ISTRIA (A. T., 24-25-26)
Situazione e limiti. - L'Istria è una penisola dell'Italia settentrionale situata fra il termine SE. dell'arco delle Alpi e la parte più interna dell'Adriatico, nella regione in cui hanno sbocco sul Mediterraneo i paesi del medio Danubio e in cui, per le vie della Sava e della Culpa, le terre balcaniche comunicano con l'Italia: per ciò di quest'ultima l'Istria è soglia e propugnacolo a un tempo. Protesa verso S. a guisa di cuneo, divide l'Adriatico nei golfi di Trieste e del Quarnaro. Dal Capo Promontore, estremità meridionale che ne rappresenta il vertice, sino al parallelo di Priluca, ha la forma di triangolo isoscele con una base larga 60 km. Ma questa non è la massima larghezza della penisola, la quale a N. della foce del Quieto tanto si estende a O. che tra il seno di Priluca e la punta di Salvore, estremità occidentale, intercedono 67 km.; poi, procedendo a N., oltre la punta di Salvore, la costa si ritira a levante coi valloni di Pirano, di Capodistria e di Muggia, per modo che il collo della penisola, tra quest'ultimo vallone e il seno di Priluca sul Quarnaro, misura 48 km.
Circa lungo questa strozzatura, che a un solo sguardo della carta geografica manifestamente indica la linea divisoria tra la penisola e il tronco al quale essa si salda, si eleva ripido il ciglione SO. dell'Altipiano del Carso, accompagnato dal rialzo che si dice La Vena, o Monti della Vena, e che percorrendo il Carso in tutta la lunghezza, contribuisce a segregare antropogeograficamente la penisola. L'individuo fisiogeografico ch'essa forma è nel modo più evidente limitato tra il ciglione del Carso, il Vallone di Muggia e il seno di Priluca. Alcuni autori però, tenendosi alla linea dei Vena, qui coincidente col ciglione, là discostantesi dal medesimo, li seguono sino a Duino e chiudono l'Istria a NO. alle fontì del Timavo. Questa linea si accorda meglio con la tradizione storica che dall'Istria non separa Trieste, situata subito a N. del Vallone di Muggia, ove comincia la linea divisoria da noi indicata. Essa delimita l'Istria peninsulare, o marittima, la cui lunghezza, misurata fra il Monte Lanterna (nell'estremità di Promontore) e Cernotti (che sono sullo stesso meridiano), è di km. 88,5; invece fra lo stesso Monte Lanterna e il Monte Glavizza, quasi al punto di mezzo della distanza fra il Vallone di Muggia e Priluca, intercedono 81 km.
Di fronte all'Istria propria, o marittima, spesso si pone l'Istria montana, sotto la quale denominazione s'intende la regione adiacente detta anche, nel senso proprio di questa parola, Carso, o Carsia, tra il Vipacco, il Timavo Superiore e il Golfo di Trieste. Una parte di esso forma l'altipiano dei Cici. Comprendendovi l'intero Carso, il confine dell'Istria verrebbe portato alla pianura friulana (monfalconese), alla valle del Vipacco e al valico di Postumia; e da questo al Monte Nevoso e al Quarnaro. Il Carso dai geologi è anche detto Istria Bianca, per distinguere questa zona calcarea, essenzialmente di età cretacica, da quella arenaceo-marnosa, di età eocenica, che con le sue colline forma il suolo della penisola fra Trieste e Fianona e che dal colore delle rocce si chiama Istria Grigia, o anche Gialla. La parte più meridionale della penisola poi, è un ripiano calcareo che, per l'abbondanza della "terra rossa", è detto Istria Rossa.
La riviera orientale, disgiunta dal resto della penisola per mezzo delle forti giogaie della Caldara (M. Maggiore, 1396 m.), nell'uso tradizionale è talvolta esclusa dall'Istria propria, mentre i facili rapporti con Fiume, suo centro naturale, la fanno piuttosto una parte della regione fiumana. Questa, rievocando un nome antico, fu detta Liburnia. Così, mentre Lodovico Vergerio, volendo comprendere nell'unità fisica dell'Istria tutti e due i versanti del M. Caldara, ne portava a NE. i confini sino alla Fiumara (Recina), il Kandler invece limitava la regione istriana a oriente coi Monti Caldara (in modo che solo il versante occidentale, con Fianona, vi apparteneva), a settentrione col Carso, sicché, procedendo da Duino per i monti di Medeazza, per Verpogliano, Cosina e i Monti Taiano, Sia e l'Alpe Grande, giungeva al M. Maggiore. Perciò, secondo il Kandler, il Carso di Duino, Trieste col Carso sovrastante appartengono all'Istria. La quale però, come manca di un centro naturale così fu a lungo politicamente divisa: per quattro secoli fra la città di Trieste, la contea di Pisino (Istria settentrionale) che formava l'Istria imperiale, e il marchesato d'Istria (Istria meridionale), dominio di Venezia. Nel 1811 queste tre parti erano state riunite nell'intendenza d'Istria, che costituiva una delle sette Provincie Illiriche, nella quale entrava anche la contea di Gorizia.
