PASQUA, Isola della (Rapa-nui, Te Pito te Henua, Isla de Pascua, Easter Island; A. T., 164-165)
Piccola isola del Pacifico (118 kmq.), una delle più orientali della Polinesia (si trova a 27° 10′ S. e a 109°26′ O.), situata a grande distanza da ogni altra terra abitata (Pitcairn è a 1850 km., Mangareva a 2400 e la costa del Chile, cui l'isola appartiene dal 1888, dista non meno di 3700 km.). Ha forma triangolare ed è di origine vulcanica; dai fianchi di tre crateri estinti (uno dei quali s'innalza a 500 m. d'altezza) sgorgano numerose sorgenti termali. La costa è alta e formata da ripe di lava rossastra. L'isola riceve piogge abbondanti ed è battuta da venti violenti; il clima, quindi, è relativamente fresco. Poiché il suolo è molto permeabile, l'acqua viene assorbita rapidamente, e la vegetazione è misera, e costituita quasi soltanto da graminacee e da mimosee; scarsissima la vegetazione arborea. In giardini riparati dai venti si coltivano fichi e banani.
Gli abitanti, polinesiani, furono stimati intorno a 3000 da J. Roggeveen, che scoprì l'isola il giorno di Pasqua del 1722, e a 2000 da La Pérouse nel 1786; nel 1930 erano ridotti a soli 250, che vivono raggruppati nel villaggio di Orongo.
L'isola è celebre per la presenza di numerosi e grandiosi resti di monumenti di carattere funerario (v. sotto).
L'isolamento geografico di quest'isola dell'Oceano Pacifico ha fatto sì che i suoi monumenti fossero concepiti sotto l'aspetto di un enigma fosco ed inquietante. Senza dubbio le gigantesche statue (moai) di pietra, erette su apposite piattaforme di pietra tutt'intorno all'isola, sulla riva stessa dell'oceano, davano a essa un aspetto imponente e per certo inaspettato per gli esploratori europei. Queste statue, già descritte dalla spedizione che scoprì l'isola (J, Roggeveen, 1722) e poi dal capitano J. Cook (1774) e da La Pérouse (1786), sono quelle che hanno determinato la celebrità di Rapa-nui. Il loro numero, conosciuto oggi con precisione, è di 460; di esse 250 sulle piattaforme costiere, o ahu, e 60 sui fianchi e nel cratere del vulcano spento Rano Rarako (punta E. dell'isola); delle rimanenti molte si trovano sul fianco dello stesso vulcano, ma in stato di elaborazione, e quindi più o meno abbozzate e non ancora isolate dalla roccia della collina, nella quale vennero scolpite. Il materiale delle moai è appunto una trachite compatta, ma relativamente tenera, con conglomerazione di noduli andesitici.
Invariabilmente le moai rappresentano una figura umana mozza all'inguine, e pertanto senza gambe, con le mani dalle dita affilate riunite sul ventre; con un viso vigorosamente semplificato nei suoi tratti essenziali; capo appiattito fino all'inverosimile ed orecchie allungate e pendenti, a volte con grossi dischi inseriti nel lobo. Le moai degli ahu della costa portavano inoltre sul capo un enorme cilindro di tufo rossiccio, a guisa di cappello o "corona" come fu chiamato, con tutta proprietà, dal botanico Forster (1774). Degno di nota è che, mentre nel 1722 statue e corone furono osservate intatte, dal 1840 in qua nessuna statua si conserva più eretta sugli ahu, ma tutte si trovano abbattute al suolo e infrante. Quanto alle dimensioni, le statue degli ahu variano dai 2 ai 7 metri; nel gruppo del vulcano ve ne sono di più grandi, fino a 9 metri. Quivi lo scorrimento del terreno ne ha conservato un gran numero in piedi, ma le ha contemporaneamente sepolte fino al petto. Di non minore importanza monumentale sono gli stessi ahu, vaste piattaforme di pietra lavorata, erette alla riva dell'oceano. Formano una catena che circonda quasi tutta l'isola triangolare; il loro piano si eleva progressivamente dall'interno verso il mare, a guisa di tenue scarpata, per finire esternamente con una muraglia verticale alta poco meno di 5 m. e lunga a volte 90 m.; gli ahu hanno circa 30 m. di larghezza negli esemplari di maggiori dimensioni. Ma vi sono anche ahu più piccoli, o non destinati a sorreggere statue. Gli ahu tipici della costa portavano una o più statue sul ciglione, sempre con le spalle rivolte verso il mare: l'ahu Tongariki ne portava 15, oggi tutte rovesciate.
