Istinto
Il termine istinto (dal latino instinctus, derivato di instinguere, "eccitare"), originariamente utilizzato in ambito biologico, indica un comportamento ereditato, proprio di una specie animale, che varia poco da un individuo all'altro, si svolge secondo una sequenza temporale, è quasi non suscettibile di alterazioni e cambiamenti ed è sempre rivolto verso una precisa finalità.
A partire dagli anni Cinquanta del 20° secolo, l'etologo K. Lorenz si inserì nella disputa ideologica tra la scuola della psicologia finalistica e la scuola comportamentistica. Secondo la prima, la finalità evolutiva, insita nella natura stessa dell'individuo vivente, si concretizzava nell'istinto primario di sopravvivenza, capace di modificare il comportamento adattativo di fronte a condizioni ambientali avverse. La seconda, invece, dava particolare rilevanza alla pressione ambientale, quale causa di apprendimento di nuove strategie vitali e di abbandono degli schemi fino a quel momento utili. Lorenz mediò le due posizioni, operando una sintesi tra innato e acquisito, concetti esaminati in modo antitetico dalle due teorie, giungendo alla conclusione che ogni apprendimento trova il suo fondamento in un programma inserito nel codice genetico della specie animale, che induce l'organismo a moduli comportamentali indispensabili per la conservazione della specie stessa. Lorenz intuì che l'interpretazione data sino ad allora di ciò che veniva chiamato 'azione istintiva specifica' conteneva un errore concettuale di fondo: tale azione, infatti, veniva spiegata sia come reazione innata a determinate configurazioni ambientali, sotto forma di stimoli, sia in termini di moduli motori scatenati da tali stimolazioni, specifici ed ereditati filogeneticamente da ogni specie animale; si riteneva cioè che a ogni stimolo specifico seguisse inevitabilmente una risposta neurofisiologica semplice e stereotipica, il riflesso. Lorenz avvertì l'esigenza di tenere distinti il meccanismo scatenante innato, che permette all'animale il riconoscimento su base genetica di situazioni ambientali significative per la sopravvivenza, e il movimento filogeneticamente programmato attivato dal meccanismo scatenante stesso: una cosa è la capacità innata di riconoscere situazioni ambientali rilevanti, aperta a produrre diverse reazioni di fronte alla diversità delle variabili; ben altra è la capacità, sempre innata, ma ormai fissata e codificata, di eseguire comportamenti finalizzati secondo sequenze prestabilite. Sono due prestazioni di livello fisiologico diverso. I moduli motori hanno origine da impulsi centrali e sono coordinati dal sistema nervoso senza essere necessariamente conseguenza di percezioni o di reazioni di fronte a stimoli ambientali. Il sistema nervoso centrale integra su diversi piani di complessità, a seconda della specie, i vari moduli comportamentali innati e genetici, rendendo l'animale di volta in volta adatto ad affrontare le varie situazioni in cui si trova a vivere. Con ciò si intende che i vari livelli di organizzazione del sistema nervoso, da quelli più semplici cellulari fino a quello reticolare, gangliare e centrale, hanno insita in sé una spontaneità di integrazione e di attività propria delle cellule nervose nel produrre gli opportuni movimenti motori.
