Israele
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Geografia umana ed economica
di Paolo Migliorini
Stato dell'Asia sud-occidentale. Al censimento del 1995 la popolazione risultava di 5.612.300 ab., saliti alla fine del 2005, secondo i dati del governo israeliano, a 6.990.700, inclusi quelli dei diversi insediamenti (241.500 in Cisgiordania e 16.500 nel Golan; gli abitanti israeliani di Gerusalemme Est, per i quali mancano cifre ufficiali, sono stimati dalle diverse fonti tra 175.000 e 184.000; gli 8200 della Striscia di Gaza sono stati evacuati nell'agosto 2005; v. oltre: Storia). Nel periodo 1990-2000 il tasso medio annuo di crescita della popolazione è stato del 3%, soprattutto per effetto dell'afflusso di oltre un milione di immigrati, dei quali 900.000 (per il 22,5% cristiani o di religione non specificata) provenienti dall'ex Unione Sovietica; ma nel periodo 2000-2005 tale tasso è calato al 2%. Alla fine del 2005 il 76% della popolazione di I. risultava costituito da ebrei e il 19% da arabi di diverse religioni (in grande maggioranza musulmani); degli ebrei, il 68% era nato in I., il 22% era immigrato da Paesi occidentali o dell'ex area socialista e il 10% da Paesi in via di sviluppo dell'Africa e dell'Asia. Secondo l'Human development report 2005 dell'ONU, I. occupava nel 2003 il 23° posto (su 177) nella classifica HDI (Human Development Index).
Quella israeliana si connota come un'economia di mercato tecnologicamente avanzata e a elevata partecipazione statale. Nel 2005 l'apporto alla composizione del PIL dei grandi settori di attività è stato: agricoltura 1,8%, industria 21,7%, servizi 76,5%. Fino al 1985 le attività industriali, prevalentemente a basso contenuto tecnologico e orientate verso l'esportazione, erano fortemente sostenute da politiche protezionistiche; in seguito sono state interessate da radicali processi di ristrutturazione che ne hanno migliorato l'efficienza e la competitività. Le produzioni ad alta intensità di lavoro (in particolare quelle tessili e dell'abbigliamento) sono state delocalizzate in Paesi vicini (Giordania, Egitto, Turchia), dove il costo della manodopera è decisamente inferiore. Ma sono state soprattutto le industrie ad alto contenuto tecnologico (elettronica, telecomunicazioni, informatica, biotecnologie) a svilupparsi in modo impressionante, riflettendo la forte crescita del mercato mondiale e l'accentuato interesse dei mercati finanziari per questi tipi di attività. Il vantaggio di I. in fatto di ricerca e sviluppo, derivante dagli elevati livelli di istruzione e dagli ingentissimi investimenti nelle tecnologie applicate in campo militare, è stato alla base della rapida espansione di questo settore, che ha visto crescere la sua quota sul valore di tutte le esportazioni dal 20% del 1990 al 39,5% del 2000, e ha attirato anche massicci investimenti dall'estero (saliti dai 537 milioni di dollari del 1992 ai 5,3 miliardi circa del 2004). L'economia israeliana è dunque divenuta fortemente dipendente dall'alta tecnologia; pertanto la fase di recessione attraversata dal mercato globale di tale settore tra il 2000 e il 2002 ha avuto in I. ripercussioni particolarmente gravi, tanto più che ha coinciso con le condizioni di insicurezza prodotte dalla seconda intifāḍa palestinese. Il PIL ha così registrato una marcata flessione (−1,6%) nel biennio 2001-02 (anche per effetto di un inasprimento fiscale finalizzato a contenere l'inflazione crescente), ma è cresciuto dell'1% nel 2003 e, a causa della maggiore domanda di prodotti israeliani sui mercati esteri, del 5% nel biennio 2004-05. Le principali imprese ad alta tecnologia si trovano a Tel Aviv o nei suoi dintorni (Ramat Gan, Herzliyya) e a Haifa; esistono numerosi e modernissimi parchi tecnologici, in particolare nelle aree di Gerusalemme e di Haifa.
