'ottobre 1973, ciò è da attribuirsi alla pressione che gli Stati arabi produttori di petrolio hanno esercitato sugli occidentali alleati d'Israele. Si è rafforzato così nel mondo arabo l'orientamento - tipico dei più influenti tra quegli Stati, le ‛petromonarchie' della penisola arabica - verso il riferimento all'Islam e verso un'applicazione della sharī‛a in senso conservatore. Contemporaneamente, sul piano interno, avveniva nei paesi più popolosi (ad esempio in Egitto) il grande mutamento degli anni settanta: le prime generazioni nate dopo l'indipendenza raggiungevano l'età adulta insoddisfatte della loro sorte, ed entrando quindi in sintonia con l'ideologia contestatrice islamista sostenuta dai ‛tecnici barbuti'.
Il decennio di svolta seguito al 1970 presenta alcuni caratteri eccezionali, protrattisi in certi paesi fin negli anni ottanta: un picco nell'incremento demografico, un massimo di divaricazione tra le generazioni nel livello d'istruzione e un trasferimento in massa della popolazione contadina verso le periferie urbane. Intorno a Casablanca, Algeri, Il Cairo, Teheran, ecc., nascono vaste zone di un habitat rurale-urbano informe, popolato di immigrati che non fruiscono più delle solidarietà del mondo rurale e sono ancora privi dei vantaggi della vita urbana. In quest'ambiente ibrido saranno reclutati i militanti di base del movimento islamista radicale: i gruppi di gihād (guerra santa) dei sobborghi del Cairo, i Gruppi Islamisti Armati (GIA) di Algeri, i ‛diseredati' dei quartieri meridionali di Teheran.
3. La svolta degli anni settanta
A partire dalla metà di questo decennio, le società musulmane subiscono dei rivolgimenti strutturali che investono la demografia, l'accesso alla cultura e la crisi di legittimità dei sistemi politici. In questi anni arriva infatti all'età adulta la prima generazione dell'esplosione demografica e dell'esodo rurale, che è anche la prima a non aver conosciuto direttamente la dominazione coloniale e a essere alfabetizzata in massa, almeno per quanto riguarda i maschi. Giunta sul mercato del lavoro, essa fa l'amara esperienza della sottoccupazione generalizzata: esperienza tanto più dolorosa in quanto contrasta con le grandi speranze in un'ascesa sociale connessa con la scolarizzazione suscitate dalla retorica dei regimi sorti con l'indipendenza, i quali avevano promesso il benessere, imputando alla colonizzazione tutti i mali del passato. In questa massa di giovani alfabetizzati, che vive in periferie urbane formatesi in modo spontaneo, enorme è la delusione nei riguardi di Stati che offrono come uniche prospettive l'emigrazione o la disoccupazione. Si chiede conto della gestione della cosa pubblica durante i due o tre decenni postcoloniali, perché non si crede più alla spiegazione rituale, abitualmente addotta dalle élites al potere, la quale attribuisce al colonialismo e all'imperialismo la responsabilità dell'impoverimento. Tutte le ideologie - specialmente quelle importate dall'Europa, come il liberalismo o il socialismo - che dovrebbero legittimare questi Stati, e con cui in realtà essi hanno mascherato la loro incuria e il loro dispotismo, vengono contestate e considerate come menzogne. Il diffuso smarrimento dei giovani s'inserisce in una versione locale di quella che altrove viene chiamata ‛crisi delle ideologie secolari': ideologie (in particolare il socialismo, nelle sue varie forme) che fondano la loro visione del futuro del mondo sulla ragione umana anziché sul primato della fede.
4. La nuova ideologia islamista
Dalla confluenza di questo profondo senso di malessere con la perdita di attrattiva degli ideali contestatori di tipo secolare hanno origine i movimenti di re-islamizzazione. I loro capi hanno già elaborato, nella clandestinità o in carcere, una propria concezione del mondo, ma solo con i rivolgimenti strutturali della metà degli anni settanta si forma una vasta rete di adepti.
