EMISSIONE, Istituto di
Gli istituti di emissione sono banche speciali (v. banca) che emettono biglietti cui lo stato normalmente riconosce, salvo patto in contrario, potere liberatorio nell'adempimento delle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sia essa dovuta a privati o allo stato.
La massa dei biglietti di banca in circolazione non è normalmente garantita da una equivalente massa di moneta metallica giacente presso l'istituto emittente. Se la massa dei biglietti in circolazione rappresentasse esattamente la quantità di moneta depositata nelle casse delle banche di emissione e ivi realmente esistente, il biglietto non sarebbe che un certificato di deposito, mentre esso rappresenta di solito una quantità di moneta proporzionalmente maggiore. Come misura di valore e come mezzo di scambio il biglietto è assimilabile ordinariamente alla moneta e come questa è utile per facilitare gli scambî e le vendite. "I vantaggi di questa circolazione - disse Pellegrino Rossi nel suo rapporto alla Camera dei pari il 22 giugno 1840 - sono più notevoli di quelli che risultano dall'emissione di biglietti garantiti dal deposito di valori metallici equivalenti. I produttori possono realizzare immediatamente il valore dei loro prodotti e ricominciare senza indugio una nuova produzione. Aiutati dal credito della banca essi fanno un nuovo e pronto impiego del loro capitali, moltiplicano i loro profitti e accrescono più rapidamente la ricchezza nazionale. Non vi è in ciò né prodigio né mistero. Emettendo i biglietti la banca ha reso un servizio, ma niente ha aggiunto al capitale materiale; un biglietto non è che un pezzo di carta, una promessa non è una cosa; lo strumento della produzione non è affatto accresciuto. Che cosa è dunque avvenuto? Un solo fatto: a un debitore poco conosciuto s'è sostituito un debitore che tutti conoscono e che tutti accettano. È qui tutto il vantaggio".
Monopolio e libertà di emissione. - L'emissione dei biglietti è assoggettata a controlli e regolamenti speciali da parte dello stato per la grande influenza che esercita questo titolo, accettato dal pubblico come normale mezzo di scambio, sull'attività economica e sui prezzi. Della natura di questa operazione discussero gli economisti della prima metà del sec. XIX: i seguaci del banking principle (scuola bancaria), appoggiandosi all'autorità di A. Smith, sostenevano la piena libertà d'emissione; i seguaci del currency principle (scuola metallica), con lord Overstone e D. Ricardo, sostenevano la necessità d'un vigile controllo dello stato sull'emissione.
Il banking principle considera il biglietto di banca un comune titolo di credito che, se emesso in quantità eccessiva rispetto ai bisogni del mercato, viene riportato dai possessori agli sportelli della banca per ottenerne in cambio moneta metallica. "La quantità di carta fiduciaria che può circolare in un paese - scrive a questo proposito Adamo Smith - non può eccedere il valore dell'oro e dell'argento che rappresenta o che (supponendo eguale il movimento degli affari) circolerebbe, se non vi fossero stati biglietti. Quando i biglietti eccedessero tale quantità, l'eccesso non potendo essere mandato all'estero né impiegato nella circolazione del paese, dovrebbe ritornare immediatamente alle banche per essere cambiato con oro o argento". Dunque è dannoso porre dei limiti artificiali all'emissione dei biglietti che dovrebbe invece essere, indipendentemente da ogni riserva, il mezzo normale per accrescere il capitale, per abbassare il tasso d'interesse, per facilitare con i prestiti le condizioni dell'industria e del commercio. L'errore fondamentale della scuola bancaria è di non ammettere alcuna relazione di dipendenza tra la massa dei biglietti di banca e la massa di moneta metallica che essa rappresenta. Il credito permette di restringere e di limitare l'uso effettivo del denaro metallico nelle transazioni commerciali, ma è sempre questo infine il comune denominatore del valore, e la base dell'intero sistema del credito.
Il currency principle, afferma la differenza sostanziale tra moneta metallica e biglietto. La moneta ha un valore intrinseco di mercanzia mentre il biglietto non è che una promessa di pagamento; perché il biglietto rappresenti un valore dev'essere emesso in rapporto strettamente quantitativo con la riserva metallica corrispondente. "La moneta metallica - scrive David Ricardo - è nel suo stato più perfetto quando essa si compone solo di carta, ma di una carta il cui valore è uguale a tutta la somma d'oro che essa rappresenta". L'emissione non può essere arbitraria, ma deve essere manovrata col massimo discernimento. Ciò giustifica il più severo controllo dello stato. Il banking principle e il currency principle rappresentano due posizioni estreme, nella pratica ugualmente dannose.
L'emissione deve essere regolata con una certa elasticità, come la scuola bancaria sostiene, per adeguarsi alle necessità del commereio, ma non può essere arbitraria né totalmente indipendente dalla riserva metallica che garantisce la massa dei biglietti. L'emissione dei biglietti in soprannumero porta infatti inevitabilmente alla dichiarazione del corso forzoso e all'inflazione. La svalutazione della moneta cartacea fa tesoreggiare o esportare la moneta metallica. La Francia specialmente ha fatto diretta e tristissima esperienza a questo riguardo: i titoli del Law e gli assegnati della Rivoluzione sconvolsero il suo equilibrio economico e finanziario. L'accrescimento di numerario, in regime d'inconvertibilità, è un'emissione artificiale, in quanto all'aumento di circolante non corrisponde un aumento della ricchezza del paese. Estremista è anche il sistema rigidamente quantitativo del currency principle, applicato in Inghilterra con l'atto di Robert Peel nel 1844. Questo sistema dà la massima garanzia ai biglietti di banca, ma li riduce praticamente alla primitiva forma di certificati di moneta e toglie alla circolazione fiduciaria la più grande utilità, cioè di ridurre al minimo nella circolazione l'intervento del metallo e di regolare la quantità di moneta circolante in relazione ai bisogni delle transazioni commerciali.
Sistemi bancarî. - Quattro sono i sistemi che regolano l'emissione dei biglietti di banca: 1. l'emissione è monopolio d'un solo istituto di credito privato (appartengono a questo tipo la Banca d'Italia, la Banca d'Inghilterra, la Banca di Francia, la Reichsbank, la Banca Belga, la Banca di Spagna, la Banca nazionale svizzera, ecc.); 2. l'emissione è monopolio di un istituto fondato con capitali dello stato e diretto dallo stato (appartiene a questo tipo la Banca svedese); 3. il privilegio di emissione è ristretto a un numero determinato di banche che soddisfano a determinate condizioni (sistema italiano prima della legge 6 maggio 1926); 4. il diritto di emissione può essere libero purché siano offerte certe garanzie (sistema americano) prima dell'attuazione del Federal Reserve System (16 novembre 1914). Questi quattro sistemi si riducono sostanzialmente a tre tipi: regime di monopolio (dello stato o di una banca privata); regime di pluralità tra banche in concorrenza fra loro e regime misto con una grande banca centrale e altre banche minori dipendenti. Il sistema di monopolio di stato è respinto concordemente dagli economisti come il più pericoloso poiché l'emissione, viene in tal caso asservita agl'interessi dello stato con pochissima garanzia per le economie private.
Il sistema più accreditato e che si va estendendo in quasi tutti i paesi, è quello del monopolio di emissione concesso a un'unica banca privata, indipendente come istituto bancario ma sotto il controllo dello stato. La banca unica di emissione desta maggiore fiducia nel pubblico, per l'uniformità dei biglietti. Essa ha veramente nelle sue mani il dominio della circolazione e del credito: può espandere la circolazione quando le condizioni del commercio lo esigano, e può contrarla frenando la speculazione, arrestando le intraprese pericolose, regolando in genere il movimento del mercato al delinearsi della minaccia d'una crisi economica. La banca unica di emissione avverte per prima i sintomi degli sconvolgimenti economici. Nei momenti di crisi essa è esposta a una maggiore affluenza di biglietti ai suoi sportelli per la conversione in oro e nello stesso tempo è esposta ad un aumento della domanda di credito, poiché i debitori non possono procurarsi l'oro necessario per i pagamenti internazionali. La banca di emissione ha una potentissima leva per agire in momenti di crisi sul mercato monetario nazionale: il rialzo del tasso di sconto. Questa manovra riduce subito la domanda di credito, perché il prezzo del denaro è aumentato, e riduce quindi l'uscita di numerario dalla cassa della banca. Nello stesso tempo le riserve della banca tendono a crescere poiché i capitali nazionali ed esteri vi affluiscono attirati dall'alto tasso di sconto. Infine il rialzo dello sconto agisce come freno per l'importazione mentre incoraggia l'esportazione, vale a dire richiama l'oro nel paese. La banca unica di emissione può esercitare, per la sua posizione privilegiata, una notevole influenza sui cambî: essa impiega parte della riserva nell'acquisto di valuta estera per soddisfare le richieste di mezzi per i pagamenti all'estero da parte del commercio e impedisce così le violente oscillazioni dei cambî.