Oltre ai prodotti a elevata tecnologia, concorrono a formare il valore complessivo delle esportazioni diamanti tagliati, pietre preziose, medicinali, gomma e materie plastiche, metalli, prodotti agricoli (frutta e ortaggi). Le importazioni riguardano soprattutto risorse energetiche, minerali e cereali.
Il turismo, che era costantemente cresciuto fino al 2000 (2,4 milioni di visitatori e 3% del PIL), nei due anni successivi è stato fortemente penalizzato dalla ripresa delle ostilità fra israeliani e palestinesi (settembre 2000), dall'attacco terroristico agli Stati Uniti (settembre 2001) e dalle perduranti condizioni di insicurezza; ha in seguito conosciuto una netta ripresa (1,9 milioni di visitatori nel 2005).
bibliografia
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Storia
di Silvia Moretti
Alla fine del 20° sec. il processo di pace israelo-palestinese, avviato dagli storici accordi di Oslo del 1993, vedeva per un'ultima volta le parti siglare bilateralmente un'intesa, prima che una crisi di gravissime proporzioni colpisse tutta la regione; negli anni successivi, infatti, lo scoppio della seconda intifāḍa, la vittoria elettorale di A. Sharon (del partito di destra Likud, Fusione) e gli attentati terroristici di New York e Washington (2001) avrebbero modificato radicalmente lo scenario regionale e internazionale, rendendo quasi anacronistiche le clausole dell'intesa tra il primo ministro laburista israeliano E. Barak e il leader palestinese Y. ̔Arafāt, siglata in Egitto, a ŠŠarm al-Šayẖ, il 4 settembre 1999. Tale intesa prevedeva per il settembre del 2000 il raggiungimento di un trattato finale e risolutivo tra le parti, e lo scaglionamento del ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania in tre date: settembre e novembre 1999, gennaio 2000. Subito dopo l'approvazione dell'accordo da parte della Knesset (il Parlamento israeliano), il governo rilasciò come previsto un primo gruppo di 199 prigionieri palestinesi (altri 150 furono rilasciati il mese successivo), e avviò il passaggio del 7% della Cisgiordania all'amministrazione civile palestinese. Sul finire dell'anno, però, il rilancio dell'espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania provocò l'abbandono del tavolo delle trattative da parte dei palestinesi. Nel marzo 2000, contestualmente alla ripresa dei colloqui israelo-palestinesi, un ulteriore 6,1% del territorio della Cisgiordania passò all'Autorità nazionale palestinese. Contemporaneamente il governo israeliano annunciava il ritiro unilaterale delle proprie truppe dalla cosiddetta fascia di sicurezza in Libano, che si concludeva, dopo un'occupazione durata oltre venti anni, il 24 maggio. Il confine tra i due Stati rimaneva comunque una zona ad alto rischio, dove operavano le milizie di Ḥezbollāh (Partito di Dio), organizzazione sciita nata nel 1982 con il sostegno iraniano e siriano per cacciare I. dal territorio libanese, e dotata di un'ala militare responsabile di numerose azioni terroristiche.