La capacità codificata su base genetica di produrre specifici moduli comportamentali si differenzia e si evolve non solo all'interno dello stesso organismo, mano a mano che in esso aumenta l'organizzazione neuronale, ma anche parallelamente all'accresciuta complessità dei vari organismi viventi. Nelle forme di vita vegetali, la capacità di reagire e di rispondere alle stimolazioni esterne è limitata alla presenza di queste ultime, e non vi è un orientamento attivo nell'ambiente se le fonti stimolanti non agiscono direttamente sull'organismo. Con il passaggio agli animali più primitivi nella scala evolutiva, caratterizzati da forme elementari di vita, si ha una capacità di orientamento attivo nell'ambiente, volta esclusivamente alla sopravvivenza. L'animale è cioè in grado di produrre forme di comportamento variabili sulla base delle modificazioni ambientali. L'evoluzione e la crescita di complessità avvengono parallelamente su due livelli: da una parte, l'organismo animale si differenzia e moltiplica le sue funzioni per reagire attivamente alle modificazioni ambientali, in modo da garantirsi un migliore adattamento; dall'altra, l'ambiente stesso offre ai vari organismi in evoluzione stimoli sempre più variegati e complessi che richiedono livelli di integrazione sempre maggiori. Seguendo il livello di evoluzione fino ad arrivare all'uomo, le forme di adattamento dei programmi innati degli animali inferiori non sono più adeguate e aumenta la necessità di un adattamento caratterizzato da comportamenti individualmente variabili a livelli via via superiori. Nell'uomo, così, vengono superate le forme più basse e istintive di comportamento, perché si sono costituiti apparati nervosi più differenziati, maggiormente in grado di recepire le informazioni dall'esterno per poi mettere in moto i programmi innati trasmessi nel codice genetico; ma essi sono anche in grado di analizzare le informazioni e creare collegamenti che permettono la realizzazione di comportamenti non più solo determinati ereditariamente e filogeneticamente, ma variabili a seconda dell'individuo. La differenza tra gli esseri più evoluti della specie animale (i Primati) e l'essere umano è di ordine motivazionale. Infatti mentre i primi, pur essendo relativamente in grado di mettere in atto comportamenti individualmente variabili, hanno sempre finalità strettamente biologiche, legate cioè alla sopravvivenza del singolo e della specie, l'uomo è capace di un'attività cosciente che può andare oltre le motivazioni di ordine biologico, per aspirare a bisogni di ordine superiore connessi alla vita sociale e al desiderio di conoscenza (v. oltre). Tuttavia, nell'essere umano l'aver raggiunto livelli di organizzazione superiori non comporta la perdita dei livelli sottostanti, che rimangono subordinati ma che possono entrare in azione in situazioni particolari e specifiche.
In psicologia chi si è occupato di formulare teorie sulla personalità ha dovuto affrontare la tematica dell'istinto, avendo direttamente a che fare con problemi significativi per la sopravvivenza dell'organismo, e ha volto la sua attenzione a variabili come le componenti motivazionali per comprendere il comportamento umano. Nonostante ci siano stati alcuni tentativi di sistematizzazione, oggi non vi è un accordo unanime sul numero di istinti che dovrebbero essere considerati, e nel corso degli anni il concetto iniziale di istinto, così come lo intendeva l'etologia classica, si è modificato. Sia S. Freud, fondatore della psicologia dinamica, sia W. McDougall, tra i fondatori della psicologia sociale, attribuirono grande importanza a questi aspetti. In particolare quest'ultimo si pose l'obiettivo di comprendere le origini dell'azione umana, gli impulsi e le motivazioni che sostengono l'attività psichica e fisica e ne regolano il comportamento. Per McDougall l'istinto è una disposizione innata sia fisiologica sia psicologica che induce l'essere umano a percepire determinati oggetti, a sentire a livello emotivo un'eccitazione (positiva o negativa) nel percepire tali oggetti, ad agire o almeno a sentire l'impulso di agire in seguito a questa percezione. L'uomo ha, cioè, la predisposizione a reagire a certi oggetti piuttosto che ad altri, a sperimentare di fronte a queste particolari emozioni e produrre un comportamento che si esaurisce in una determinata attività finalizzata, avendo così vie alternative preferite