Intorno all'isola della Pasqua è fiorita da molti anni, accanto alla letteratura d'investigazione, una letteratura romantica, e, ancor peggio, pseudoscientifica, che se da una parte ha eccitato la curiosità popolare, ha però diffuso gran numero di concetti inesatti, e un'aureola di mistero, che è senza dubbio esagerata. Pur ammettendo che nei singoli problemi rimane qualche incertezza, è lecito affermare che la scienza ha dipanato le fila essenziali dell'etnologia di Rapa-nui. Si è provato cioè che le statue furono fabbricate sul luogo, con materiali locali, e che il loro abbandono è relativamente recente; che non occorre rifarsi a remote antichità preistoriche per fissarne l'epoca; che gli ahu non sono una peculiarità specifica dell'isola, perché abbondano analoghi monumenti di carattere funerario e sacro nelle isole orientali della Polinesia, e così anche le sculture con faccia e torso umano, le quali ultime differiscono da quelle di Rapa-nui solo nelle dimensioni. Cadono anche le esagerate valutazioni del "genio creatore", che si suppose necessario per ideare l'insieme di tali monumenti e che si pose in contrasto con le limitate risorse degli attuali abitanti. In quanto al numero di essi, attualmente 250, è assodato che rappresenta l'effetto di una diminuzione costante dovuta a recenti epidemie e alla deportazione forzosa compiuta barbaramente dal 1862 al 1872. Ma ciò che più esattamente ci illumina sulla cultura degli abitanti di Rapa-nui è l'esame del loro patrimonio. L'abitazione comprendeva case rettangolari, a volte semisotterranee, con mura a secco coperte di erbe, e talora di rami, a forma di canotto rovesciato con fondamenta in pietre lavorate; venivano anche utilizzate le caverne naturali. Il vestito si otteneva con la lavorazione della corteccia di Broussonetia papyrifera con il noto sistema polinesiano della tapa; si usò fino a ieri il tatuaggio del corpo e la pittura della faccia, adorni e finimenti plumari, per scopo cerimoniale. Si conobbe la navigazione, a mezzo di un canotto a punte rialzate simile a quello di guerra dei Figiani, con un bilancino a lato per mantenere l'equilibrio. Le armi, accuratamente fabbricate in legno o pietra, seguono il modello spatuliforme polinesiano, e così anche i bastoni di comando con testa bifronte e gli scettri da ballo, a volte foggiati a guisa di remo cerimoniale. Gli scalpelli, o toki, sono di pietra dura; punte di ossidiana peduncolate ed atte ad essere immanicate, di forma locale, ma fedele a un modello melanesiano, servivano come cuspidi di lance. Gli ami, di pietra e osso, talora umano, seguono la forma polinesiana. Troviamo molto sviluppato il culto degli antenati (gli ahu non sono altro che piattaforme sepolcrali, e le statue altrettanti tiki, o rappresentazioni dei trapassati), sviluppatissimo anche il culto di un uccello mitico e la credenza nel suo mana. Le eleganti figurine geroglifiche delle tavolette di Rapa-nui, che hanno fatto parlare di una scrittura, restano tuttora indecifrate. Benché forse vadano intese come simboli mnemonici di genealogie e formole sacerdotali, pure non si può negare l'intimo valore di scritture, ossia rappresentazioni d'idee. In sintesi, abbiamo a che fare con una popolazione di veri Polinesiani, sovrapposti a un fondo di cultura melanesiana. Anche i cranî e gli scheletri studiati dal punto di vista antropologico designano un popolo misto, inegualmente, dei due grandi tipi somatici dell'oceano. La lingua è un dialetto polinesiano. Cade, perciò, l'ipotesi accarezzata da varî dilettanti, che la popolazione fosse giunta all'isola dall'America, il che non è affatto necessario a spiegare la presenza di una cospicua mentalità costruttiva. Viceversa s'afferma sempre più la visione d'influenze passate all'America attraverso i gruppi insulari del Pacifico. Glossemi come arriki, tumara, oki (rispettivamente: il re, la patata dolce e l'ascia) e altri molti del lessico di Rapa-nui, ma che sono anche panpolinesiani, affiorano nelle lingue dell'America andina.
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