Meno efficace si è dimostrato il sistema della pluralità delle banche di emissione. Questo sistema toglie agl'istituti di emissione il dominio della circolazione e del credito nazionale. I varî istituti infatti, in concorrenza tra loro, emettono biglietti sempre sovrabbondanti, fanno condizioni di sconto non corrispondenti al bisogno del mercato, promuovono intraprese imprudenti o di dubbia utilità per l'economia del paese. La manovra dello sconto sfugge alle banche e anche il dominio e l'influenza sui cambî.
Una via di mezzo tra il sistema monopolistico e il sistema della pluralità è il sistema detto misto, in cui vi è una banca centrale, che ha nelle sue mani la forza economica del paese, e delle banche minori che esercitano un'azione locale. Ma anche in questo sistema è impossibile evitare la concorrenza tra la banca centrale e le piccole banche che cercano di sottrarsi alla sua influenza. L'esperienza ha dimostrato il sistema del monopolio di emissione concesso a un'unica banca, oggi, come il più utile all'economia del paese. Storicamente infatti bisogna rilevare una tendenza netta in tutti i paesi dalla pluralità all'unità degl'istituti di emissione. L'evoluzione si sviluppa in questo senso. L'istituto di emissione unico nel sistema finanziario moderno, sta al vertice dell'organizzazione piramidale del credito ed è ad esso che tutte le banche si appoggiano nei momenti di crisi: esso funziona da banca delle banche.
Limite di emissione. - La fiducia che il biglietto di banca riscuote riposa sulla sua convertibilità in specie metallica. Per assicurarne la convertibilità è necessario reprimere gli abusi di emissione e fissare a questa un limite. La facoltà di emissione è regolata con sistemi diversi dalle varie legislazioni: 1. col sistema della riserva parziale: l'ammontare dei biglietti deve corrispondere all'ammontare della riserva metallica, eccettuato un margine fisso di emissione totalmente scoperto (legge inglese del 1844, legge tedesca del 1924, legge svizzera del 1921); 2. col sistema della riserva proporzionale: il totale dell'emissione deve essere sempre in proporzione fissa con la riserva: il limite si può superare temporaneamente solo a condizioni tributarie molto gravose (sistema italiano e sistema francese dalla legge 26 giugno 1928); 3. col fissare un massimo di emissione senza prescrizione di riserva (sistema francese fino alla legge 26 giugno 1928); 4. con una riserva costituita da titoli depositati nelle casse del tesoro per un valore eguale a quello dei biglietti emessi (sistema vigente negli Stati Uniti fino all'emendamento del 21 giugno 1917 che ha introdotto il sistema della riserva proporzionale).
Il sistema più comune è quello della riserva proporzionale. La proporzione viene fissata di solito al terzo dell'emissione (regola del terzo). Questa regola è però assolutamente empirica; sarebbe preferibile che la riserva si adeguasse alle circostanze: essa dovrebbe essere in proporzione maggiore nei paesi che hanno moneta tipo in argento, cioè in metallo meno apprezzato, nei paesi che hanno un esteso commercio internazionale e sono perciò più esposti a domande di metatallo per pagamenti all'estero. In questo caso specifico è consigliabile che parte della riserva sia in valuta estera o investita in buone cambiali estere pagabili in oro da offrire agli esportatori per i loro bisogni senza pesare molto sul capitale metallico nazionale. Dovrebbe essere maggiore anche in vista di certe situazioni politiche, p. es., pericolo di guerra, perché le alte riserve rendono meno pericoloso l'inevitabile corso forzoso.
È stato anche sostenuto e attuato il sistema di tenere parte delle riserve sotto forma di titoli di credito, di obbligazioni di società di fondi pubblici, ecc. Questo sistema ha difetti evidenti, specialmente se si guarda allo scopo della riserva che è costituita per garantire la convertibilità dei biglietti di banca in moneta metallica. Per pagare in metallo, la banca deve cambiare i titoli e, se è costretta a venderli in momenti in cui essi sono deprezzati sul mercato, è esposta al rischio di subire gravi perdite.
Alcune legislazioni hanno preferito il sistema di fissare un limite massimo all'emissione. In questo modo si toglie ogni elasticità alla circolazione dei biglietti mentre in ciò è la sua maggiore utilità. È difficile, anzi impossibile nella pratica, fissare un limite che corrisponda alle variabili esigenze del mercato.
Storia degli istituti di emissione. - L'origine dei biglietti di banca. - Le banche di emissione, che, nella loro forma moderata, non risalgono oltre gli ultimi decennî del sec. XVII, si possono tuttavia riconnettere ai preesistenti banchi privati e pubblici di deposito e giro, per una almeno delle funzioni di questi, che ha carattere schiettamente monetario. La funzione infatti del banchiere, sia nelle maggiori città mercantili, sia nelle grandi fiere. dal sec. XIII in poi, e forse anche prima, non è soltanto quella di agevolare i pagamenti di piazza con semplici trasferimenti di somme da un conto all'altro dei suoi correntisti, oppure i pagamenti a distanza con la accettazione e compensazione delle lettere di cambio, ma anche quella di liberare il commercio, soprattutto internazionale, dai rischi e dalle incertezze derivanti dall'estrema varietà e dalla continua mutabilità delle monete, creando il cosiddetto denaro di banco, rappresentante un'unità di misura, relativamente costante e uniforme, ragguagliata alle monete più apprezzate e accolta con fiducia nelle contrattazioni. Non si emette effettivamente una nuova moneta: il denaro di banco è una semplice unità contabile che si adotta nelle registrazioni dei conti correnti, ma l'uso sempre più frequente che se ne fa dopo il sec. XIV, e che dalla pratica contabile si estende ai contratti fra privati, costituisce un primo passo verso la creazione del biglietto di banca. Se non è finora documentato e non è forse probabile che i vecchi banchi di deposito e giro si valessero di questa loro moneta di conto come mezzo effettivo di circolazione, è in ogni caso indubitato che i pagamenti in banco e il denaro di banco acquistano, specialmente nel sec. XVI, un'importanza decisiva nella circolazione monetaria, tanto da indurre gli stati a intervenire per monopolizzarne e disciplinarne il funzionamento.
Tra i numerosi banchi pubblici, sorti per ciò tra la fine del '500 e i primi del'600, il più importante, anche da questo punto di vista è il Banco dei cambî di Amsterdam (1609), che, favorito dalla disposizione, per cui i pagamenti di una certa entità dovevano essere accettati in moneta di banco, riuscì presto ad ammassare una fortissima riserva metallica, costituita da depositi gratuiti di cittadini e stranieri. La fiducia, che si guadagnò presso i depositanti, si rifletté sulla sua moneta, conservatasi immune da forti oscillazioni e indipendente dalle variazioni arbitrarie delle monete interne.
Questa moneta conservò anch'essa la forma d'una semplice accreditazione sui registri della banca; ma in sostanza essa esercitò la funzione delle banconote; e col suo valore costante e universalmente noto rese un servizio prezioso al commercio di Amsterdam. Non diversamente da Amsterdam, anche nella Banca di Amburgo (1619) i mercanti depositavano le monete più quotate (talleri imperiali) e la banca si assumeva quasi completamente il servizio dei grossi pagamenti di piazza. Il "marco di banco" diventò la moneta del grande commercio di Amburgo, in contrapposizione al "marco comune" soggetto a fortissime oscillazioni. Più tardi, quando il piede del tallero imperiale fu gravemente peggiorato, la banca non accettò in deposito che verghe d'argento d'un titolo determinato, dando così sempre più nettamente ai depositi il carattere d'una riserva metallica, a garanzia della moneta di banco.
Ma il passo decisivo verso la creazione del moderno biglietto di banca si compì, per quanto almeno ci è noto finora, in Inghilterra nel corso del sec. XVII. Gli orefici, i quali avevano assunto le funzioni di banchieri e che dapprima, sull'esempio dei banchieri privati del continente, si limitavano a rilasciare ai depositanti un biglietto (Goldsmith notes) indicante la somma del loro credito, cominciarono nel Seicento a rilasciare loro, in luogo d'una sola quietanza complessiva, parecchi biglietti per importi minori, la somma dei quali corrispondeva al credito del depositante, e di cui questi poteva giovarsi per i suoi pagamenti non solo ad altri clienti dell'orefice banchiere, ma anche a persone che non avevano presso di lui un conto corrente. Il nuovo strumento della circolazione ottenne presto una tale fortuna e raggiunse tali proporzioni (i biglietti emessi da un solo orefice raggiungevano, nel 1666, la somma cospicua di 1.200.000 sterline) da indurre i banchieri a valersene come di un vero e proprio mezzo di pagamento, indipendentemente dai depositi esistenti nelle loro casse; in modo che esso dovette perdere, almeno in molti casi, il primitivo carattere dell'assegno bancario, per assumere quello del biglietto di banca, di cui i depositi, in valuta metallica, costituivano ormai una semplice riserva di garanzia (v. biglietto di banca).