Ritornato il dominio austriaco, la ripartizione amministrativa della Venezia Giulia fu rimaneggiata nel 1814 e poi nel 1825. Nel quale anno, divisa la Venezia Giulia nelle tre provincie, Istria, Trieste e Gorizia, a formare la prima, cioè il circolo d'Istria, o di Pisino, furono uniti i distretti di Capodistria, Pirano, Buie, Pinguente, Parenzo, Rovigno, Dignano (con Pola) già appartenuti a Trieste, con quelli di Albona, Pisino (Bellai), Laurana, Castua (Volosca) e Castelnuovo, più le isole del Quarnaro, già appartenuti a Fiume. Dall'Istria restavano esclusi Trieste e i territorî di Sesana e di Duino, aggregati a Gorizia, mentre con l'aggiunta dei distretti di Castua e di Castelnuovo si aumentava fortemente il numero degli Slavi della circoscrizione, la quale pertanto misurava un'area di 4719 kmq.
Amministrativamente la maggior parte dell'Istria forma oggi la provincia di Pola, nella quale sono comprese anche le isole di Cherso e di Lussin con le minori adiacenti. L'area totale è di kmq. 3703,44, con una popolazione di 297.526 ab. nel 1931 (80,4 per kmq.). Ma se consideriamo la sola penisola d'Istria, entro ai limiti che le abbiamo dato, dobbiamo escludere dal computo le due isole e aggiungervi invece la Riviera Orientale, che fa parte della provincia di Fiume. In cifre tonde, l'area della penisola è di 3600 kmq., su cui vivono 294.000 ab. (per conseguenza, con una densità media di 81 per kmq.).
Conformazione del suolo e aspetti del paesaggio. - L'Istria Bianca (v. carso) è in complesso costituita da una piega anticlinale, rovesciata a SO.; donde il salto topografico, da Duino a Trieste, fra il Carso e il mare, e, a SE. di Trieste, il sovrapporsi di varie pieghe minori; donde pure la serie di scaglioni dell'Altipiano dei Cici coi Monti della Vena (Alpe Grande, 1273 m.), continuante, oltre il Passo della Fortezza (953 m.), nei Monti Caldara (anticlinale del Monte Maggiore, 1396 m.) e scendente con un alto ciglione sull'Istria Grigia. L'Istria Grigia invece, cui, sul lato NE. del Carso, fa riscontro la zona, pure eocenica, del Vipacco e del Timavo Superiore, corrisponde come quest'ultima a una gran piega concava, o sinclinale, dove la natura delle rocce e la tettonica favorirono lo smaltimento superficiale delle acque e con ciò la formazione di molteplici valli di erosione e di amene colline molto articolate, ricche di boschi e di prati, di campi e di orti, fra i quali biancheggiano le case dei molti villaggi. Ma la poca resistenza di certe rocce (tassello), l'ineguale ripartizione delle piogge e le forti variazioni di temperatura alle quali va soggetto il suolo, dànno origine a una denudazione molto attiva, che talora richiama le condizioni e gli aspetti di alcune parti dell'Appennino, povere di vegetazione e danneggiate da franamenti. La mancanza di uno strato d'alterazione superficiale, che il dilavamento continuamente asporta, fa sì che l'acqua rapidamente si smaltisca. Perciò l'uomo è costretto a scavare pozze atte a conservare l'acqua piovana. E sui fondi delle valli si accumulano i materiali asportati alle alture.
