Pena, istituti di
I sistemi di diritto penale moderni si differenziano da quelli precedenti per l'adozione di un criterio monistico nell'individuazione della risposta sanzionatoria: essa consiste nella sola privazione, per un quantum di tempo, della libertà per finalità preventive. La pena carceraria è quindi una sanzione di specie unica differenziata solo nella quantità (da un secondo all'eternità).
La scelta in favore di questa modalità punitiva è conseguente a un'istanza di razionalizzazione del diritto moderno che si è affermata nel Settecento, in cui emersero quelle teorie proporzionalistiche che insistevano piuttosto sulla scala di gravità dei reati che sulla diversità dei generi (v. Tarello, 1975); dottrine che intendevano pertanto accreditare rapporti più quantitativi che qualitativi e in ciò erano favorevoli a ridurre il numero delle pene a quella sola che fosse per sua natura graduabile.
La scelta per una pena - la sola unitamente a quella pecuniaria - capace per sua natura di essere solo 'misurata', rispondeva anche alla necessità politica, altrettanto avvertita, di attuare un rapporto di proporzionalità tra illecito penale e risposta sanzionatoria, per cui finalità preventive e criterio di proporzionalità (principio della retribuzione legale) finirono per essere uniti da un nesso di interdipendenza, sicché ciascuno di essi ebbe senso solo se inteso in connessione con l'altro.Infine, tra necessità di codificazione e 'pena graduabile' esiste un altro rapporto di nodale importanza: infatti il primato di una sanzione modulabile quantitativamente è condizione funzionale per poter operare una rigorosa differenziazione a livello sanzionatorio della disomogeneità degli interessi penalmente protetti (v. Cattaneo, 1990).
In effetti il sistema monistico delle sanzioni criminali ha rappresentato sempre un modello ideale, una delle tante promesse della modernità non mantenute. Chi osserva oggi i sistemi punitivi coglie un insieme di tipologie punitive assolutamente eterogenee tra loro e pertanto non riconducibili ad un modello sistemico. Insomma, è seriamente dubitabile che si possa scientificamente elaborare oggi l'idea stessa di un sistema sanzionatorio, sempre che al termine si voglia attribuire il senso che propriamente gli appartiene.Come è stato ben evidenziato dalla storiografia del diritto penale (v. Garland, 1985), l"invenzione' della pena privativa della libertà suscitò immediati entusiasmi presto seguiti da repentine delusioni. Questa modalità moderna di punire si può dire sia nata già in crisi, se risponde al vero che già nei primi dell'Ottocento la critica penalistica si adoperò per suggerire 'alternative' al carcere (v. Padovani, 1981). Comunque, volendo anche tacere dell'origine del fallimento penitenziario, dobbiamo convenire che il movimento di riforma penale, a fare corso dalla metà del Novecento in poi, internazionalmente si è mosso per favorire il processo di 'fuga' dalla sanzione detentiva.L'implementazione nei sistemi di giustizia penale di modalità di punire diverse dalla privazione della libertà viene indicata come la strada appropriata per ridurre la centralità della risposta carceraria; si confida pertanto che l'ampliamento della gamma sanzionatoria determini l'auspicato effetto della contrazione della pena carceraria. Questa strategia viene definita appunto di 'decarcerizzazione'.
Per quanto diversamente disciplinate negli ordinamenti positivi, le alternative legali alla pena detentiva possono essere ricondotte ad alcune scelte di fondo di politica criminale. Un primo insieme di alternative legali alla pena detentiva si motiva per necessità connesse al paradigma classico di 'pena giusta'. In una prospettiva attenta a ciò che può definirsi economia politica della sofferenza legale, non tutti i reati meritano la privazione della libertà per quanto temporalmente limitata. In una concezione strettamente retributiva non tutte le violazioni della legge penale possono essere pagate con la libertà. La sofferenza del carcere, per quanto la più mite delle possibili, può eccedere ogni limite posto dalla dovuta proporzionalità con l'illecito commesso. Solo in subordine, condivisibili considerazioni di prevenzione generale sorreggono questa critica: la pena del carcere può essere - prima ancora che inutile o socialmente nociva - semplicemente ingiusta. Qualche cosa di altro dal carcere pertanto si impone, ma spetta solo al legislatore affermarlo: la sede delle alternative risiede quindi nel momento edittale e deve prescindere da ogni valutazione legata al caso concreto.
Di diversa natura è invece la questione di una pena che sia più utile - non più giusta - della pena detentiva.A portare avanti questa strategia di politica criminale, in particolare a cavallo tra Otto e Novecento, è il movimento correzionalistico cresciuto nella cultura positivistica: se non è sempre possibile contare su un processo trattamentale a scopi special-preventivi in ambiente carcerario, si può invece sperare in spazi extra-carcerari. Il momento correzionale non più intra-murario, si realizza 'fuori dalle mura del carcere' (v. Pavarini, 1986). Se il fine utilitaristico della pena è la non recidività di chi ha delinquito, la scelta della pena più utile deve sottostare a un giudizio prognostico sull'autore, perché se sia più utile punire con il carcere o con altro dal carcere è cosa che è connessa con un giudizio sulla pericolosità.Punire diversamente dalla privazione della libertà per ragioni di utilità special-preventiva sottostà a due possibili opzioni tecnico-legislative (v. Dolcini e Paliero, 1989): una prima che attribuisce al giudice della cognizione la valutazione discrezionale di punire con 'pene sostitutive', e una seconda che disloca il potere di punire con 'misure alternative' in fase esecutiva.
Di specie ancora diversa è la scelta di adottare alcune alternative al carcere per finalità utilitaristiche diverse dalla prevenzione, come le necessità di governo del carcere stesso, ovvero - in una logica di esasperata premialità - per indurre a comportamenti ritenuti altrimenti auspicabili, come favorire la dissociazione, la collaborazione con la giustizia e l'adesione a un programma terapeutico.La pena in fase esecutiva potrà essere più o meno severa, più o meno lunga, ovvero qualitativamente diversa da quella meritata per il fatto di reato per ragioni utilitaristiche che non sono riconducibili a un giudizio prognostico di non recidività, ma che trovano adeguata soddisfazione nella conosciuta logica dei premi e castighi (v. Presutti, 1986)
Anche il sistema sanzionatorio italiano è quindi segnato oggi dai caratteri della disomogeneità e frammentarietà. Nel tentativo di descriverlo in poche pagine non pretendiamo certo di mettere ordine ove ordine non c'è.