La Banca d'Inghilterra. - L'abuso di questo sistema, aggravato dalle continue richieste di anticipazioni da parte della Corona, e d'altra parte la necessità urgente d'un istituto che potesse sovvenire l'erario nelle sue frequenti deficienze di cassa, condussero all'istituzione di una banca pubblica, che assunse in Inghilterra forme e funzioni diverse dai preesistenti banchi di stato del continente. È stata, con buoni argomenti, rivendicata alla Svezia la priorità nell'istituzione di una banca nazionale con diritto di emissivne, sorta a Stoccolma fin dal 1656; e non è escluso che nuove ricerche possano, per altri paesi, portare anche più addietro la data di tali istituzioni. Ma tutto ciò non può togliere all'Inghilterra il vanto di aver creato e fatto prosperare un sistema bancario il quale, col suo sviluppo fra il 1694 e il 1844, servì di modello agli altri grandi stati del mondo.
Anche in Inghilterra, come nelle grandi città mercantili del continente, il bisogno d'una banca pubblica, s'era fatto sentire in seguito al crollo dei banchi privati, ma il motivo determinante della sua costituzione, per cui essa trova un precedente solo nel Banco genovese di S. Giorgio, fu un'urgente necessità finanziaria dello stato, impegnato nella guerra contro la Francia. Fu appunto per questa necessità urgente che le discussioni sulla creazione di una banca pubblica, protrattesi per più di 20 anni, si chiusero nell'aprile del 1694 con l'accoglimento da parte del Parlamento del piano del Patterton e la votazione del bill, che fu formalmente un'ordinaria legge finanziaria, ma sostanzialmente l'atto di fondazione del grande istituto, poiché garantì a coloro che anticipassero al governo, sui proventi d'una nuova imposizione, la somma di 1.200.000 sterline, il privilegio di poter istituire una banca.
La Banca d'Inghilterra si differenzia, fino dalla sua origine, dalle grandi banche del continente anzitutto per il fatto che essa non è un ente statale ma un istituto privato, creato, in virtù di un privilegio, da una società anonima (The Governor and Company of the Bank of England), costituita di creditori dello stato, con un capitale proprio, rappresentato appunto dal loro credito. La banca è autorizzata a compiere un numero limitatissimo di operazioni attive, a brevissima scadenza e con garanzia sicura, per lo più rappresentata da pegno. Ma dato il concetto allora prevalente che i depositi non potessero essere impiegati in affari di credito, i soli interessi, all'8%, del capitale erano assolutamente insufficienti anche per un'attività così limitata. A questa insufficienza si pose riparo col diritto di emissione concesso alla banca fino all'ammontare del suo capitale. Il diritto in sé stesso non doveva apparire una novità, dato che la banca emise soltanto delle fedi di deposito all'ordine, non diversamente da quello che facevano da lungo tempo gli orefici-banchieri. La differenza invece è reale e profonda in quanto le fedi di deposito degli orefici, come la moneta di banco del continente, avevano sempre, o almeno dovevano avere, la loro intera copertura in un corrispondente deposito di valuta metallica; mentre i titoli emessi dalla Banca d'Inghilterra sono coperti soltanto da un credito verso lo stato, e rappresentano quindi il primo esempio d'un aumento effettivo della circolazione ottenuto con l'emissione d'una moneta fiduciaria. La differenza si fece poi anche più profonda nel 1697, quando le fedi di deposito all'ordine furono trasformate in titoli al portatore, cioè in veri e proprî biglietti di banca. Nei primi anni essi se ne distaccano ancora perché non sono pagabili a vista, ma nella sola misura di un decimo per giorno e fruttano un piccolo interesse. Ma anche queste ultime differenze scompaiono prestissimo, e fin dai primi del sec. XVIII il biglietto di banca circola dovunque come mezzo ordinario di pagamento. A mano a mano poi che crescono i bisogni dello stato e le sue richieste di anticipazioni, aumenta anche l'emissione dei biglietti. Questo legame della banca allo stato, questa sua funzione di tesoriere dello stato, avrebbe potuto costituire per essa un pericolo mortale, se l'azione dei suoi dirigenti e del governo stesso non fosse stata vigilata e guidata dall'opinione dominante nella ricca borghesia mercantile, allora in pieno sviluppo, per la quale una sana circolazione monetaria rappresentava una condizione indispensabile di vita. Perciò la circolazione della Banca d'Inghilterra non si sviluppa che assai lentamente, sia per ciò che riguarda la somma dei biglietti emessi, che raggiunge dopo più d'un secolo un massimo di 14 milioni di sterline, sia per il loro taglio che fino alla metà del sec. XVIII non è mai al disotto delle 20 sterline, e solo nel 1759 scende a 10 sterline.
Assai più presto che in Inghilterra le banconote furono trasformate in un mezzo universale di pagamento dalla Banca di Scozia (1695) e poi dalle altre banche scozzesi, che arrivarono a emettere biglietti da uno scellino e anche da un penny, finché una legge del 1765 vietò di emetterne al disotto di una lira sterlina.
Nell'Inghilterra e nel paese di Galles la Banca d'Inghilterra ottenne, con le leggi del 1697 e del 1708, una posizione privilegiata, nel senso che la prima di quelle leggi vietava l'istituzione d'ogni altra banca esercitata da una società per azioni; la seconda specificava anche meglio che nessuna società di più che sei membri potesse emettere biglietti pagabili a vista a un termine inferiore ai sei mesi.
Potevano dunque sussistere, accanto alla banca privilegiata, le sole banche (e con questa parola s'intendevano allora soltanto le banche di emissione) esercitate da singoli privati o da società in nome collettivo e in accomandita; ma esse si trovavano necessariamente in condizioni d'inferiorità di fronte alla Banca d'Inghilterra, poiché soltanto i soci di questa erano responsabili entro i limiti della loro quota sociale. Ma l'esclusione d'ogni altra banca per azioni non equivaleva a un monopolio assoluto; ché anzi con l'intensificarsi rapidissimo dello sviluppo economico nella seconda metà del sec. XVIII, e con l'aumentato bisogno di medio circolante sorgono a poco a poco, accanto alla Banca d'Inghilterra, molte piccole banche private, che esercitano con successo l'emissione di banconote, coperte almeno parzialmente da depositi e garantite dalla responsabilità illimitata del banchiere. Nel 1776 si calcolava che ve ne fossero 176; nel 1790 esse erano salite a 350. Ma a due anni soltanto da questa massima espansione, le piccole banche private di emissione mostrano la loro incapacità a superare una grave crisi, e nel 1793 un centinaio di esse deve cedere il campo di fronte alla sfiducia del pubblico.
Ben più resistente si palesa la Banca d'Inghilterra, sebbene anch'essa senta il contraccolpo del lungo duello anglo-francese. Nel 1797, in seguito alle fortissime anticipazioni fatte al governo (sopra un attivo di 17.924.000 sterline, 11.714.000 erano rappresentate da crediti verso lo stato), la banca dovette sospendere i pagamenti in contanti, ottenendo anche la revoca della restrizione all'emissione di biglietti di piccolo taglio. In ogni modo, dopo quel momento critico, il credito della banca si mantenne intatto e i suoi biglietti erano universalmente accettati senza che si fosse dovuto decretare il corso forzoso. Soltanto verso la fine delle guerre napoleoniche l'aggio dell'oro salì a un massimo del 25%, e appunto in vista di quella situazione eccezionale la Camera dei comuni promosse la famosa inchiesta, chiusa nel 1810 col notissimo Bullion Report. Ma, a guerra finita, la banca poté sanare rapidamente le sue ferite, in modo da riprendere nel 1821 i pagamenti in contanti, mentre invece le piccole banche, risorte in grande numero durante il conflitto, non resistettero al precipizio dei prezzi, e 240 di esse dovettero sospendere i pagamenti.
Agli alti e bassi determinati dalla guerra ventennale successe, dopo il 1815, l'alternarsi di periodi di espansione e di crisi, che caratterizzano il rapido sviluppo della grande industria fino al trionfo del libero scambio. E anche la banca ne risentì il contraccolpo, particolarmente grave nelle due crisi del 1825 e del 1839, quando la riserva metallica si esaurì in tal modo da rappresentare anche meno di un ventesimo della circolazione cartacea (al 31 dicembre 1825, appena un milione di sterline di riserva di fronte a una circolazione di quasi 26 milioni). Il pericolo del rinnovarsi periodico di una tale situazione determinò il trionfo, dopo lunghe discussioni, dell'idea che fosse necessario sottoporre l'emissione alla disciplina statale, e separare nettamente questa attività da tutti gli altri affari di banca. Perciò con le famose leggi Peel del 19 luglio 1844 fu creato il dipartimento dell'emissione della Banca d'Inghilterra, e fu determinato che, per una somma di 14 milioni di sterline, la circolazione potesse essere garantita da crediti verso lo stato o da altri titoli sicuri: oltre quella somma la circolazione doveva essere integralmente coperta da oro, o anche, per non più di un terzo, da argento. Le altre banche di emissione dell'Inghilterra e del Paese di Galles potevano mantenere la loro circolazione entro i limiti raggiunti alla vigilia dell'approvazione della legge, oppure accordarsi con la Banca d'Inghilterra per rinunciare al loro diritto di emissione. All'infuori di esse questo diritto non avrebbe più potuto essere riconosciuto ad alcun'altra banca.