Dal Lago d'Arsa ad Aurisina, fra Pisino, Buie e Trieste, le rocce arenacee e marnose formano ma fascia quasi continua. A SO. di questa grande sinclinale si stendono strati calcarei cretacei ed eocenici, formanti un'altra piega anticlinale (preceduta da un'altra minore tra Salvore, Buie e Pinguente); questa piega è dolcemente depressa, forma un ripiano, lievemente ondulato da doline e da valli in parte normali che lo dividono nei Carsi di Buie, di Parenzo, di Albona e di Pola. È questa l'Istria detta Rossa, perché il ripiano è coperto dal prodotto rossastro dovuto all'alterazione chimica dei calcari. Questo ripiano monotono, che venne interpretato come una superficie di abrasione, da una massima altezza di 480 metri discende dolcemente all'Adriatico (più rapido è il pendio verso l'Arsa e il Quarnaro) e comprende tutto lo spazio fra il Capo Promontore, Albona e la Punta di Salvore.
Di questo terreno carsico sono caratteristiche le voragini dette foibe, spesse volte allineate nella direzione di certe fessure, che hanno acqua sul fondo, variabile di altezza con le stagioni e salmastra presso il mare. Le valli, infossate nel ripiano, sono molto sinuose e disabitate, o quasi, perché malsane.
Idrografia. - La carta geologica dell'Istria ne rispecchia le condizioni idrografiche. Infatti, salvo pochi e brevi corsi d'acqua che costituiscono eccezioni, soltanto i terreni marnoso-arenacei sono percorsi da correnti superficiali; invece i terreni calcarei, fessuratí e cavernosi, ne sono privi. In complesso, l'Istria è percorsa da poche correnti superficiali che portano al mare scarso tributo e la superficie totale in cui la circolazione delle acque avviene normalmente non può stare alla pari con quella in cui lo smaltimento avviene per vie sotterranee.
Le valli sono ristrette nei corsi superiori e perciò poco o punto abitate, come in quelli inferiori, dove lo smaltimento delle acque, reso difficile dalle deboli pendenze causate dalla sommersione costiera, le rende anche malsane. Queste condizioni dei fondi delle valli fanno sì anche ch'essi siano evitati dalle strade e che anzi le valli stesse rappresentino un ostacolo per le comunicazioni. Essendo la penisola bagnata dai due golfi di Trieste e del Quarnaro, all'uno e all'altro defluiscono le precipitazioni. Queste formano correnti superficiali considerevoli, che perciò presentano disposizione radiale, o scompaiono nelle gallerie sotterranee dei calcari per formare sorgenti subaeree poco prima di andare in mare, o sottomarine, come la grande polla di Moschiena che modifica temperatura e salinità del mare. Nella zona di queste sorgenti sottomarine che si può seguire sino a Fiume, vive lo scampo (Nephrops norvegicus), relitto faunistico d'un clima più freddo.
Coste. - La costa istriana è alta e taglia le zone tettoniche indipendentemente dalla formazione delle pieghe. Fatta eccezione dei tratti antistanti alle foci fluviali, dove si notano delta sottomarini, e di qualche lembo di pianura litoranea alla foce dei torrenti che vengono dal Monte Maggiore, si può dire che in Istria manchi una spiaggia coi caratteristici depositi, per modo che dalla riva rapidamente si scende alle maggiori profondità. Questo fatto è la conseguenza di un altro, dello spostamento positivo del livello marino, da cui derivò la sommersione d'un'intera pianura quaternaria che occupava l'attuale estremità settentrionale dell'Adriatico e che continuava la Pianura Padana fino alla parte occidentale del Quarnaro. Nella morfologia delle coste istriane l'ingressione del mare è senza dubbio il fattore prevalente; essa fu più rapida dell'opera delle onde battenti che non sono mai arrivate a produrre forme mature, causa lo spostamento positivo di livello che presentava loro sempre nuove pendici, prima che le precedenti fossero del tutto elaborate. La prevalenza della sommersione su altri fattori, si rende evidente al più profano osservatore anche nelle valli penetrate dal mare (Canale Leme, Canale d'Arsa, Vallone di Fianona) e che costituiscono la caratteristica più cospicua delle coste istriane. In queste i centri abitati sorgono di preferenza sui promontorî (costa occidentale) o si aggrappano alle rupi (costa orientale).
