Istorie fiorentine
Le Istorie fiorentine, concepite e scritte nella prima metà degli anni Venti del Cinquecento, sono l’ultima grande opera, in ordine di tempo, di Machiavelli. Esse furono occasionate, per così dire, da fattori esterni (l’opera fu commissionata dal cardinale Giulio de’ Medici, il futuro papa Clemente VII), ma è possibile rinvenire in M. qualche antecedente ‘storiografico’, anche se mai tradottosi in un’opera compiuta. Certo un interesse per la storia fiorentina è rintracciabile, seppure in forma sporadica, nei trattati (assai poco nel Principe, più chiaramente nei Discorsi, di cui si veda almeno I xlix e lv), e soprattutto nel Discursus florentinarum rerum (ma siamo ormai negli anni delle Istorie), dove per la prima volta la storia fiorentina non è letta in puro subordine a quella romana, ma diventa un criterio-guida del pensiero politico (Najemy 1982, p. 558). Se il primo Decennale (resoconto in terzine, dai forti connotati militanti, degli avvenimenti compresi tra il 1494 e il 1504) può essere solo latamente catalogato come testo storiografico, è però alla sua pubblicazione nel 1506 che si lega un’importante testimonianza: Agostino Vespucci, collaboratore e amico di M. che ne curò la stampa, nella lettera prefatoria all’edizione dice che esso è breve anticipazione (un «compendio») di un lavoro di più vasta mole che M. sta allestendo («che più largamente e con maggior sudore tutta via si batte nella sua fabbrica», in Opere, a cura di C. Vivanti, 1° vol., 1997, p. 93). A cosa esattamente Vespucci si riferisse non è dato sapere: se cioè a un’opera poetica paragonabile al Decennale o a una vera e propria opera storiografica. Al lavoro cui egli allude vanno forse ricondotti gli sparsi lacerti di scritture storiografiche (alcuni dei quali autografi) che ci sono pervenuti. Materiale assai eterogeneo, che va dal semplice appunto, a liste essenziali di avvenimenti (come i cosiddetti Spogli dal 1464 al 1501, in Opere storiche, t. 2, 2010, pp. 953-1009, in cui si intravede l’ossatura dei fatti narrati nel libro VII delle Istorie), fino a vere eproprie pagine di narrazione storiografica. È il caso, quest’ultimo, dei cosiddetti Frammenti storici (in Opere storiche, t. 2, cit., pp. 915-52), che si riferiscono ad avvenimenti compresi tra il 1494 e il 1498 e che rivelano uno stadio non definitivo (ci sono taluni rinvii e note con propositi di approfondimento), ma assai avanzato di elaborazione. Una scrittura, comunque, già complessa e matura dal punto di vista narrativo, tanto che alcuni studiosi (a partire da Pasquale Villari, 1877-1882) hanno creduto di vedere in quelle pagine i resti di una incompiuta prosecuzione delle Istorie (la cui narrazione si ferma al 1492). A queste scritture vanno ricondotte anche le Nature di uomini fiorentini (in Opere storiche, t. 1, 2010, pp. 73-76), brevi ritratti di uomini politici fiorentini di fine Quattrocento, che sono strettamente legati (come indicano precise riprese letterali) ai Frammenti storici.
Le Nature ci sono pervenute autografe – diversamente dai Frammenti storici, ricavati dal famoso copiario della Biblioteca nazionale centrale di Firenze (EB 15 10), di Giuliano de’ Ricci (→), nipote di M. –; l’analisi della grafia consente di datarle con sicurezza ai primi anni del Cinquecento (un dato che potrebbe essere esteso, per le consonanze di cui si è detto, ai Frammenti storici), dunque all’epoca in cui M. eraancora in servizio attivo presso la Repubblica. È certamente possibile che i Frammenti storici siano legati al lavoro d’ufficio di M. (una legge del 1483 indicava tra i doveri della cancelleria quello di redigere storie e annali delle vicende cittadine), ma certo le loro caratteristiche (assieme alla testimonianza di Vespucci) sembrano suggerire l’esistenza di un’aurorale attività storiografica di M., forse in vista di una rilettura approfondita degli avvenimenti cittadini degli anni repubblicani; qualcosa di non diverso da quanto, su un’altra sponda politica, l’aristocratico e antisoderiniano Francesco Guicciardini andava facendo in quel giro di anni (pur senza intenzione di farle circolare) con le Storie fiorentine (Varotti 2006, pp. 139-41).
Se dunque possiamo solo ipotizzare le forme e i contenuti di una precoce esperienza machiavelliana di storiografia fiorentina, la vicenda delle Istorie ci conduce però, con l’evidenza di quanto è documentato dai fatti, al 1520. Nei primi mesi di quell’anno – grazie a Lorenzo Strozzi e alle intercessioni degli amici frequentatori delle riunioni degli Orti Oricellari – M. era stato introdotto a Palazzo Medici, dove era figura di riferimento (morto il giovane Lorenzo, duca diUrbino) il già citato cardinale Giulio. È in questo contesto che matura presso i Medici la decisione di affidare a M. l’incarico, retribuito, di scrivere una storia di Firenze. In una lettera inviata da Roma il 26 aprile di quell’anno, Giovanni Battista Della Palla (intimo amico e frequentatore degli Orti) informa M. di avere «parlato [...] particularmente al papa» (Leone X) dei «casi» dell’amico, trovandolo nei suoi confronti «ottimamente disposto» (Lettere, p. 362); e tra i «casi» menzionati figura appunto il fare avere a M. «una provisione per scrivere o altro». È così preannunciato l’incarico che l’8 novembre di quell’anno si concretizzerà in un vero e proprio contratto («condotta»), finanziato dall’università, per scrivere «annalia et cronicas florentinas». I termini della «condotta» (pubblicata in Villari 1877-1882, 3° vol., p. 121) poco specificano su forma e contenuto del lavoro commissionato. Ciò non stupisce: lo stesso M. il 10 settembre – cioè due mesi prima della stesura del contratto – aveva inviato una lettera a Francesco Del Nero, provveditore dell’università, indicandogli la falsariga di un accordo i cui termini rispettassero i suoi intendimenti. In essa M. chiedeva ampia discrezionalità sia nei contenuti (da quale epoca cominciare la narrazione e se optare o no per la forma annalistica) sia nella scelta della lingua:
Sia condotto per anni ecc. con salario ogni anno ecc. con obligo che debba e sia tenuto scrivere gli annali o vero le istorie delle cose fatte da lo stato e città di Firenze, da quello tempo gli parrà più conveniente, et in quella lingua o latina o toscana che a lui parrà (Lettere, p. 367).
Tale indeterminatezza indica come, ancora poche settimane prima che il lavoro gli fosse commissionato, M. non avesse ben chiaro in che termini organizzarlo; ma indica anche come egli fosse consapevole che l’alternativa tra volgare e latino era una scelta tutt’altro che pacifica, tanto da volersi garantire contrattualmente la libertà di optare per l’una o per l’altra lingua. Che poi, tra la primavera e l’autunno del 1520, la commissione di quel libro fosse assai attesa negli ambienti degli amici fiorentini, è inequivocabilmente testimoniato dalla lettera che l’‘oricellario’ Zanobi Buondelmonti (uno dei dedicatari dei Discorsi, e tra gli interlocutori dell’Arte della guerra) gli scrisse il 6 settembre, informandolo dell’avvenuta ricezione (e lettura) della Vita di Castruccio Castracani (stesa a Lucca durante quell’estate, e prontamente inviata a Firenze), e comunicandogli il desiderio di tutti gli amici che finalmente gli fosse affidata la stesura del lavoro storiografico: «Pare a tutti che voi vi dobbiate mettere con ogni diligenzia a scrivere questa istoria; et io sopra gli altri la desidero» (Lettere, p. 366). Che poi a caldeggiare l’incarico a M. ci fosse anche Guicciardini non è che un’ipotesi, ma tutt’altro che peregrina; sia perché nel maggio del 1521 (a quando cioè risalgono le prime lettere a noi pervenute intercorse tra i due) M. e Guicciardini appaiono già avere maturato una certa familiarità, sia perché M. poté leggere – come è stato dimostrato (Pieraccioni 1989) – il testo delle Storie fiorentine, l’incompiuta opera giovanile di Guicciardini, che solo per un particolare favore dell’estensore poteva essere stata messa a disposizione di M. (come è noto, Guicciardini non fece mai circolare i suoi scritti, che rimasero quasi tutti gelosamente custoditi, fino al 19° sec., nell’archivio familiare).
La stesura delle Istorie era certamente ormai completata nel maggio del 1525, quando M. portò personalmente l’opera al papa, a Roma. Anche se non sono mancati tentativi di definire una cronologia articolata sui tempi di elaborazione del testo, risulta difficile approdare a risultati che non siano meramente congetturali, data la povertà di indicazioni, che le si ricavino all’interno del testo stesso o da testimonianze esterne. È il caso, quest’ultimo, di una lettera a Guicciardini inviata da Sant’Andrea in Percussina il 30 agosto 1524: M. informa l’amico che si sta dedicando assiduamente alla stesura del libro («ho atteso e attendo in villa a scrivere la istoria», Lettere, p. 389), e dice che molto desidererebbe averlo al proprio fianco, per trarne consigli nell’affrontare alcuni passaggi delicati del suo lavoro:
Pagherei dieci soldi, non voglio dir più, che voi foste in lato che io vi potessi mostrare dove io sono, perché, avendo a venire a certi particulari, arei bisogno di intendere da voi se offendo troppo o con lo esaltare o con lo abbassare le cose; pure io mi verrò consigliando, et ingegnerommi di fare in modo che, dicendo il vero, nessuno si possa dolere (p. 389).
Se la lettera documenta le preoccupazioni dello scrittore, poco o nulla ci dice però sullo stato di avanzamento dei lavori. I «particulari» che impensierivano M. erano con ogni evidenza relativi al giudizio sul periodo del potere mediceo a Firenze (143494), la cui narrazione copre tutta la seconda parte dell’opera (dal libro IV, che narra la presa di potere di Cosimo il Vecchio, nel 1434), e che a quell’altezza non poteva non essere già stata per la gran parte scritta. I «particulari» non dovevano essere che sfumature e dettagli, dai quali nondimeno avrebbe potuto trasparire un giudizio politico sul regime che passasse il segno, o perché pericolosamente critico o perché eccessivamente encomiastico.
Che alla fine del 1524 il lavoro dovesse essere ormai concluso, sembra ricavabile dalla lettera che Francesco Vettori spedisce da Roma a M. l’8 marzo 1525. Vettori non solo fa sapere all’amico che il papa aspetta il lavoro («mi domandò per se medesimo di voi e dissemi se avevi finito la Istoria», Lettere, p. 391), ma che per parte sua egli l’ha rassicurato dicendogli «che avevi fatto insino alla morte di Lorenzo» (p. 391). A onor del vero, nella sua lettera Vettori, che dice di avere «veduto parte» del lavoro, non specifica se in quella «parte» fosse compresa anche la sezione conclusiva, con il racconto della morte di Lorenzo; ma considerato che egli lasciò Firenze per Roma nel gennaio del 1525, se ne ricava che già all’inizio dell’anno il lavoro era a un punto tale da essere fatto vedere agli amici come prova della sua compiutezza.
Le Istorie che noi conosciamo (e che appunto con la morte di Lorenzo si chiudono) sarebbero dunque a quella data già arrivate al traguardo conclusivo, anche se non possiamo sapere quanto lavoro di ripulitura, tra revisioni, spostamenti e aggiunte, fosse ancora necessario per giungere al testo finito. Né possiamo trarre indicazioni univoche dal solo passo delle Istorie dal quale è ricavabile una precisa indicazione cronologica sull’epoca della stesura. Nel capitolo xvii del I libro (adottiamo la tradizionale divisione in capitoli delle Istorie, che è stata però introdotta dagli editori moderni, poiché M. concepì ognuno dei singoli libri come un testo continuo) si parla dell’istituzione delle crociate (nel 1095). A conclusione di un breve bilancio (l’impresa fu «nel principio gloriosa, perché tutta la Asia minore, la Soría e parte dello Egitto venne nella potestà de’ cristiani», I xvii 4), M. parla dell’«ordine de’ cavalieri di Ierosolima [gli Ospitalieri, o Giovanniti], il quale ancora oggi regna e tiene l’isola di Rodi, rimasa unico ostaculo alla potenzia de’ maumettisti» (I xvii 4). Poiché Rodi cadde in mano turca nel dicembre del 1522, se ne ricava che quelle parole (poi non modificate nella versione finale, evidentemente per disattenzione dell’autore) furono scritte prima di quella data. Ciò che non stupisce e nulla di significativo ci dice, essendo ovvio che a distanza di due anni dalla commissione della stesura dell’opera, il libro I fosse già stato scritto. Non sembra infatti persuasivo quanto ipotizzato da Felix Gilbert (1972, 19772, p. 317), secondo il quale quelle parole non possono essere state scritte prima dell’estate del 1522, quando cioè i turchi assediarono Rodi, spostando così sull’isola le loro mire, prima indirizzate contro l’Ungheria: traendo da ciò un’indicazione (assieme ad altre, che qui non consideriamo) che il libro I sarebbe stato scritto quando già una parte significativa delle Istorie era stata completata o per lo meno abbozzata; come se, prima che i turchi assediassero Rodi, non fosse legittimo parlare dell’isola come di «unico ostaculo», di avamposto cristiano in un Mediterraneo orientale completamente islamizzato (su tutta la questione si veda Dionisotti 1970, poi 1980, pp. 383 e segg.).