Nel mondo sunnita questi movimenti derivano essenzialmente dall'associazione dei Fratelli Musulmani, mentre nell'Islam sciita la vittoria della rivoluzione islamica in Iran è dovuta soprattutto alla tradizione impersonata dall'ayatollah Ruḥollah Khumainī. In entrambi i casi i movimenti di re-islamizzazione utilizzano una strategia d'intervento ‛dall'alto', che si prefigge come obiettivo principale la conquista del potere politico e l'instaurazione di uno ‛Stato islamico': esso dovrà intraprendere una profonda trasformazione della società mediante l'applicazione della sharī‛a, la legge dedotta dalle prescrizioni dei libri sacri dell'Islam, in particolare il Corano e la sunna (la raccolta dei detti e dei fatti del Profeta).
A questo comune obiettivo corrisponde una pluralità di modelli e di tattiche, ma l'unica variante coronata dal successo è quella sciita iraniana.
Nell'Islam sunnita l'associazione dei Fratelli Musulmani, fondata in Egitto nel 1928 da Ḥasan al-Bannā' e diffusasi rapidamente nella maggior parte dei paesi arabi, si oppose fin dall'inizio ai movimenti anticolonialisti e nazionalisti indigeni che intendevano edificare uno Stato indipendente sul modello delle democrazie europee. Secondo i Fratelli non c'era nessun bisogno di democrazia o di costituzione, una posizione sintetizzata nel già citato slogan ‟La nostra costituzione è il Corano". L'associazione, forte di parecchie migliaia di membri e di simpatizzanti, accolse con entusiasmo nel luglio del 1952 l'ascesa al potere di Nasser e dei suoi compagni, gli ‛ufficiali liberi', nei quali essa vedeva il proprio braccio secolare. Ma nel 1954 Nasser eliminò con la violenza quelli che per lui erano dei pericolosi rivali politici, mandando dirigenti e militanti al patibolo, in campo di concentramento o in esilio.
Questa ‛grande prova' sancì per sempre l'antagonismo radicale tra i regimi tendenzialmente socialisti del mondo arabo e i Fratelli Musulmani. Per il loro maggior pensatore, Sayyid Quṭb, giunse il momento di elaborare, nel campo di concentramento in cui era rinchiuso, la dottrina della rottura islamica con l'ordine costituito: essa è stata per i militanti dell'odierna re-islamizzazione ciò che il Che fare? di Lenin è stato per i comunisti. Nei suoi scritti Quṭb afferma che le società del mondo cosiddetto musulmano non sono affatto islamiche e sono in realtà affini alla jahiliyya, termine coranico per indicare la società ‛ignorante' e ‛selvaggia' che esisteva in Arabia prima della rivelazione al Profeta e che rappresenta l'anti-Islam. Secondo Quṭb, l'Islam è caratterizzato dalla sovranità esclusiva di Dio: un capo di Stato esercita legittimamente il potere solo in quanto esegue la volontà di Dio, attenendosi ai precetti della sharī‛a. Nella jahiliyya la sovranità appartiene invece all'uomo, alla sua ragione, inevitabilmente corrotta quando contravviene ai comandamenti divini, presi in senso letterale. Il dispotismo nasseriano è l'esempio emblematico di questa logica riprovevole, nella quale però s'inquadra in ultima istanza anche la democrazia: attribuendo la sovranità al demos, al popolo, essa la sottrae a Dio. La jahiliyya del nostro tempo dev'essere distrutta, in ogni sua forma, dalla ‟nuova generazione coranica" di cui Quṭb auspica l'avvento e che dovrà edificare sulle rovine del vecchio ordine lo Stato islamico, così come il Profeta conquistò la Mecca dei miscredenti per farne il centro della nuova fede.
Questa concezione del mondo ha dato un fondamento islamico radicale alla contestazione dell'ordine costituito negli Stati musulmani contemporanei; bisogna tuttavia attendere la metà degli anni settanta perché essa si affermi tra i giovani alfabetizzati e profondamente scontenti della loro sorte. Quṭb, fatto impiccare da Nasser nel 1966, non ha potuto assistere all'immenso successo delle sue idee, e i suoi epigoni hanno elaborato, non senza contrasti e contraddizioni, una riflessione politica rimasta incompiuta.