Clima e formazioni vegetali. - L'Istria, anche per riguardo al clima, è una regione di confine. Essa si trova fra provincie climatiche diverse: i paesi circummediterranei, le Alpi e la Regione Carpaticodanubiana. E perciò nel tempo e nello spazio vi si presentano condizioni meteorologiche molto differenti. Assai notevoli differenze termiche tra il giorno e la notte sugli altipiani carsici, forti le piogge per l'esposizione ai venti umidi che vengono dal mare, assai fredde le giornate invernali in cui soffia la bora. Tuttavia, se si confronta il clima istriano con quello della costa della penisola appenninica, distinto da una forte amplitudine, e con quello della Pianura Padana soggetta a freddi inverni, si può affermare che nell'Istria la fisionomia climatica dei paesi circummediterranei è meno modificata. La cintura delle Alpi che termina al Quarnaro funge da schermo di una certa efficacia, in quanto rende difficile il libero scambiarsi dell'aria fra l'Istria e i paesi transalpini ed esercita un' azione paragonabile a quella dei monti che proteggono la Riviera Ligure; donde l'importanza di alcune stazioni climatiche. Ma se l'Istria è soggetta al benefico influsso del mare, le Giulie meridionali, coi loro caratteri d'altipiano, non sono un ostacolo molto energico contro i movimenti dell'aria.
Le medie temperature annue più elevate si verificano nelle stazioni insulari di Lussin (15°,4) e di Porer (15°,1); sulla costa occidentale si osserva la stessa temperatura media annua (14°) a latitudini differenti; altrettanto si nota sulla riviera orientale, dove Fiume e Abbazia hanno uguale media annua (13°,5).
Lo scirocco apporta umidità e pioggia. Le piogge in generale sono di breve durata e nell'autunno specialmente prendono forma di violenti acquazzoni. L'ottobre è il mese più piovoso. La lunga siccità estiva (3-4 mesi) è causa che la regione sia povera d'acqua e che l'arboricoltura sia la forma più adatta di coltivazione. Ciò nonostante, le quantità di pioggia annua sono considerevoli: sulla costa superano alquanto i 1000 mm. specialmente dove i monti si oppongono alle correnti nubilose (Abbazia 1726 mm., Apriano 2053 mm.); sul Monte Maggiore, la pioggia annua va certamente oltre i 3000 mm. e abbastanza frequenti, specialmente in autunno, sono i nubifragi che mettono improvvisamente in piena i corsi d'acqua rimasti asciutti durante l'estate.
Anche la flora dell'Istria ne rispecchia il carattere climatico di regione di transizione. La flora mediterranea (associazioni della macchia) è abbastanza spiccatamente rappresentata nell'Istria, specialmente nella parte meridionale. Nel dominio della flora pannonica, altrimenti detta pontica, sono invece compresi l'Istria centrale e il Carso. Però nelle parti più elevate dell'Altipiano dei Cici, a causa di condizioni climatiche paragonabili a quelle dell'Europa centrale, appariscono gli elementi della flora baltica. Anche nell'Istria la macchia cresce lungo le coste, al posto di selve così degenerate per opera dell'uomo: i pastori tendono a sostituirla con una specie di brughiera sempreverde. Tra le piante caratteristiche della flora mediterranea è l'olivo; è coltivato fino all'altezza di 200-360 m. La vite raggiunge al massimo i 500-600 m., e dove essa si arresta la sostituisce il castagno. In generale, verso l'interno e a circa 200 m. s. m., alle specie con foglie persistenti si sostituiscono quelle a foglie caduche (roveri, farnie, cerri) e alla brughiera sempreverde quella carsica. Verso i 700 m. e fino ai 1700, boschi di faggio. Al posto di questi boschi l'uomo in molti luoghi ha sostituito coltivazioni e pascoli, e specialmente i pastori immigrati nell'Istria arrecarono danni gravissimi all'ammanto boschivo.
Condizioni economiche. - Il 67% della popolazione vive dell'agricoltura (olivo, alberi da frutta, cereali, vite), la quale è per lo più esercitata secondo regole tradizionali e anche a causa delle condizioni sociali non dà l'utile che potrebbe.
Nella pesca marittima (sardelle, tonno) è invece occupata una piccola parte della popolazione e solo intorno ad Albona vi sono giacimenti minerali (carbone e bauxite).