Le leggi del 1844 costituirono la definitiva carta costituzionale della Banca d'Inghilterra, che se ne valse per diventare in breve tempo l'unico istituto di emissione del regno e il supremo regolatore della circolazione, non tanto con l'ammassare forti riserve metalliche, che però si mantennero sempre più alte dei livelli minimi del '25 e del '39, quanto col variare il tasso di sconto e disciplinare in tal modo la domanda e l'offerta di credito. Oltre a questa, che è certo la sua funzione principale, la Banca d'Inghilterra seguita a esercitare le funzioni di tesoriere dello stato e, di fronte alle banche di depositi e prestiti, che vanno sorgendo numerose e potenti dopo il quarto decennio del secolo, essa assume sempre più nettamente la funzione di banca centrale, di banca delle banche, presso la quale ciascuna delle banche ordinarie tiene il suo conto corrente.
3. Le banche di emissione del contineme europeo. - Negli stati del continente la costituzione definitiva e duratura delle banche di emissione non avvenne che un secolo più tardi dell'Inghilterra. Non mancarono i tentativi di costituirne nel secolo XVIII; ma mentre nelle grandi città mercantili autonome, come Amsterdam, Amburgo, Genova e Venezia, le vecchie banche pubbliche di deposito e giro bastavano ancora ai bisogni del commercio di piazza, nei maggiori stati nazionali gl'interessi della corte e dell'aristocrazia dominante, non essendo frenati, come in Inghilterra, da una borghesia mercantile ormai cosciente del proprio interesse generale, indussero presto i governi a valersi della banca di emissione come di una fabbrica di carta-moneta per far fronte ai bisogni di ogni genere: così avvenne in Francia per la famosa banca del Law, che, fondata nel 1716, fu tratta a rapida e clamorosa rovina, non solo dall'errore di aver voluto legare la fortuna d'un istituto di emissione a quella d'una grande impresa commerciale e coloniale, ma anche, e forse più, dalle esagerate richieste della monarchia e della corte, per cui, in meno di tre anni, l'emissione salì a quasi un miliardo di lire. Così la banca di Stoccolma, risalente, come si è detto, al 1656, già nel 1726 non cambiò più la sua carta che in rame, e fu autorizzata nel 1745 a sospendere completamente il cambio dei biglietti. Non diverse furono le sorti della cosiddetta Courant Bank di Danimarca e Norvegia, che, fondata nel 1736, dovette anch'essa salvarsi nel 1757 con l'imposizione del corso forzoso; dell'Assignacionnyj Bank, fondata nel 1768 da Caterina II a Pietroburgo e Mosca, che, dopo il 1800, deve lasciare precipitare il corso dei suoi rubli di carta a meno della metà del loro valore. Anche peggiori furono le condizioni della Wiener Stadtbank, che ottenne nel 1762 il diritto di emissione, ma che durante le guerre napoleoniche, assillata dalle necessità delle finanze statali, aumentò in tal misura la circolazione, che la sua carta perse il 1200% sull'oro.
Era quindi ben naturale che si diffondesse in tutti gli stati dell'Europa continentale una diffidenza generale contro il biglietto di banca, aggravata dal famoso tracollo degli assegnati francesi. La fiducia così gravemente scossa non poté risorgere che nei primi decennî dell'Ottocento in seguito all'ottima prova data dalla Banca di Francia e alla miglior conoscenza del sistema bancario inglese.
In Francia, dopo il fallimento della banca del Law, che travolse nella sua rovina numerosi cittadini d'ogni classe sociale, il discredito in cui caddero le banche di emissione fu tale da far tramontare ogni tentativo di creare un istituto che avesse per modello la Banca d'Inghilterra. Soltanto nel 1776 il banchiere svizzero Panchard ottenne, con l'appoggio del Turgot, l'autorizzazione a fondare la Caisse d'escompte con un capitale di 15 milioni, di cui 10 dovevano essere anticipati allo stato e gli altri 5 potevano essere impiegati in affari di banca; poteva emettere banconote al portatore, ma senza alcun privilegio. Ma anche in questo caso il legame troppo stretto con lo stato e la necessità di far fronte alle sue continue richieste di anticipazioni compromisero gravemente la situazione della banca, finché nell'agosto 1793 essa fu soppressa con un decreto della Convenzione nazionale. Superato il punto più grave della crisi degli assegnati, sorsero la Caisse des compts courants (1796), la Caisse d'escompte et du commerce (1797) e il Comptoir commercial (1799), i quali godettero della più completa libertà di emissione, ma non disponendo che di mezzi limitati, non poterono raggiungere che un'importanza locale.
Dopo il 18 brumaio il primo console ritenne che il momento fosse opportuno per creare in Francia un istituto nazionale di emissione, simile alla Banca d' Inghilterra, e con successivo decreto del 1800 creò la Banca di Francia, con un capitale di 30 milioni, costituito per una parte dal patrimonio della Caisse des compts courants, incorporata nel nuovo istituto, e per il resto con sottoscrizione tra i privati e con una partecipazione dello stato per 5 milioni. La banca avrebbe dovuto godere del diritto di emissione in concorrenza con la Caisse d'escompte e col Comptoir commercial, ma ben presto essa si assicurò il monopolio di fatto, acquistando l'intero capitale delle due banche rivali. Il monopolio di diritto fu poi concesso alla banca con la legge 14 aprile 1803 per la capitale e per tutte quelle provincie in cui avesse istituito delle filiali; nello stesso tempo fu notevolmente aumentata la vigilanza dello stato sulla sua amministrazione. Le banche provinciali crebbero fino al numero di 9 nel periodo della Restaurazione e della Monarchia di luglio; ma con la rivoluzione del '48 trionfò definitivamente la tendenza accentratrice: le banche provinciali si trasformarono in filiali della Banca di Francia, che ottenne definitivamente il monopolio dell'emissione per tutto lo stato. L'ordinamento dato allora alla banca è quello d'un istituto privato sotto la direzione di funzionarî statali. Esso infatti ha un proprio capitale, che salì rapidamente da 30 milioni di lire nel 1803 a 90 nel 1806, a 182 nel 1857; ha un consiglio di 15 reggenti e 3 censori eletti dall'assemblea dei 200 maggiori azionisti; ma la direzione è affidata a un governatore e due vicegovernatori di nomina statale.
Ma ciò che soprattutto caratterizza la Banca di Francia, differenziandola da quella d' Inghilterra e dagli altri istituti d' emissione del continente, è la massa enorme delle riserve metalliche, che essa riesce a raccogliere e immobilizza nei suoi forzieri a garanzia della sua circolazione cartacea, sebbene le legge la lasciasse arbitra di stabilire il rapporto tra riserva metallica e circolazione. Il rapporto, volontariamente fissato, d'un terzo almeno della circolazione coperto dalla riserva fu così ben presto superato. Sostenuta nel suo credito da una riserva imponente, amministrata sempre con criterî di estrema prudenza, per cui assai presto essa diede grandissimo sviluppo alle operazioni di risconto, in modo da avere per principali clienti non i privati, ma le maggiori banche francesi ed estere, la Banca di Francia riuscì a superare senza scosse e con perdite minime la prova gravissima della guerra del 1870-71, durante la quale poté anticipare somme ingenti al Tesoro (1300 milioni in pochi mesi) senza che l'aggio oltrepassasse mai il 29 per mille. Alla vigilia della guerra mondiale la sua circolazione di 5500 milioni di franchi era coperta per 4000 milioni dalla riserva metallica e per soli 1500 milioni da cambiare a breve scadenza.
Negli altri stati d'Europa le banche d'emissione, istituite con criterî molto simili a quelli delle consorelle inglesi e francesi, sorgono e si moltiplicano tra il 1816 e il 1850, e dovunque si rivela la stessa tendenza, per cui dalla pluralità si passa, verso la metà del secolo, all'unità delle banche. Senza trattenerci sui singoli stati, ci limiteremo a seguire questo processo in Germania, dove esso si compie parallelamente alla formazione dell'unità nazionale. Dopo i tentativi poco felici fatti da alcuni principi nel sec. XVIII, fra cui il solo che abbia avuto una certa continuità fu la Banca Reale, istituita da Federico II nel 1765 in Berlino, bisogna scendere fino al quarto decennio del sec. XIX per incontrare delle vere banche di emissione in alcuno dei maggiori stati della Germania: la Banca bavarese d'ipoteche e cambio, fondata nel 1834 a Monaco, col diritto di emettere fino a 8 milioni di fiorini in biglietti; la Banca di Lipsia, istituita nel 1838; e finalmente la Banca prussiana, che subentrò nel 1846 alla Banca Reale.