Se dunque possiamo agevolmente indicare i confini cronologici del lavoro di scrittura delle Istorie, non sembra invece possibile ricavare indicazioni precise sull’epoca di stesura dei singoli libri, i quali poterono anche avere una circolazione manoscritta autonoma, come pare suggerire il fatto che nella tradizione manoscritta antecedente alle stampe (sono in tutto quattro codici, uno dei quali però incompleto) ogni singolo libro si apre con una dedica a Giulio de’ Medici, talora designato con il titolo di cardinale, talora come papa. Indicazioni di una ‘cronologia’ relativa – con importanti informazioni sulla modalità di lavoro di M. – ci vengono invece dall’analisi dei Frammenti autografi (noti anche come Abbozzo delle Istorie fiorentine), una serie di brani autografi che testimoniano fasi di elaborazione precedenti alla stesura definitiva delle Istorie. Essi sono in gran parte conservati nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze (carte Machiavelli, cass. I 82) e provengono dal fondo della famiglia Ricci: si tratta di materiali (undici frammenti) in fogli cartacei, racchiusi in altri fogli numerati dai bibliotecari. Furono dapprima pubblicati nell’edizione curata da Luigi Passerini e Gaetano Milanesi (1874, pp. 1-74), poi ripubblicati in edizione critica da Plinio Carli (1927, pp. 225-304). In seguito altri frammenti delle Istorie sono stati ritrovati nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze (carte Fossi, NA 1201) da Eugenia Levi (1967) e poi nella Biblioteca Apostolica Vaticana (codici Capponiani, 107 [2]) da Jean-Jacques Marchand (1970). Tutti i frammenti noti (Carli 1927, Levi 1967, Marchand 1970), già presenti nel 2° vol. delle Opere di M., curato da Alessandro Montevecchi (1986, pp. 761-847), sono stati poi editi criticamente dallo stesso Montevecchi (in Opere storiche, t. 2, cit., pp. 789-903). I quindici frammenti così risultanti corrispondono nelle Istorie a parti dei libri II (frr. I-V), IV (frr. VI e VII), VI (frr. VIII-XII) e VII (frr. XIII-XV).
Come si accennava, i Frammenti autografi, testimoniando diversi stadi di elaborazione del testo, offrono interessanti informazioni sul modo in cui M. procedette nella stesura delle Istorie. Per es., il frammento XIII (scoperto da Levi) ci mostra un primo livello di scrittura costituito di «veri e propri riassunti, ancora informi, di notizie» (Nota introduttiva ad Abbozzo delle Istorie fiorentine, in Opere storiche, t. 2, cit., p. 791): una stesura quasi currenti calamo, che costituiva una traccia da ampliare e da ristrutturare verso la redazione definitiva (che in questo caso corrisponde ai capp. vii-xv del libro VII). Ma le informazioni più interessanti fornite dai frammenti dell’Abbozzo riguardano i capitoli introduttivi e le orazioni. Anche se (Inglese 1989) è eccessivo ritenere (come fa Levi sulla base del frammento VIII da lei scoperto, relativo a Istorie VI i-iii) che tutti i capitoli introduttivi delle Istorie (non narrativi bensì dedicati a questioni teoriche, eccetto quello del libro I) siano stati scritti dopo la stesura del libro VI, possiamo però dire che M. scrisse a parte, e in tempi diversi, alcune pagine di particolare complessità teorica (e i capitoli introduttivi non soltanto presupponevano un più solido impianto concettuale e argomentativo, ma anche un complessivo disegno logico, che tenesse conto dell’intera opera e delle sue articolazioni interne) o formale. È il caso, quest’ultimo, dei discorsi diretti pronunciati dai protagonisti, come è testimoniato da due frammenti dell’Abbozzo (ambedue scoperti da Marchand nella Biblioteca Apostolica Vaticana) che contengono singole orazioni, evidentemente lavorate in maniera autonoma (il primo dei due frammenti reca addirittura un titolo di mano di M.: Orazione de’ signori al duca d’Atene): si tratta del frammento IV – che corrisponde nella redazione definitiva a Istorie II xxxiv, una pagina retoricamente elaboratissima – e del frammento X – che contiene due diverse stesure del discorso degli ambasciatori milanesi al duca Francesco Sforza, che nella redazione definitiva (Istorie VI xx) verranno rifuse e ricombinate.
Un cenno merita poi il fatto che possediamo la prima stesura del testo corrispondente a Istorie VI xxv-xxxiii (fr. XI) e Istorie VI xxxv (fr. XII), con un’interruzione proprio in corrispondenza di una pagina che evidentemente M. sentì come qualcosa di autonomo, tanto da elaborarla a parte e inserirla solo in un secondo tempo nel testo: è il famoso capitolo (Istorie VI xxxiv) in cui M. descrive un violento uragano abbattutosi sulle campagne fiorentine: un autentico pezzo di bravura, scritto quasi in gara con la sua probabile fonte umanistica (una lettera che Poggio Bracciolini inviò a Domenico Capranica tra l’agosto e il settembre del 1456, a distanza di pochi giorni dall’evento), in cui M. applica coscientemente la tradizionale norma retorica che consigliava allo storiografo di interrompere talora la narrazione degli eventi con una pausa descrittiva di eventi naturali eccezionali.
Una serie di testimonianze, dunque, che concordano nell’indicare come M. si confrontasse con grande attenzione con le peculiarità di un genere rigorosamente codificato come quello storiografico: in un complesso equilibrio tra conservazione e innovazione che costituisce uno degli aspetti, e non l’ultimo, della qualità letteraria delle Istorie.
Le Istorie raccontano in otto libri la storia di Firenze dalle origini alla morte di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico (1492), ma secondo una struttura non lineare e attenendosi a una grande varietà della durata espositiva: a periodi trattati nella forma del veloce sommario, si alternano periodi su cui l’attenzione del narratore si sofferma puntualmente, né mancano veri e propri rallentamenti del tempo della storia, per lasciare spazio ad articolate e complesse orazioni dirette, o per dilatare il racconto di episodi particolarmente rilevanti o, in senso positivo o negativo, esemplari. La rinuncia alla narrazione annalistica (che era, come si è visto, una delle possibili forme prospettate nella ‘condotta’ delle Istorie) offre a M. una maggiore libertà nel mettere in rilievo i fattori essenziali per la sua interpretazione dei processi politici e sociali (Anselmi 1979, p. 169): riservando ampio spazio a personaggi o episodi che rappresentano snodi fondamentali della storia cittadina, o a momenti capaci di rappresentare in maniera significativa peculiarità o tendenze profonde delle vicende sociali e istituzionali di Firenze. Analogamente, una maggiore libertà nel trattamento della cronologia gli consente di meglio stabilire nessi causali tra eventi anche lontani, ma legati da una logica interpretativa profonda. Un caso in qualche modo estremo è poi costituito dal I libro, che condensa – in una sintesi capace a tratti di vertiginose verticalizzazioni – la storia italiana ed europea dalla crisi dell’impero romano (4° sec.) ai primi decenni del 15° secolo.
La storia fiorentina vera e propria è avviata nel libro II con la trattazione della fondazione (in epoca romana) della città. Il racconto passa però subito al 1215 (inizio, secondo la tradizione, delle contese tra guelfi e ghibellini), estendendosi, nel II libro, fino al 1350 circa, con un’attenzione concentrata sulle lotte e ‘divisioni’ interne. Il libro III copre la seconda metà del 14° sec., affrontando alcuni dei momenti di più grave crisi interna della città, fino all’imporsi dell’oligarchia industriale e finanziaria che dominerà la politica cittadina nei decenni a cavallo tra il 14° e il 15° secolo. Il libro IV, in gran parte dedicato all’ascesa al potere di Cosimo, si chiude con il suo rientro trionfale in città, nel 1434. Tutta la seconda parte delle Istorie (libri V-VIII) copre il periodo mediceo, fino alla morte del Magnifico. La narrazione presenta in questi libri un carattere particolarmente articolato, a cominciare da un ampliamento degli orizzonti che si aprono verso le vicende esterne (soprattutto le guerre nell’Italia centro-settentrionale tra Milano, Venezia e i vari papi). Molta attenzione è dedicata alla politica estera (che nella prima parte dell’opera è quasi assente) e alle profonde interazioni tra la realtà italiana, le vicende politiche interne e le sorti della famiglia egemone (a cominciare dal nuovo assetto politico, fortemente voluto da Cosimo e fondato, a partire dagli anni Cinquanta del Quattrocento, sull’alleanza tra Firenze e Milano); ma non mancano narrazioni dettagliate di episodi non fiorentini, il cui spazio e la cui autonomia narrativa trascendono le esigenze di chiarificazione della politicaestera cittadina. È il caso del racconto delle imprese militari di Francesco I Sforza fino alla presa del potere a Milano (1450), disteso in vari capitoli dei libri V e VI (ma si veda soprattutto VI xiii-xxiv), della congiura antipapale del Porcari (VI xxix) e della congiura milanese del 1476, in cui perse la vita il figlio di Francesco, il duca Galeazzo Maria Sforza (VII xxxiii-xxxiv). Dopo la morte, nel 1464, di Cosimo (VII v-vi), che è il personaggio di maggior rilievo delle Istorie, M. tratta del contrastato quinquennio del governo di Piero de’ Medici (capp. vii-xxiii) e – alla morte di lui – del delicato passaggio del potere ai figli, Lorenzo e Giuliano. Al governo di Lorenzo, sopravvissuto alla congiura dei Pazzi (narrata in un lungo e dettagliato racconto che occupa tutta la prima parte del libro VIII) è consacrato l’ultimo libro delle Istorie: l’opera si chiude con un bilancio-elogio di questo personaggio (VIII xxxvi), che allude al mito, allora in via di consolidamento, di un Lorenzo artefice della pace italiana, la cui morte apre la via (e sono le meste parole conclusive dell’opera) a «quelli cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi li sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia» (VIII xxxvi 25).
Il proemio costituisce una delle pagine più celebri delle Istorie, perché non solo vi sono indicate alcune chiavi interpretative essenziali per leggere l’opera, ma sono anche suggeriti aspetti metodologici della storiografia machiavelliana. In esso M. accenna a una iniziale intenzione di avviare la narrazione dal 1434, essendo gli anni precedenti già stati ‘coperti’, per così dire, da due insigni storiografi ufficiali della Repubblica, Leonardo Bruni (la cui narrazione va dalle origini della città al 1404) e Bracciolini (che arriva alla pace di Lodi, nel 1454). In un secondo tempo M. avrebbe tuttavia deciso di risalire a tempi più antichi (di fatto, come si è visto, al 1215), perché deluso dal modo in cui i due massimi esponenti della storiografia umanistica fiorentina avevano concepito le loro opere: esse sul piano storiografico risultano corrette e diligenti quando trattano di politica estera, ma del tutto carenti nel descrivere i fatti di politica interna, avendo la loro narrazione
delle civili discordie e delle intrinseche nimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, [...] una parte al tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno (§ 2).
È stato spesso osservato che l’accusa appare eccessiva, perché a Bracciolini (cui l’osservazione machiavelliana può effettivamente adattarsi) accomuna Bruni, il quale fu tutt’altro che disattento a ricostruire le dinamiche interne delle lotte sociali e politiche del comune (al punto che proprio sotto questo profilo lo stesso M. ampiamente se ne servì, nel II e nel III libro, come inequivocabilmente dimostrano le analisi di Anna Maria Cabrini, 1985 e 1990). E tutt’altro che lievi sono i toni della polemica di M. quando osserva come le ragioni che spinsero i due umanisti a tali scelte storiografiche risultano «indegne di uomini grandi» (§ 4), sia che essi così facessero perché consideravano quelle «discordie» «indegne d’essere mandate alla memoria delle lettere», sia che «temessero di non offendere i discesi di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare» (§ 3).