Circa il 96% del suolo istriano nelle statistiche austriache era censito come produttivo. Sicché solo il 4% si considera come improduttivo ed è costituito principalmente dai terreni paludosi e dalle vecchie saline che, per effetto della legge Mussolini sulla bonifica integrale, ormai stanno per essere completamente acquisiti all'agricoltura. In buona parte dell'Istria interna le acque dilavanti cagionarono gravi danni, ai quali non si può riparare se non disciplinando le acque e rimboschendo tutti i rilievi che non conviene coltivare. A quest'opera, alla quale ora si attende, è intimamente connessa quella del prosciugamento delle paludi nei corsi inferiori. Onde ben presto queste valli diverranno le parti più fertili dell'Istria. Infatti essendo il difetto dell'acqua, per la lunga siccità estiva, uno dei più gravi ostacoli ai quali vanno incontro le colture istriane, nelle valli così sistemate sarà possibile irrigare. Nell'Istria meridionale non è raro il caso che i raccolti vadano perduti e che si debba uccidere il bestiame affinché non muoia di sete. Alla sitibonda penisola occorre un acquedotto che si sta costruendo. Esso deve trarre profitto principalmente dalle polle di San Giovanni presso Pinguente.
Distribuzione della popolazione. - L'Istria è abitata da tre schiatte: l'italiana, la slava e la romena. Gl'Italiani discendono dalle antiche popolazioni romanizzate e da Veneziani, Friulani, Romagnoli, Marchigiani, Pugliesi e Lombardi immigrativi. Formano la parte colta della popolazione. I Romeni (Istroromeni), immigrati nell'Istria nel sec. XIV e in parte slavizzati, occupano qualche villaggio (Mune Seiane) dell'altipiano detto appunto dei Cici, e il comune di Val d'Arsa (questi ultimi si dicono Rimliani). Gli Slavi non sono tutti della medesima stirpe, non parlano tutti la medesima lingua (a N. gli Sloveni sino alla Dragogna, a S. i Croati). Si stabilirono nell'Istria in tempi diversi e per motivi diversi (vedi sotto: Storia).
L'accennata densità media attuale della popolazione di 81 abitanti per kmq., dipende principalmente dal fitto abitamento delle zone costiere. La parte più popolata di queste è la costa fra Muggia e Pirano (386 ab. per kmq.) con le valli della Rosandra e del Risano, e tra Fiume e Laurana (182 ab. per kmq.). Radamente abitati sono l'Istria meridionale, i terreni marnoso-arenacei dell'Istria interna, e le parti più elevate dei Monti della Vena e dei Caldara si possono considerare come disabitate. La densità diminuisce col crescere della distanza dal mare, e alla diminuzione contribuisce anche l'aumento dell'altitudine. La più alta sede stabile dell'Istria (995 m.) è Villa Monte, sul fianco SO. del Monte Maggiore, dove pure le coltivazioni raggiungono il loro limite altimetrico. La costituzione geologica del suolo esercita sulla distribuzione della popolazione un influsso assai grande, anche per la ragione che da quella dipendono le condizioni idrologiche; nelle zone marnose e arenacee la densità è di 108, nei calcari di 53. Ma la densità del popolamento dipende anche dalla possibilità di esercitare le coltivazioni dell'olivo e della vite, che sono le più rimunerative e dal livello di civiltà della popolazione (la slava è meno capace).
Nell'Istria l'abitare agglomerato in sedi abbastanza grandi, prevale di gran lunga sulle sedi piccole e sulle dimore isolate (le stanzie). Ciò specialmente si dica dei territorî di Pisino, Parenzo e Pola; invece in quel di Capodistria le sedi sono più piccole. Il qual fatto dipende da ragioni naturali e da ragioni storiche. Anzitutto si osservi che nelle zone arenacee dell'Eocene l'agglomeramento della popolazione è alquanto meno spiccato: prevalgono i piccoli agglomeramenti rurali. Invece sui calcari la difficoltà di procurarsi l'acqua obbliga alla concentrazione in sedi più grandi. Si deve poi tener presente che le necessità della difesa, che si rendono evidenti fin dall'epoca preistorica, obbligarono sempre le popolazioni della penisola a formare aggregati piuttosto grandi e in situazione protetta dalla natura. Così non poche sedi istriane occupano la sommità delle alture, al posto dei castellieri preistorici, e conservano tuttora le loro mura. Sia nell'Istria Grigia sia nell'Istria Rossa sono frequentissimi tali centri in posizioni dominanti, talvolta completamente isolate e malamente accessibili.
V. tavv. CXIX-CXXII.
Bibl.: B. Benussi, La Regione Giulia, Parenzo 1903; Etnografia dell'Istria, in Rivista Contemporanea, Torino, settembre 1860; N. Krebs, Die Halbinsel Istrien, in Geographische Abhandlungen, IX, Lipsia 1907, fasc. 2; L'Istriano, I, Rovigno 1860; O. Marinelli, The regions of mixed populations in Northern Italy, in The Geographical Review (1919); A. Tamaro, Le Vénétie Julienne et la Dalmatie, I, Roma 1918; T. Taramelli, Descrizione geognistica del Margraviato d'Istria, Milano 1878; F. Viezzoli, La Venezia Giulia, in La Terra di G. Marinelli, IV, Milano; id., L'Adriatico, Parma 1901.
