Abstract
Il contributo è dedicato all’esame dell’assetto delle istituzioni politiche dell’Unione europea previsto dai trattati in vigore, preceduto dall’illustrazione dei passaggi principali dell’evoluzione precedente, e seguito dalla individuazione dei problemi aperti e delle possibili prospettive dell’assetto vigente.
L’art. 13 del Trattato sull’Unione europea (TUE) annovera fra le istituzioni dell’Unione il Parlamento europeo (PE), il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione, la Corte di giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. Ma solo le prime quattro sono qualificabili “istituzioni politiche”, mentre le restanti non possono qualificarsi tali, in ragione delle attribuzioni ad esse riservate dal diritto primario e dei relativi criteri di composizione; il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni, pure menzionati nell’art. 13 TUE, non rientrano però nell’elenco, in quanto investite di funzioni meramente consultive.
I requisiti strutturali e le funzioni delle istituzioni politiche previste dal TUE e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come l’assetto delle relazioni reciproche, costituiscono l’esito di una lunga evoluzione punteggiata da riforme dei trattati europei, avviata con la stessa istituzione della Comunità europea (1957). Si rende necessario darne brevemente conto, per illustrare poi l’assetto istituzionale quale risulta dal diritto primario in vigore, e indicarne infine le implicazioni problematiche alla luce dei valori enunciati nel TUE.
L’assetto istituzionale della Comunità europea disegnato dal Trattato di Roma del 1957 si fondava su quello che si sarebbe poi chiamato “equilibrio istituzionale” fra componenti intergovernative e sovranazionali, realizzato attraverso le interazioni fra istituzioni disposte in un “triangolo”: la Commissione, il Consiglio e l’Assemblea.
La Commissione era concepita come istituzione sovranazionale. I suoi membri, nominati dai governi degli Stati membri di comune accordo, dovevano essere cittadini di tali Stati in una proporzione oscillante fra uno e due per ciascuno di essi, ed erano chiamati ad esercitare le loro funzioni “in piena indipendenza nell’interesse generale della Comunità”. Esclusiva titolare dell’iniziativa degli atti normativi della Comunità, la Commissione era formalmente estranea all’ulteriore procedimento di formazione di quegli atti, che erano adottati dal Consiglio; ma l’incidenza della sua proposta era maggiore di quella spettante a un Governo in regime parlamentare, dal momento che gli emendamenti presentati dal Consiglio dovevano essere da questo deliberati all’unanimità. Inoltre alla Commissione spettavano le competenze conferitele dal Consiglio per l’attuazione delle norme da esso stabilite, e dunque una limitata compartecipazione al potere esecutivo. Infine, era titolare di una vigilanza sull’applicazione delle disposizioni del Trattato e del potere di formulare raccomandazioni o pareri nei settori da esso definiti. Questa terza competenza si riferiva soprattutto alla creazione e alla garanzia dell’osservanza delle regole del mercato comune europeo, sviluppando in un ambito ben più vasto le attribuzioni, assimilabili a quelle di un’autorità antitrust, dell’Alta autorità della CECA istituita col Trattato di Parigi del 1951. La complessiva definizione della Commissione come “guardiana dei trattati” risentiva assai più di simile attribuzione, che la Commissione eserciterà del resto con grande determinazione nella pratica, che delle altre due, per le quali essa poteva paragonarsi in qualche misura a un governo.
Il Consiglio era concepito come istituzione intergovernativa. Espressione dei governi degli Stati membri, ognuno dei quali delegava allo scopo uno dei suoi membri, era presieduto a turno da ciascun componente per una durata di sei mesi. Veniva chiamato a coordinare le politiche economiche generali degli Stati membri, e disponeva del potere di adottare gli atti normativi comunitari nonché di eseguirli salvo il già ricordato conferimento alla Commissione. Va ricordato che il “compromesso del Lussemburgo” del 1966 fra Stati membri stabilì che, ove uno Stato invocasse il pregiudizio di “propri interessi molto importanti”, le decisioni in Consiglio dovessero essere prese all’unanimità, invece che secondo le maggioranze (semplice o qualificata) stabilite dal trattato. Ben presto il Consiglio si riunì in diverse formazioni, corrispondenti ai settori oggetto di attribuzione della Comunità e composte dai ministri della relativa materia (agricoltura, trasporti ecc.), cui si aggiunse il Consiglio degli affari generali, composto dai ministri degli esteri. Venne altresì istituito il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (Coreper) composto da funzionari di rango superiore degli Stati membri, presso il quale si negoziava preliminarmente gran parte dell’attività del Consiglio, poi ad esso trasmessa per l’adozione formale delle decisioni.