Alla Knesset saliva intanto la pressione contro Barak, ostaggio della componente religiosa più ortodossa e nazionalista del suo governo, che si opponeva sia al processo di pace con i palestinesi sia al tentativo di secolarizzare la vita e i costumi del Paese. In luglio il governo entrava in una grave crisi, e in questa delicata situazione di politica interna si aprirono i negoziati di Camp David, fortemente voluti dal presidente statunitense B. Clinton e dallo stesso Barak. La complessità degli argomenti in questione, il cui cuore era costituito dal problema di Gerusalemme Est e dal destino dei profughi palestinesi, determinò il fallimento degli incontri. Se da un lato Barak si era spinto per la prima volta a mettere in discussione il controllo, ma non la sovranità, di I. sulla totalità di Gerusalemme (pur se in una formulazione ancora molto generica), e si era mostrato disponibile ad ampliare la percentuale di territorio della Cisgiordania da cedere ai palestinesi, dall'altro lato ̔Arafāt aveva ribadito il diritto del popolo palestinese ad avere indietro le terre occupate dagli israeliani non sotto forma di concessione, ma secondo quanto stabilito dalla risoluzione 242 dell'ONU (1967). Il confronto tra le parti era stato ostacolato anche dal rifiuto di Barak di congelare la creazione di nuovi insediamenti nei territori palestinesi e dal mancato adempimento da parte israeliana delle clausole già pattuite in occasione dei precedenti accordi firmati tra le parti. In questo conte-sto, mentre languiva la campagna di laicizzazione lanciata da Barak (introduzione del matrimonio civile, abolizione del ministero per gli Affari religiosi, nonché limitazione dei privilegi per i religiosi ultra-ortodossi), alla fine di settembre scoppiava la seconda intifāḍa, detta di al-Aqṣā, che da Gerusalemme si propagava rapidamente a Gaza e alle città della Cisgiordania (v. anche Gerusalemme e Palestina). La rivolta palestinese metteva sempre più a repentaglio l'ormai precaria coalizione politica che sosteneva Barak, e nel mese di dicembre questi annunciava elezioni speciali per la carica di primo ministro, nelle quali la rosa dei contendenti sarebbe stata limitata ai soli membri della Knesset.
Le elezioni del febbraio 2001 videro una percentuale di votanti del 62%, la più bassa mai registrata fino ad allora in Israele. Barak fu sconfitto con il 37,6% dei voti, mentre Sharon, leader del Likud dopo le dimissioni di B. Netanyahu nel 1999, ottenne il 62,4% e fu incaricato di formare il nuovo governo. Otto partiti, tra cui il Likud, il Mifleget ha-Avodah ha-Yisra'elit (Partito laburista israeliano) e lo Shas (Shomrei Torah Sephardim, Guardiani sefarditi della Torah), il principale partito religioso ultraortodosso, diedero vita a questo ampio governo di unità nazionale. Mentre si elevava il livello dello scontro tra israeliani e pa-lestinesi, e non si arrestava la costruzione di nuovi insediamenti a est di Gerusalemme, Sharon, in risposta all'escalation degli attacchi palestinesi contro i coloni, ordinava l'entrata dell'esercito nei territori della Striscia di Gaza amministrati dall'Autorità nazionale palestinese (aprile-maggio). Tra maggio e giugno si era ormai imposto nella regione uno stato di guerra strisciante, drammaticamente caratterizzato dagli attacchi suicidi dei guerriglieri del Ǧihād islamico e di Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento di resistenza islamica, fondato a Gaza nel 1987) contro civili israeliani (per es., a Tel Aviv il 1° giugno di fronte a una discoteca, con 20 morti e oltre 120 feriti). Nei territori palestinesi, intanto, cresceva il numero delle vittime innocenti delle violente rappresaglie israeliane, e le condizioni economiche e di vita peggioravano sensibilmente.