Nel proemio viene indicata da M., se non esplicitamente certo di fatto, la centralità dell’esperienza medicea nella sua ricostruzione storica. Il corso politico aperto dalla già citata ascesa al potere di Cosimo, nel 1434, costituisce il discrimine fondamentale della periodizzazione della storia cittadina: tanto più che esso è il risultato di una vicenda complessa di lotte e di tensioni interne, che può essere compresa solo all’interno di una logica interpretativa che quelle lotte (le «civili discordie» e le «intrinseche inimicizie») ponga al centro della ricostruzione. La polemica (tanto più significativa nel suo eccesso ‘antibruniano’) contro la storiografia umanistica dei predecessori costituisce un’indicazione programmatica e metodologica che vale in due ambiti. Il primo è specifico alla materia: non si può spiegare il sessantennio mediceo prescindendo dalla storia lunga delle lotte sociali cittadine. Il secondo è più genericamente metodologico: nessuna storiografia può prescindere da una ricostruzione accurata (che non tralasci i «particulari») delle dinamiche sociali e politiche interne a uno Stato. Proprio la ricostruzione di tali vicende costituendo anzi la principale fonte, per il lettore, di ‘diletto’ e di ‘utilità’ («se niuna cosa diletta o insegna, nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione [lettura] è utile a cittadini che governono le republiche, è quella che dimostra le cagioni delli odi e delle divisioni delle città», § 4). Ed è questo un portato teorico irrinunciabile per l’autore dei Discorsi, che aveva indagato e ribadito con decisione il nesso inscindibile tra politica estera e costituzione, tra guerre e ‘ordini’, tra la stabilità delle istituzioni e la possibilità di esprimere politicamente e per vie legali gli ‘umori’, le legittime aspirazioni che caratterizzano le diverse componenti sociali della Repubblica.
Non senza malizia, M. chiama in causa le divisioni interne di Roma e di Atene, che Firenze superò dimostrandosi esempio straordinario (in quanto portatrice di un’autentica, ma ambigua, eccezionalità) di repubblica ‘divisa’. Mentre, infatti, Roma e Atene (così come «la maggior parte delle altre repubbliche») «sono state contente d’una divisione, [...] Firenze, non contenta d’una, ne ha fatte molte» (§ 6). Parole sarcastiche, che non sono un’esecrazione delle divisioni interne – componente ineliminabile di ogni realtà politica, come è detto in molti passi dei Discorsi e come sarà chiarito, nelle Istorie, in apertura del libro VII – ma vogliono stigmatizzare il carattere degenerato delle lotte politiche fiorentine, che mai seppero trovare un equilibrio, una formula che desse una risposta istituzionalmente definitiva e stabile al contrasto politico-sociale interno.
Se dunque, sul piano metodologico, M. indica la via di una storiografia che interpreti i fatti sulla base dei fattori profondi della politica (interessi, istanze, dinamiche istituzionali), nel suo imprescindibile rapporto tra fattori strutturali e successione degli avvenimenti, sul piano immediato, quello del giudizio sulle recenti vicende cittadine, il racconto presuppone lo sfondo della decadenza e della degenerazione: o meglio, presuppone quelle forme degenerate di un conflitto politico incapace di trovare una mediazione tra istanze diverse, in cui è possibile riassumere il senso della politica interna antecedente al 1434. Ma se quel conflitto è necessario per comprendere la storia dopo il 1434, ciò suggerisce che tale storia, di quell’antefatto, non sarà la negazione, ma l’esito perfettamente conseguente.
Che le Istorie, così come le leggiamo, non siano un’opera realmente completa e che M. avesse l’intenzione di proseguire la narrazione con gli anni successivi alla morte di Lorenzo duca di Urbino, è ipotesi suggerita da alcuni passi dell’opera. In due luoghi del libro VIII, dunque collocabili nelle fasi conclusive della scrittura, viene infatti espressa l’intenzione di proseguire la narrazione oltre il 1492. In VIII ix 17, ricordando che Giuliano de’ Medici (vittima nella congiura dei Pazzi del 1478) ebbe un figlio naturale, Giulio (il futuro papa Clemente VII), M. scrive che i meriti di quest’ultimo saranno narrati «quando alle presenti cose perverremo». Un’indicazione del genere, che sembra addirittura accennare alla più stretta attualità, non ha per la verità altri riscontri: altrove M. sembra indicare il 1494 come punto di arrivo dell’opera. È il caso di un passo di VIII xviii 7, che preannuncia il racconto delle cattive azioni del duca di Milano Ludovico Sforza detto il Moro che «fu, come si dimosterrà, cagione della rovina di Italia» (responsabile principale, cioè, della discesa nella penisola del re di Francia Carlo VIII nel 1494). Analogamente, in V i 11, M. accenna a ciò «che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto». Più generica, ma assai importante, è l’indicazione ricavabile nella stessa dedica a papa Clemente VII (che non sarà stata scritta molto prima del maggio 1525, allorché l’opera fu presentata al committente), dove M. parla di quanto «scritto insino a ora» e si augura di avere sufficiente vita (e sostegno da parte del papa) per «seguitare l’impresa» (dedica 15).
Se dunque sembra documentato che, almeno fino a un certo momento (e comunque in un’epoca non lontana dalla presentazione ufficiale del lavoro), M. pensasse seriamente di proseguire la narrazione, sembra altrettanto certo che una continuazione era attesa da chi gli stava attorno, a cominciare dallo stesso committente: al quale M. non avrebbe, se pure in termini vaghi e generici, promesso la ripresa del lavoro se essa non fosse stata nei voti del destinatario. E valga anche la testimonianza di Vettori, che nella già citata lettera dell’8 marzo 1525 non sembra pensare a un lavoro ‘finito’, ma a una sua tappa intermedia (come si ricorderà, dice al papa che M. ha «fatto insino alla morte di Lorenzo», Lettere, p. 391). Ma se una prosecuzione del libro fu nelle intenzioni di M., certo essa non può essere intesa estendersi fino al presente (malgrado la testimonianza, unica, di VIII ix). Un’impresa di tal genere non poteva non risultare ardua e pericolosissima (soprattutto per chi, come M., non godeva certo di una solida posizione a Firenze, e molto faticosamente aveva ripreso a «voltolare un sasso», M. a Vettori, 10 dic. 1513, Lettere, p. 297). Non è invece da escludere che M. pensasse effettivamente al 1494: una sorta di ipotetico libro IX delle Istorie che avrebbe riallacciato il racconto all’evento-svolta, la discesa in Italia di Carlo VIII, che prima di diventare l’incipit della Storia d’Italia di Guicciardini era stato trattato, già da tempo, in opere storiografiche note, come i Diaria de bello Carolino di Alessandro Benedetti, stampati a Venezia nel 1496, o il De bello italico di Bernardo Rucellai, scritto nei primi anni del Cinquecento.
Certo è suggestivo pensare che M. immaginasse, in un dato momento, di mettere a frutto il ricchissimo materiale annalistico accumulato negli anni della cancelleria (e in parte documentato, come si è detto, dai Frammenti storici): ma chi può realmente credere che egli si sarebbe imbarcato in un’impresa così pericolosa, come quella di trattare eventi in cui erano stati coinvolti uomini e gruppi in molti casi ancoraattivi? È plausibile invece che (ancora nell’inverno tra il 1524 e il 1525) pensasse seriamente a proseguire il racconto fino al 1494, aggiungendo insomma alle Istorie quegli eventi che avrebbero dovuto rappresentare la naturale ‘conclusione’ di un processo storico che poteva essere letto secondo una duplice chiave, sia italiana (la fine di un periodo di pace relativa e la fine dell’indipendenza politica degli Stati italiani) sia cittadina (la conclusione del primo periodo mediceo, il sessantennio 1434-94). Né è pensabile che quel proposito – espresso fino all’ultimo in contesti ufficiali, perciò vincolanti – non fosse sincero. Certo i mesi successivi alla presentazione dell’opera (maggio 1525) non furono sereni per l’Italia e per il papa. La grande battaglia di Pavia e il complesso lavoro diplomatico che ne seguì, fino alla creazione della lega di Cognac (un’alleanza tra alcuni Stati italiani e la Francia, in funzione antimperiale), non dovettero fare della continuazione delle Istorie la prima preoccupazione di Clemente VII. Del resto, lo stesso M. non poteva non guardare ai fatti che si delineavano all’orizzonte con la passione di un tempo per la politica vissuta, tanto più che il potente amico Guicciardini – in quel periodo grande protagonista della diplomazia papale e principale ispiratore della lega – cominciava a servirsi di lui come uomo di fiducia per missioni e incarichi. Pur tra gli acciacchi della vecchiaia, un M. fattosi di nuovo «cavallaro» difficilmente avrà pensato a riprendere in mano quelle carte, tanto più che il racconto della breve e disgraziata signoria di Piero de’ Medici (cacciato da Firenze nel novembre del 1494) gli sarà infine apparso per quello che era: materia ancora più delicata e spinosa di quella relativa a Lorenzo e Cosimo, rispettivamente padre e bisnonno di Piero.
Tutti i libri dal II all’VIII sono introdotti da valutazioni teoriche. Lo stesso M. vede in ciò un fattore strutturale importante delle Istorie, tanto da segnalare al lettore, così enfatizzandola, la «consuetudine» di anteporre alla narrazione storica considerazioni di carattere generale: «Ma prima voglio, alquanto secondo la consuetudine nostra ragionando, dire come coloro che [...]» (VII i 5).
Che i capitoli introduttivi siano stati concepiti o no unitariamente al tempo della stesura del VI libro (secondo la discussa tesi di Levi sopra citata), certo è che queste pagine (tra le più giustamente celebri dell’opera) esprimono un disegno concettualmente unitario e consapevole. È perciò tanto più importante considerarne la logica complessiva, quanto più esse appaiono come gli snodi di una rete concettuale che agisce sia in direzione orizzontale (il capitolo introduttivo può fornire infatti precise chiavi interpretative del libro al quale appartiene) sia in direzione verticale (nelle connessioni che legano i singoli capitoli ‘proemiali’ tra loro: in un discorso organico e coerente che riprende, in una fitta rete di rimandi interni e intratestuali, temi e motivi caratteristici della riflessione politica machiavelliana).
Il libro II si apre con una considerazione, solo apparentemente estemporanea, sulle antiche colonie romane: una pratica la cui utilità geopolitica M. aveva illustrato soprattutto in Principe iii. Se il testo proemiale introduce direttamente la pagina sulla fondazione di Firenze (cap. ii), che fu appunto colonia romana (e perciò negativamente segnata ab origine da un destino ‘non libero’), stabilisce anche un legame verticale con il quadro complessivo di decadenza che segna irrimediabilmente la prima parte delle Istorie, dal grandioso affresco medievale del libro I (che si apre con il crollo della più straordinaria creazione politica che l’umanità abbia mai conosciuto, Roma e il suo impero), alle forme degenerate della lotta politica fiorentina trattate nei libri II e III. L’abbandonata pratica del dedurre colonie non è perciò soltanto uno dei tanti «grandi e maravigliosi ordini» antichi ora perduti (II i 1); è anche, e soprattutto, l’espressione di una corruzione dei moderni che hanno perduto ogni «appetito di vera gloria» (II i 12).
Il duplice nesso, orizzontale e verticale, che il capitolo proemiale stabilisce nel testo, è ben rilevabile nell’incipit del libro III. Il capitolo introduce il tema dominante del libro, interamente dedicato alle «nimicizie tra il popolo e la plebe» (III i 10), cioè alle lotte sociali tra la borghesia e l’area del lavoro salariato o dell’infimo artigianato; e lo fa confermando la dicotomia fra antico (Roma) e moderno (Firenze), come espressioni in positivo e in negativo, rispettivamente, della gestione costituzionale delle lotte sociali (prodotte dagli «umori» delle diverse classi): che a Roma non ebbero effetti destabilizzanti (e anzi favorirono la grandezza della città), mentre a Firenze «con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano» (III i 2). È un tema che richiama notissimi luoghi dei trattati maggiori (Discorsi I ii e segg., Principe ix), ma che viene riproposto come chiave interpretativa storica delle lotte sociali fiorentine e dei suoi effetti nel lungo periodo. Il carattere degenerato delle lotte sociali fiorentine produsse infatti la distruzione della nobiltà, tradizionale detentrice del valore militare, e dei codici comportamentali e morali che la caratterizzavano, cosicché «quella virtù delle armi e generosità di animo che era nella nobiltà si spegneva, e nel popolo, dove la non era, non si poteva raccendere» (Istorie III i 7). Un esito che non solo preannuncia la debolezza militare fiorentina apertamente denunciata (se pure inserita nel contesto più vasto della decadenza militare italiana) nel capitolo introduttivo del libro VI (un concentrato dei consolidati argomenti machiavelliani contro le armi mercenarie), ma che anche allude a quella assenza di «vera gloria» che in apertura del libro II era stata indicata come cifra del mondo moderno.
Molto complesse sono poi le linee concettuali riscontrabili nella pur brevissima introduzione del libro IV, che per la prima volta (il libro racconta la presa di potere di Cosimo) si misura con il regime mediceo. Il macrotema dell’insufficienza costituzionale fiorentina (che in quanto repubblica ‘male ordinata’ è destinata a pencolare tra «la servitù e la licenzia», IV i 1) pone al centro del discorso machiavelliano il rapporto tra la virtù eccezionale di un singolo cittadino e gli «ordini» di una repubblica. Se una città non trova per buona sorte un legislatore che le dia una solida costituzione (l’«ordinatore prudente» di cui M. aveva parlato in Discorsi I ii 5), essa, costretta a oscillare tra stato «tirannico» e stato «licenzioso» (IV i 4), dovrà contare su un singolo cittadino che sia sufficientemente dotato di «virtù e fortuna» (IV i 5) da sopperire alla mancanza di buoni «ordini»: una condizione necessariamente instabile e temporanea, perché legata alla vita (breve e incerta) di un uomo, non alla vita, durevole, delle istituzioni.