Le conseguenze giuridiche del reato nel nostro sistema di giustizia penale sono: le pene, le misure alternative, le misure di sicurezza e le sanzioni civili.
a. Le pene
Le pene principali. - Nel nostro ordinamento positivo le pene sono quelle detentive dell'ergastolo e della reclusione e quella pecuniaria della multa per i delitti; per le contravvenzioni quella detentiva dell'arresto e quella pecuniaria dell'ammenda. Esse devono essere inflitte dal giudice nella sentenza di condanna, mentre le pene accessorie prevalentemente ne conseguono di diritto come effetto penale della condanna stessa, e in ciò sta la differenza tra pene principali e pene accessorie.Tra le pene principali si annoverava nel Codice penale del 1930 anche la pena di morte (v. Rossi, 1978); essa fu soppressa nel 1948 con la sola esclusione dei reati previsti dalle leggi militari di guerra; con la legge 589/94 anche in questi limitati casi essa è stata convertita in quella dell'ergastolo.
La pena dell'ergastolo è definita come 'perpetua' e pertanto è anche una pena 'fissa' a livello edittale. La perpetuità della pena dell'ergastolo è venuta progressivamente ad attenuarsi in fase esecutiva, in ragione di alcune significative riforme e interventi della Corte costituzionale, senza però venire a cessare, nel senso che la pena dell'ergastolo può - sia pure non necessariamente - anche estendersi per tutta la durata della vita del condannato.
L'indeterminatezza dell'ergastolo nella fase esecutiva non inficia in alcun modo la sua natura di pena 'fissa' a livello edittale che si riverbera nell'impossibilità, nel momento commisurativo, di operare in una logica di 'individualizzazione' della risposta punitiva (v. Paliero, 1981). L'istituto dell'ergastolo, pur così riformato, rimane fortemente sospetto di incostituzionalità in riferimento alla funzione rieducativa della pena, anche se la consultazione referendaria del 1981 lo ha politicamente legittimato.
La reclusione. - pena temporanea per i delitti - si estende da quindici giorni a ventiquattro anni; l'arresto - pena detentiva per le contravvenzioni - è compreso tra i cinque giorni e i tre anni. Dette pene detentive dovrebbero essere scontate in appositi istituti penitenziari ('case di reclusione' per i condannati alla reclusione, 'istituti speciali' o 'sezioni speciali di case di reclusione' per i condannati alla pena dell'arresto), in cui il lavoro dovrebbe essere obbligatoriamente assicurato, nel rispetto delle norme dell'ordinamento penitenziario che disciplinano il trattamento cui i detenuti condannati dovrebbero essere sottoposti.
La realtà è comunque ben diversa: per ragioni di cronica deficienza nell'edilizia penitenziaria, sovente il condannato alla reclusione o all'arresto sconta la pena in una sezione particolare di un istituto carcerario destinato alla custodia cautelare ('casa circondariale'); non sempre è di fatto possibile sottoporre a trattamento individualizzato i detenuti definitivi fino al limite di contravvenire all'obbligo di legge che impone che essi debbano essere avviati al lavoro. Infatti la maggioranza della popolazione carceraria soffre di uno stato di forzata inattività; quanto alla topica della tutela dei diritti del detenuto, secondo quanto previsto dalla legge penitenziaria e nonostante l'affermazione della piena giurisdizionalizzazione dell'esecuzione, essa deve ancora considerarsi nulla più di una lodevole aspirazione. In buona sostanza sia la detenzione che l'arresto sottostanno alla medesima disciplina e quindi tendono a distinguersi solo nominalmente.
La multa. - pena prevista per i delitti - consiste nel pagamento allo Stato di una somma di denaro compresa tra le diecimila lire e i dieci milioni. L'ammenda - pena pecuniaria per le contravvenzioni - circoscrive il pagamento a una somma compresa tra le quattromila lire e i due milioni. Ambedue le pene pecuniarie consentono di essere adempiute ratealmente in ragione delle condizioni economiche del condannato. Le pene pecuniarie (v. Musco, 1984) possono essere normativamente previste sia in modo 'fisso' che 'proporzionale': in quest' ultimo caso la norma parametra la sanzione pecuniaria a una base variabile moltiplicata per un indice fisso, con il risultato che la multa o l'ammenda possono superare i limiti massimi sopra indicati.
Più in generale le pene pecuniarie presentano da sempre un profilo contraddittorio: da un lato forse censurabili per difetto di legittimazione, perché difficilmente orientabili a finalità special-preventive e ontologicamente diseguali in ragione delle capacità economiche del condannato; dall'altro lato certamente apprezzate per ragioni utilitaristiche, perché profittevoli per lo Stato e capaci di risparmiare l'esperienza di altre modalità sanzionatorie ritenute troppo severe quando non nocive, come le pene detentive. Come dire: sanzioni criminali a volte forse ingiuste, ma certamente più utili di altre (v. Rusche e Kirchheimer, 1939). E da questa contraddizione sembra difficile uscire, per quanto molti sistemi penali moderni abbiano cercato di contenere l'odiosa natura classista delle dette pene, dettando criteri più o meno efficaci per una loro più equa commisurazione alle reali capacità economiche del condannato.
Il sistema penale italiano presenta ulteriori profili di contraddittorietà in materia di pene pecuniarie. Se da un lato la comminatoria esclusiva di esse rappresenta una rarità e quella congiunta o alternativa alla pena detentiva finisce per riguardare i soli reati contro il patrimonio o ipotesi di illeciti bagatellari, dall'altro lato le pene pecuniarie - quando inflitte - ben raramente vengono eseguite, in una percentuale comunque inferiore al 5%. Ma di più: di fronte alle proposte ripetutamente avanzate di introdurre anche nel nostro sistema alcuni criteri capaci di commisurare l'entità della sanzione pecuniaria alle reali capacità contributive del condannato, si è finito per dover soprassedere, stanti le peculiari caratteristiche del nostro sistema fiscale, che non sembra essere in grado di assicurare certezza sui redditi.
Di fronte all'insolvibilità del condannato, la pretesa punitiva non può che soddisfarsi nella conversione della pena pecuniaria in altra pena. Nel nostro sistema fino al 1979 la pena pecuniaria inadempiuta si convertiva in pena detentiva (v. Conso, 1979; v. Pittaro, 1980); con la legge n. 689 del 1981, le sanzioni di conversione sono invece le pene sostitutive della libertà controllata (secondo il ragguaglio fisso di settantacinquemila lire per giorno), con un limite massimo in caso di concorso di reati o di pene di un anno e sei mesi per la multa e di nove mesi per l'ammenda, e del lavoro sostitutivo (secondo il ragguaglio di cinquantamila lire per giorno) per un massimo di sessanta giorni (v. Paliero, 1986).
Le pene accessorie. - Forse più che di accessorietà in senso proprio dovrebbe parlarsi di complementarità rispetto alle pene principali. È infatti pur vero che di regola le pene accessorie conseguono automaticamente alla sentenza di condanna. Ma non sempre. In alcune ipotesi l'applicazione delle pene accessorie è rimessa alla discrezionalità del giudice. Meglio quindi riconoscere come elemento distintivo delle pene accessorie la natura complementare ad altra pena (v. Larizza, 1986; v. Pisa, 1984).