L’Assemblea era composta da delegati designati dai Parlamenti nazionali fra i propri membri secondo una proporzione variabile a seconda della popolazione ma con forti correttivi a favore degli Stati più piccoli (36 per i quattro maggiori, 14 per il Belgio e l’Olanda e 6 per il Lussemburgo). Era chiamata ad esercitare poteri deliberativi e di controllo, che erano però quasi sempre assai modesti. Fra i primi va ricordato il diritto di proporre al Consiglio modificazioni al progetto di bilancio comunitario. Quanto agli altri, l’Assemblea poteva approvare, a maggioranza dei due terzi dei voti espressi e a maggioranza dei componenti, una mozione di censura dell’operato della Commissione, che ne comportava le dimissioni. Ma tale potere, pur sulla carta significativo, non fu mai esercitato, anche perché la rappresentatività solo indiretta dell’Assemblea ne menomava fortemente la legittimazione.
L’assetto istituzionale originario della Comunità rifletteva un ordinamento tanto peculiare quanto limitato nei suoi obiettivi, in quanto volto alla creazione di un mercato aperto, poi divenuto “unico” in virtù dell’Atto unico europeo del 1986. Ciò ne spiega non soltanto lo scarso grado di democraticità, ma anche le modalità di funzionamento, tendenti a garantire l’equilibrio fra la componente intergovernativa, espressa dal Consiglio nelle sue molteplici formazioni, e quella sovranazionale espressa dalla Commissione e in misura molto minore dall’Assemblea. Un simile assetto, si osservò, «tourne résolument le dos à la séparation des pouvoirs telle que l’avat conçue Montesquieu», giacché «les auteurs du traité devaient organiser les pouvoirs au sein d’une Communauté qui échappe aussi bien au modèle classique de la fédération qu’a celui de l’organisation intergouvernementale traditionnelle, puisqu’elle est caractérisée par des transferts de souveraineté partiels et progressifs. Ceci explique d’une part la structure quadripartite retenue (Assemblée, Conseil, Commission, Cour de Justice), d’autre part une distribution des fonctions différente de celle que connaît une structure étatique classique» (Dewost, J.L., Le droit de la Communauté économique européenne. Commentaire du traité et des textes pris pour son application, vol. 9, Institut d’Etudes européens, Editions de l’Université de Bruxelles, 1973, 1). Quanto detto trova conferma in sede amministrativa con la proliferazione, a parte il Coreper, di Comitati composti da esponenti degli Stati membri e formalmente espressione del Consiglio – la cd. “comitologia” –, ma i cui lavori sono in realtà condotti dalla Commissione (Cartabia, M.-Weiler, J.H.H., L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000, 37).
Nei 35 anni che vanno dal Trattato di Roma a quello di Maastricht (1992), l’equilibrio che doveva sorreggere il triangolo istituzionale viene comunque sostanzialmente mantenuto, anche se non rimane statico, ma conosce una significativa evoluzione interna a seguito del parallelo rafforzamento della componente intergovernativa e della componente sovranazionale del sistema.
La prima si rafforza nella prassi, con l’emergere di una nuova istituzione intergovernativa. A partire dal 1961 i Capi di Stato e di governo degli allora 6 Stati membri avevano cominciato a riunirsi informalmente per varie finalità, e al di fuori degli ordinari meccanismi di funzionamento delle istituzioni comunitarie, fino a quando il Vertice di Parigi del dicembre 1974 stabilì che da quel momento in poi i Capi di Stato e di governo si sarebbero riuniti regolarmente, tre volte all’anno, insieme ai rispettivi Ministri degli esteri. Nasceva così il Consiglio europeo, che avrebbe avuto un primo riconoscimento in sede comunitaria con la Dichiarazione solenne di Stoccarda sull’Unione europea (1983), che integrava la composizione originaria con la presenza del Presidente della Commissione. Considerata la composizione, il Consiglio europeo veniva per ciò stesso a porsi come istituzione intergovernativa sovraordinata rispetto al Consiglio dei ministri, pur non risultando ancora sancita dal diritto primario.