di comportamento per gli scopi prescelti. McDougall considera gli istinti come forze motivazionali irrazionali e incontrollabili, ciascuna delle quali è accompagnata da determinate emozioni. Per es. l'istinto aggressivo è accompagnato da rabbia, l'istinto di fuga dalla paura ecc. (Hall-Lindzey 1978). Per quanto concerne la psicoanalisi, l'attenzione per i fenomeni istintivi è nata dalla concezione freudiana che vede i fenomeni psichici come forze interagenti tra loro, sulla base di un'energia che proviene direttamente dall'organismo. Freud ha individuato negli impulsi istintivi una tendenza generale a diminuire l'eccitazione presente nel corpo, scaricando le tensioni provocate dagli stimoli, cui fanno da contrappeso forze che vi si oppongono, dando così origine a quello che viene chiamato 'dinamismo psichico'. Freud per esprimere queste forze utilizzò il termine Trieb che non corrisponde alla parola italiana 'istinto', nel significato che assume in altri ambiti scientifici, ma piuttosto a 'pulsione'. Mentre infatti è inerente al concetto di istinto l'idea che esso rappresenti un modello ereditario e immutabile, il termine che ha utilizzato Freud non implica questa immutabilità, ma indica impulsi soggetti alle influenze ambientali. Le confusioni sono nate quando nelle traduzioni inglesi si sono usati in modo indifferenziato i due termini. È da precisare che quando Freud parla specificamente di istinto, lo intende riferito al comportamento animale, fissato ereditariamente e caratteristico di una determinata specie, volto alla sopravvivenza, già prestabilito nel suo svolgimento e adattato al suo oggetto. Significato completamente diverso, invece, attribuisce al termine pulsione. Nell'ultima produzione freudiana, la distinzione si fa più sfumata, meno netta, per cui è possibile trovare come intercambiabili, nella dottrina del dinamismo psichico, sia istinto sia pulsione. Come sottolinea A. Balestrieri (1995), a livello psicoanalitico si pensa all'istinto come a qualcosa che agisce a livello inconscio, è in stretta relazione con i nostri sentimenti e con la vita affettiva, ha a che fare con le nostre ansie. Comprende tutta la parte affettiva dell'organizzazione del comportamento, mentre le modalità di esecuzione del comportamento stesso sono maggiormente in relazione con meccanismi che possiamo definire postistintivi, e cioè l'intelligenza e la cultura. La differenza tra la vita istintiva dell'uomo e le manifestazioni simili degli animali inferiori consiste nel fatto che la tensione istintuale può essere modificata dalla riflessione, anziché essere predeterminata. Attualmente il termine appare troppo generico, per cui si tende a preferire a esso vocaboli più precisi, quali motivazione, bisogno, desiderio e pulsione, che chiariscono maggiormente quali sono gli aspetti che di volta in volta entrano in gioco. Per es., si parla di bisogni quando si fa riferimento a necessità strettamente fisiologiche, sorte sulla base di una carenza dell'organismo e che spingono ad agire per compensare tale situazione; si usa il termine motivazione quando si fa riferimento all'insieme dei fattori psicologici che concorrono a determinare il comportamento umano. Oggi la posizione più diffusa, che sintetizza e coniuga la diatriba storica tra le varie teorie, è quella che opera una mediazione e un'integrazione tra innatismo e apprendimento dopo la nascita: si può parlare di una disposizione innata ad agire, che però è sottoposta a variazioni e a influenze ambientali esterne. Le forme di apprendimento modificano e condizionano un comportamento, ma alla loro base esiste sempre qualcosa di più naturale e spontaneo, che possiamo definire come forma istintiva di comportamento. La polemica e il dibattito sulla determinante importanza, nell'evoluzione del soggetto, dei fattori legati all'ereditarietà o di quelli connessi con le influenze ambientali non hanno più ragione di esistere. Come rileva P. Foglio Bonda (1994), l'orientamento scientifico generale esprime per lo più un'ottica di pluridimensionalità, che integra il discorso ereditario, le capacità individuali del singolo individuo e le influenze dell'ambiente in cui ci si trova a vivere. Mentre i fattori ereditari condizionano le capacità potenziali del soggetto, le caratteristiche ambientali determinano l'effettivo sviluppo e la possibilità di esplicarsi.
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