Tutti questi istituti avevano il carattere di banche private per azioni sotto la vigilanza dello stato. La Banca prussiana, che fra essi era naturalmente il più importante, fondata con un capitale azionario di 10 milioni di talleri, a cui lo stato partecipava per un milione, aveva un ordinamento semistatale molto simile a quello della Banca di Francia. La sua circolazione cartacea doveva essere coperta almeno per un terzo dalla riserva metallica: e l'emissione non era esercitata dalla banca in regime di monopolio nemmeno entro il regno di Prussia; ma il diritto d'emissione lasciato alle banche private era limitato a un massimo, fra tutte, di 7 milioni di talleri.
Nel periodo di espansione economica, che va dal 1853 al 1857, si moltiplicarono in Germania le banche private o semistatali di emissione in modo che nel 1857, quando scoppiò la crisi, se ne contavano 30 in 20 stati diversi. Il discredito in cui molte di esse caddero allora per la svalutazione della loro carta e per il danno che la moneta cattiva di alcuni stati faceva a quelli a circolazione più sana, determinò anche in Germania frequenti e vivaci discussioni sul problema della pluralità o unità delle banche, della libertà o del monopolio dell'emissione. Ma si trattava ancora di discussioni teoriche, perché mancava un'unità statale che potesse imporre a tutta la Germania una politica bancaria uniforme. Soltanto dopo il 1866, costituitasi la Lega del Nord, si poté arrivare a una legislazione organica, che valesse per più di metà della Germania. Si poté così sottoporre la creazione di nuove banche di emissione a un atto legislativo della lega.
Costituito l'impero, la crisi finanziaria gravissima del 1873-74 venne attribuita al sistema di emissione ancora vigente, per cui entro i confini del nuovo stato federale vi erano ancora 33 banche autorizzate all'emissione, con norme diverse l'una dall'altra. Si attribuiva a questa molteplicità e libertà dell'emissione il fortissimo aumento della circolazione senza copertura metallica, per cui, mentre nel 1850 tutte le banconote in circolazione entro il territorio dell'impero ammontavano a 120 milioni di marchi, di cui soltanto 15 milioni scoperti, alla fine del 1874 la circolazione scoperta era invece salita a 490 milioni di marchi. Per porre ordine in questa situazione si emanò la legge sulle banche del 14 marzo 1875. Non si arrivò a concedere il monopolio dell'emissione alla Banca prussiana trasformata nella Reichsbank, ma sopra una circolazione scoperta autorizzata nella cifra massima di 385 milioni di marchi, se ne assegnarono ad essa 250 milioni e solo 135 milioni alle 32 banche degli stati minori, distribuiti in proporzione della loro importanza demografica ed economica. Sulla circolazione, oltrepassante quel limite e non interamente coperta dalla riserva metallica, le banche avrebbero dovuto pagare una tassa di circolazione del 5%; freno questo che raggiunse pienamente il suo scopo, perché estremamente rari furono i casi in cui la Reichsbank e anche le banche minori, di cui intanto il numero si era ridotto a 13, dovettero pagare la tassa e sempre per una parte minima della loro circolazione.
Dopo la crisi gravissima del 1907-8, successa a un decennio di massima espansione degli affari nel periodo della maggiore industrializzazione della Germania, si mossero molte critiche alla eccessiva larghezza usata nel credito concesso alle grandi banche ordinarie, che avevano aumentato fuor d'ogni limite le loro immobilizzazioni. Fu nominata una commissione d'inchiesta sulle banche e come conseguenza dell'inchiesta si emanò la legge 1° gennaio 1910 che elevò il massimo della circolazione scoperta esente da imposta a 450 milioni di marchi, ma stabilì che, anche pagando l'imposta, la banca non potesse emettere più di 750 milioni di marchi senza copertura metallica.
4. Le banche d'emissione negli Stati Uniti d'America. - Fin dal sec. XVIII, prima della guerra d'indipendenza, si era sentita nelle colonie inglesi la necessità d'istituire delle banche locali, che facilitassero i pagamenti con la creazione di surrogati della moneta; e anche dopo la costituzione del 1789, che unificò il sistema monetario, non solo si riconobbe a quei piccoli istituti il diritto di emissione, ma si lasciò facoltà ai singoli stati della Federazione di autorizzare la costituzione di nuove banche. Si moltiplicarono così le State Banks, o banche dei singoli stati, accanto alle quali cominciarono però a trovarsi anche delle banche autorizzate dal governo federale, il primo esempio delle quali fu offerto dalla Bank of North America, istituita a Philadelphia fin dal 1781.
S'iniziò così anche in questo campo una lunga e fiera lotta fra autonomisti (democratici) e unitarî (repubblicani): fautori i primi dell'assoluta autonomia e libertà di emissione delle banche dei singoli stati, convinti assertori invece i secondi della necessità di unificare l'emissione o per lo meno di sottoporla al controllo del governo federale, affidandola a banche da questo autorizzate. Nella lotta i democratici autonomisti ebbero il sopravvento: i due tentativi, momentaneamente riusciti, nel 1791 e nel 1816, di creare una banca centrale degli Stati Uniti, fallirono dopo breve tempo per l'ostilità dei democratici, in modo che il periodo che va dalla soppressione della seconda banca centrale (1836) alla guerra di secessione si può considerare come il periodo dell'autonomia delle banche degli stati, le quali si moltiplicarono rapidamente, raggiungendo nel 1837 il numero di 800.
Naturalmente una così grande moltiplicazione delle banche di emissione, non sottoposte in alcun modo a controllo, determinò gravi disordini e confusione nel regime monetario, e questo disordine si rese assai più sensibile quando i migliorati mezzi di comunicazione e l'aumentata popolazione resero assai più frequenti i rapporti fra stato e stato della federazione. Perciò nel 1864 trionfò definitivamente il concetto che, accanto alle banche degli stati, a cui era riservata una funzione locale, si dovessero creare delle "banche nazionali", autorizzate cioè dal governo federale, il quale permetteva loro di emettere banconote ammesse alla circolazione in tutto il territorio della Confederazione, ma entro il limite della loro possibilità di copertura, costituita, per una metà almeno, dal loro capitale versato in contanti e da titoli di credito verso lo stato, depositati al Treasury. La circolazione veniva unificata e regolata da norme comuni a tutti gli stati, e per disciplinarla si creava l'ufficio del Controller of the currency.
Il divieto imposto alle banche nazionali di creare filiali determinò la loro moltiplicazione, in modo che nel 1865 se ne contavano già 1513. Alfinché esse potessero sorgere anche nei piccoli centri rurali, il limite minimo del loro capitale fu abbassato, nel 1900, da 50.000 a 35.000 dollari, e per effetto di questa agevolazione, in un solo decennio, il loro numero raddoppiò, e vent'anni dopo se ne contavano 8154 con un capitale versato di 1274 milioni di dollari, e 15.142 milioni di depositi, mentre la loro circolazione cartacea non raggiungeva che 704 milioni.
Ma se in tal modo per le stesse banche nazionali il privilegio dell'emissione finì con l'avere un'importanza secondaria di fronte allo sviluppo meraviglioso dei depositi e all'abitudine diffusissima di fare i pagamenti per mezzo di chèques, tutte le altre banche, che restavano sottoposte alla legislazione dei singoli stati e che nel 1921 raggiungevano l'altissimo numero di 22.000, conservarono nominalmente il diritto d'emissione, ma effettivamente furono poste nell'impossibilità di esercitarlo dalla tassa del 10% sulla circolazione imposta loro dalla legge del 3 marzo 1865.
Un sistema bancario così vario e frazionato, col diritto d'emissione concesso a un grandissimo numero di banche, nonostante la costituzione obbligatoria di riserve presso i Treasury Offices e altri provvedimenti molto complicati per assicurare in qualunque momento la convertibilità dei biglietti, si rivelò invece estremamente difettoso nei periodi di crisi, quando si faceva più urgente la domanda del contante, e le disponibilità ne erano estremamente rarefatte specialmente nelle regioni agricole per l'affluire delle riserve nella piazza di New York. Le critiche al sistema, o piuttosto alla mancanza d'un sistema bancario, si fecero più aspre dopo la crisi del 1907, che raggiunse appunto negli Stati Uniti la sua massima gravità. Ne derivò, da parte del Congresso, la nomina di una commissione nazionale monetaria, l'approvazione di una legge di riordinamento provvisorio della circolazione nel 1908, e finalmente la riforma bancaria del 1913, per cui tutto il territorio della Federazione fu diviso in 12 distretti, a ciascuno dei quali è assegnata una Banca federale di riserva, della quale, a determinate condizioni, possono diventare membri tutte le banche nazionali, le banche degli stati e tutte le Trust Companies, esistenti in quel distretto, destinando il 6% del loro capitale e delle loro riserve alla costituzisne del capitale della banca federale. Le 12 banche federali di riserva sono poi riunite in un organigmo unitario, essendo sottoposte alla vigilanza e alla direzione superiore dell'ufficio della riserva federale (Federal Reserve Board), istituito a Washington. Le banche federali di riserva fanno il servizio di tesoreria per il governo federale, e possono ricevere depositi non dai privati ma soltanto dalle banche partecipanti. E anche nelle operazioni attive la parte maggiore, se non esclusiva, è assegnata al risconto del portafoglio degli stessi istituti, verso i quali esse assumono in tal modo le funzioni d'una banca centrale. In fine, ed è questa la loro attribuzione più importante, le banche federali sono autorizzate all'emissione di biglietti, che per il 40% devono avere una copertura aurea e per il resto possono essere coperti da cambiali presentate al risconto da una delle banche partecipanti.