Nel frattempo, anche la componente sovranazionale dell’assetto istituzionale si era rafforzata. Una decisione del Consiglio europeo del 20.9.1976 aveva stabilito che il Parlamento europeo (l’Assemblea si era così denominata fin dal 1962) sarebbe stato eletto a suffragio universale dai cittadini degli Stati membri della Comunità, come avvenne per la prima volta nel 1979. L’innovazione non colmava per ciò stesso quello che si cominciava a chiamare “deficit democratico” della Comunità, costituito dal fatto che, a differenza che a livello nazionale, le sue attribuzioni venivano esercitate da istituzioni che non rappresentavano i cittadini. Assicurando al PE una legittimazione democratica diretta pari a quella dei parlamenti nazionali, poneva però le premesse per un’evoluzione in tal senso, che cominciò a realizzarsi con l’Atto Unico, che su un limitato numero di materie introduceva la procedura di cooperazione e quella del parere conforme del PE, più incisiva della prima perché conferiva al PE un potere di veto.
Col Trattato istitutivo dell’UE e con le modifiche di quello istitutivo della CE, approvate a Maastricht il 7.2.1992, l’Unione veniva articolata in tre “pilastri”: il primo corrispondeva alla Comunità, e gli altri due si basavano sulla cooperazione fra Stati membri, rispettivamente, sulla politica estera e di sicurezza comune, e sulla giustizia e gli affari interni.
La premessa giova a comprendere le innovazioni all’assetto istituzionale preesistente. Posto che l’Unione era ente separato, ma inclusivo delle Comunità, l’art. 3, par. 1, TUE, secondo cui «L’Unione dispone di un quadro istituzionale unico che assicura la coerenza e la continuità delle azioni svolte per il perseguimento dei suoi obiettivi, rispettando e sviluppando nel contempo l’acquis comunitario», mirava a chiarire che le istituzioni componenti tale quadro erano «istituzioni tanto dell’Unione che delle Comunità, agendo di volta in volta per conto dell’una o delle altre a seconda del trattato e della base giuridica nell’ambito dei quali quella determinata azione si svolge, e in conformità alle regole di procedura ad essa applicabili» (Adam, R., Art. 3 TUE, in Tizzano, A., a cura di, Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Milano, 2004, 37).
Ciò detto, mentre le altre istituzioni restavano previste nel TCE, il Consiglio europeo veniva non a caso riconosciuto nel TUE, ove erano disciplinate le politiche affidate alla cooperazione intergovernativa (II e III Pilastro). A parte le generali attribuzioni dell’art. 4 («Il Consiglio europeo dà all’Unione l’impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali»), tale istituzione era chiamata a definire «princìpi, orientamenti generali e strategie comuni» sulla politica estera e di sicurezza (PESC) (artt. 13 e 17), mentre le attribuzioni sul terzo pilastro erano riservate al Consiglio (art. 30 ss.). In definitiva il Consiglio europeo veniva concepito come istituzione di indirizzo politico che, in ragione della composizione affermatasi nella prassi anteriore, si sovrapponeva naturalmente al Consiglio nell’ambito del polo intergovernativo del quadro istituzionale.
Il Trattato di Maastricht lasciava immutate le connotazioni strutturali delle istituzioni comunitarie, ed anche le loro attribuzioni, salvo che per il PE, rafforzato con la previsione di un potere di codecisione con il Consiglio su certe materie e perciò equiparato all’istituzione intergovernativa nell’adozione degli atti normativi comunitari, nonché del potere di istituire, su richiesta di un quarto dei suoi membri, una commissione temporanea di inchiesta circa «le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto comunitario», salve le attribuzioni riservate alla giurisdizione (art. 193 TCE).