Le pene accessorie per i delitti sono: l'interdizione dai pubblici uffici; l'interdizione da una professione e da un'arte; l'interdizione legale; l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; l'incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione e la decadenza o la sospensione dell'esercizio della potestà genitoriale. Per le contravvenzioni, invece, le pene accessorie sono: la sospensione di una professione o di un'arte e la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Una pena accessoria comune sia ai delitti che alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna. La natura di queste pene è quindi in alcune ipotesi interdittiva o sospensiva dell'esercizio di diritti, potestà o uffici; in altre è incapacitante. Nel caso della pubblicazione della sentenza di condanna la finalità è quella di sola censura sociale.
Da un punto di vista politico-criminale è innegabile l'estremo interesse nei confronti delle pene accessorie. Astrattamente esse rappresentano il mezzo più funzionale al perseguimento di obiettivi di difesa sociale, nella neutralizzazione del reo rispetto al pericolo di recidività specifica. Ma appunto solo astrattamente. In verità, nel nostro ordinamento questa funzionalità sovente è assente. Si consideri infatti che alcune pene accessorie conseguono in ragione della sola gravità della pena detentiva, senza che sia richiesto alcun rapporto con il reato commesso. E in ragione anche del fatto che le pene accessorie di norma conseguono automaticamente, la loro applicazione risulta svincolata da ogni valutazione finalistica. Pertanto è la natura meramente afflittiva - o se si vuole di censura sociale - che in ogni caso viene esaltata. E che siano sofferte come particolarmente afflittive può essere verificato dal fatto che sovente il condannato teme di più la severità della pena accessoria di quanto non paventi i rigori di quella principale.
Le tendenze riformatrici che si sono espresse in altri sistemi sono nel senso di ridimensionare le pene accessorie comuni e nel contempo di trasformare alcune pene accessorie speciali (vale a dire riferite a specifici illeciti) in pene principali. In questo senso le pene interdittive e incapacitanti finirebbero per emanciparsi dalla loro origine storica premoderna di pene infamanti, per diventare credibili alternative alle pene detentive.
Le pene sostitutive. - In un sistema penale dominato dall'idea di pena giusta, la durata della pena si giustifica solo per la proporzionalità della stessa al reato. Quando invece la pena deve perseguire scopi di utilità, non sempre la pena meritata può ritenersi capace di perseguire finalità di prevenzione, sia generale che speciale. Questo problema è stato storicamente sofferto in modo particolare per quanto concerne le pene detentive brevi (v. Padovani, 1981; v. Dolcini e Paliero, 1989).
Per quanto la nozione stessa di 'brevità' sia mutata sensibilmente dalla fine del XIX secolo ad oggi nei diversi sistemi penali, l'esperienza detentiva che si limiti a un 'assaggio di carcere' si mostra inidonea a scopi special-preventivi positivi in quanto non consente l'attuazione di alcuna pratica trattamentale; nel contempo esigenze di neutralizzazione contenute nel tempo non si palesano capaci di perseguire finalità di difesa sociale. Infine suscita perplessità che una pena detentiva breve possa effettivamente intimidire, quantomeno quando sia rivolta nei confronti di coloro che sono già avviati ad una carriera criminale, mentre nei confronti di coloro che occasionalmente hanno infranto la legge penale si corre il serio pericolo di favorire questo avviamento.
Le strategie storicamente adottate nei sistemi penali occidentali per contenere l'incidenza delle pene detentive brevi sulla popolazione detenuta sono state fondamentalmente tre: a) l'introduzione di 'misure sospensive' della pena detentiva e/o della sua esecuzione; b) la previsione di 'pene sostitutive' a quelle detentive di breve durata; c) l'individuazione di 'misure alternative' o/e modalità alternative di eseguire la pena detentiva in tutto o in parte in libertà.
Solo con la legge 689/81 il nostro sistema penale ha finalmente conosciuto vere e proprie 'pene sostitutive' delle detentive brevi, quali la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria sostitutiva (v. Bertoni e altri, 1982; v. Trapani, 1985). Se obiettivo esplicito di politica penale della legge 689/81 (Modifiche al sistema penale) era quello di contenere ulteriormente l'area della pena detentiva, l'operatività delle pene sostitutive della pena detentiva breve non poteva che essere collocata nello spazio della penalizzazione non coperto dalla sospensione condizionale ovvero in quello della carcerizzazione non investito dalle misure alternative. Ebbene, in ragione del vizio storico di legiferare senza preoccuparsi di confrontarsi preliminarmente con i dati di realtà, il legislatore del 1981 ha normativamente tracciato i confini di agibilità delle pene sostitutive in un'area prevalentemente già immunizzata dai pericoli di esito detentivo e per altro in maniera quanto mai confusa e contraddittoria. Qualche illuminante esempio: di regola le pene sostitutive si riferiscono a condannati che possono godere della sospensione condizionale, e non si intende come questi non preferiscano quest'ultima assai meno afflittiva delle prime; ma non solo: le pene sostitutive sono comunque precluse in una serie di ipotesi che rientrano invece nel beneficio della sospensione condizionale della pena.
L'esito pratico di tutto ciò è facilmente immaginabile: le pene sostitutive hanno finito per trovare ridottissima applicazione (v. Palazzo, 1985). Le sanzioni sostitutive si applicano subordinatamente alla presenza di tre condizioni. La prima concerne la pena in concreto irrogata (esattamente un anno, sei mesi e tre mesi a seconda che si tratti di semidetenzione, di libertà controllata ovvero di pena pecuniaria sostitutiva), anche se per effetto della disciplina del concorso dei reati tali limiti sono ampliati fino al triplo. La seconda condizione, di carattere obiettivo, esclude dalla sostituzione le pene riportate per alcuni reati previsti tanto dal Codice penale che dalle leggi speciali. E infine, un'ultima condizione di tipo soggettivo: si fa divieto di sostituzione nei confronti di coloro che siano stati già condannati complessivamente a due anni di reclusione e abbiano commesso il reato nei cinque anni dalla condanna precedente; nei confronti di coloro che siano già stati condannati due volte per i reati della stessa indole ovvero nei confronti di coloro ai quali una precedente pena sostitutiva sia stata convertita; infine nei confronti di chi abbia commesso il reato mentre si trovava sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata o dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale.
b. Le misure alternative
L'introduzione delle prime misure alternative alla detenzione nel nostro sistema sanzionatorio è operata dalla riforma dell'ordinamento penitenziario con la legge 354/75 (v. Di Gennaro e altri, 1998). Nello spirito di questa riforma, le misure alternative sono nella sostanza modalità esecutive della pena detentiva che si svolgono in tutto o in parte in spazi extra-carcerari, ma solo dopo che il condannato abbia sofferto di un periodo - più o meno lungo - di pena propriamente detentiva. Esse non sono pertanto volte a impedire l'inizio dell'esecuzione carceraria, ma solo a modificarne il contenuto una volta che essa si sia protratta per un certo periodo. In questo senso si può quindi parlare di misure alternative allo stato detentivo.