Dopo gli attentati terroristici di New York e Washington dell'11 settembre 2001, la tensione tra israeliani e palestinesi sembrò degenerare in aperto conflitto. Nel corso del marzo 2002, mentre le forze israeliane continuavano l'occupazione di due campi profughi in Cisgiordania, Balata, nei pressi di Nablus, e Jenin, Ḥamās e la Brigata dei martiri di al-Aqṣā (gruppo terrorista vicino ad al-Fatāḥ, apparso sulla scena subito dopo lo scoppio della seconda intifāḍa) scatenavano una violenta campagna di attacchi suicidi che provocava la morte di circa 70 civili israeliani in quattro drammatici attentati che colpirono Gerusalemme e i dintorni, Netanya e Haifa. Alla fine del mese Sharon lanciava l'operazione militare Scudo difensivo, e l'esercito iniziava l'occupazione prolungata della Cisgiordania con l'obiettivo di catturare ed eliminare i terroristi. Durante l'avanzata fu circondata la Muqăṭa̔a, il complesso di edifici a Ramāllāh sede del quartier generale di ̔Arafāt (che vi era stato confinato già dal dicembre 2001), e vennero distrutti numerosi edifici e infrastrutture dell'Autorità nazionale palestinese, nonché il centro del campo profughi di Jenin. Dopo un temporaneo ripiegamento delle truppe israeliane, alla fine di giugno 2002 quasi tutte le città della Cisgiordania furono nuovamente occupate o circondate. Nello stesso mese I. iniziava la costruzione di una 'barriera difensiva di sicurezza': tutta la Cisgiordania, da nord a sud, veniva recintata per proteggere il territorio israeliano dagli attentati terroristici. L'inizio dei lavori fu criticato dalla comunità internazionale e anche, seppur più velatamente, dagli Stati Uniti, che peraltro riuscirono a convincere I. ad allentare la morsa intorno a Gaza, dove nel mese di agosto si era concentrata la repressione militare. Il 19 settembre l'ennesimo attentato suicida (nel centro di Tel Aviv, con sei morti e oltre cinquanta feriti, di cui alcuni gravissimi) spinse I. a un nuovo assedio della Muqăṭa̔a, condannato dai Paesi arabi e da molti governi europei. Dopo la distruzione di quasi tutti gli edifici del complesso, il 29 settembre ̔Arafāt fu lasciato libero.
La fine del 2002 segnava un punto morto nel processo di pace: nessun tavolo di trattative sembrava poter colmare la distanza tra israeliani e palestinesi. La società civile israeliana era costretta a fare i conti quotidianamente con la drammatica realtà del terrorismo che assorbiva ormai ogni istanza del dibattito politico interno. Non per questo, però, si era andato spegnendo il confronto, anche acceso, nel Paese, come nel caso del rifiuto di alcune centinaia di riservisti israeliani di andare a combattere nei territori occupati per "affamare e umiliare un intero popolo". La vittoria schiacciante di Sharon alle elezioni del gennaio 2003 (38 seggi) poneva sempre più ai margini il Partito laburista (19 seggi), che appariva seriamente disorientato dopo la disfatta di Barak, e, di fronte al rifiuto di Sharon di riprendere le trattative con i palestinesi, sceglieva di non entrare nel nuovo governo di coalizione. Lo Shinui (Cambiamento), il partito laico di centro protagonista di un ottimo risultato elettorale (15 seggi), entrava nella coalizione nonostante la presenza dello Shas.
Un nuovo tentativo di riavviare i negoziati di pace fu lanciato alla fine dell'aprile 2003 con la presentazione della road map, il piano concordato dall'amministrazione Bush con Russia, ONU e Unione Europea. Il traguardo veniva posto nel 2005, data che avrebbe dovuto vedere la nascita di uno Stato palestinese e la fine dell'occupazione israeliana. La prima fase del piano prevedeva un'incondizionata cessazione del terrorismo e della violenza da entrambe le parti, il con-gelamento dei nuovi insediamenti israeliani e la normalizzazione della vita palestinese (nuova costituzione ed elezioni). Nella seconda fase tutti gli sforzi sarebbero stati concentrati sulla creazione di uno Stato autonomo palestinese con confini provvisori, sebbene nessuna proposta concreta venisse avanzata sui temi più controversi (ritorno dei profughi, Gerusalemme Est). La fase finale doveva chiudere il conflitto israelo-palestinese e ratificare la normalizzazione delle