Proseguendo la tendenza a rafforzare il PE, il Trattato di Amsterdam del 1997 faceva della codecisione la principale, anche se non esclusiva, procedura normativa della Comunità, prevedendo altresì che la designazione del Presidente della Commissione da parte dei governi nazionali di comune accordo venisse approvata dal PE, e che i membri della Commissione, indicati di comune accordo dagli stessi governi e dal Presidente designato, fossero insieme a quest’ultimo soggetti a un voto di approvazione del PE (art. 214 TCE). Abbandonando la regola dell’unanimità per la fase intergovernativa del procedimento, il Trattato di Nizza del 2000 attribuirà poi al Consiglio riunito a livello di Capi di Stato o di governo con deliberazione a maggioranza qualificata il potere di designazione del Presidente e della nomina della Commissione.
Nella prassi il PE avrà modo di influire in misura talora consistente sulla durata in carica della Commissione e sulla sua formazione. Nel 1999 le dimissioni della Commissione Santer, screditata da episodi di cattiva amministrazione, furono determinate dalla minaccia del PE di ricorrere alla mozione di censura, già attribuita come si è detto all’Assemblea dal Trattato di Roma. E nel 2004 il PE fece valere l’art. 214 TCE di fronte alla proposta del Presidente designato Barroso di membri della Commissione ritenuti inadeguati alla carica, con la conseguenza che Barroso dovette ritirare la proposta e avanzarne una idonea a raggiungere il consenso della maggioranza parlamentare. Se ne parlò come di «beginnings of Union authority» (Eijsbouts, W.T., The Barroso Drama: Reality for the EU Constitution, in EuConst, 1, 2005, 154).
Con l’unificazione dei tre pilastri di Maastricht disposta dal TUE e dal TFUE approvati a Lisbona nel 2007 ed entrati in vigore nel 2009, l’Unione dispone di un quadro istituzionale unico, con le conseguenze di cui diremo.
Parlamento europeo – Il PE vede accresciuti i suoi poteri anzitutto grazie all’elevazione della procedura di codecisione a procedura ordinaria di approvazione degli atti comunitari (art. 251 TFUE), con eccezioni in materia fiscale, di sicurezza e protezione sociale dei lavoratori, di importanti settori della politica commerciale comune. La generalizzazione della codecisione va di pari passo con l’estensione del campo di applicazione del voto a maggioranza qualificata in Consiglio, senza però approdare a una perfetta corrispondenza fra l’una e l’altra. Così, sulla cooperazione giudiziaria in materia penale, il TFUE consente ad ogni membro del Consiglio, ove ritenga che un progetto di legge in materia incida «su aspetti fondamentali del suo ordinamento giudiziario penale», di sospendere la procedura legislativa e di investire della questione il Consiglio europeo, che entro quattro mesi può rinviare nuovamente il testo al Consiglio dei Ministri o di attivare la procedura per la cooperazione rafforzata qualora almeno 9 Stati membri vogliano parteciparvi (artt. 82-83).
Il meccanismo (cd. emergency brake) dimostra che il nuovo Trattato non ha per nulla superato, se non addirittura aggravato (Mastroianni, R., La procedura legislativa e i parlamenti nazionali: osservazioni critiche, in Bassanini, F.-Tiberi, G., a cura di, Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, 2010, 191), la complessità del procedimento legislativo. Lo stesso problema solleva il Protocollo sulla sussidiarietà, che assegna a ciascun parlamento nazionale, nel corso del procedimento di formazione degli atti normativi dell’Unione, il potere di formulare pareri sul rispetto del principio di sussidiarietà, che, se condivisi da un terzo dei parlamenti nazionali, impongono il riesame del progetto da parte della Commissione, che può modificarlo, ritirarlo o mantenerlo con motivazione.
Consiglio europeo – L’art. 15 TUE non innova alle funzioni del Consiglio europeo, specificando solo che «non esercita funzioni legislative», mentre modifica notevolmente lo status del suo presidente. Eletto a maggioranza qualificata per la durata di due anni e mezzo (rinnovabile una sola volta), e reso incompatibile con un mandato nazionale, il presidente è chiamato fra l’altro a «presiedere e animare i lavori del Consiglio europeo», a «facilitare la coesione e il consenso» nel collegio, nonché ad assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione per la politica estera e di sicurezza salve le attribuzioni dell’Alto Rappresentante di cui diremo. L’obiettivo è di fornire continuità, intensità di azione e autorevolezza all’operato del Consiglio europeo, esigenze divenute improrogabili con l’allargamento dell’Unione a 27 Stati.