Sullo sfondo di queste considerazioni è facile cogliere la riflessione sulla storia fiorentina proposta nel Discursus florentinarum rerum (1520-1521), nel quale la diagnosi negativa sulla storia costituzionale di Firenze (che mai fu «né republica né principato che abbi avuto le debite qualità sue», § 1) individua tra i fattori che minarono alle radici gli ‘ordini’ fiorentini, il non avere imposto «agli uomini grandi che non potessono fare sette» (§ 3).
Di fatto, il capitolo i del libro IV introduce quella polarità tra pubblico (il ruolo impersonale degli «ordini») e privato (il potere esercitato da leader sostenuti da una rete di aderenze) che diventerà esplicita nel capitolo introduttivo del libro VII – tra le pagine concettualmente più dense e celebri delle Istorie –, che si misura con la questione – fondamentale per un’interpretazione ideologico-politica dell’opera – del ruolo svolto dai Medici nella storia cittadina. In apertura del libro VII, M. recupera una delle più geniali acquisizioni del suo pensiero – quella ineludibilità delle «divisioni» (componenti naturali di ogni organismo sociale) che solo una visione ingenua della politica può stigmatizzare come di per sé stesse negative («coloro che sperano che una republica possa essere unita, assai di questa speranza s’ingannono», VII i 5) – e ne fa una chiave interpretativa del sessantennio mediceo. Data la necessità delle divisioni, argomenta M. in VII i 6-8, ci sono divisioni che si manifestano attraverso una concorrenza positiva, esprimendosi per «vie publiche», e divisioni che si esprimono invece «per modi privati», ottenendo cioè l’appoggio di singoli cittadini attraverso il ricorso ad accordi («sette») e l’elargizione di favori, doni e incarichi immeritati (facendosi, insomma, dei «partigiani»). La classificazione, prima di essere un principio generale politologico, fornisce una chiave di lettura dell’intero ‘sistema’ mediceo e dei suoi vizi strutturali, che troveranno nel libro VII una puntuale esemplificazione: è qui infatti ben presente il tema della degenerazione del regime, proprio a opera di quei «partigiani» dei Medici che avrebbero trasceso i limiti adottati dalla ‘modestia civile’ di Cosimo e di suo figlio Piero (alla guida della politica cittadina tra il 1464 e il 1469). Un esito iscritto in quella debolezza stigmatizzata, come abbiamo visto, nel capitolo introduttivo del libro IV, che si chiudeva appunto segnalando l’incertezza di un regime affidato alla sorte di «uno uomo [...], il quale, o per morte può venire meno, o per travagli diventare inutile» (IV i 5).
Il nesso diretto e immediato tra argomenti dei capitoli introduttivi e contenuti dei libri è esplicito nell’incipit del libro VIII, che parla delle congiure non in forma sistematica e teorica (avendone «in altro luogo [...] parlato», scrive M. in VIII i 1 – e naturalmente il riferimento va soprattutto a Discorsi III vi, che propone un vero e proprio trattatello sull’argomento, o a Principe xix), ma inserendo il tema nel preciso contesto narrativo («sendo il principio di questo ottavo libro posto in mezzo di due congiure, l’una già narrata, e successa a Milano, l’altra per doversi narrare, e seguita a Firenze», VIII i 1): tra il racconto della già citata congiura milanese del 1476 (nella quale, come detto, fu ucciso il duca Galeazzo Maria Sforza) con cui si conclude il libro VII (capp. xxxiii-xxxiv), e il lungo racconto della fallita congiura dei Pazzi, con la quale si apre il libro VIII (capp. ii-ix). Il principio generale della pericolosità delle congiure, già altrove individuato, viene qui ribadito («con difficultà succedono [raramente riescono]», VIII i 5), ma soprattutto viene indicata una sorta di costante politica che va letta come una chiave interpretativa dell’ultima fase del regime mediceo: le congiure fallite (e normalmente falliscono...), scrive M., in genere fanno sì che il principe contro cui sono rivolte «sale in maggiore potenzia, e molte volte, sendo buono, diventa cattivo» (VIII i 6). Una considerazione che non avrà un vero e proprio seguito nella narrazione (non senza reticenze M. parla delle riforme costituzionali introdotte a Firenze da Lorenzo il Magnifico all’indomani dello scampato pericolo, che di fatto accrebbero notevolmente il suo potere interno), ma che getta una luce ambigua sulle vicende che videro il rafforzarsi del regime laurenziano dopo la congiura e la guerra contro Napoli e il papa (1478-79).
Un discorso a parte merita il capitolo introduttivo del libro V. Vera e propria cerniera, posta al centro dell’opera, il libro V segna una sorta di secondo esordio (ciò che non stupisce: nel proemio dell’opera, infatti, M. aveva dichiarato l’originaria intenzione di cominciare la narrazione dal 1434: che è l’anno appunto con cui parte il racconto del libro V). È qui proposta l’idea della ciclicità della storia e del processo inarrestabile di corruzione e rinascita che caratterizza Stati e società: un movimento continuo delle cose caratterizzato dal «variare» (V i 1) che fa dell’instabilità la cifra caratteristica e ineliminabile della storia umana. Un mondo dominato da leggi ineluttabili (se pure non meccaniche, e comunque imprevedibili nei tempi) di ascesa e di decadenza, che sono connesse con la natura profonda degli uomini e delle società, con i meccanismi antropologici che producono (o abbattono) lo spirito civile delle collettività. «Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l’ordine» (V i 2). Se il processo fa intravedere la possibilità del riscatto (con accenti che potrebbero richiamare il disperato ottimismo di Principe xxvi: toccato il fondo della rovina non possono che esserci le condizioni per risollevarsi...), di fatto M. colloca le vicende dell’Italia quattrocentesca, che si appresta a narrare, in un processo al termine del quale sono la crisi e la decadenza, la «servitù» della penisola. La rovina del 1494 che, pur rimanendo fuori dal quadro, viene ricordata (come abbiamo visto) nelle battute conclusive del libro – è indicata in questo ‘secondo proemio’ che annuncia il contenuto della seconda parte delle Istorie («quello che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto», V i 11); ed è materia dalla quale bene «si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a’ barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli» (V i 11). È come un cerchio che si chiude: le Istorie si aprono con il quadro dell’estrema rovina dell’impero romano che, dopo aver conosciuto un grandioso processo di virtù/quiete/ozio/rovina, viene distrutto dalle popolazioni che «di là dal fiume del Reno e del Danubio abitano» (I i 1); si concluderanno con un analogo quadro di rovina, dopo che anche in Italia, come nell’antica Roma, era arrivato alle estreme conseguenze il processo di decadenza della «virtù». Stati e città dell’Italia tre-quattrocentesca non hanno offerto esempi di singolare grandezza paragonabile a quella dei Romani, «non di meno surse tanta virtù in alcuna delle nuove città e de’ nuovi imperii» che «da’ barbari la [l’Italia] liberorono e difesono» (V i 8); ma quella «virtù» – che non poteva che essere in primo luogo virtus, valore militare – fu spazzata via da quella peculiare (e degenerata) forma di ‘quiete’ costituita dalla «viltà» delle guerre italiane («nelle quali gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiono, i principati non si destruggono», V i 10).
Sulle Istorie (lette a lungo dopo il loro apparire come un importante modello di scrittura storiografia) è caduto nel secondo Ottocento il giudizio limitativo della critica positivistica che, pur riconoscendone l’intelligenza politica e la qualità letterario-narrativa, ne denunciava i gravi limiti metodologici. Infatti, in quegli stessi primi decenni del Cinquecento nei quali Guicciardini fondava con la Storia d’Italia la moderna storiografia, affidandosi sistematicamente a fonti primarie e documenti d’archivio (e su questa via egli si era già avviato, anche nel racconto di epoche antiche, con le incompiute Cose fiorentine) – e già nei decenni precedenti Bruni, Biondo Flavio e Lorenzo Valla avevano mostrato le possibilità di un’agguerrita indagine sulle fonti d’archivio – la scrittura delle Istorie machiavelliane appariva un’operazione storiograficamente di retroguardia, prettamente retorica («opus oratorium», per riprendere la famosa formula ciceroniana); o, tutt’al più, un’efficace traduzione in forma narrativa di principi e temi cari alla riflessione politica del loro autore: null’altro che una riscrittura, sia pure incisiva e penetrante, e una reinterpretazione assai libera (vale a dire: non solo imprecisa, ma anche volutamente distorsiva) di fonti principalmente secondarie. Il giudizio, già formulato dal maggiore machiavellista ottocentesco, il già citato Villari, trovava nel grande commento di Vittorio Fiorini ai primi tre libri dell’opera (1894) una conferma: sulla base delle sue puntuali analisi, Fiorini indicava come M. avesse fatto ricorso a pochissime fonti (e mai documentarie), senza confrontarle tra loro, ma scegliendone di volta in volta (per un periodo o per un particolare episodio) una sola, e a quella attenendosi. Quanto all’impiego di fonti primarie, esso risulta del tutto marginale; e di fatto limitato all’ultimo libro: alcuni testi noti che la stessa propaganda laurenziana aveva fatto circolare ad arte, come la Confessione (1478) di Giovanni Battista da Montesecco, implicato nella congiura dei Pazzi; o la lettera di Lorenzo de’ Medici ai Dieci del 7 dicembre 1479, nella quale dichiarava l’intenzione di andare personalmente a chiedere al re di Napoli la cessazione delle ostilità, pur a rischio della propria vita.
Fonte pressoché unica del libro I delle Istorie risultano le Historiarum ab inclinatione romani imperii decades (1453 ca.) di Biondo Flavio, monumentale storia del Medioevo dalla caduta dell’impero romano al 1441; testo notissimo nella seconda metà del Quattrocento, tanto che nel 1485 il padre di M., Bernardo, aveva acquistato una copia dell’edizione veneziana del 1483 (l’esemplare, con postille autografe di M., è stato individuato nell’incunabolo segnato D. 7. 8 della Biblioteca nazionale centrale di Firenze; si veda Martelli 1992). Pochissime sono anche le fonti del libro II: la Cronica di Giovanni Villani e quella di Marchionne Stefani, le Historiae di Bruni. Si deve alle già citate indagini di Cabrini (cfr. in partic. 1985) l’individuazione del peso che l’opera di Bruni ebbe nella rilettura machiavelliana delle antiche vicende di Firenze. A dispetto della polemica, a tratti aspra, che M. propone nel proemio contro questo grande umanista, una verifica attenta sui testi mostra come M. abbia condotto il racconto non attraverso un sistematico riassunto di Villani, ma attraverso una sua risistemazione condotta utilizzando l’opera di Bruni come «una sorta di ‘guida’ utilissima per districare la congerie, spesso piuttosto confusa, di notizie accumulate dal Villani» (Cabrini 1985, p. 17). Solo leggermente più articolato appare il quadro delle fonti utilizzate per il libro III, dove – assieme a Bruni e a Stefani, che rimangono punti di riferimento essenziali – si fa talora ricorso a fonti specifiche, come alcune brevi cronache sul tumulto dei Ciompi. Ma nel libro IV il quadro delle fonti diviene, se possibile, ancora più semplificato, e la narrazione si fonda quasi unicamente sulle Istorie fiorentine (1423-1447) di Giovanni Cavalcanti, un testo percorso da giudizi politici non banali (Cavalcanti fu prima filomediceo, poi più critico nei confronti del regime cosimiano), improntato a una vivacità narrativa e a una concretezza tutta ‘cittadina’ e cronachistica.
Per quanto i citati studi di Cabrini (1985 e 1990) sulle fonti del II e del III libro abbiano ridimensionato e ridotto di numero i molti punti che a Villari o a Fiorini erano apparsi meri fraintendimenti o disattenzioni di M., resta non privo di fondamento il giudizio della critica positivista: le Istorie non segnano l’esordio di una ‘nuova’ storiografia, se per ‘nuova’ intendiamo naturalmente l’inizio di quel lungo processo attraverso il quale l’età moderna ha costruito uno statuto ‘scientifico’ di ricerca storiografica, definendo criteri rigorosi di reperimento e valutazione delle fonti e del loro trattamento esegetico. Ma ciò non toglie che le Istorie siano un’opera notevolissima e che rivelino una sensibilità acutissima e a tratti geniale, non solo ‘politica’ e narrativa, ma propriamente storica (così come chiunque converrà che, se i Discorsi non possono annoverarsi fra i testi fondativi dello studio scientifico del mondo antico o della moderna filologia classica, è impossibile non riconoscere quanto la machiavelliana «lezione delle [cose] antiche» sia penetrante, proprio sul piano dell’interpretazione del mondo romano). Una qualità che va collocata soprattutto nell’uso critico delle fonti che – epurate della loro patina ideologica – forniscono a M. il materiale da riorganizzare e reinterpretare secondo rigorose e nette logiche, in cui i nessi di causa-effetto e, soprattutto, gli effetti di continuità, le costanti storiche, sono messi in rilievo grazie a un accorto accostamento di fatti ed episodi.