A distanza di circa dieci anni da quella prima riforma, la legge 663/86 modifica profondamente l'ordinamento penitenziario, introducendo alcune ipotesi di misure alternative applicabili al condannato definitivo dallo stato di libertà, cioè senza che si richieda un periodo sia pure breve di esecuzione detentiva. In seguito, per effetto di prassi giurisprudenziali, di sentenze abrogatrici della Corte costituzionale e infine - in un periodo a noi più prossimo - con la legge 165/98 - i percorsi di alternatività allo stato di libertà si sono venuti ulteriormente ampliando fino al punto da determinare un vero e proprio circuito distinto di alternatività.
Oggi, nel nostro sistema penale-penitenziario, sono pertanto ravvisabili due distinti percorsi di alternatività: quello originario, ispirato da una cultura correzionalistica, che disciplina ipotesi di affievolimento dei rigori della pena privativa della libertà attraverso misure più o meno limitative della stessa all'interno di una logica trattamentale; e quello che si è venuto progressivamente imponendo, di misure volte a risparmiare completamente l'esperienza detentiva, in una logica sempre più emancipata dalla cultura correzionalistica e dalle prassi trattamentali, ma più sensibile a ragioni premiali e di deflazione carceraria (v. Presutti, 1986).
Il duplice percorso di alternatività finisce così per rispondere a due distinte logiche di politica criminale: in un caso - attraverso le misure alternative dallo stato di libertà - si risparmia l'esperienza carceraria per i condannati ad una pena medio-breve, compresa - a seconda delle ipotesi - al di sotto dei due o dei quattro anni; nell'altro caso - attraverso i benefici penitenziari dallo stato detentivo - si consente, in una logica di trattamento progressivo, che la parte terminale di pene carcerarie medio-lunghe possa essere in tutto o in parte sofferta al di fuori delle mura del carcere.
Le misure alternative presenti nel nostro ordinamento sono numerose.L'affidamento in prova al servizio sociale è la misura alternativa per eccellenza, (v. Bricola, 1976). Secondo quanto stabilito dalla legge penitenziaria il condannato a pena detentiva non superiore ai tre anni (reclusione e arresto si sommano tra loro) può essere affidato ai servizi sociali in regime di libertà per un periodo uguale a quello della pena ancora da espiare, quando si ritenga che ciò contribuisca alla rieducazione e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.
Come sopra chiarito, il condannato può essere ammesso al regime dell'affidamento in prova - dopo la condanna definitiva - direttamente dallo stato di libertà; ovvero dallo stato detentivo, dopo almeno un mese di detenzione, e comunque - a prescindere dalla pena riportata nella sentenza di condanna - quando la pena in concreto sia inferiore ai tre anni, tenendo conto della pena già espiata nonché dell'applicazione di eventuali cause estintive (v. Della Casa, 1993).
Nel disporre l'affidamento in prova, il Tribunale di sorveglianza determina le prescrizioni che il condannato è tenuto a rispettare e che questi deve sottoscrivere quale condizione di efficacia dell'ordinanza stessa che dispone l'affidamento. Il servizio sociale sarà poi tenuto sia a controllare che ad aiutare l'affidato nel perseguimento del duplice e sovente contraddittorio fine della risocializzazione e della difesa sociale (v. Eusebi, 1993). L'affidamento in prova al servizio sociale è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge e alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova. L'effetto della revoca comporta che la pena da extra-carceraria si converta in detentiva. L'esito positivo del periodo di prova - in pratica ogniqualvolta non sia intervenuto un provvedimento di revoca - estingue la pena e ogni altro effetto penale.Accanto all'affidamento in prova ordinario, esiste quello che la legge definisce 'in casi speciali', vale a dire l'affidamento del tossico e alcoldipendente (v. Corbi, 1986; v. Presutti, 1988).
Si tratta, a ben intendere, di un istituto che solo nominalmente richiama quello esaminato in precedenza, se non altro perché la concessione del beneficio non è subordinata in nessun modo a una valutazione prognostica favorevole di rieducazione. Il provvedimento che concede l'affidamento terapeutico consegue de plano al solo accertamento della sussistenza dei seguenti requisiti: esso si applica per non più di due volte nei confronti dei condannati in cui sia possibile accertare lo stato attuale di tossico o alcoldipendenza - vale a dire che risultino essere tali al momento dell'istanza - e il cui limite di pena - anche con riferimento alla parte terminale di maggiore pena - non superi i quattro anni e che abbiano in corso o intendano sottoporsi a un programma terapeutico concordato con una unità sanitaria locale ovvero con altri enti, pubblici e privati, espressamente indicati dalla legge.La ratio di questa disciplina è di facile comprensione anche se di difficile condivisione in quanto contraddittoria (v. Pavarini, 1991). La scelta di politica criminale operata dal nostro sistema penaleprocessuale e penitenziario si muove in un duplice senso: non rinunciare, da un lato, alla penalizzazione della tossicodipendenza, e dall'altro lato favorire il processo di decarcerizzazione dei condannati tossicodipendenti. L'esperienza - e non solo quella italiana (v. Neppi Modona, 1986) - dimostra come il perseguimento del secondo obiettivo sia impedito al di fuori (peggio: se in opposizione) di una scelta di politica criminale 'abolizionista' o quantomeno 'riduzionista' nei confronti della questione droga. L'esito fallimentare di coniugare criminalizzazione e decarcerizzazione è reso palese da una presenza di circa un terzo di detenuti tossicodipendenti nella popolazione detenuta, la maggiore parte dei quali - tra i definitivi - è in esecuzione di una pena non superiore ai quattro anni e che quindi potrebbe beneficiare dell'affidamento terapeutico, ma che nei fatti non riesce a fruirne perché le strutture pubbliche e private (prevalentemente le comunità terapeutiche) che dovrebbero farsene carico, solo in parte riescono ad assorbire questa particolare clientela.
Attualmente - per effetto della legge 165/98 - nell'ordinamento penitenziario sono previste due distinte ipotesi di detenzione domiciliare. Per quanto abbiano il medesimo contenuto - quello di consentire che il condannato possa espiare l'intera pena o una parte di essa nella sua abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di cura, di assistenza o di accoglienza - diversi sono invece i presupposti e altrettanto diversa è la scelta di politica criminale che ispira le due ipotesi di detenzione domiciliare.