Con questa riforma che non solo non danneggiò, ma favorì le banche nazionali, provvedendo con misure transitorie all'assorbimento da parte delle banche federali della loro circolazione cartacea, il sistema bancario americano ebbe finalmente, pur conservando la sua varietà, un assetto organico, che si rivelò solidissimo nel periodo delle grandi prove seguito alla sua prima applicazione.
L'emissione durante la guerra mondiale e nel dopoguerra. - La guerra mondiale e le vicende dei primi anni del dopoguerra hanno portato a un'espansione enorme della circolazione bancaria e di stato e a un turbamento profondo di tutte le antiche norme che disciplinavano il diritto di emissione. In Inghilterra, a differenza di tutti gli altri stati belligeranti, lo scoppio della guerra non determinò alcun mutamento nelle leggi bancarie esistenti. Soltanto, in conseguenza degli ostacoli opposti al commercio dell'oro e della facoltà data al Tesoro di creare, accanto alla circolazione di banca, una circolazione di stato, si arrivò all'emissione di carta moneta (currency notes), e si arrivò presto a un incremento, del tutto nuovo in quel paese, della circolazione cartacea. Mentre nel 1913 circolavano 20 milioni di sterline in biglietti della Banca d'Inghilterra, e 8 milioni delle banche di Scozia e d'Irlanda, alla fine del 1918 la circolazione cartacea raggiungeva i 450 milioni di sterline, di cui solo 125 milioni spettavano agl'istituti di emissione, mentre 325 milioni erano rappresentati da biglietti emessi per conto dello stato.
L'inflazione continuò ancora, sebbene in proporzioni minori, nei primi due anni del dopoguerra, in modo che, al principio del 1921, la circolazione totale ammontava a 455 milioni e la sterlina aveva perduto circa il 30% sul dollaro. Si iniziò allora con grande energia la politica di deflazione, con forti elevazioni nel tasso dello sconto, portato per gradi dal 5 al 7% e con rigida economia nelle spese pubbliche. Dopo quattro anni di questa politica lo scopo era raggiunto: il 28 aprile 1925 la Banca d'Inghilterra poté riprendere con alcune limitazioni prudenziali la conversione dei suoi biglietti in oro all'antica parità; e si stabilì che le monete di carta emesse per conto dello stato fossero a poco a poco riassorbite dalla banca, in modo che, entro il 1928, non dovessero circolare più che i biglietti della Banca d'Inghilterra, emessi secondo le vecchie norme della legge del 1844. Il programma, almeno in un primo tempo, fu mantenuto e alla fine del 1930 la circolazione totale risultava ridotta a 380 milioni di sterline di biglietti di banca, coperti per 148 milioni dalla riserva aurea e per il resto da titoli di stato. Ma in quell'epoca, per i forti disavanzi del bilancio dello stato e per le peggiorate condizioni della bilancia dei pagamenti internazionali, si era preparata la nuova crisi, che scoppiò nel settembre 1931, con la sospensione della convertibilità dei biglietti di banca e l'aumento dell'aggio dell'oro, salito in pochi giorni al 17 e al 18%.
Di qua dalla Manica la solidità della Banca di Francia fu messa a più dura prova, per l'aiuto che essa dovette dare alle altre banche nel periodo della moratoria e soprattutto per le anticipazioni al Tesoro che raggiunsero, alla fine del 1918, la somma di 27 miliardi di franchi. A queste necessità essa dovette provvedere con l'aumento della circolazione che da 5,7 miliardi alla fine del 1913, salì a 27,5 alla fine del 1918 e, tolte lievi pause, continuò a salire anche nel dopoguerra fino a raggiungere il massimo di 56 miliardi nel luglio 1926. S'iniziarono da allora, rinunciando ad ogni tentativo di rivalutazione, i provvedimenti per la stabilizzazione del franco, con la creazione della cassa di ammortamento, che raggiunse rapidamente lo scopo di liberare la banca dal peso eccessivo dei crediti verso lo stato, assicurandole una tale liquidità e abbondanza di denaro da permetterle di abbassare ripetutamente il tasso dello sconto fino al 3 e al 2,5%. Il fenomeno più caratteristico è l'aumento della riserva aurea, che dai 5 miliardi del primo semestre 1914 era discesa nel luglio 1926 a 3684 milioni di franchi oro; risalì dopo il primo anno della politica di stabilizzazione a 4144, e raggiunse alla fine del 1930 la somma enorme di 10.700 milioni, tale che, nonostante l'aumento della circolazione, salita a 79 miliardi di franchi carta, la copertura aurea, tenuto conto del tasso di stabilizzazione, ne rappresentava più del 65%.
In Germania, sospeso, fin dallo scoppio della guerra, l'obbligo della conversione in oro dei biglietti, sospesa la riscossione della tassa sulla circolazione eccedente, le emissioni si moltiplicarono rapidamente, in modo che la circolazione cartacea da 2594 milioni di marchi al 31 dicembre 1913 salì a 22.187 milioni al 31 dicembre 1918; e la copertura in oro dal 38% scese al 7%. Ma le emissioni degli anni di guerra e del periodo 1918-21, sono cifre appena irrisorie in confronto del lavoro del torchio nel 1922 e nel 1923, che condusse al tracollo definitivo del marco. Quel tracollo non travolse però né la Reichsbank, né le banche ordinarie, che seguitarono senza gravi scosse nella loro attività.
Dopo l'istituzione provvisoria della Renten-Bank, che iniziò le sue operazioni il 15 dicembre 1923 ed è ora in liquidazione, la legge sulla circolazione del 30 agosto 1924 restituì pienamente alla Reichsbank l'antica posizione e in gran parte l'antico ordinamento. Le è concesso cioè il privilegio dell'emissione in regime di quasi completo monopolio, dovendo essa dividerlo, e per una parte assai piccola, con le sole banche di Monaco, Dresda, Stoccarda e Karlsruhe. Le sue monete devono essere coperte almeno per il 40% dalla riserva aurea, e circolano per ora a corso legale, essendo temporaneamente sospesa la convertibilità in oro. La sua circolazione raggiungeva al 31 gennaio 1928 la somma di 4237 milioni di marchi, e la sua riserva aurea era di 1782 milioni. La circolazione invece delle altre 4 banche superstiti raggiungeva appena i 167 milioni. La situazione della Reichsbank e della sua moneta, mantenutasi assai solida nei primi 5 anni, ha avuto qualche scossa e ha sollevato qualche dubbio nel 1929 e si è poi aggravata in misura preoccupante. La sua debolezza deriva dal fatto che la garanzia della circolazione è data soprattutto dai crediti a breve scadenza fatti dalla finanza straniera, specie americana, il cui ritiro è sempre pericoloso per il marco.
La solidità e la potenza raggiunta dal sistema bancario nordamericano si rivela soprattutto dall'enorme aumento della riserva aurea: alla fine del 1927 le sole banche federali avevano una riserva di più che 3 miliardi di dollari e da quella data, sebbene più lentamente che in Francia, essa ha seguitato a crescere. La grave crisi che ha colpito l'economia nordamericana dopo il 1929 ha sollevato critiche contro il sistema delle banche federali, che non è valso a frenare la speculazione aiutata dalle inflazioni del credito. Ma, nonostante l'aumentata gravità della crisi, le banche federali hanno resistito e contribuiscono con la loro solidità a mantenere agli Stati Uniti il primato tra le potenze finanziarie del mondo.
Gli istituti di emissione in Italia. - Particolare interesse presentano le vicende delle banche di emissione in Italia, nel periodo posteriore alla fondazione del regno; perciò ne faremo particolare menzione, rinviando alle voci speciali (cassa: Casse di risparmio; Monte di pietà, ecc.) i cenni storici sugl'istituti pubblici speciali di credito e di previdenza.