La seconda parte delle Istorie (libri V-VIII) mostra un quadro più articolato delle fonti (in certi casi, come Giovanni Simonetta e Bernardino Corio, non fiorentine, essendo qui maggiormente trattate vicende di politica estera, soprattutto i fatti militari che coinvolsero Milano e Venezia), ma rimane confermato un uso combinatorio che non tende al confronto delle diverse versioni di un medesimo episodio, ma ad adottare di volta in volta una singola fonte. Come bene hanno dimostrato gli studi di Gian Mario Anselmi (1979), la scelta delle fonti è però raramente ovvia: è il caso di un’opera come i Libri de temporibus suis (1480 ca.) del domenicano Giovanni di Carlo (→) – fonte importante per il libro VII –, un testo già all’epoca assai poco noto (e tutt’ora inedito: è conservato in un codice autografo della Biblioteca Apostolica Vaticana, il Lat. 5878, nel quale sono individuabili notazioni di mano di M.), che, se pure apertamente encomiastico nei confronti dei Medici, offriva però una congerie di particolari di cronaca interna, anche minuta, che bene potevano essere riutilizzati per un quadro interpretativo originale. Un rilievo particolare meritano poi testi di forte impronta autobiografica come i Commentari delle cose seguite in Italia tra il 1419 e il 1456 (1457) di Neri di Gino Capponi, tra i protagonisti della politica estera fiorentina negli anni Quaranta e Cinquanta del Quattrocento. Si tratta di una scelta coerente con lo spazio riservato nel racconto alla figura e al ruolo del personaggio, figura-chiave sul piano politico-ideologico, nella ricostruzione del regime cosmiano e delle sue articolazioni interne (su cui si veda sotto).
Da quanto fin qui osservato, emerge un corollario: natura e orientamento politico delle fonti impiegate non costituiscono un criterio dirimente nell’interpretazione politico-ideologica delle Istorie stesse. Così, il fatto che per la storia recente (libri VII e VIII) M. avesse utilizzato soprattutto fonti filomedicee (oltre al ricordato Giovanni di Carlo, si pensi al Pactianae coniurationis commentarium, 1479 ca., di Angelo Poliziano, ricostruzione apertamente propagandistica della congiura dei Pazzi, o alla biografia encomiastica di Niccolò Valori, Laurentii Medicei vita, 1513 ca.), non è di per sé stesso fattore particolarmente indicativo per interpretare il tema, delicatissimo, del rapporto con la committenza. Che le Istorie – volute e finanziate dai Medici – non potessero avere un taglio ‘antimediceo’, è cosa iscritta nella naturale evidenza delle cose umane: tuttavia è un dato che, nelle sue complesse articolazioni e sfumature, va letto nel testo, non nell’orientamento delle fonti utilizzate.
Il libro I compendia in poche decine di pagine la storia medievale italiana (ma con aperture verso la realtà continentale e mediterranea). Un lavoro di sintesi, quello di M., che, individuando alcuni snodi fondamentali, arriva a comporre il quadro storico-diplomatico del tardo Medioevo, su cui – nei libri successivi delle Istorie – si innesterà il racconto più dettagliato delle vicende fiorentine dei secc. 13°15°. Sono così individuati gli avvenimenti e i fattori strutturali che determinarono i processi di crescita e decadenza dell’impero e della Chiesa; nonché il costituirsi e il consolidarsi dei principali soggetti politici italiani della storia italiana del Quattrocento, come il Regno di Napoli, il ducato di Milano e la Repubblica di Venezia, o soggetti minori come Ferrara e la casata d’Este. Molti critici hanno sottolineato il carattere anomalo del libro I, la sua «disarmonia» (Bausi 2005, p. 256) rispetto alla struttura complessiva dell’opera. Ma già lo stesso M. sottolineava l’anomala peculiarità strutturale del libro I, chiamandolo in un passo del libro II «trattato universale» («prima signoreggiorono in quella [l’Italia] i discesi di Carlo, di poi i Berengari, e in ultimo gli imperadori tedeschi, come nel nostro trattato universale dimostriamo», II ii 13). La sua forma sembrerebbe del resto adattarsi, più che al disegno definitivo, a quello primitivo delle Istorie che – come M. scrive nel proemio – dovevano cominciare nel 1434: in questo caso il libro I avrebbe sinteticamente indicato l’origine degli Stati italiani del Quattrocento e le radici antiche della loro forza o delle loro debolezze. Un’anomalia che ha anche suggerito (Martelli 1992, pp. 118 e segg.) l’ipotesi che il libro I risalga all’epoca dei primi tentativi storiografici di M. (addirittura agli anni della cancelleria e del primo Decennale): a quell’epoca egli avrebbe cioè concepito l’idea di scrivere una storia di Firenze a partire dal 1434 (appunto il primo progetto, poi accantonato, di cui si parla nel proemio). L’ipotesi è suggerita dal fatto che l’esemplare delle Historiarum ab inclinatione romani imperii decades di Biondo Flavio posseduto da M. (si veda sopra), contiene sì postille autografe machiavelliane, ma nessuna di esse riconducibile esattamente a episodi del libro I. L’argomento è suggestivo, ma tralascia il fatto che proprio il carattere sistematico della lettura di Biondo Flavio, in vista della scrittura del libro I, rendeva plausibile che M. non intervenisse direttamente sull’incunabolo, tempestandolo di postille e rimandi, ma soprattutto lascia aperto un interrogativo: perché mai, scrivendo – quando che fosse – il libro I delle Istorie, M. avrebbe dovuto fare uso di un’altra copia di Biondo Flavio e non di quella in suo possesso?
Cimentandosi con la ricostruzione sintetica della storia medievale, M. rivela una straordinaria acutezza, soprattutto laddove, applicando rigorose logiche interpretative, individua i nessi profondi di causa ed effetto che stanno alla base di processi storici di lungo periodo. Esemplare, in questo senso, è il cap. ix, dove egli parla dell’origine della potenza politica della Chiesa e delle sue conseguenze per la politica italiana. Il suo sguardo, muovendo dalle cause primitive del fenomeno (la crisi del potere laico e lo spostamento a oriente del baricentro dell’autorità imperiale), mette poi in rilievo processi determinanti per comprendere la situazione del presente. Il gioco mobile delle alleanze con cui la Chiesa ha sempre conservato la propria autonomia statale, ha così caratterizzato un «modo di procedere [che] dura ancora in questi nostri tempi: il che ha tenuto e tiene la Italia disunita e inferma» (I ix 9). Giudizi e spunti già individuati negli anni precedenti (ovvio il rinvio a Discorsi I xii), che ora si impongono come logica organizzatrice del racconto storico, in una prospettiva bidirezionale: la realtà contemporanea sollecita una domanda rivolta al passato, che diventa il criterio strutturante di un racconto sottratto alla confusa congerie dei particolari, ma ‘selezionato’ secondo forti rationes interpretative; tuttavia il racconto ritorna a sua volta a un presente che di quelle rationes è l’esito (significativamente, di individuazione della «legge della disunione italiana» si legge in Sasso 1993, p. 136). È sintomatico che il libro presenti numerose espressioni che potremmo definire ‘marcatori di continuità’, che sottolineano il legame tra il narrato storico e la realtà contemporanea (si veda, per es., I xvi 12: «il quale [il Regno di Napoli] ancora oggi intra li antichi termini si mantiene»; xvii 4: «oggi ancora regna e tiene l’isola di Rodi»; xxi 6: «sono discesi quelli [gli Este] e quali ancora oggi la signoreggiano»; xxix 14: «benché ne abbiano [i veneziani], in questi nostri ultimi tempi, riacquistato parte»).
Il libro II, con cui la storia ‘fiorentina’ comincia, dedica il capitolo ii alla fondazione della città: tema topico della storiografia umanistica fiorentina, già affrontato, con utilizzo erudito di fonti classiche, da Bruni, ripreso da Bracciolini e in anni successivi integrato dalle indagini filologiche di Poliziano, esposte in una lettera a Piero de’ Medici del 1490 (Epistulae I ii, in Opera, 1498, cc. 3v-5r). Ma la narrazione vera e propria (cap. iii) parte dal 1215, con l’assassinio di Buondelmonte de’ Buondelmonti, che già Dante Alighieri e Villani avevano indicato come l’inizio infausto delle lotte tra guelfi e ghibellini. Al dichiarato carattere tradizionale dell’episodio (una storia «da Dante e da molti altri scrittori celebrata», II ii 18), M. rende omaggio ricorrendo a uno slargo narrativo non esente da un sapore novellistico (dalla messa in rilievo di particolari concreti, all’uso di brevi battute dialogiche). Che tale sia l’episodio di partenza non è casuale: l’intero libro trova nel racconto delle divisioni interne cittadine il tratto dominante: ed è significativo che compaia qui per la prima volta, nel senso di ‘parte politica’, il termine setta (II ii 17), che è concetto-chiave nell’interpretazione machiavelliana della storia cittadina, in quanto espressione delle modalità degenerate delle sue «divisioni».
Nuova narrazione di eventi assai noti, il libro II si segnala proprio per la messa in rilievo di chiavi di lettura e temi che indicano, da parte di M., una rilettura del passato fortemente orientata su questioni ideologiche e politiche sollecitate dalla storia successiva. Così, raccontando in II xxviii l’istituzione dello squittino (la creazione di borse recanti i nomi degli eleggibili alle cariche pubbliche), M. segnala gli effetti imprevedibili di una riforma che, come è noto, diventerà uno dei principali sistemi di controllo della politica cittadina da parte dei Medici («non intesono i difetti che sotto questa poca commodità si nascondevano», II xxviii 5). Ma ciò vale anche per la rappresentazione di personaggi o eventi che acquistano una esplicita esemplarità politica o morale. È il caso di due grandi del passato fiorentino, come Giano della Bella e Corso Donati, esempi contrapposti (il primo positivo, il secondo negativo) del rapporto tra potere pubblico e potere privato: al principio assoluto della supremazia della legge, nel caso di Giano, è contrapposta la parabola di Corso (capp. xviii-xxiii), che sembrerebbe configurare un embrionale tentativo di instaurare, con l’aperta ricerca del consenso popolare, una preminenza interna alle istituzioni – una sorta di principato ‘civile’ che avrebbe anticipato le esperienze quattrocentesche, se lo stesso Corso non l’avesse maldestramente virato verso sfumature ‘tiranniche’. Né va taciuto il quadro celebrativo del cosiddetto Primo popolo (II v) – il regime nato nel 1250 che per la prima volta concedeva un importante ruolo politico alle Arti –, che mette a tema non solo la ricorrente polemica machiavelliana contro la decadenza militare italiana (cui si contrappone l’eroico esercito cittadino dell’antico comune), ma anche rende esplicito quel nesso inscindibile tra «ordini militari e civili» (II vi 1) che è tratto profondo del repubblicanesimo machiavelliano, e fulcro della sua polemica inesausta contro la decadenza civile contemporanea.
Il tema della crisi militare si connette strettamente a un evento-simbolo della degenerazione dello spirito civile fiorentino: la tirannia di Gualtieri VI di Brienne, duca d’Atene, cui M. assegna uno spazio narrativo eccezionale. Tutta la parte conclusiva del libro è infatti dedicata ai pochi, drammatici, mesi che vanno dalla breve tirannia del duca, cacciato da Firenze nell’agosto 1343 (capp. xxxiv-xxxvii), agli scontri violenti tra popolo e ‘grandi’ che portarono, nell’ottobre dello stesso anno, al definitivo allontanamento della nobiltà dalla partecipazione politica (xxxviii-xli), che M. legge come l’ultimo atto del decadere di quel valore militare di cui la vecchia nobiltà era stata portatrice. Un fenomeno che, dal punto di vista da lui mai sottovalutato delle milizie e delle «armi proprie», appare a M., nei tempi lunghi della storia cittadina, uno dei fattori più negativi della vicenda fiorentina: la sconfitta della nobiltà, scrive infatti a conclusione del libro II, «fu cagione che Firenze, non solamente di arme, ma di ogni generosità si spogliasse» (II xlii 4).
Il carattere negativo delle divisioni fiorentine, stigmatizzato nel capitolo di apertura (tra le pagine più importanti delle Istorie sul piano teorico) attraverso la contrapposizione con la natura positiva delle contese romane (rispettose dell’avversario, incanalate in forme istituzionali, non distruttive della comunità), guida la narrazione del libro, anch’esso incentrato sul racconto delle lotte interne: nella loro articolazione tutta ‘popolare’ (dopo l’uscita di scena degli eredi dell’antica nobiltà), tra alta e medio-piccola borghesia. Nel contesto di tale conflitto sociale si inserisce – in una sorta di deriva rivoluzionaria, con l’esplosione di forze sociali incontrollabili – la breve esperienza del tumulto dei Ciompi (1378), che occupa i capitoli centrali (xii-xvii).