Consiglio – L’art. 16 TUE dispone che il Consiglio esercita, «congiuntamente al Parlamento europeo», la «funzione legislativa e di bilancio». A questa seguono le «funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento», senza specificarne le materie, ma «alle condizioni stabilite dai trattati». Scompare, nel testo dell’articolo, il riferimento alle «competenze di esecuzione delle norme», che ex art. 202 TFUE il Consiglio conferisce alla Commissione e che solo in casi specifici può riservare a sé.
Queste disposizioni mirano a separare e a riordinare i poteri tra le istituzioni dell’Unione, conferendo al Consiglio una funzione legislativa generale assieme al PE, con una corrispondente separazione dal Consiglio europeo, le cui funzioni escludono espressamente quelle legislative. Poiché a loro volta le funzioni «di definizione delle politiche e di coordinamento» non richiedono interventi di carattere normativo né di carattere esecutivo (divenute di competenza della Commissione e non più ad essa conferite dal Consiglio, salvo che per la PESC) il lavoro del Consiglio dei ministri si dovrebbe sviluppare intorno a due ruoli-chiave: legislativo e politico/di coordinamento interstatale.
Tali funzioni non sono però tra loro distinte a sufficienza, come risulta dalla disciplina delle formazioni del Consiglio. L’art. 16 menziona solo il Consiglio “Affari generali” e il Consiglio “Affari esteri”, demandando la definizione dell’elenco delle altre ad una decisione del Consiglio europeo, che continua a distinguerle per settori di intervento e non per funzioni svolte. Caduta la proposta di concentrare le funzioni legislative in una sola formazione, i ministri di settore rimangono legislatori unici sulla rispettiva materia nell’ambito del Consiglio, in assenza di confronto con i rappresentanti di altri interessi pubblici coinvolti. D’altra parte la perdurante confusione nell’esercizio delle funzioni del Consiglio vanifica parzialmente l’affermazione del principio di separazione dei poteri implicita nel regime degli atti giuridici (art. 228 ss. TFUE), come pure la possibilità di trasformare il Consiglio in una “Camera degli Stati” da affiancare al PE quale assemblea rappresentativa, sulla falsariga dei sistemi federali.
La Dichiarazione n. 3 allegata al TUE dispone poi che la presidenza del Consiglio, salvo il Consiglio affari esteri, «è esercitata da gruppi predeterminati di tre Stati membri per un periodo consecutivo di diciotto mesi», con un “sistema di rotazione paritaria”, che tiene conto della diversità degli Stati e degli equilibri geografici nell’Unione. Ciascun membro esercita a turno la presidenza «di tutte le formazioni del Consiglio» per un periodo di sei mesi e «gli altri membri del gruppo assistono la presidenza in tutti i suoi compiti sulla base di un programma comune». Il sistema, dominato da automatismi, riflette l’esigenza di garantire tutti gli Stati membri in modo uguale.
Commissione – In base all’art. 17 TUE la Commissione mantiene il monopolio dell’iniziativa legislativa e i compiti di vigilanza sull’applicazione dei trattati; acquisisce fra le altre la vigilanza sull’applicazione del diritto UE sotto il controllo della Corte di giustizia, l’esecuzione del bilancio e la gestione dei programmi, l’esercizio di funzioni di coordinamento, esecuzione e gestione.
La nuova disciplina del procedimento di formazione della Commissione prevede che il suo presidente sia eletto dal PE col voto favorevole dei suoi componenti, su proposta del Consiglio europeo adottata a maggioranza qualificata, che tiene conto delle elezioni del PE ed è preceduta da una consultazione con lo stesso; se la proposta è rigettata, il Consiglio europeo dovrà entro un mese avanzarne una nuova. Nel contemperare le ragioni degli Stati membri, della sopranazionalità e della legittimità democratica, la procedura richiede il previo accordo tra Consiglio europeo e Parlamento, pena il fallimento della proposta. La rilevanza necessaria degli esiti elettorali sottolinea poi, almeno sulla carta, la legittimazione democratica della Commissione, confermata dall’esplicita menzione del principio della sua responsabilità collettiva dinanzi al PE. Sotto questo profilo, il trattato spiana dunque la strada a un assetto istituzionale europeo improntato al modello parlamentare.