Poco prima della costituzione del regno d'Italia, nelle varie regioni del nostro paese esistevano tre soli grandi istituti autorizzati, per legge, a emettere biglietti al portatore: la Banca nazionale sarda nel Piemonte, la Banca nazionale toscana nel granducato di Toscana e la Banca dello stato pontificio negli Stati della chiesa. Nel Lombardo-Veneto mancavano banche di emissione, perché la Banca di Vienna provvedeva ai bisogni di tutta la monarchia. Nei Ducati la Banca di Parma aveva una influenza del tutto locale. Nelle Romagne circolavano ancora i biglietti della Banca delle Quattro legazioni sedente in Bologna. In Toscana era sorta, nel 1860, la Banca toscana di credito per le industrie e i commerci d'Italia, che emetteva in misura assai limitata dei buoni di cassa. Nel Napoletano e nella Sicilia i due antichi banchi di deposito non avevano ancora biglietti veri e proprî, ma emettevano fedi di credito, polizze e polizzine. Vi era in sostanza una sola grande banca di emissione: la Banca degli stati sardi, che divenne, subito dopo il 1860, la Banca italiana, e assorbì le banche di Parma e delle Quattro legazioni, estendendo la sua attività alle principali banche dell'Italia centrale e meridionale, con un capitale, allora cospicuo, di 100 milioni. Accanto ad essa, rimaneva, come banca di emissione, la sola Banca nazionale toscana, istituto d'indole regionale con un capitale di poco più di nove milioni. Si sarebbe potuto, volendo, fondare senz'altro la Banca d'Italia, unico istituto di emissione. Ciò avrebbe avuto un'influenza poderosa sullo sviluppo e sull'unificazione dell'economia italiana; ma fece difetto la volontà. Si noti che, nel 1863, le due banche avevano stabilito di fondersi tra loro, per formare la Banca d'Italia e il progetto relativo era stato discusso e approvato dal Senato, ma presentato alla Camera non fu neanche preso in considerazione. Fu così perduta la migliore occasione d'istituire, subito dopo la fondazione del regno, la banca unica di emissione. Dopo, più volte e invano si ritentò la prova, perché i due banchi meridionali avevano ottenuto il diritto di emettere biglietti e la loro circolazione era divenuta di qualche rilievo.
Il 1° maggio 1866 il governo, cedendo alle pressioni della Banca nazionale, la liberò dall'obbligo di pagamento in contanti dei suoi biglietti. Con quel decreto la Banca nazionale ebbe il privilegio del corso forzoso per i suoi biglietti, in compenso di un prestito di 250 milioni di lire fatto allo stato all'interesse dell'uno per cento. Le altre banche ottennero il corso legale, con la facoltà di cambiare i proprî biglietti e i proprî titoli fiduciarî d'altra specie in biglietti della Banca nazionale.
Il corso forzoso diede origine ad aspre polemiche, cui parteciparono statisti ed economisti. Una commissione d'inchiata, nominata dal parlamento nel 1868, concluse la sua relazione asserendo che questa misura eccezionale non era necessaria né dal lato economico, né dal lato finanziario-amministrativo, né dal lato politico. Si può dubitare dell'esattezza di questa conclusione, data la gravità della situazione economico-finanziaria che si era andata creando al principio del 1866, ma tutti riconoscono che le principali disposizioni contenute nel decreto del 1° maggio sembrano dirette piuttosto a fare il vantaggio delle banche che quello del pubblico. Fu giustamente osservato da Francesco Ferrara che lo stato per ottenere un prestito di appena 250 milioni in lire-carta non solo accordò un interesse, ma consentì alla banca di elevare al grado di moneta inconvertibile una quantità di carta che arrivava quasi al miliardo nel marzo del 1868. In conclusione, seppure il corso forzoso potè apparire una misura indispensabile, il modo con cui fu stabilito fu certamente il meno opportuno e il meno conveniente per lo stato.
Per la storia della circolazione bancaria è da notare che col corso forzoso incominciò la sproporzionata espansione della circolazione stessa, già mantenuta entro limiti modesti secondo le reali necessità economiche del paese. La mancata unificazione pesò duramente, per lunghissimi anni, sulla vicende della nostra economia. Tutte le banche minori approfittarono del corso forzoso per espandere o trasformare la loro circolazione. Il Banco di Napoli acquistò il diritto di emettere delle fedi di cassa per somme fisse, che diventarono poi veri e proprî biglietti di banca: da 1,7 milioni nel maggio 1866, si arrivò fino a 66 milioni nel dicembre 1869. Anche il Banco di Sicilia, nel 1869, ottenne facoltà di emettere biglietti. Quanto alla Banca nazionale del regno d'Italia, da 123,2 milioni nel gennaio 1866 portò la sua circolazione a ben 470, 1 milioni (esclusa quella corrispondente al prestito dei 250 milioni e l'altra relativa ai biglietti data alle altre banche). Incominciò così, come effetto del corso forzoso, la sfrenata autonomia, o meglio anarchia bancaria, niente affatto determinata dalle condizioni economiche del paese, ma anzi in pieno contrasto con le più evidenti esigenze dell'economia italiana, che lo stato avrebbe dovuto, in momenti così difficili, controllare e dirigere, promovendone, almeno gradualmente, la necessaria unificazione.
A Quintino Sella si deve riconoscere il merito di avere, nelle varie concessioni di mutuo da parte della Banca nazionale, difeso con ben altri criterî dei suoi predecessori l'interesse dello stato. Ma lo stesso Sella si dimostrò assai incerto nella disciplina dei rapporti fra lo stato e le banche. Infatti il progetto Sella dell'11 marzo 1870 era ispirato al principio della libertà; ogni società legalmente costituita avrebbe potuto, entro certi limiti e con certe garanzie, emettere biglietti al portatore. Il successivo progetto Sella-Castagnola era basato sopra altri criterî; il diritto di emissione era riservato ai soli sei istituti esistenti e la facoltà di emissione rigorosamente limitata. Arriviamo così alla legge Minghetti-Finali del 30 aprile 1874. Le banche di emissione erano allora in numero di sei: la Nazionale, la Nazionale toscana, la Banca toscana di credito, divenuta anch'essa banca di emissione, i due banchi meridionali e la Banca romana, già Banca dello Stato pontificio. La legge del 1874 riunì in consorzio i sei istituti esistenti, ai quali veniva riservata esclusivamente la facoltà di emettere biglietti e di sostituire alla carta emessa per conto del Tesoro dalla Banca nazionale una carta garantita dal consorzio dei sei istituti. Rimase ancora per diversi anni, fino al 1883, il corso forzoso.
La legge del 1874 rappresentò una nuova, sia pure non definitiva, rinunzia alla formazione di un grande istituto, che avrebbe, osserva il Ferraris, meglio regolato le emissioni, divenendo un ottimo strumento per facilitare la cessazione del corso forzoso. La legge del 1874 - per riportare le stesse parole della relazione parlamentare - doveva "provvedere a uno stato transitorio, durante il quale il corso forzoso avrebbe dovuto regolarsi e recare minori danni al paese, senza pregiudicare la soluzione definitiva del problema del credito e delle banche". Invece durò quasi vent'anni, fino al riordinamento bancario approvato con legge 10 agosto 1893, la quale, confermando il diritto di emissione ai due banchi meridionali, approvò la fusione della Banca nazionale con la Banca nazionale toscana e con la Banca toscana di credito, per costituire un nuovo istituto, la Banca d'Italia, con un capitale di 210 milioni, di cui 176 rappresentavano il capitale già posseduto dai tre istituti e il resto si doveva formare entro sei mesi. Fu stabilito il limite di emissione e provveduto alla diminuzione graduale della circolazione in un periodo di 14 anni. La liquidazione della Banca romana, della quale furono scoperte l'irregolare gestione e la clandestina circolazione, fu affidata dallo stato alla Banca d'Italia.
La Banca d'Italia, come venne fuori dalla riforma del 1893, in seguito alla fusione dei tre vecchi istituti, dovette raccogliere la triste eredità del passato. "Questa Banca d'Italia che si vuol fondare - scriveva Francesco Crispi nel gennaio 1893 - non è quella che io voleva. Il mio concetto era ben diverso: io voleva dividere il passato dall'avvenire; la liquidazione di quello che fu e la istituzione di una banca speciale e unica, che, fondata con elementi sani, assicurasse il credito". Così non accadde e la Banca d'Italia, come pure gli altri istituti di emissione, dovettero compiere un'opera faticosa di risanamento, soprattutto per liquidare tutte le proprie "immobilizzazioni"; le quali, come fu constatato, ammontavano, nel 1894, per la Banca d'Italia, a oltre 519 milioni. Alla fine del 1900 le operazioni residue ammontavano a 245 milioni, certo le più difficili a liquidare. Vi fu anzi chi disse che quella massa troppo pesante "sarebbe rimasta in fondo". Ma non fu così, anche per il nuovo e felice indirizzo che lo Stringher seppe imprimere alle smobilitazioni, massime con la cessione di immobili a società edilizie e di costruzione. Col 1908 il risanamento della Banca d'Italia era condotto a termine. Le condizioni economiche del paese, il risveglio delle industrie edilizie e il basso prezzo del danaro favorirono l'operazione. La Banca d'Italia riuscì a sistemare la sua situazione senza diminuzione, anzi con un aumento della propria riserva statutaria. Gli avvenimenti economici e politici che si verificarono dal 1907 in poi, come la crisi americana e la guerra con la Turchia, non perturbarono sensibilmente la sistemazione raggiunta dai tre istituti, come dimostra, tra gli altri, il fatto che, se essi aumentarono dal 1908 al 1913 fortemente la loro circolazione complessiva (da 1862,6 milioni a 2283,5) poterono fronteggiare l'aumento con un aumento non molto meno proporzionale delle riserve metalliche ed equiparate (da 1390,7 milioni a 1569,4; rapporto percentuale rispettivamente 74,66 e 68,72). Si può dire anzi che il progresso economico, verificatosi in Italia, nonostante alcune interruzioni, nei primi 13 anni del sec. XX, è dovuto in parte alla nuova politica bancaria, corretta e saggia, inaugurata dalla Banca d'Italia e costantemente seguita, per sommo merito del suo direttore, Bonaldo Stringher.