Il tentativo machiavelliano di leggere gli eventi alla luce di chiavi interpretative unitarie e di lungo periodo, comporta anche alcune forzature. M. attribuisce così al contrasto tra le famiglie dei Ricci e degli Albizzi un ruolo determinante (capp. ii e segg.), che non ha riscontro nelle fonti (Cabrini 1990, p. 25): come a voler porre a tema l’origine prettamente privata delle tensioni fiorentine, generate da interessi di fazione o consortili e non prodotte dalle naturali istanze di cui sono portatrici le diverse componenti del corpo sociale (gli «umori»). Un motivo che riconduce all’assenza fiorentina di «buoni ordini» (III ii 2), ma che soprattutto imposta una delle grandi chiavi di lettura delle vicende interne quattrocentesche, prima e dopo l’imporsi del regime mediceo. Concetti che troviamo in una delle più importanti contiones del libro, quella tenuta da un anonimo cittadino in una riunione pubblica (III v), il cui discorso, tutto impostato su una netta dicotomia tra ‘pubblico’ e ‘privato’ è un concentrato dei termini-chiave legati al campo semantico della divisione, a cominciare dal termine sette (che ricorre almeno cinque volte nel testo), che connota definitivamente il carattere prevaricatorio e ipocrita (lo è l’idolum tribus della «libertà», da ogni fazione celebrata e nel contempo conculcata) del confronto politico fiorentino.
Il libro racconta di fatto quindici anni di storia, dalla ripresa della guerra contro il duca di Milano Filippo Maria Visconti nei primi anni Venti del Quattrocento, alla conquista del potere di Cosimo de’ Medici, rientrato trionfalmente in città nel 1434, dopo un anno di esilio. Se famiglie, classi e ordini (fino al caso estremo delle masse anonime dei Ciompi) avevano dominato la scena nel libro precedente, il racconto è qui incentrato sull’agire di poche grandi personalità. Innanzi tutto Giovanni de’ Medici, l’iniziatore della fortuna della famiglia, cui M. assegna i tratti del cittadino rispettoso degli «ordini» della città (IV x e xiv), che in punto di morte pronuncia ai figli un breve discorso che è un piccolo vademecum di moderazione repubblicana («dello stato [...] toglietene quanto ve n’è dalle leggi e dagli uomini dato», IV xvi 4); ma è ovviamente Cosimo il grande protagonista, al quale sono contrapposti i capi del partito oligarchico, Rinaldo degli Albizzi e Niccolò da Uzzano. Lo scontro aperto tra le parti occupa la parte finale del libro (capp. xxvi-xxxiii), che M. gestisce con notevole abilità: il ritorno trionfale di Cosimo – con cui il libro termina – chiude pagine di grande tensione drammatica e di vivacissimo movimento narrativo. E non mancano momenti di vera e propria suspense, o pagine che hanno l’intensità patetica del racconto esemplare: è il caso del capitolo sulla prigionia di Cosimo nella torre del palazzo della Signoria (cap. xxix), quando egli, che teme per la sua vita, non solo trova conforto nelle dignitose e ferme parole del carceriere Federigo Malavolti («con le lacrime agli occhi abbracciò e baciò Federigo, e con vive ed efficaci parole ringraziò quello di sì piatoso e amorevole officio», IV xxix 8), ma riesce con un sotterfugio a procurarsi il denaro necessario per corrompere il gonfaloniere e avere salva la vita.
M. affida al saggio Niccolò da Uzzano (il quale si oppone a che si prendano misure contro Cosimo, destinate a risultare rovinose: come esempio di prudenza politica il suo caso era già stato analizzato in Discorsi I xxxiii 9-12) un’acuta orazione (cap. xxvii) in cui il senso dello scontro personale tra Cosimo e Rinaldo degli Albizzi è ricondotto alla logica profonda che caratterizza le nuove divisioni fiorentine. Il discorso di Niccolò da Uzzano è non solo una disamina disincantata delle forze in campo e del grande consenso di cui gode Cosimo, ma anche, e soprattutto, la denuncia di uno scontro politico che non concede un’alternativa possibile all’imporsi di una forma signorile di potere: «io non veggo che acquisto ci facci dentro la nostra republica; perché, se la si libera da Cosimo, la si fa serva a messer Rinaldo» (IV xxvii 22). E Niccolò da Uzzano conclude affermando che – poiché un cittadino si è imposto collocandosi al di sopra delle leggi – «io non so qual cagione mi facesse più amare messer Rinaldo che Cosimo» (IV xxvii 22): figli ambedue, insomma, di un vizio politico e istituzionale mai sanato, e giunto ormai a un punto di non ritorno.
I libri V e VI sono quasi interamente dedicati alla politica estera e a vicende militari: fanno eccezione i soli capitoli iv e viii del libro V e vi-vii del libro VI (un’anomalia che lo stesso M. segnala al lettore, in VII i 1: «E’ parrà forse [...] che uno scrittore delle cose fiorentine si sia troppo disteso in narrare quelle seguite in Lombardia e nel Regno»). Si è detto come il capitolo introduttivo del libro V funzioni da secondo proemio delle Istorie, preannunciando un quadro di declino politico, non solo fiorentino ma italiano, che condurrà alla rovina del 1494; materia che trova ragion d’essere proprio nella sua esemplarità negativa (si narreranno appunto «cose» che spingeranno gli animi nobili «a fuggirle e spegnerle», V i 14). Che poi la crisi fosse in primo luogo da attribuire alla decadenza (italiana, non soltanto fiorentina) della milizia, è ciò che M. sottolinea a grandi lettere, collocandone la denuncia in posizione rilevatissima: l’esecrazione della corruzione militare quattrocentesca (suo antico motivo, dal capitolo xii del Principe al secondo libro dei Discorsi, all’Arte della guerra) apre la narrazione vera e propria del libro V («era la Italia da quelli che la comandavano in tale termine condotta che, quando [...] nasceva una pace, poco di poi da quelli che tenevano le armi in mano era perturbata», V ii 1), e la chiude con i famosi capitoli dedicati alla vittoria fiorentino-papale di Anghiari (giugno 1440), sulla quale M. ironizza fino a forzare polemicamente l’oggettività dei dati, osservando che «in tanta rotta e in sì lunga zuffa» – in effetti celebrata a Firenze come uno dei grandi momenti della gloria cittadina – «[...] non vi morì altri che uno uomo, il quale non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto espirò» (V xxxiii 15).
L’attenzione per la realtà interna fiorentina è concentrata nel libro V in poche pagine. Scelta dettata evidentemente da ragioni di cautela: il libro copre gli anni del consolidamento del regime di Cosimo. Nel cap. iv, accennando alle misure introdotte da Cosimo, M. fornisce dati tecnicamente ineccepibili (nei §§ 6 e 7 parla di «nuovi squittini», «accoppiatori» e «imborsazioni»: aspetti del resto perfettamente conosciuti da M., ex funzionario della Repubblica) che colgono efficacemente la natura peculiare del controllo mediceo del potere, ma il tono quasi asettico della pagina lascia sullo sfondo la natura liberticida delle misure cosmiane.
Non meno importante per comprendere l’atteggiamento di M. verso il regime è, in VI vi-vii, l’episodio interno ‘minore’ della morte del valoroso condottiero Baldaccio d’Anghiari, che M. ricava dalla seconda parte delle citate Istorie di Cavalcanti (caratterizzata da posizioni fortemente antimedicee) e che racconta non senza ambiguità. In quanto protetto di Neri di Gino Capponi (energico protagonista della politica estera e militare fiorentina, i cui Commentari, come si è detto, sono una fonte importante per le vicende diplomatico-militari degli anni centrali del Quattrocento), e personaggio «della cui reputazione Cosimo de’ Medici più che di alcuno altro temeva» (VI vi 2), Baldaccio appare a tutti gli effetti vittima di un delitto politico (tanto che l’episodio «abbassò, in parte, la potenzia di Neri», VI vii 9). Se a livello superficiale la morte di Baldaccio appare opera dei «cittadini dello stato [i sostenitori del regime]» (VI vii 10), la logica profonda del testo presuppone la diretta responsabilità di Cosimo (esplicita nelle Storie fiorentine di Guicciardini, che forse suggerirono a M. l’interpretazione dell’episodio). E non meno importante è rilevare come Capponi acquista nelle Istorie i tratti del cittadino ideale, che si è procurato sostenitori («amici») e non «partigiani», ricorrendo non ai modi ‘privati’ procurati dalle ricchezze, ma alle «vie publiche» (VII ii 1), e agendo «con la virtù e con i meriti» (VI vi 2): un modello positivo di conquista del consenso, contrapposto alla modalità negativa del «farsi partigiani» con corruzioni e favori, che aveva invece caratterizzato l’ascesa di Cosimo (che «attendeva a benificare ciascuno, e con la liberalità sua farsi partigiani assai cittadini», IV xxvi 2).
Ma ciò che forse, più di ogni altra caratteristica, sembra segnalare la specificità narrativa di questi libri rispetto ai precedenti, è l’attenzione per la ricostruzione accurata delle vicende militari (Francesco I Sforza – uno dei grandi protagonisti delle Istorie – comincia qui le sue gesta). Strategie, movimenti delle truppe, vettovagliamenti e opere del genio, sono ricostruiti con una sensibilità che si addice all’autore dell’Arte della guerra, il cui sguardo ‘geografico’ è orientato secondo l’ottica tecnica dello stratega. Così il racconto dell’imprevista occupazione di Verona da parte di Niccolò Piccinino nel novembre 1439 (V xxiv) offre l’occasione per una descrizione della città in cui la norma retorica che suggerisce di interrompere talora il racconto con momenti descrittivi si sposa con un’acuta sensibilità tecnica per la topografia militare (difese naturali, fortificazioni, porte ecc.). Né meno attenta è la ricostruzione dei movimenti delle truppe di Francesco Sforza per raggiungere Brescia assediata (V xxiii): con una precisione in cui competenza geografica e logistica risultano una concreta risorsa strategica, un’intelligenza dello spazio (non diversamente da quelle competenze già segnalate in Principe xiv, parte imprescindibile del sapere del principe/capitano) che diventa componente essenziale e concreta dell’agire.
In tale contesto acquista particolare rilevanza sul piano narrativo la vicenda di Francesco Sforza, il temuto e potentissimo condottiero che riesce a divenire duca di Milano. Figura eccezionale di principe ‘nuovo’, egli diviene nel libro VI protagonista di una sorta di epopea che ne fa non solo un modello di ‘prudenza’ politica, ma lo rende anche il soggetto di un’aneddotica dai tratti esemplari. È il caso dell’apoftegma di VI xviii, in cui le parole rivolte al provveditore veneziano da lui catturato, che lo aveva in passato offeso alludendo alle sue origini illegittime, non solo mescolano con plutarchiana efficacia magnanimità e arguzia, ma anche alonano il personaggio con i tratti di una topica narrativa dai tratti favolosi: quasi alludendo al topos ancestrale dell’eroe di origini oscure, o esposto alla nascita, che M. aveva evocato in apertura della Vita di Castruccio Castracani (per cui sembra che quanti «hanno in questo mondo operato grandissime cose [...] abbino avuto il principio e il nascimento loro basso e oscuro», § 1).
Con il libro VII e con quello successivo l’attenzione principale torna a Firenze e agli ultimi anni del regime di Cosimo, al quale nel libro VII è dedicato un bilancio in morte dai tratti apertamente celebrativi (capp. v e vi). Indebolito dagli anni, Cosimo è ormai incapace di tenere a freno la rapacità dei suoi «partigiani» (a cominciare dal potentissimo Luca Pitti): e la valenza negativa di questo termine, illustrata in VII i, orienta fortemente la lettura del libro, in cui ha ampio spazio il contrasto tra i Medici (prima Cosimo, in seguito Piero, a capo della famiglia tra il 1464 e il 1469) e i loro compagni di parte; fino alla drammatica congiura dei principali esponenti del regime contro Piero nel 1466 (capp. xi-xviii).
Anche se la morte prematura di Piero non segna una crisi profonda della leadership fiorentina (con il riconoscimento del giovanissimo Lorenzo come capo del regime), la debolezza intrinseca del sistema viene tuttavia confermata dai molti episodi di crisi che costellano la parte conclusiva delle Istorie: come la ribellione di Prato (VII xxv-xxvii), il caso di Volterra (capp. xxix-xxx) e soprattutto la congiura dei Pazzi (VIII ii-x), senz’altro l’episodio più minutamente narrato di tutta l’opera, disteso per tutto il primo terzo dell’ultimo libro. Ed è probabilmente nella ricerca di atmosfere ‘notturne’, segnate dall’inquietudine del tradimento ordito nell’ombra, che si spiega il notevole sviluppo narrativo assegnato alla congiura milanese del 1476, con la quale M. conclude il libro VII (capp. xxxiii-xxxiv).