Per finalità di sola deflazione carceraria si prevede la possibilità di applicare il beneficio in oggetto a tutti i condannati a pena detentiva non superiore ai due anni - anche se costituente parte residua di maggiore pena - quando non ricorrano i presupposti per l'affidamento in prova e sempre che tale misura sia ritenuta idonea a evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. In buona sostanza le pene e i residui di pena detentiva inferiori ai due anni si scontano sempre in regime di detenzione domiciliare a meno che il condannato non venga ritenuto socialmente pericoloso e nei soli casi in cui non possa più fruire della sospensione condizionale della pena, avendola per due volte già goduta (v. Comucci, 1999).
A scopi diversi si ispira invece l'altra ipotesi di detenzione domiciliare di cui potranno beneficiare i condannati alla pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggiore pena, purché versino in alcune condizioni tipicizzate in presenza delle quali l'ordinamento ritiene di dovere rinunciare a punire con la pena detentiva (v. Cesaris, 1988). Trattasi di condizioni che segnano il condannato come meritevole di una particolare considerazione umanitaria, riguardando infatti la donna incinta o madre di prole di età inferiore ai dieci anni, con lei convivente; il padre, esercente la potestà, di prole inferiore ai dieci anni con lui convivente, quando la madre sia assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole stessa; la persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiede costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; la persona di età superiore ai sessanta anni, se inabile anche parzialmente, e il minore di anni ventuno, per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.
L'ordinamento penitenziario include la semilibertà tra le misure alternative alla pena detentiva, ma è certo un'inclusione scientificamente impropria. Di alternatività al carcere non si può correttamente parlare, stante che questo beneficio non consente di risparmiare l'esperienza detentiva e pertanto altro non è che una semplice modalità di esecuzione di una pena che resta ancora carceraria, sia pure attenuata perché consente al condannato e internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive e comunque utili al reinserimento sociale (v. Palazzo, 1994).
Mentre per gli internati - cioè coloro che sono in esecuzione di una misura di sicurezza detentiva - l'ammissione al regime della semilibertà può essere disposta in ogni tempo, per i soggetti in espiazione di pena essa può essere concessa nei seguenti casi: a) nei confronti dei condannati all'arresto senza alcun limite di durata (e in questo caso può essere concessa anche prima dell'inizio dell'espiazione della pena detentiva); b) nei confronti dei condannati alla reclusione non superiore ai sei mesi, sola o congiunta alla pena dell'arresto (e pure in questo caso essa può essere concessa dallo stato di libertà); c) nei confronti dei condannati che si trovano nelle condizioni formali per ottenere l'affidamento in prova, quando il Tribunale di sorveglianza non ritenga di dover applicare l'affidamento, ma valuti di poter applicare questa misura certamente meno favorevole al condannato; d) nei confronti dei condannati alla reclusione superiore ai sei mesi, quando abbiano espiato metà della pena; e) infine nei confronti dei condannati all'ergastolo quando abbiano espiato almeno venti anni di pena.Pur diversa nei presupposti, la semilibertà è in tutto simile alla pena sostitutiva della semidetenzione per quanto concerne i contenuti.La collocazione sistematica che l'ordinamento penitenziario attribuisce alla liberazione anticipata non ha alcun riscontro scientifico: essa non è affatto una misura alternativa alla detenzione in quanto si sostanzia in una semplice riduzione del tempo della pena con quel che ne consegue nell'anticipazione dei termini della liberazione ovvero di quelli per potere godere di altri benefici come la liberazione condizionale, l'affidamento, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Se l'anticipazione della liberazione è solo uno degli effetti possibili, meglio sarebbe nominare l'istituto in esame come riduzione di pena (v. Grasso, 1988).
L'ordinamento penitenziario definisce la liberazione anticipata come una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata da concedersi al condannato a pena detentiva - ma deve valere anche per il periodo trascorso in custodia cautelare o in detenzione domiciliare - che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione.
La liberazione condizionale, per quanto sia tuttora disciplinata dal Codice penale e non dalla legge penitenziaria deve considerarsi a tutti gli effetti una misura alternativa, essendo la competenza nella concessione e revoca della stessa passata alla giurisdizione di sorveglianza. Essa è concessa al condannato a pena detentiva che abbia scontato almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflitta, qualora la restante parte non superi i cinque anni; che durante il tempo di esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da fare ritenere sicuro il suo ravvedimento; che abbia adempiuto alle obbligazioni civili, salvo che dimostri l'impossibilità dell'adempimento; e, infine, che non abbia già usufruito del beneficio per la medesima condanna. L'ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato almeno ventisei anni di pena (v. Corso, 1979).
Per quanto la locuzione 'sicuro ravvedimento' esprima una concezione etica della funzione special-preventiva della pena oggi culturalmente improponibile, la natura premiale del beneficio deve essere contemperata da un giudizio sul grado effettivo di risocializzazione conseguito dal soggetto nella fase dell'esecuzione penitenziaria. Quale sia questo grado e come possa distinguersi da quello richiesto per la liberazione anticipata ('partecipazione all'opera di risocializzazione') non è dato con precisione sapere, per quanto dottrina e giurisprudenza di merito si sforzino di indicare soluzioni solo astrattamente condivisibili. Crediamo si debba convenire che il beneficio in oggetto sia subordinato tanto a un giudizio di buona condotta quanto a una prognosi tendenzialmente positiva di non recidività, ma che non può spingersi fino a un giudizio di cessata pericolosità - come lascerebbe a intendere il 'sicuro' ravvedimento - altrimenti non si capirebbe perché il liberato condizionalmente venga poi sottoposto alla libertà vigilata che in quanto misura di sicurezza presuppone appunto un giudizio di pericolosità.
La concessione della liberazione condizionale da parte del Tribunale di sorveglianza produce immediatamente l'effetto di fare cessare lo stato di detenzione cui segue l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata assistita dal servizio sociale per un periodo uguale al tempo di pena ancora da espiare, a meno che non si tratti di ergastolano, nel qual caso la libertà vigilata è di cinque anni a fare corso dalla data del provvedimento di concessione.Solo con l'entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale minorile nel 1988 il nostro ordinamento conosce un istituto assimilabile alla probation, per quanto di una specie particolare, perché non di sospensione della pena con messa alla prova trattasi, ma di una sospensione del processo stesso, e per questa ragione alcuni autori la definiscono come probation processuale (v. Palomba, 1991). Si tratta della sospensione del processo con messa alla prova.Questa misura alternativa viene infatti disposta dal giudice quando ritiene di dovere valutare la personalità del minore all'esito appunto di una prova, nel corso della quale egli viene affidato ai servizi sociali. Il periodo di prova non potrà essere superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni e negli altri casi per un periodo non superiore a un anno.Il contenuto della prova è normativamente poco determinato e rinvia la sua determinazione a un ampio potere discrezionale del giudice: esso può avere il contenuto minimo proprio dell'affidamento in prova per gli adulti, quanto quello più ampio di prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la riconciliazione del minore con la persona offesa dal reato (v. Picotti, 1998). All'accertamento dell'esito positivo della prova, segue la dichiarazione giudiziale di estinzione del reato; se invece l'esito della prova dovesse risultare negativo, il processo riprenderà il suo naturale corso con esiti diversi a seconda che la sospensione sia intervenuta nell'udienza preliminare ovvero nel dibattimento.