relazioni tra I. e gli Stati arabi. Non convinta dall'adesione palestinese, che andava na-turalmente sottoposta a una verifica sul campo specialmente in merito alla rinuncia al terrorismo, I. esprimeva delle riserve, che sembravano archiviare come inattuabile e insoddisfacente la road map. Tra il 2003 e il 2004, intanto, procedevano incessantemente i lavori per la costruzione del muro e dei reticolati che costituivano la barriera di sicurezza israeliana, determinando nuove e gravi restrizioni per i pa-lestinesi che vivevano e lavoravano nelle sue vicinanze. La lunghezza del tracciato approvato si aggirava intorno ai 680 km, ma era suscettibile di continue variazioni. La barriera avrebbe seguito la cosiddetta Linea verde (il confine stabilito con l'armistizio del 1949) solo per il 20% del suo sviluppo totale, operando delle incursioni più o meno profonde in Cisgiordania e inglobando circa il 9% del territorio palestinese (il 16,6% secondo il rapporto del segretario dell'ONU, nov. 2003). Nel corso del 2004 le pressioni degli Stati Uniti e i verdetti dell'Alta corte di giustizia israeliana obbligarono il governo a riconsiderare alcuni brevi tratti del tracciato, in totale una quarantina di km, per non stran-golare l'economia di alcuni villaggi palestinesi, e un nuovo percorso emendato fu approvato dal governo nel febbraio 2005. A dispetto delle forti critiche contro il muro, che sanciva nei fatti l'annessione a I. di larghe parti della Cisgiordania, e delle campagne lanciate da più parti contro la sua costruzione, considerata lesiva dei diritti della popolazione palestinese, le statistiche rilevavano una netta diminuzione del numero degli attentati suicidi in territorio israeliano e di conseguenza delle vittime: 184 i morti nel 2002, 104 nel 2003, 53 nel 2004, 24 nel 2005.
Nel febbraio 2004 giunse a sorpresa la decisione di Sharon di ritirare le truppe israeliane da Gaza e di smantellare gli insediamenti ebraici. L'iniziativa era frutto, in qualche modo, di un importante dibattito sviluppatosi nel Paese sull'identità ebraica e democratica dello Stato d'Israele. Identità minacciata dalla forte pressione demografica araba in Medio Oriente, la quale faceva registrare un sempre più rapido accrescimento della popolazione palestinese rispetto a quella ebraica, e più in generale di quella araba in tutta la regione. La necessità di assicurare a I. una maggioranza ebraica era alla base della decisione di Sharon, che pragmaticamente faceva i conti con la realtà demografica sul terreno: secondo le previsioni dei demografi, infatti, nell'ipotesi del mantenimento di un territorio politico indiviso (che includesse cioè tutti i territori occupati da I.), la stentata maggioranza ebraica dei primissimi anni del 21° sec., appena il 55% della popolazione, sarebbe stata impossibile da garantire in futuro, e nel 2050 si sarebbe ridotta a una minoranza del 37%. La decisione di Sharon lacerò il Paese e fu boicottata dal suo stesso partito, il Likud; non favorì, inoltre, la ripresa delle trattative con i palestinesi, che anzi ravvisarono in questa iniziativa la volontà israeliana di non riaprire un tavolo di negoziati per la pace, ma di agire unilateralmente e senza interlocutori nella regione. Ciò nonostante Sharon e il vice primo ministro E. Olmert fronteggiarono con successo il dissenso interno al partito (il 60% del Likud rigettò il piano di disimpegno in un referendum tenuto nel mese di maggio) e allo stesso governo, il quale, dopo aver varato il piano con 14 voti a favore e 7 contrari, rischiò di finire in minoranza per le dimissioni e il disaccordo di molti ministri. Il governo riuscì a evitare il voto di sfiducia alla Knesset grazie anche all'appoggio del partito laburista. Nel mese di ottobre, al termine di una drammatica seduta, la Knesset approvava con 67 voti a favore e 45 contrari il disimpegno israeliano da Gaza e lo smantellamento di 21 insediamenti (con circa 8200 coloni) nella Striscia e di quattro nel nord della Cisgiordania (appena 674 coloni sui 230.000 che allora vi risiedevano). Agli abitanti degli insediamenti furono garantiti alti indennizzi, risarcimenti e nuove soluzioni abitative il più possibile simili alle precedenti.