Nel raccontare gli anni di Lorenzo prevale spesso una tonalità personalistico-celebrativa, che evita allo scrittore il problema, assai delicato del resto, di parlare delle importanti riforme costituzionali introdotte da Lorenzo; riforme che colpirono, assai più incisivamente di quanto non fosse al tempo di Cosimo e Piero, gli ‘ordini’ tradizionali del comune. Ne è un esempio il racconto del trionfale ritorno di Lorenzo da Napoli con l’accordo che poneva fine a una guerra che aveva logorato la città (VIII xix). Il successo personale dell’uomo, che segna il momento di maggior consenso al regime laurenziano, lascia così in sordina il fatto che «i principi dello stato [...] feciono un consiglio di settanta cittadini, con quella autorità gli poterono dare maggiore» (VIII xix 10). Ma una più generale reticenza è ben documentata anche dal modo in cui M. sorvola, raccontando della ribellione di Volterra del 1472, sugli interessi di Lorenzo nel controllo della miniera di allume che furono all’origine della tensione tra questa cittadina e Firenze (Rubinstein 1987, p. 715).
Nella già citata lettera del 30 agosto 1524 a Guicciardini, M. accenna, come detto, ai suoi dubbi su «lo esaltare» e «lo abbassare le cose», che gli sono venuti alla mente nel momento in cui è giunto a trattare «certi particulari», evidentemente relativi al giudizio sui Medici e il loro regime. La questione era delicatissima: i committenti dell’opera erano gli eredi diretti di una famiglia la cui vicenda politica era ben lontana dall’essersi pacificata (come ben si vedrà nel triennio repubblicano1527-30). È un punto che M. mette bene in rilievo, nel testo della dedica a Clemente VII, ricordando come, al tempo della commissione del lavoro, lo stesso papa gli aveva «imposto particularmente e comandato» di narrare le azioni dei suoi antenati in maniera tale che chiaramente trasparisse l’essere lo scrittore «da ogni adulazione discosto» (dedica 6). Uno spunto, ovviamente, esso stesso adulatorio (come si conviene del resto alla topica proemiale), che offre il destro per celebrare l’imparziale generosità di Clemente (che ama «le vere lode», tanto quanto detesta «le fitte e con grazia descritte», § 6), ma che segnala, per così dire, il punto delicato di tutta l’operazione: per quanto da tempo ormai vicino alla famiglia egemone, M. era pur sempre stato una vittima della restaurazione del 1512; e quella che gli si chiedeva non poteva non apparire, a prescindere dalle dichiarazioni dedicatorie, un’opera finanziata da chi era direttamente interessato a una rilettura ‘medicea’ della recente storia cittadina. Che, a proposito dell’immagine dei Medici e del loro governo, le Istorie presentino molte reticenze e vere e proprie autocensure, è cosa di palese ovvietà: e già se ne sono segnalati esempi specifici. Le accuse esplicite contro l’arbitrarietà del regime mediceo vengono puntualmente dirette alla cerchia della famiglia che non sempre riesce a tenere a freno la rapacità dei sostenitori. È così per gli ultimi anni di Cosimo, che ormai non riesce a contenere l’agire dei «pochi cittadini» (Luca Pitti tra i primi) che «predavano quella città» (VII iv 1). È così anche per Piero, la cui infermità gli impedisce ogni energica azione politica, tanto da non avere «altri rimedi» nei confronti dei suoi potenti affiliati che «ammunirli e pregarli dovessero civilmente vivere» (VII xxi 5). Ed è evidentemente adulatoria la pagina in cui si dice che Piero, in punto di morte, stigmatizzò l’insaziabile rapacità dei capi del suo partito (VII xxiii): un’assoluzione piena per il leader (nonno del committente), che addirittura avrebbe prospettato l’ipotesi di richiamare i fuoriusciti, «per frenare le rapine di quegli di dentro» (VII xxiii 11).
È vero tuttavia che il testo è sottoposto a mediazioni e sottili prese di distanza, anche laddove la convenienza e la forza cogente delle circostanze non lasciavano molte opzioni allo scrittore. Ciò accade nel celebre ritratto in morte di Cosimo (VII vi): un quadro celebrativo perfettamente rispondente ai canoni retorici dell’encomio, a conclusione del quale M., anticipando la possibile «ammirazione» (‘stupore’) di qualche lettore, sottolinea la peculiarità stilistica della pagina, nella quale «ho imitato quelli che scrivano le vite de’ principi, non quelli che scrivono le universali istorie» (VII vi 27). L’eccezione stilistica è giustificata dall’eccezionalità umana del personaggio (lodato in modo «estraordinario» appunto perché «uomo raro nella nostra città», VII vi 27), ma resta l’ambiguità di parole che nel momento stesso in cui esprimono la grandezza del personaggio, mettono a nudo il meccanismo retorico (una topica celebrativa, non una scrittura critico-analitica) che governa la pagina. Ma non mancano nelle Istorie giudizi più critici, come nel racconto del rientro di Cosimo dall’esilio, dove le operazioni di consolidamento del regime tracciano un quadro di violenza e di ingiustizia: un M. non solo non reticente, ma che, come è stato detto (Sasso 1993, p. 417), neppure parla «il linguaggio della prudenza».
Che il pubblico contemporaneo fiorentino, nel momento in cui M. si faceva storiografo su commissione medicea, si interrogasse sul significato dell’operazione, e soprattutto sul senso politico della lettura machiavelliana della storia cittadina quattrocentesca, è ben documentato da una lettera di Donato Giannotti a Marcantonio Michiel, nella quale l’estensore riferisce di un dialogo in cui M. così gli avrebbe confidato:
Io non posso scrivere questa Istoria da che Cosimo prese lo stato sino alla morte di Lorenzo come la scriverei se fossi libero da tutti i rispetti [...] E chi vorrà intendere questo, noti molto bene quello che io farò dire ai suoi avversari, perché quello che non vorrò dire io, come da me, lo farò dire ai suoi avversari (cit. in L.A. Ferrari, Lettere inedite di Donato Giannotti, «Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere e arti», VI s., 1884-1885, t. 3, disp. IX, pp. 1570 e segg.).
A prescindere dalla veridicità e dalla credibilità della testimonianza di Giannotti, ciò che conta è che negli ambienti dei ‘democratici’ fiorentini un testo come le Istorie costituiva in qualche modo un problema, tanto da suggerirne una lettura smaliziata, che cogliesse il senso vero del giudizio storico non sul piano esplicito del giudizio del narratore, ma nel messaggio in qualche modo ‘cifrato’ rinvenibile nella voce degli sconfitti. E che un democratico come Giannotti (esule da Firenze dopo il 1530 e antimediceo mai pentito) trovasse plausibile leggere nelle Istorie le tracce di un giudizio critico nei confronti dei Medici, è indicativo di come M. abbia affrontato abilmente questo punto delicato della sua opera: affidandosi a sfumature sottili o a velate prese di distanza, ma soprattutto – come si può ricavare da una lettura dell’opera attenta alla sua struttura complessiva – inserendo l’esperienza medicea all’interno di un processo generale di decadenza e crisi, che fu fiorentina e italiana, della quale i Medici non furono che un’espressione. Abbiamo prima accennato all’importanza ideologica del capitolo introduttivo del libro IV, dove M. osserva che le repubbliche prive di «buoni ordini» non possono mai aspirare a una vera libertà, ma sono costrette a oscillare tra «servitù» e «licenza». In tale contesto ‘difettoso’ (e che sia il caso di Firenze i libri precedenti l’avevano ampiamento dimostrato), dove «ordini» e «leggi» non sono in grado di affermare l’equilibrio impersonale delle regole, necessariamente si impongono singoli leader («conviene che sia da la virtù e fortuna d’uno uomo mantenuto», IV i 5). L’affermarsi del potere mediceo non è dunque che un capitolo all’interno di un processo storico più ampio e complesso. Non a caso, nella parte conclusiva di quello stesso libro, Niccolò da Uzza-no – il saggio leader oligarchico la cui morte segnerà il precipitare della situazione: l’esilio di Cosimo e il suo rientro trionfale – svelerà la natura (tutta storica e politica) di un processo irrimediabilmente degenerato, che non riguarda il singolo uomo e il suo valore, ma l’incapacità strutturale di Firenze di essere libera, di avere «buoni ordini». Quanto alla sostanza intimamente antimedicea delle parole degli avversari (secondo l’indicazione di Giannotti), non sembra in realtà così facile individuare le linee di un discorso inoppugnabilmente critico. Si pensi ai luoghi in cui molti interpreti hanno voluto vedere una celebrazione (per interposta persona) degli ideali repubblicani: dal discorso con cui i fuoriusciti del 1466 si rivolgono al Senato veneziano, per convincerlo a muovere guerra a Firenze in nome della difesa della libertà conculcata dal regime mediceo (VII xix), agli argomenti con cui Rinaldo degli Albizzi cerca di convincere nel 1433 il gonfaloniere Bernardo Guadagni a esiliare Cosimo, invitandolo a «rendere alla patria la sua libertà» (IV xxviii 8). Difficile non vedere in quelle parole, piuttosto, il sarcasmo amaro dello scrittore nei confronti di un idolum da troppo tempo svuotato di senso. E su ogni appello alla libertà pesa il giudizio che, nei confronti dei capi delle «parti», aveva espresso l’anonimo cittadino cui M. aveva affidato, in III v, una delle più importanti contiones dell’opera: «la intenzione e fine loro [dei capi partito] con un piatoso vocabolo adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla libertà nimici, quella o sotto colore di stato di ottimati o di popolare defendendo, opprimano» (III v 9).
In realtà, la lettura delle Istorie rivela, riguardo al rapporto con la committenza, l’adozione di un grande equilibrio di giudizio. Che questo fosse un vero e proprio ‘mascheramento’, cui l’indomito cuore ‘antimediceo’ di M. fosse costretto dalle circostanze, è un’idea non priva di forzature, se pure non povera di sostenitori. In realtà, le Istorie non possono non essere lette tenendo presente il clima dei primi anni Venti del Cinquecento, quando un insieme di circostanze sembrava rendere possibile una forma di convivenza tra la forma repubblicana di governo e la famiglia Medici (complice, naturalmente, l’estinguersi, con la morte di Lorenzo duca di Urbino, della discendenza diretta da Cosimo). In tale quadro va probabilmente inserita l’elaboratissima orazione che uno dei priori rivolge all’aspirante ‘tiranno’ duca d’Atene (II xxxiv), per convincerlo a non intraprendere la via della ‘tirannide’ che a Firenze, città legata ai suoi liberi ordinamenti repubblicani, non potrebbe che essere perdente. Una pagina nella quale si è voluto vedere un esplicito messaggio per i Medici (Marietti 1974, pp. 111-13), ai quali, in linea con il quasi coevo Discursus, si propone un nuovo principato ‘civile’, fondato sul consenso dei ceti medi: siamo dunque di fronte a un dialogo aperto con i committenti, espressamente rivolto a quel cardinale Giulio al quale le parole dell’anonimo cittadino dell’antico comune non saranno poi sembrate così peregrine o ingenuamente teoriche, ma innervate di concetti e termini traducibili nella viva concretezza del dibattito politico coevo.
Di fatto, M. interpreta il sessantennio mediceo non già come una parentesi, ma come l’esito naturale e perfettamente conseguente dei limiti costituzionali di Firenze. Pensare che questa sia, semplicemente, un’operazione di necessaria cautela se non di opportunismo (il modo, insomma, di parlare male dei Medici, facendolo per di più da stipendiato dai Medici stessi), è un’intepretazione altrettanto unilaterale e parziale, quanto sarebbe voler vedere nelle Istorie un M. ormai accanitamente mediceo.
Le Istorie appartengono a un genere rigorosamente codificato come era quello storiografico: inutilmente vi cercheremmo l’originalità strutturale e stilistica del Principe o dei Discorsi. Non possiamo però sottovalutare l’attenzione che M. dovette dedicare proprio a questo aspetto della sua opera: la ricerca di una fama letteraria solida, per colui che aveva dato alle stampe l’Arte della guerra, doveva essere questione molto seria. In questa prospettiva va letta la scelta del volgare, che non era un’opzione in tono minore, ma espressione di un disegno ambizioso: non solo il volgare gli offriva una maggiore libertà espressiva, rispetto ai rigidi codici della storiografia umanistica, ma gli consentiva di accreditarsi come modello alto di una nuova prosa fiorentina, elegante e duttile nel contempo, sostenuta senza essere compassata; gli consentiva, insomma, di potere «dare saggio di quel che la lingua sua e di Firenze valesse» (Dionisotti 1970, poi 1980, p. 379).