Intervenne la guerra, e di conseguenza l'inflazione, il progressivo aumento della circolazione per conto dello stato e per conto del commercio, la svalutazione della lira. Le banche sussidiarono largamente la produzione di guerra e questa fu, nel 1916, la principale fonte di aumento della circolazione, ma poi si estese moltissimo anche la circolazione di stato. Il limite massimo delle anticipazioni e delle somministrazioni al Tesoro venne successivamente aumentato. Alla fine del 1917 la circolazione cartacea per conto del commercio e del Tesoro, con l'aggiunta dei biglietti di stato, raggiunse la cifra di 10.174 milioni di lire, e di 13.874 milioni alla fine del 1918; la percentuale delle riserve metalliche ed equiparate discese a 15,93 per cento e a 15,84 nel 1918. Le vicende economiche e politiche del dopoguerra portarono poi la circolazione bancaria all'impressionante cifra di 20.559,7 milioni nel 1922. La ricostruzione finanziaria e monetaria del paese incominciò solo nell'ottobre 1922 e nel 1926 si giunse all'unificazione delle banche di emissione che finalmente realizzò l'ideale propugnato dai nostri più grandi uomini di stato: Cavour, Crispi e Sonnino.
La legge bancaria del 1926. - La legge bancaria del 6 maggio 1926, completata con la convenzione del 15 giugno successivo, per l'unificazione degl'istituti di emissione in Italia, fu la logica conseguenza della politica monetaria svolta dal governo fascista e la condizione indispensabile per iniziare la difesa della lira. In base a questa legge si stabilì: 1. l'attribuzione alla Banca d'Italia delle riserve metalliche ed equiparate all'oro, esistenti a garanzia dei biglietti emessi dai Banchi di Napoli e di Sicilia; 2. il passaggio a debito della Banca d'Italia, dell'ammontare dei biglietti dei due banchi in circolazione al 30 giugno 1926; 3. l'attribuzione alla Banca d'ltalia dei crediti dei Banchi di Napoli e di Sicilia verso la sezione speciale autonoma del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, con le relative garanzie e riserve; 4. l'attribuzione alla Banca d'Italia dei crediti dei due banchi meridiohali verso il Tesoro, a cagione di anticipazioni straordinarie e somministrazioni di biglietti da essi fatte allo stato esistenti al 1° luglio 1926.
Al 30 giugno le riserve auree delle due banche meridionali ammontavano a 343 milioni di lire oro. La Banca d'Italia ne ha assorbito 311 milioni. Alla stessa data la circolazione delle due banche ammontava a 4244,1 milioni che la Banca d'Italia sostituì con proprî biglietti per l'ammontare di 3.782,3 milioni di lire, riducendo la circolazione di 461,8 milioni di lire. I Banchi di Napoli e di Sicilia, operata la concentrazione dell'emissione nella sola Banca d'Italia, hanno assunto la figura di stabilimenti di credito di diritto pubblico, con personalità giuridica e gestione autonoma, sottoposti alla vigilanza del Ministero delle finanze. È stato concesso ai due banchi di continuare a compiere alcune operazioni a cui erano autorizzati fino al 31 dicembre 1930 dal decr.-legge 27 settembre 1923, n. 2158. E cioè: i due banchi hanno potuto continuare a emettere titoli nominativi esigibili a vista (vaglia cambiarî, fedi di credito e titoli somiglianti) per i quali debbono tenere una riserva in buoni del tesoro o altri titoli di stato limitata al 20% del valore dei titoli in circolazione, a differenza degli altri istituti di credito ordinarî che debbono avere una riserva del 40%, e pagando una tassa di circolazione ragguagliata al 2,20% l'anno, mentre gl'istituti di credito ordinarî ne versano una del 4% l'anno. I Banchi di Napoli e di Sicilia possono ottenere per il risconto dalla Banca d'Italia un saggio di favore nel limite di 350 milioni per il Banco di Napoli e 200 milioni per il Banco di Sicilia. Inoltre i versamenti in conto corrente fruttifero fatti dai due istituti presso la Banca d'Italia hanno goduto fino al 31 dicembre 1927 d'un regime di favore, cioè di un interesse annuo superiore dell'i % a quello praticato dalla banca agli altri istituti di credito. Per l'anno 1928, questo margine fu ridotto al 1/2%.
Operata con questo decreto l'unificazione dell'emissione, il governo riprendeva con più energia l'opera di risanamento monetario che si compì con l'abolizione del corso forzoso e con la stabilizzazione della lira. Il 18 agosto 1926, nel famoso discorso di Pesaro, il Capo del governo affermava la volontà decisa di rivalutare e difendere la lira italiana. Per attuare la rivalutazione era necessario ridurre la circolazione cartacea nei limiti normali. Col r. decr. 7 settembre 1926, n. 1511, si ridusse e si cercò di eliminare gradualmente il debito contratto dallo stato verso la Banca d'Italia per biglietti dati in prestito al Tesoro per i bisogni della guerra e del dopoguerra; si ridusse la quantità dei biglietti di stato e si sostituì la circolazione minuta cartacea con circolazione metallica, in monete d'argento di 5 e 10 lire; si accrebbe inoltre la garanzia metallica dei biglietti che l'istituto aveva in circolazione e si limitò la circolazione della banca per conto del commercio a una cifra di 7 miliardi a partire dal 15 settembre.
Nello stesso anno, con decreto 6 novembre 1926, si operò il consolidamento del debito fruttifero a breve scadenza con la conversione obbligatoria oltre che dei buoni del Tesoro ordinarî, di quelli quinquennali e settennali, in titoli di un nuovo prestito irredimibile al 5%, detto "Prestito del Littorio". L'abolizione del corso forzoso e la stabilizzazione furono operate con decreto-legge 21 dicembre 1927, n. 2325. Con questo decreto è fatto obbligo alla Banca d'Italia "di convertire contro presentazione presso la sede centrale in Roma, i proprî biglietti, in oro o, a scelta della Banca, in divise su paesi esteri nei quali sia vigente la convertibilità dei biglietti di banca in oro". La parità è fissata in ragione di un peso d'oro fino di gr. 7,919 per cento lire italiane. La conversione deve farsi o in oro in ragione di 3,66 per ogni lira italiana, o in dollari degli Stati Uniti sulla base di lire carta 19 per ogni dollaro, o in sterline sulla base di lire carta 92,46 per ogni sterlina. Lo stesso decreto prescrive alla banca di calcolare le sue riserve in oro in base alla nuova parità aurea e stabilisce che "le plusvalenze emergenti dalla rivalutazione delle riserve della Banca d'Italia vanno accreditate allo stato". Le plusvalenze sono destinate all'estinzione del debito contratto dal Tesoro verso la Banca d'Italia in biglietti emessi per conto dello stato.
Un altro importante provvedimento è stato quello che ha sancito l'obbligo della banca di tenere una riserva aurea del 40% per l'ammontare dei suoi biglietti e anche per "ogni suo altro impegno a vista", mentre precedentemente per gl'impegni a vista era ammessa una riserva in titoli di stato. Nel giugno 1928 la Banca d'Italia aumentò il capitale da 240 a 500 milioni nominali, mediante l'emissione di 200.000 azioni da L. 1000, di cui 600 versate.
La Banca d'Italia ha proseguito la riduzione della circolazione monetaria nel 1929-1930. L'ammontare dei biglietti della banca circolanti alla fine del 1930 era di L. 15.680,5 milioni, cioè 1.093,8 milioni in meno della circolazione al 31 dicembre 1929. Col decreto-legge 26 dicembre 1930, n. 1693, è stata prorogata la facoltà della Banca d'Italia di emettere biglietti di banca e altri titoli equipollenti pagabili al portatore e a vista, fino al 31 dicembre 1950. Alla stessa data è stato prorogato il corso legale dei biglietti. La circolazione dei biglietti della Banca d'Italia al 20 aprile 1931 ammontava a L. 14.797.333.000.
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