La legge 296/93 che disciplina la condizione giuridica dello straniero in Italia, ha introdotta una nuova quanto atipica misura alternativa alla pena detentiva, cioè l'espulsione dello straniero. Infatti nei confronti degli immigrati condannati alla pena della reclusione inferiore ai tre anni, anche se costituente parte residua di maggiore pena, può essere disposta dal giudice dell'esecuzione, a richiesta dello straniero stesso e del suo difensore, l'espulsione nello Stato di appartenenza o provenienza, salvo che esistano inderogabili esigenze processuali ovvero ricorrano gravi ragioni personali di salute o gravi pericoli per la sicurezza e l'incolumità in conseguenza di eventi bellici o di epidemie. Ove l'istanza venga accolta, essa determinerà la sospensione dell'esecuzione della pena per altro a tempo indeterminato, in quanto lo stato detentivo potrà essere ripristinato solo in caso di rientro dello straniero in Italia.
È evidente che ci troviamo di fronte a una misura alternativa che non trova altra giustificazione che non sia quella di favorire il processo di decarcerizzazione, esigenza oggi particolarmente avvertita di fronte alla presenza crescente nei nostri istituti penitenziari di detenuti stranieri.
c. Le misure di sicurezza
La soluzione adottata dal legislatore del 1930 - ideologicamente proposta come compromesso tra Scuola classica e Scuola positiva di diritto penale (v. Rocco, 1930) - fu di accostare al regime delle pene quello delle misure di sicurezza: le prime comminate perché giuste e riservate al delinquente responsabile, le seconde inflitte perché utili a finalità specialpreventive (sia di neutralizzazione che di risocializzazione) e riservate al delinquente pericoloso.
La pena manteneva così apparentemente la sua cristallina purezza di retribuzione, sfuggendo da ogni inquinamento con valutazioni amministrative di difesa sociale. Ma solo apparentemente: l'introduzione di due circuiti sanzionatori distinti non dà conto della disciplina effettiva del 'doppio binario' (v. Musco, 1978), il quale contempla la possibilità di applicare a un medesimo soggetto - vero Giano bifronte, in quanto imputabile e socialmente pericoloso nel contempo (v. Nuvolone, 1976) - tanto la pena che la misura di sicurezza.
L'introduzione delle misure di sicurezza nel Codice penale del 1930 rispondeva a una scelta di politica criminale che, per quanto discutibile, era comprensibile. Accanto al sistema delle pene - ancora fortemente ancorate a un criterio di retribuzione per il fatto e la colpa - le misure di sicurezza dovevano coprire quello spazio di difesa sociale dal delitto lasciato sguarnito dalla pena classica: cioè neutralizzare la pericolosità sociale di determinate tipologie di rei (v. Caraccioli, 1970).
Nell'originaria sistemazione operata da Rocco, pene e misure di sicurezza si giustificavano per finalità differenti: le pene mantenevano una natura squisitamente repressiva, mentre le misure di sicurezza perseguivano finalità di difesa sociale. Da allora, molte cose sono cambiate, al punto che progressivamente tra pene e misure di sicurezza sono venute a mancare le ragioni che all'origine giustificavano quella differenziazione: da un lato, le misure di sicurezza hanno sempre più svelato la loro natura di sanzioni criminali vere e proprie, essendo afflittive se non più delle pene stesse e venendo applicate con criteri da quelle non dissimili; dall'altro lato le pene, orientandosi progressivamente a scopi di prevenzione fino al punto da diventare flessibili in fase di esecuzione su valutazioni di pericolosità, hanno finito per soddisfare le necessità di difesa sociale proprie delle misure di sicurezza.
Per quanto siano venute progressivamente a mancare le ragioni per differenziare le misure di sicurezza dalle pene, rimane che a livello applicativo le misure di sicurezza si qualifichino come relativamente indeterminate nel massimo, mentre le pene lo sono, a livello esecutivo, solo nel minimo. Il Codice penale dispone infatti che le misure di sicurezza non possano essere revocate se le persone a esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose.Il sistema del 'doppio binario' - pene e misure di sicurezza - opera in un duplice regime: a volte esso è alternativo, nel senso che la misura di sicurezza si applica a chi non può essere punito e viceversa, e in ciò offrendo anche oggi una qualche ragionevolezza sistemica; a volte invece agisce cumulativamente nel senso di sottoporre lo stesso reo sia alla pena che alla misura di sicurezza, realizzando quella figura ibrida di delinquente tanto responsabile, e quindi imputabile, che pericoloso, e quindi non imputabile, che appare sempre più una mostruosità scientifica (v. Fornari, 1993).
Perché si possa applicare una misura di sicurezza tassativamente prevista dalla legge, è necessario che sia stato commesso quel fatto previsto dalla legge come reato e che il suo autore sia riconosciuto socialmente pericoloso. La definizione che viene offerta dalla legge penale del concetto di pericolosità si costruisce come elevato rischio di recidività: agli effetti della legge penale è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile e non punibile, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati.Se la pericolosità sociale è il risultato di una prognosi infausta di recidività, essa logicamente non potrebbe mai essere presunta 'in astratto', ma solo con riferimento al singolo reo, previo accertamento 'in concreto' da parte del giudice. Così non è stato fino al 1986. Nel nostro ordinamento penale le ipotesi di presunzione legale di pericolosità - cioè ipotesi in cui era la legge stessa che, in presenza di determinati presupposti, attribuiva la qualifica di persona socialmente pericolosa a determinati rei - erano numerose. Col tempo, alcune di queste presunzioni legali di pericolosità sono state abrogate dalla Corte costituzionale; in seguito con la legge 663/86, esse sono state completamente abolite dal nostro sistema, con il risultato che anche nei casi di originaria presunzione legale di pericolosità, oggi, prima di applicare una qualsiasi misura di sicurezza, il giudice sarà tenuto a procedere all' 'accertamento in concreto' della pericolosità sociale del reo (v. Calabria, 1990).