Eppure la Commissione mantiene la vigilanza sull’applicazione dei trattati ed anzi acquisisce quella sul diritto europeo, rimanendo così a più forte ragione “guardiana dei Trattati”. L’inerente tensione fra il ruolo di un’istituzione imparziale, se non neutrale, e quello di un’istituzione politica, in quanto espressione di una maggioranza parlamentare, dimostra che l’istanza di democratizzare l’Unione non è stata composta ma giustapposta a quella di preservarne l’originaria matrice funzionalistica.
L’art. 18 TUE istituisce poi la figura dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, nominato a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo e da esso revocabile con la stessa procedura, unificando le funzioni che i trattati europei assegnavano in precedenza, rispettivamente, all’Alto Rappresentante e al Commissario per le relazioni esterne. All’Alto Rappresentante per la PESC sono anche conferite le cariche di Presidente del Consiglio Affari esteri, in deroga al sistema di rotazione paritario della presidenza delle formazioni del Consiglio, nonché di vicepresidente della Commissione: in tale veste è sottoposto al pari degli altri membri del collegio al voto di approvazione da parte del PE, e nell’ipotesi di adozione da parte del PE di una mozione di censura della Commissione, deve dimettersi dalle sole funzioni che esercita in seno alla Commissione.
Come attesta una vastissima letteratura, i problemi dell’assetto istituzionale dell’Unione sono inseparabili da quelli delle sue funzioni e, per quella via, della stessa ragion d’essere di un ordinamento che è sempre sfuggito ai tentativi di catalogarlo sotto le opposte etichette di “organizzazione internazionale” e di “Stato”, in particolare di tipo federale. L’Unione, questioni teoriche a parte, si è storicamente caratterizzata per la sproporzione fra una debole investitura popolare, o “input legitimacy”, e una capacità di ottenere risultati per il benessere comune molto superiore a quella raggiungibile dai singoli Stati membri, o “output legitimacy” (Scharpf, F., Governing in Europe: Effective and Democratic?, Oxford, OUP, 1999, 6). Dalla premessa muovono sia quanti ritengono che le prestazioni rese dall’Unione bastino a giustificarne l’assetto, sia quanti considerano urgente colmare il divario fra la crescita esponenziale delle sue funzioni e il principio democratico accolto nelle Costituzioni nazionali.
Le modifiche dei trattati riflettono la convinzione che il recepimento della seconda opinione, attestato dall’affermazione che «Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» (art. 10 TUE), oltre che dal rafforzamento delle funzioni del PE, possa conciliarsi col mantenimento dei connotati che hanno assicurato il successo dell’Unione in termini di prestazioni rese. Senonché i congegni istituzionali adoperati allo scopo si rivelano incongrui al raggiungimento dell’obiettivo di una democratizzazione piena, e al contempo compatibile con l’acquis communautaire. Alcuni limiti risalenti non sono stati superati – la complessità del procedimento legislativo, la rigidità del sistema di assegnazione delle presidenze consiliari, la confusione nell’esercizio delle funzioni dei Consigli –, ed altri se ne sono aggiunti, a partire dal ruolo di Giano bifronte di fatto assegnato alla Commissione. Più che alla duplice legittimazione, in parte sovranazionale e in parte intergovernativa, dell’Unione in quanto tale, la spiegazione va cercata nell’intreccio cui essa si è prestata nella prassi. Dal Trattato di Maastricht in poi, il crescente drenaggio di attribuzioni dagli Stati membri consente ai governi nazionali, malgrado il loro ruolo determinante nelle scelte dell’Unione, di ripararsi dietro lo schermo di atti formalmente imputati all’UE, addossando l’intero peso di decisioni impopolari sulle istituzioni politiche europee, senza che queste risultino strutturate in modo da dar conto dell’esercizio del potere. Si vanifica così il principio di responsabilità, componente non dispensabile del costituzionalismo democratico, e si ipoteca la credibilità dell’Unione come costruzione comune, indipendentemente dall’adesione a una prospettiva federalista.