Portato al limite, il pensiero di Quṭb sfocia nel rovesciamento del potere con la violenza: ciò è stato tentato in Siria nel 1982, con l'insurrezione dei Fratelli Musulmani a Hamāh, e in Egitto nell'ottobre del 1981, con l'assassinio di Anwar al-Sādāt. Il piccolo gruppo di congiurati, che aveva formato un'organizzazione chiamata al-gihād (la guerra santa), uccise Sādāt, il ‛faraone' che governava trasgredendo i precetti dell'Islam, nella speranza che il popolo egiziano si sollevasse come quello iraniano e instaurasse sulle rive del Nilo un'altra repubblica islamica. Capire perché ciò non sia avvenuto richiede un'analisi della specificità del sunnismo e dello sciismo nei loro riflessi politici, specificità che condiziona l'evoluzione attuale dei movimenti di re-islamizzazione e il loro futuro.
5. Tecnici e ulema
Nel mondo islamico odierno, due gruppi socio-culturali ben distinti parlano entrambi nel nome di Dio: da una parte i tradizionali dottori della Legge, gli ulema sunniti e i mullah sciiti, e dall'altra i nuovi intellettuali islamisti appena usciti dalle scuole e dalle università laiche. Questi ultimi, a differenza dei loro padri, sanno leggere e quindi hanno accesso diretto ai testi sacri; dominati dal desiderio di abbattere un ordine sociale che rifiutano, essi prendono in considerazione nel Corano e nella sunna solo ciò che può confermare la loro visione rivoluzionaria del mondo, senza curarsi delle interpretazioni degli ulema, intessute di cautele sociali. Il capo del gruppo che assassinò Sādāt era un elettrotecnico senza particolare formazione teologica, autore di un manifesto in cui cominciava con lo screditare gli ulema, colpevoli di essere diventati i lacchè inturbantati del potere, e terminava invocando l'esecuzione di Sādāt, ‟apostata dell'Islam nutritosi alla tavola del sionismo e dell'imperialismo". Il manifesto era pieno di citazioni tratte dal Corano, dalla sunna e dalle opere di alcuni autori islamici medievali particolarmente intransigenti, pubblicate e diffuse su larga scala dall'Arabia Saudita.
Questo fenomeno - che ricorda per certi aspetti personaggi come Thomas Münzer o gli adepti di alcune sette puritane, se non altro perché anch'essi furono favoriti dalla diffusione dell'alfabetismo e dei testi a stampa - è stato aspramente combattuto nel mondo sunnita dai dottori della Legge. Essi hanno spiegato che un semplice elettrotecnico o altri ‛ignoranti' non hanno il diritto d'interpretare a modo loro testi sacri che non possono comprendere, non avendo seguito la trafila degli studi teologici. Ponendosi come detentori qualificati del monopolio dell'interpretazione, gli ulema non ammettevano neppure che si potessero considerare apostati i governanti dei paesi islamici: forse essi non erano ‟i migliori fra i musulmani", ma spettava appunto agli ulema dispensare loro consigli e ammonimenti per guidarli sulla retta via.
La violenta opposizione dei dottori della Legge ai discepoli radicali di Quṭb impedì che il loro messaggio penetrasse nella massa della popolazione, confinandolo nei gruppi di studenti e di giovani sottoproletari delle bidonvilles. Nel mondo sunnita, i movimenti di ‛re-islamizzazione dall'alto', che all'inizio degli anni ottanta pensavano d'impadronirsi agevolmente del potere, si rinchiusero così in una logica golpista e del tutto minoritaria; riuscì invece nel medesimo intento l'analogo movimento sciita iraniano.