Con l'abrogazione delle presunzioni legali di pericolosità si è sanata una non più tollerabile aporia del sistema, senza però che con ciò sia stata data soluzione alla crisi in cui versa la categoria stessa della pericolosità sociale. Crisi che rinvia a ragioni diverse: alcune, connesse alla strutturale inidoneità del sistema processuale penale nella valutazione della personalità del reo; altre, che più direttamente contestano la fondazione scientifica di un giudizio che ha l'ambizione di predire il futuro.
Per quanto scientificamente delegittimata, la categoria della pericolosità però sopravvive - ed anzi tende ulteriormente ad espandersi - nei sistemi di giustizia penale contemporanei, in ragione di una logica che sembra ineludibile in una società sempre più complessa e quindi costretta a prevenire il rischio. La questione della crisi del concetto di pericolosità deve quindi essere intesa in un diverso modo, come crisi di quei criteri di positivistica memoria che confidano che alcuni dati di conoscenza personologica dell'autore di un delitto possano essere predittivi di future condotte e che sono in effetti i soli di cui il giudice può avvalersi all'interno del processo penale. Pertanto la 'prognosi criminale' non ha nulla di scientifico, ma si regge unicamente sulle capacità intuitive del giudice, con quanto di arbitrario tutto ciò può determinare (e obiettivamente determina).
Le misure di sicurezza sono personali e patrimoniali.Le misure di sicurezza personali possono essere di natura detentiva (v. Musco, 1978) - quali: la colonia agricola o casa di lavoro; la casa di cura e di custodia; l'ospedale psichiatrico giudiziario e il riformatorio giudiziario - e non detentiva - quali: la libertà vigilata; il divieto di soggiorno; il divieto di frequentare determinati locali pubblici e l'espulsione dello straniero dallo Stato.La distinzione tra colonia agricola e casa di lavoro sarebbe in relazione al tipo di lavoro - agricolo nella prima, artigianale o industriale nella seconda - e l'assegnazione ad una o all'altra misura sarebbe lasciata alla discrezionalità del giudice del fatto o di quello di sorveglianza nel corso dell'esecuzione. In effetti queste distinzioni sono solo nella legge, nella realtà non si sono mai realizzate. Oggi poi, paradosso scandaloso, nella colonia agricola o casa di lavoro non è organizzato alcun lavoro. E solo questo basterebbe per chiudere definitivamente con questa misura, sempre più reperto storico di un passato, per altro poco glorioso (v. De Fazio e Ponti, 1973).
Questa misura di sicurezza è applicata ai soggetti imputabili - e quindi dopo che hanno scontato la pena - e nel contempo ritenuti anche pericolosi, quali i delinquenti abituali, professionali e per tendenza, nonché altri nelle poche ipotesi espressamente indicate dalla legge.
Possono essere sottoposti alla misura della casa di cura e di custodia, se riconosciuti socialmente pericolosi, i condannati per delitto non colposo a una pena diminuita a causa di infermità psichica o di cronica intossicazione da alcol e da sostanze stupefacenti. Ci troviamo di fronte a una misura di sicurezza detentiva appositamente destinata a quella categoria artificiale che è la semimputabilità, che non trova alcun riscontro nella scienza psichiatrica, cioè ai rei afflitti da parziale infermità mentale. In quanto solo parzialmente folli, essi non possono essere prosciolti, ma nel contempo non possono essere solo puniti: pertanto verranno puniti con pena diminuita a cui dovrà fare seguito - se la loro pericolosità verrà giudizialmente accertata - una misura di sicurezza terapeutica.
L'ospedale psichiatrico giudiziario è la principale misura di sicurezza detentiva per i soggetti non imputabili e socialmente pericolosi (v. Manacorda, 1982). In particolare essa si applica agli infermi psichici, agli intossicati cronici da alcol e da stupefacenti e ai sordomuti se ritenuti incapaci di intendere e volere e rei di un delitto doloso punibile in astratto con l'ergastolo o la reclusione superiore ai due anni. La durata del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario è determinata sulla base della gravità del reato commesso: se la pena prevista in astratto per il fatto commesso è l'ergastolo, l'internamento sarà almeno di dieci anni; sarà invece di cinque se la legge prevede la reclusione non inferiore nel minimo a dieci anni; sarà di due anni in tutti gli altri casi.
La misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario solleva numerosi problemi: alcuni di questi concernono la definizione stessa di 'infermità psichica'; altri concernono il rapporto tra infermità psichica ed 'incapacità d'intendere e volere'; altri ancora il rapporto tra infermità psichica e pericolosità sociale. Per quanto diversi, tutti questi nodi problematici rinviano ad un medesimo stato di crisi: quello tra psichiatria e sistema di giustizia penale (v. Bertolino, 1990; v. Selmini, 1998).
In estrema sintesi possiamo così esporre questo stato di crisi: la psichiatria, in un faticoso processo di emancipazione dal ruolo ancillare di strumento di controllo e disciplina sociali a cui l'aveva relegata la tradizione positivistica tardo-ottocentesca e la codificazione penale del 1930, ha negato che la categoria fenomenologica di disturbo psichico possa identificarsi con quella normativa di capacità di intendere e di volere, così come ha negato che lo stato di infermo mentale possa qualificare il soggetto affetto come pericoloso, cioè come portato a recidivare in misura maggiore di chi infermo non è (v. Betti e Pavarini, 1984), essendo empiricamente sempre più evidente che la pericolosità di alcuni pazienti psichiatrici è di natura prevalentemente situazionale, cioè non connessa alla malattia in sé ma alla situazione ambientale e di presa in carico dell'infermo da parte dei servizi psichiatrici (v. De Leonardis, 1985). Per altro il concetto stesso di infermità psichica si è progressivamente evoluto, rendendo sempre più incerto il confine tra nevrosi e psicosi.
A fronte del radicalizzarsi di questa crisi e in sintonia con essa, la stessa rappresentazione sociale del folle come pericoloso è venuta riducendosi, in ragione anche dei progressi nella cura di alcune infermità psichiche e nella possibilità di controllare farmacologicamente i momenti di acutezza della malattia mentale.Il sistema penale ha reagito a questo stato di crisi con alcuni significativi aggiustamenti, non tali però da dare soluzione definitiva e neppure soddisfacente alla crisi stessa. La Corte costituzionale nel 1982 dichiarò illegittima la presunzione legale di pericolosità dell'infermo di mente, riconoscendo che la misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario potesse essere revocata anticipatamente qualora il soggetto risultasse non più pericoloso anche se ancora infermo di mente (v. Vassalli, 1982); in seguito con la legge 663/86, come abbiamo già avuto modo di chiarire, si è avuta l'abrogazione legislativa di tutte le ipotesi di pericolosità presunta, per cui anche nel caso di proscioglimento per infermità psichica, la misura di sicurezza potrà applicarsi solo se la pericolosità verrà giudizialmente accertata.