Nello scontro con i palestinesi, intanto, I. perseguiva la sua politica degli 'omicidi mirati' per eliminare terroristi e militanti palestinesi considerati una minaccia alla sicurezza dello Stato. Tra marzo e aprile fu decapitato il vertice di Ḥamās: prima lo sceicco Ahmad Yāsīn, fondatore e leader spirituale dell'organizzazione, e poi il suo successore ̔Abd al-̔Aziz al-Rantīsī furono uccisi in due incursioni aeree sulla Striscia. La risposta di Ḥamās non si fece attendere e ad agosto, a Beersheba, questa rivendicò la paternità di un duplice attentato suicida su due autobus israeliani, che aveva provocato 16 morti e molti feriti.
Il 2005 si apriva con la formazione di un nuovo governo di coalizione (58 voti a favore e 56 contrari alla Knesset), che vedeva la partecipazione di otto ministri del Partito laburista e la fuoriuscita dello Shinui, il quale, pur avendo decisamente appoggiato il piano di disimpegno da Gaza, criticava Sharon per la sua accondiscendenza verso le formazioni politiche ultraortodosse. Nel mese di febbraio l'incontro di ŠŠarm al-Šayẖ tra Sharon e il nuovo presidente palestinese Abū Māzin (̔Abbās Maḥmūd al-̔Aqqād), eletto appena un mese prima, interrompeva una lunghissima fase di stallo nei negoziati israelo-palestinesi. La morte di ̔Arafāt (novembre 2004), di cui I. aveva ormai da alcuni anni messo in discussione il ruolo di interlocutore, era sembrata infatti aprire nuove prospettive al dialogo, che faticosamente riprendeva per la prima volta dopo lo scoppio della seconda intifāḍa. La volontà congiunta di mettere fine alle violenze, che dall'inizio della rivolta avevano provocato la morte di circa 3500 palestinesi e 1000 israeliani (cifre in seguito destinate a salire ulteriormente), caratterizzò il vertice, dopo il quale I. mostrò la sua disponibilità a facilitare le condizioni di vita di un migliaio di palestinesi di Gaza che lavoravano in I. e rilasciò alcune centinaia di prigionieri. Ma nel corso dell'anno la scena politica fu dominata dal previsto disimpegno, e mentre nel Paese saliva la protesta dei coloni della Striscia di Gaza, i quali non raccoglievano però l'appoggio incondizionato della società civile, il Likud continuava il suo ostruzionismo al piano di evacuazione, riproponendo a più riprese un referendum e ostacoli di natura giuridica. In giugno la Corte suprema israeliana respingeva tutti i ricorsi degli oppositori al piano, spianando così la strada a Sharon, che continuava però a dover fare i conti con il forte malcontento del suo stesso partito e con una precaria maggioranza parlamentare. Mentre si avvicinava la data del disimpegno, previsto per agosto, un'indagine commissionata dal governo denunciava lillegale di 105 insediamenti in Cisgiordania, sospettando la presenza di molti altri avamposti costruiti senza l'autorizzazione del governo o con il tacito consenso di questo.
Il 15 agosto cominciava l'evacuazione da Gaza, completata otto giorni dopo. Ai coloni furono lasciate 48 ore per lasciare gli insediamenti, prima dell'intervento delle forze di sicurezza. Gli scontri più gravi si verificarono a Neve Dekalim, l'insediamento più numeroso, dove si erano raggruppati molti attivisti religiosi nazionalisti. Tensioni si verificarono anche a Kfar Darom e Netzarim, colonie fondate all'inizio degli anni Settanta e abitate prevalentemente da ebrei ortodossi e ultranazionalisti. Il 21 agosto i bulldozer iniziavano la distruzione delle abitazioni a Gaza e il 23 agosto fu completata l'evacuazione dei quattro insediamenti in Cisgiordania. I. si riservava tuttavia il controllo dello spazio aereo e marittimo di Gaza e manteneva le sue truppe sul confine tra Gaza e l'Egitto.