La diversità tra sciiti e sunniti risale al tempo di ‛Alī, quarto califfo succeduto al Profeta: scelto come capo dei credenti col consenso dei più saggi musulmani della sua epoca, egli fu rovesciato dal governatore di una delle province del suo impero. Gli sciiti (il termine deriva dall'arabo shī‛a, ‛fazione'; in questo caso, la fazione di ‛Alī) optarono per la legittimità: ogni governante che si fosse imposto con un colpo di Stato o per successione dinastica era un usurpatore, e i credenti non gli dovevano obbedienza. Tuttavia nel corso dei secoli gli sciiti trovarono un modus vivendi, denominato ‛quietismo': non opporsi direttamente al sovrano illegittimo, ma prestargli un'obbedienza formale, riservando quella sostanziale ai propri mullah, riuniti in una gerarchia fortemente strutturata e indipendente dal potere.
I sunniti, che sono circa l'85% dei musulmani, scelsero invece l'efficienza e il realismo. Se il governatore che aveva rovesciato ‛Alī era più capace di difendere l'Impero islamico dai suoi nemici, poco importava come fosse arrivato al potere: era compito degli ulema guidarlo per farne il miglior musulmano possibile. L'origine illegittima della sua potestà veniva cancellata dalla legittimazione religiosa del modo in cui egli la esercitava. Tra la concezione sciita e quella sunnita dell'autorità politica vi è dunque una grande differenza, che ha condizionato la capacità delle masse popolari di recepire il concetto stesso di rivoluzione.
Negli anni settanta alcuni alti dignitari sciiti guidati dall'ayatollah Khumainī abbandonarono l'atteggiamento quietistico tradizionale, riaprendo la questione della fondamentale illegittimità del sovrano e scegliendo una logica di scontro, confortati in ciò dalla presenza nell'Iran di gruppi rivoluzionari di giovani militanti islamisti. A differenza di quanto era avvenuto nel mondo sunnita, i dottori della Legge sciiti strinsero con questi gruppi un'alleanza che fu determinante per il successo della rivoluzione iraniana, in quanto il dinamismo dei militanti trovò un'eco nelle masse mobilitate dai mullah. La re-islamizzazione dell'Iran avvenne quindi dall'alto, con la conquista del potere, a conclusione di una rivolta di gran parte della popolazione.
6. Alla conquista della società civile
Nel mondo sunnita, il fallimento della ‛re-islamizzazione dall'alto' contribuì a far venire alla ribalta, verso la metà degli anni ottanta, dei movimenti che preferivano adottare una tattica ‛dal basso'. Rinunziando alla conquista immediata del potere, essi si prefissero come obiettivo primario di agire sul vissuto quotidiano dell'individuo, affinché rompesse radicalmente con le abitudini e i costumi della società ‛empia' che lo circondava e si attenesse strettamente al modello del Profeta.
Questa tattica ha origine in una tradizione diversa da quella dei Fratelli Musulmani: essa è ispirata a un movimento a carattere pietistico, la gamā‛at al-tablīç (associazione per la missione), sorta in India nel 1927. In questo paese, divenuto colonia della Corona britannica, i musulmani - che in passato avevano detenuto per secoli il potere - erano ridotti a una minoranza (circa il 10% della popolazione) circondata da una massa induista così prevalente da far temere a molti imām un processo di assimilazione e di snaturamento della propria comunità.
Per preservare ed estendere un'identità islamica di stretta osservanza, i fondatori del tablīç intrapresero un programma di imitazione letterale dell'esempio del Profeta: vedendo in Maometto l'incarnazione suprema delle virtù islamiche, gli adepti ricalcavano tutti i suoi comportamenti, compresi quelli più in contrasto col costume sociale accettato nell'ambiente induista o secolarizzato. Si attuava così una ‛disassuefazione' nei confronti di quest'ultimo, una rottura che faceva del musulmano ‛sviato' un vero credente e lo portava a socializzare solo con i suoi simili in seno a comunità omogenee, intransigenti ed esemplari tendenti a propagarsi dal basso all'insieme della popolazione. La predicazione del tablīç, dopo aver avuto un grande successo nel subcontinente indiano, si è diffusa nel secondo dopoguerra fra le popolazioni musulmane di tutto il mondo, dando origine alla più importante e più radicata fra le organizzazioni islamiche transnazionali. Con la sua lotta, iniziata nei confronti dell'induismo, contro lo snaturamento dell'Islam e per la costruzione di un'identità musulmana di difesa, il tablīç ha saputo dare una risposta allo smarrimento di molti credenti di fronte a una modernità allogena le cui usanze contrastavano con quelle islamiche tradizionali. Il fenomeno ha assunto una particolare rilevanza, nello scorso decennio, tra le popolazioni di origine musulmana immigrate in Europa, presso le quali il tablīç ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di re-islamizzazione. Tale processo ha portato a un'accentuazione della prassi rituale e religiosa e a una tendenza a ritrarsi nella propria comunità, opponendosi a un'integrazione nella società circostante che avrebbe costretto gli adepti a un continuo compromesso con le forme più rigorose dell'Islam.