I problemi però rimangono: la perizia psichiatrica potrà accertare che l'imputato nel momento del fatto si trovava o meno in uno stato di infermità psichica, ma non riuscirà sempre a stabilire se questo stato abbia determinato nel soggetto l'incapacità di intendere e di volere; così come la perizia psichiatrica potrà confermare o meno che l'autore del reato si trova ancora in uno stato di infermità mentale, ma probabilmente si riconoscerà incapace di prevedere se per questa infermità il prosciolto corra o meno un rischio elevato di recidivare. Sempre più il giudice è solo nel decidere se prosciogliere o meno per infermità, e a fronte di un proscioglimento se riconoscere la persistenza di una pericolosità tale da imporre l'internamento in ospedale psichiatrico giudiziario. La drammaticità di questi giudizi - si tenga a mente che il proscioglimento per infermità mentale seguito da un giudizio di non pericolosità sociale comporta che il folle autore anche di un gravissimo delitto non sia sottoponibile per legge ad alcuna forma di trattamento e/o controllo - è ulteriormente aggravata nel nostro ordinamento dall'assenza di qualsiasi risposta custodiale alla follia che non sia appunto il solo internamento in ospedale psichiatrico giudiziario. E, d'altra parte, l'esperienza del manicomio giudiziario è sempre più delegittimata come risposta terapeutica, avendo oramai da tempo svelato la natura di istituzione puramente custodiale.Il ricovero in riformatorio giudiziario può essere applicato per una durata inferiore a un anno sia ai minori degli anni 18 se riconosciuti incapaci di intendere e di volere sia ai minori imputabili di età compresa tra i 14 e i 18 anni dopo l'espiazione della pena inflitta se giudicati socialmente pericolosi; il nuovo Codice processuale penale minorile del 1988 limita poi la possibilità di applicare questa misura di sicurezza ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni, e dispone che l'esecuzione della misura del riformatorio giudiziario sia attuata nella forma del collocamento in comunità. È interessante sottolineare che il giudizio di pericolosità sociale del minore non imputabile deve sottostare a criteri particolari e assai restrittivi, tali da rendere questa misura eccezionale e nella prassi giudiziaria oramai inapplicata.
La libertà vigilata e assistita consiste in una limitazione della libertà personale attraverso un complesso di prescrizioni a contenuto sia positivo che negativo finalizzate a impedire che il soggetto possa compiere nuovi reati e nel contempo sia facilitato il suo reinserimento sociale.Il divieto di soggiornare in uno o più comuni o in una o più province designati può applicarsi facoltativamente - per una durata minima di un anno - al colpevole di un delitto contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico ovvero per un delitto commesso per motivi politici, sempre che sia accertata giudizialmente la sua pericolosità sociale.Il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche è disposto per una durata minima di un anno e si applica nei confronti dei condannati per la contravvenzione di ubriachezza abituale e ai condannati per i delitti o contravvenzioni commessi in stato di ubriachezza qualora questa sia abituale.
L'espulsione dello straniero dallo Stato può essere disposta nei confronti dello straniero - ove sia giudicato socialmente pericoloso - in caso di condanna a pena detentiva non inferiore a dieci anni ovvero per qualsiasi condanna per un delitto contro la personalità dello Stato. La misura viene eseguita dopo che la pena detentiva sia stata espiata e quindi questa misura non deve essere in alcun modo confusa vuoi con la misura alternativa dell'espulsione dello straniero, in precedenza già esaminata, vuoi con l'istituto dell'espulsione in via amministrativa che appunto spetta all'autorità di pubblica sicurezza.Tra le misura di sicurezza di natura patrimoniale la più importante è la confisca. Attraverso di essa lo Stato espropria le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato ovvero ne rappresentano il prodotto o il profitto. È stata ripetutamente contestata alla confisca la natura di misura di sicurezza, in quanto essa non si fonda in alcun modo sulla pericolosità del soggetto; il suo fondamento parrebbe essere la pericolosità della cosa, se mai fosse possibile qualificare una res come fornita dell'attitudine di produrre danno e quindi di per sé avvertita come pericolosa. È comprensibile pertanto come la confisca sia stata da alcuni qualificata come vera e propria pena sui generis ovvero come pena accessoria (v. Massa, 1961).
Il problema della natura giuridica della confisca in effetti poco rileva da un punto di vista pratico e comunque essa non potrebbe più essere ricostruita sulle sole ipotesi previste originariamente dal codice. Questa modalità di sanzionare ulteriormente alcuni illeciti penali ha nel tempo incontrato il favore del legislatore, che progressivamente ha esteso i casi di obbligatorietà nell'applicazione dell'istituto, ampliando ulteriormente la gamma dei beni confiscabili e sovente negando anche la necessità di un qualche rapporto tra essi e il reato commesso. A complicare ulteriormente il problema della natura di questo istituto, va ricordato che la confisca è pure una misura patrimoniale di prevenzione ante delictum. Ne risulta pertanto che la confisca nel nostro ordinamento ha una dimensione polivalente, a volte pena accessoria, altre volte misura di prevenzione e altre ancora misura di sicurezza.
d. Le sanzioni civili
Dal reato possono derivare anche conseguenze civili. Alcune di queste sono previste da particolari disposizioni del Codice civile, ma quelle di carattere generale sono invece disciplinate dal Codice penale.
Le ipotesi in cui il reato può dare origine a un illecito civile sono due: quando l'illecito penale produce anche un danno ingiusto, ovvero quando dal reato derivano conseguenze dannose a carico di soggetti, danneggiati, diversi dalla vittima, soggetto passivo o persona offesa (v. Fondaroli, 1999). Si pensi, per questa seconda ipotesi, al delitto di omicidio, in cui i danneggiati saranno i parenti della persona offesa.Questa doppia qualificazione del medesimo fatto - come reato e come illecito civile - risponde ad autonome ragioni, per cui l'estinzione del reato o della pena non importa l'estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato (v. Romano, 1993). Le obbligazioni civili derivanti da reato previste dal Codice penale sono: le restituzioni; il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale; l'obbligo del rimborso delle spese per il mantenimento del condannato; l'obbligazione civile per l'ammenda e quella per la multa; la pubblicazione della sentenza di condanna a spese del colpevole. Altre - come ad esempio l'indegnità a succedere e la revoca della donazione - sono disciplinate dal Codice civile.Per l'adempimento delle obbligazioni civili nascenti da reato sono previste una serie di garanzie, quali il sequestro conservativo penale, la cauzione, l'azione revocatoria per gli atti fraudolenti compiuti anteriormente e posteriormente al reato, nonché il prelievo sulla rimunerazione corrisposta ai condannati per il loro lavoro.
(V. anche Pena).
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