Per giunta, nella prassi seguita all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il Consiglio europeo continua a designare il candidato alla Presidenza della Commissione tenendo conto della volontà dei maggiori Stati membri ben più che dei risultati delle elezioni del PE, nel quale, del resto, le divisioni tra le famiglie di partiti europei hanno sempre contato meno di quelle interstatali. Ridotta al rango di “honest broker” fra Stati membri (Poiares Maduro, M.-De Witte, B.-Kumm, M., The Euro Crisis and the Democratic Governance of the Euro: Legal and Political Issues of a Fiscal Crisis, in European University Institute, High-level policy seminar, The Democratic Governance of the Euro, 10 May 2012, 2), la Commissione ha perso quel carattere di motore delle innovazioni dell’Unione che la connotava al di là del monopolio formale dell’iniziativa legislativa.
Nonostante i trattati tentino di configurare un nuovo equilibrio fra la componente sovranazionale e quella intergovernativa, quest’ultima ha dunque preso il sopravvento, tanto più con la crisi dell’eurozona. È vero che la storia dell’Unione ha conosciuto movimenti pendolari fra spinte all’integrazione e tendenze intergovernative (Perissich, R., L’Unione europea. Una storia non ufficiale, Milano, 2008, 305). Ma la fase più recente appare diversa dalle precedenti. Al deficit democratico si è aggiunta per la prima volta un’incapacità dell’Unione di rispondere alle sfide esterne che ne mette a repentaglio la stessa output legitimacy. E sono venuti allo scoperto il discarico di responsabilità dei governi, nella misura in cui non possono più mascherare il peso decisionale che assumono a Bruxelles, e la riluttanza dei partiti ad investire nella politica europea.
La crisi dell’eurozona ha in definitiva evidenziato come, ben più che dai trattati, la scarsa credibilità dell’assetto istituzionale dipenda dalla convenienza a mantenerlo in uno stato politicamente destrutturato. Per cambiarne il funzionamento, non mancano infatti proposte che prescindono da modifiche del diritto primario. In particolare, è diffusa l’opinione che allo scopo basterebbe che ciascuno dei maggiori partiti europei proponga un candidato alla Presidenza della Commissione, con relativa piattaforma programmatica, in occasione delle elezioni del PE: al termine di una competizione elettorale incentrata su diverse visioni del futuro dell’Unione, il candidato vincente sarebbe proposto dal Consiglio europeo “tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo”; e in virtù di convenzioni costituzionali, e di limitate modifiche dei trattati, la Commissione acquisirebbe un ruolo di governo, avviando una conforme stabilizzazione dell’assetto istituzionale.
Comunque, al di là della scelta fra innovazioni di tipo convenzionale e riforme dei trattati, certo è che la recente prassi ha mostrato una crisi irreversibile dei meccanismi latenti nella dinamica istituzionale dell’Unione.
Artt. 13 ss. TUE
Adam, R., Art. 3 TUE, in Tizzano, A., a cura di, Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Milano, 2004; Cartabia, M.-Weiler, J.H.H., L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000; Dewost, J.L., Le droit de la Communauté économique européenne. Commentaire du traité et des textes pris pour son application, vol. 9, Institut d’Etudes européens, Editions de l’Université de Bruxelles, 1973, 1 ; Eijsbouts, W.T., The Barroso Drama: Reality for the EU Constitution, in EuConst, 1, 2005; Mastroianni, R., La procedura legislativa e i parlamenti nazionali: osservazioni critiche, in Bassanini, F.-Tiberi, G., a cura di, Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, 2010; Poiares Maduro, M.-De Witte, B.-Kumm, M., The Euro Crisis and the Democratic Governance of the Euro: Legal and Political Issues of a Fiscal Crisis, in European University Institute, High-level policy seminar, The Democratic Governance of the Euro, 10 May 2012; Perissich, R., L’Unione europea. Una storia non ufficiale, Milano, 2008; Scharpf, F., Governing in Europe: Effective and Democratic?, Oxford, OUP, 1999.