Se il rapporto di M. con la tradizione della storiografia umanistica (e fiorentina in particolare) è certamente complesso (come la polemica esplicita contro Bruni e Poggio nel proemio conferma), nondimeno il modello cui M. guardava era pur sempre quello della storiografia politica classica, selettiva nella scelta del materiale narrabile; organizzata secondo la ricerca di una causalità tra gli eventi retta da logiche rigorose; attenta al decoro stilistico. Il rispetto dei grandi modelli storiografici bene si esprime nella scelta delle orazioni, dei discorsi diretti dei protagonisti (contiones). M. utilizza il discorso inserito (le contiones) come spazio di riflessione politica e di messa a punto delle logiche interpretative della realtà. Non è casuale che Giannotti (come si è visto) accennasse ai discorsi degli avversari dei Medici come il luogo in cui cogliere le vere opinioni dello scrittore. A prescindere dall’esattezza della testimonianza dell’antimediceo Giannotti, è certamente giusto vedere nei discorsi delle Istorie uno spazio concettualmente autonomo, riservato al discorso giudicante dell’autore. Nelle parole dei protagonisti M. concentra spesso significati ideologici e politici utili per comprendere la natura reale delle vicende, il gioco degli interessi, la natura dei conflitti in atto.
Ciò non esclude che in alcuni discorsi sembri prevalere il gusto piuttosto esornativo per l’amplificazione retorica, in una sorta di gara con i modelli classici e umanistici. È sicuramente il caso della bella orazione dei cittadini milanesi a Francesco Sforza che li ha traditi (VI xx); nella quale il tema storico e politico dell’infedeltà delle armi mercenarie (pur richiamato nell’orazione) ben poco aggiunge a quanto M. ha già chiarito nella narrazione: vi si intravede piuttosto l’intenzione di costruire un efficace discorso di obiurgazione, con gli strumenti del riuso retorico. Un’esibita e quasi virtuosistica intenzione stilistica è rilevabile anche in contiones ad alto valore ideologico e che sono imprescindibili per comprendere il messaggio ideologico delle Istorie. Si consideri, per es., la prima orazione del libro (II xxxiv, che possediamo autografa nella versione non definitiva, il Frammento IV dell’Abbozzo), della cui importanza si è detto poco sopra. L’anonimo cittadino, nel tentativo di dissuadere il potenziale ‘tiranno’, assume i panni di un consigliere del principe che affida la sua forza persuasiva a un cristallino rigore argomentativo. Colpisce tuttavia il fatto che, sul piano formale, M. stia riproducendo la cifra stilistica del Principe, in una sorta di autocitazione cui non sarà estranea la dimensione di un sottile gioco retorico. E davvero si avverte il profumo del Principe in questa pagina: dall’analisi disincantata delle forze in campo alla concentrazione ‘aforistica’ della legge politica («quello dominio è solo durabile che è voluntario», II xxxiv 21), fino all’uso di un’argomentazione apodittica che adotta la catena dei «perché» pseudocausali, caratteristica del trattato («perché quelli signori possono [...] perché tu non sai donde ha a nascere el male ecc.», §§ 14-15).
Più spesso le orazioni guidano il lettore attraverso riflessioni politiche o morali di alto profilo, non prive di un interesse filosofico disinteressato. Valga per tutti l’esempio della più famosa orazione delle Istorie: il discorso dell’anonimo Ciompo (III xiii) che denuncia il carattere arbitrario e violento di ogni forma di proprietà e di legalità; una pagina nella quale l’estremismo delle premesse è portato alle ultime conseguenze logiche, spingendosi fino ai confini del pensabile: un radicalismo totale che fa tabula rasa di ogni principio riconosciuto di autorità (→ Ciompi, tumulto dei).
Particolarmente interessanti, sul piano strutturale, sono le orazioni che consentono di mettere in rilievo il senso profondo delle vicende narrate, evidenziando fattori di continuità, smascherando finzioni ideologiche e la natura reale degli interessiin campo. È il caso dell’orazione di un anonimo cittadino ai signori della città in risposta alle crescenti tensioni tra le fazioni (III v): si tratta di una pagina che concentra, mettendoli a tema, i principali concetti che M. adotta per interpretare, nella continuità dei tempi lunghi, la storia fiorentina. La specificità degli eventi narrati in quel torno di capitoli è infatti trascesa nell’indicazione di quegli eventi come espressione dei nodi da sempre irrisolti della storia fiorentina e della natura ‘corrotta’ dei suoi conflitti interni. Troviamo nelle parole dell’anonimo cittadino la denuncia del ruolo di «sette» e «parti», la contrapposizione tra «modi privati» e «publica utilità»; tra «ambizione» e «vera gloria»: sono parole-chiave che attraversano – nei momenti di più alta valenza interpretativa – le intere Istorie, ed esprimono, per così dire, quel giudizio complessivo, desolatamente negativo, sulla storia di Firenze che attraversa l’intera opera.
Se il ricorso alle contiones (pur nella loro funzionalità interpretativa) è un aspetto vistoso dell’ossequio delle Istorie ai precetti normativi della scrittura storiografica, l’intera opera è segnata da un’attenta cura stilistica, che comporta una frequente variazione dei ritmi narrativi: a pagine dense di eventi ricostruiti in una rigorosa e serrata concatenazione causale, M. alterna veri e propri slarghi narrativi, caratterizzati da tonalità stilistiche mutevoli. Quasi di sapore novellistico sono le pagine in cui sono trattati episodi dell’immaginario tradizionale fiorentino (come il caso già segnalato di Buondelmonte, o quello di Farinata degli Uberti alla Dieta dei ghibellini a Empoli, in II vii). Eventi drammatici sono narrati con un’abile dilatazione dei particolari narrativi, con un effetto di rallentamento che produce tensione: è il caso delle ricordate pagine sulla prigionia di Cosimo (IV xxviii-xxx), o di quelle, dense di tensione, sulla morte di Baldaccio d’Anghiari (VI vi-vii); o le altre su Milano assediata da Francesco Sforza (VI xxiv), dove la disperazione della città affamata è rappresentata attraverso un punto di vista narrativo mobile che si restringe infine sui due quasi casuali promotori della rivolta («duoi adunque di non molta condizione, ragionando propinqui a Porta Nuova», VI xxiv 11). Spesso M. inserisce brevi episodi che – in ottemperanza ai precetti della storiografia classica – hanno un’esplicita valenza esemplare, affidata talora ad apoftegmi di asciutta e solenne concisione: sulla volubilità della fortuna e il tragico gioco dei suoi rovesciamenti (su Piero degli Albizzi, III xix; Luca Pitti, VII xv e xvii; Iacopo Pazzi, VIII ix); di presunzione punita (l’anonimo provveditore veneziano di VI xviii); o propongono esempi positivi di onestà e coraggio (il carceriere Federigo Malavolti, IV xxix; Biagio del Melano, IV xii; Vieri de’ Medici, III xxv).
Rientra tra le peculiarità stilistiche delle Istorie il gusto per una sorta di concisione dai tratti talora aforistici; frasi perfettamente calibrate (nella forma del parallelismo o della struttura chiastica) che concludono un racconto o un’argomentazione: riassumendone il senso («s’egli era insopportabile conte, giudicava che fusse per essere uno duca insopportabilissimo», detto dopo l’articolata esposizione delle ragioni per cui Capponi era contrario all’alleanza con Francesco Sforza, VI xxiii 6), o sottolineando l’ironia o la paradossalità di una situazione (i ceti dirigenti di Lucca assediata e affamata temono che la plebe, priva di diritti politici, «stimassi più i pericoli proprii che la libertà d’altri», V xi 5), o semplicemente estrapolando dal contesto una verità o una legge politica o umana generale («comincionsi le guerre quando altri vuole, ma non quando altri vuole si finiscono», III vii 4; [parlando delle congiure] «i pochi non bastano e gli assai le scuoprono», III xxviii 3; «la forza e la necessità, non le scritture e gli oblighi, fa osservare a’ principi la fede», VIII xxii 3).
Dobbiamo ritenere perduto il codice di dedica che M. recò al papa a Roma nel maggio 1525, che fu erroneamente identificato in passato con il codice della Biblioteca medicea laurenziana di Firenze Plut. XLIV 34, il più elegante dei tre codici integrali delle Istorie che precedono la princeps. Gli altri due sono il laurenziano Med. Palat. 163 (che fu utilizzato nella tipografia dei Giunti per l’allestimento della princeps fiorentina, del 1532) e un codice della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, segnato II III 64. Molto importante quest’ultimo, il solo esattamente databile (nell’inverno tra il 1525 e il 1526), che fu esemplato da Lodovico Buonaccorsi per conto di Paolo Vettori, il fratello di Francesco, amico e corrispondente di M., e ammiraglio della flotta pontificia. A essi va aggiunto un altro codice laurenziano (Plut. XLIV 37), che contiene però solo i primi tre libri e l’inizio del quarto. Le Istorie furono stampate nel 1532, in due edizioni uscite quasi in contemporanea a Roma (presso Antonio Blado) e a Firenze (presso i Giunti). Furono seguite già negli anni successivi da numerose edizioni (almeno tredici fino al 1555).
Bibliografia: Le Istorie fiorentine di Niccolò Machiavelli ridotte alla vera lezione su codici e stampe antiche, a cura di L. Passerini, G. Milanesi, 2° vol., Firenze-Roma 1874; Istorie fiorentine, con commento di V. Fiorini, Firenze 1894; Istorie fiorentine, testo critico con introduzione e note di P. Carli, 2 voll., Firenze 1927; Istorie fiorentine, in Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, a cura di F. Flora, C. Cordiè, 2° vol., Milano 1950, pp. 1-434; Istorie fiorentine, in Opere, 2° vol., Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, a cura di A. Montevecchi, Torino 19862, pp. 275-759; Istorie fiorentine, in Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli, II. Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, coord. di G.M. Anselmi, tt. 1 e 2, Roma 2010, pp. 77-785.
Per gli studi critici si vedano: P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3 voll., Firenze 1877-1882; P. Carli, L’abbozzo autografo frammentario delle Storie fiorentine di N. Machiavelli, «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», 1908, 21, pp. 3163; A. Gerber, Niccolò Machiavelli: die Handschriften, Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke im 16. und 17. Jahr hundert, mit 147 Faksimile und zahlreichen Auszügen; eine kritisch-bibliographische Untersuchung, 3 voll., Gotha-München 1912-1913 (rist. anast. Torino 1962); E. Levi, Due nuovi frammenti degli abbozzi autografi delle Istorie fiorentine del Machiavelli, «La bibliofilia», 1967, 3, pp. 309-23; C. Dionisotti, Machiavelli storico, in Niccolò Machiavelli. Colloquio indetto dall’Accademia nazionale dei Lincei nella ricorrenza del V centenario della nascita di Niccolò Machiavelli, Roma 8-9 maggio 1969, Roma 1970, pp. 19-32, poi in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 365-409; J.-J. Marchand, Ancora due frammenti autografi delle Istorie fiorentine di Niccolò Machiavelli, «La bibliofilia», 1970, 1, pp. 75-89; F. Gilbert, Machiavelli’s Istorie fiorentine: an essay in interpretation, in Studies on Machiavelli, ed. M.P. Gilmore, Firenze 1972, pp. 73-99, poi in Id., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 19772, pp. 291-318; M. Marietti, Machiavel historiographe des Médicis: de l’isolement forcé à la composition des Istorie florentine, in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l’époque de la Renaissance (deuxième série), éd. A. Rochon, Paris 1974, pp. 81-148; G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; J.M. Najemy, Machiavelli and the Medici: the lessons of Florentine history, «Renaissance quarterly», 1982, 4, pp. 551-76; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; N. Rubinstein, Machiavelli storico, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1987, pp. 695-733; G. Inglese, Postille machiavelliane. Per la storia delle Istorie fiorentine, «La cultura», 1989, pp. 421-25; G. Pieraccioni, Note su Machiavelli storico II. Machiavelli lettore delle Storie fiorentine di Guicciardini, «Archivio storico italiano», 1989, 1, pp. 63-98; A.M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli. Il terzo libro delle Istorie, Roma 1990; M. Martelli, Machiavelli e la storiografia umanistica, in La storiografia umanistica, Atti del Convegno internazionale di studi, 22-25 ottobre 1987, 1° vol., t. 1, Messina 1992, pp. 113-52; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; D. Quint, Narrative design and historical irony in Machiavelli’s Istorie fiorentine, «Rinascimento», 2003, pp. 31-48. F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, in partic. pp. 246-69; C. Varotti, Machiavelli segretario: l’esperienza e il racconto, in Machiavelli senza i Medici: scrittura del potere/potere della scrittura, Atti del Convegno internazionale di studi, Losanna 18-20 novembre 2004, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2006, pp. 131-48; A. Rigon, La sintassi del periodo nelle Istorie fiorentine di Machiavelli e nella Storia d’Italia di Guicciardini, «Stilistica e metrica italiana», 2007, 7, pp. 77-129; A.M. Cabrini, Machiavelli’s Florentine histories, in The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 128-43.