Questa ristrutturazione comunitaria ha prodotto anche una rete di solidarietà elementari, particolarmente apprezzate da popolazioni che avevano perduto i loro punti di riferimento e provavano un senso di anomia sociale, non potendo più identificarsi con i valori dominanti della società in cui vivevano: ciò è avvenuto specialmente in Algeria, di fronte al dispotismo, alla cattiva gestione e alla corruzione generalizzata del regime creato dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) al potere. In questo paese i movimenti di re-islamizzazione nati dalla tradizione del tablīç impiantarono nei quartieri più degradati e nelle bidonvilles un importante sistema di centri e di servizi sociali (dispensari, scuole, ecc.), tutti caratterizzati da una rigida osservanza religiosa; e proprio a partire da questo sistema si formò l'aggregazione che avrebbe poi dato origine al Fronte Islamico di Salvezza. Contrariamente ai gruppi golpisti, come quello che nel 1981 assassinò Sādāt, il FIS intraprese anzitutto una paziente conquista dal basso della società civile, che fu alla base dei suoi successi nelle elezioni amministrative del giugno 1990 e nel primo turno delle elezioni politiche del dicembre 1991. Ma esso si dimostrò poi incapace di opporsi apertamente a un potere politico che, deciso a sbarrargli la strada, lo represse energicamente dall'inizio del 1992.
A ogni modo il suo radicamento sociale in profondità, insieme con l'impopolarità e con la mancanza di prospettive politiche del gruppo al potere, ha permesso al movimento islamista di costituirsi in ‛controsocietà' a partire da basi territoriali disseminate nelle regioni montane o nei quartieri più depressi delle grandi città, dove lo Stato è presente solo saltuariamente; ciascuno dei due avversari può quindi impedire all'altro il pieno esercizio del potere, ma non ha i mezzi per esercitarlo da solo. Questa situazione è caratterizzata da una catena di violenze che, al di là del dramma vissuto dall'Algeria stessa, provoca sia in Europa che a sud del Mediterraneo una radicalizzazione delle solidarietà e delle opposizioni nei riguardi dell'Islam, frettolosamente assimilato nel senso comune ai suoi militanti estremisti.
Ma la sfida che le varie manifestazioni dell'Islam dovranno raccogliere nel secolo che sta per aprirsi non è più confinata ai paesi di tradizione musulmana.
La mondializzazione degli scambi culturali ed economici e i flussi migratori espongono ormai le comunità che hanno come referente questa religione all'urto diretto della modernità: ciò riguarda in primo luogo le popolazioni musulmane immigrate nell'Europa occidentale e i neri americani presso i quali si va sviluppando una forma d'Islam piuttosto lontana dalla norma mediorientale. Da parte loro, le società in cui vivono questi gruppi vedono spesso la propria religione attraverso il prisma degli antagonismi culturali, i cui sintomi più vistosi sono ‛il caso Rushdie', la guerra del Golfo o le difficoltà suscitate dall'uso del chador nelle scuole pubbliche francesi. Nel quadro di un mondo policentrico in cui le norme e i valori subiscono trasformazioni inaudite, occorrerà sperimentare quali modi di manifestarsi dell'Islam siano in grado di fornire delle risposte a sfide di civiltà che trascendono le frontiere culturali tracciate dalla storia e dalla tradizione.
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