Dopo mesi di grandi difficoltà, a novembre la coalizione guidata da Sharon entrava definitivamente in crisi per l'uscita dal governo del Partito laburista, il cui nuovo leader A. Peretz voleva chiudere l'alleanza con il Likud. Sharon convocava elezioni generali anticipate per il marzo 2006, e contemporaneamente abbandonava il Likud per fondare un nuovo partito di centro, Kadima (Avanti), con il quale presentarsi alle elezioni. Ma il 4 gennaio 2006 una gravissima malattia costringeva Sharon ad abbandonare la vita politica, e le consegne passarono al suo vice, Olmert, che lo sostituiva anche alla guida del partito. Le elezioni fecero registrare il successo di misura di Kadima (29 seggi), risultato che costrinse Olmert a formare un governo di coalizione con i laburisti (19 seggi). Likud e Shas si aggiudicarono 12 seggi ciascuno. Con i primi mesi del 2006 per I. si apriva una fase molto delicata, segnata prima dalla scomparsa dalla scena politica di Sharon, i cui tre anni di governo avevano comportato enormi cambiamenti per il Paese, poi dalla vittoria di Ḥamās alle elezioni palestinesi di gennaio: una pericolosa minaccia che imponeva nuove strategie, prima fra tutte la necessità di dare un ampio margine di manovra all'ala di Ḥamās più disposta al dialogo, non allineata sulle posizioni aberranti della distruzione dello Stato d'Israele. Olmert, invocando una continuità con la politica di Sharon, prometteva già nel corso della campagna elettorale la creazione di un confine permanente per il 2010, secondo il tracciato della barriera di sicurezza di cui nel mese di aprile risultavano costruiti circa 335 km. Era anche confermata la costruzione di 3500 nuove unità abitative localizzate tra Gerusalemme Est e l'insediamento di Ma̓ale Adumim, compromettendo così la nascita di uno Stato unito e 'continuo' in Cisgiordania (v. anche Gerusalemme).
Ma la sconfitta della politica della mediazione e del dialogo fu evidente nell'estate: il 25 giugno un commando palestinese uccideva due soldati israeliani e ne rapiva un terzo nelle vicinanze del valico di Rafah, attaccando un avamposto israeliano. Immediata la reazione di I. nella Striscia, dove rientravano ancora una volta i blindati e venivano arrestati numerosi esponenti di Ḥamās, alcuni dei quali ministri in carica. Poche settimane dopo, in risposta alla provocazione delle milizie di Ḥezbollāh, responsabili del rapimento di due soldati israeliani (12 luglio) e del lancio di alcuni missili sul Nord del Paese, I. iniziava una massiccia offensiva aerea sia nel Sud del Libano sia su Beirut. I bombardamenti israeliani e di Ḥezbollāh si concludevano il 14 agosto con un cessate il fuoco congiunto. L'11 agosto la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell'ONU aveva stabilito l'invio di un contingente di pace in Libano a potenziamento della missione che era già presente sul territorio dal 1978, l'UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon), creata in seguito a un'invasione israeliana nel Sud del Paese.
La riapertura del conflitto israelo-libanese proiettava l'intero Medio Oriente in uno scenario di grave tensione, caratterizzato da più fronti di crisi: la rinnovata minaccia degli ḥezbollāh, dietro la quale si celava l'aggressiva politica del presidente iraniano M. Ahmadinejad, deciso ad aumentare la sua influenza nella regione; la destabilizzazione del fragile processo di democratizzazione del Libano, l'unico Paese arabo in cui le più recenti elezioni (2005) non avessero fatto registrare la vittoria elettorale di partiti islamisti (salvo il Sud del Paese, saldamente in mano agli ḥezbollāh); le difficoltà di Paesi arabi come l'Egitto, la Giordania e l'Arabia Saudita, spaventati dalla possibilità di un'egemonia iraniana in Medio Oriente ma incapaci di contrastare le posizioni estremiste delle loro piazze; l'impotenza della comunità internazionale nell'imporre un rapido cessate il fuoco, e infine la necessità impellente per I. di trovare un interlocutore affidabile nella regione.
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