Dialetti.
Accanto ai dialetti di tipo veneto di Capodistria e di Parenzo (v. veneto: Dialetti) si hanno le parlate più conservative dell'Istria occidentale (dette da A. Ive istriote), le quali, più o meno chiaramente, hanno mantenuto nel lessico e nella grammatica dei tratti che le differenziano dal veneto moderno. Nel Golfo di Trieste entra appena in questo complesso, con caratteristiche molto scialbe, il dialetto di Pirano; la zona linguisticamente arcaica è quella a S. del canale di Leme, che comprende il territorio di Rovigno-Dignano, e, in molto minor misura, quella di Pola. Questi ultimi dialetti meglio si prestano a farci comprendere gli antichi strati istriani, nettamente distinti dai dialetti friulani (le cui ultime propaggini s'arrestano a N. dell'Istria, a Muggia) e dai dalmatico-veglioti.
Le loro caratteristiche rientrano, secondo le premesse storico-geografiche, nel veneto comune di terraferma, quale è documentato dal Quattrocento in poi, fatta eccezione per i dittonghi éi e óu da ī, ū latini che, se non sono innovazioni, rappresentano quanto rimane, in questi dialetti, di realmente "preveneto" cioè di una fase romanica regionale indigena; invece rientra nel sistema veneto di terraferma il dittongo da ĕ, ŏ in sillaba chiusa (viermo, cuorda). Il criterio di differenziazione di fronte ai dialetti veneti dell'Istria è tanto più labile, in quanto queste parlate, specialmente fuori del distretto di Rovigno e Dignano, vanno perdendo rapidamente le loro caratteristiche. In questo processo di adattamento i villaggi oppongono minor resistenza dei capoluoghi e dimostrano incertezze notevoli. Così, p. es., Rovigno, Fasana e Dignano hanno ei, ou per ī, ū: feila "fila", sintéi "sentire", calséina "calcina", bóu "avuto", móur "muro", mentre hanno i, u alla veneziana i centri minori e minimi di Valle, Fasana e Gallesano. Viceversa, mentre a Rovigno gli esempî di -á- in -é- in iato secondario con j (ganéipa, da *caneipa, *canaipa, *cannapja "canapa", chiéro "carie"), non comprendono la metafonia del plurale, questa è peculiare a Valle e Dignano (tipo chen "cani"). Ma, di nuovo, Valle, a metà strada fra Rovigno e Dignano, non ha traccia dell'evoluzione di é, ó chiusi latini a i, u (tipo mis "mese, ura "ora"), che nei due centri è ben vegeta. A Pirano (dove manca la dittongazione di -ī-, -ū-, che è il tratto più caratteristico del rovignese) sono fenomeni veneti arcaici la scomparsa di -r nell'infinito (andá, murí), la terminazione -i- per la prima persona (ignori "ignoro") e, per altri motivi, della terza (el dormi, el perdi), la conservazione della sillaba finale da -tus, -ta latino preceduto da vocale (marido, ámeda "zia"), fenomeni che si ripetono nel gruppo rovignese e polesano. Sono poi fasi di resistenza al tipo veneto moderno nel piranese le sibilanti dentali þ e ß per s sordo e sonoro schiacciato, primario e secondario (þordo "sordo", caßa "casa", coßi "cuocere"), mentre viceversa l'-e per -o atono finale (colme "colmo", þante "santo") dimostra l'irradiazione della tendenza veneziana in lotta con -o per -e finale che una volta doveva estendersi fin qui, e ora è limitato a Rovigno e Dignano (lato "latte", carno "carne").
Per i dialetti slavi e romeni, v. italia: Dialetti non italiani.
Bibl.: G. I. Ascoli, Arch. glott. ital., I (1873), pp. 433-447; A. Ive, I dialetti ladino-veneti dell'Istria, Strasburgo 1900; per la posizione di Pola e Pirano v. Archeogr. triest., XXIV, p. 192; XXX, p. 149. Traduzioni della Parabola del figliuol prodigo nei dialetti di Pola, Dignano, Valle, Rovigno, in Archeogr. triestino, XXXVI (1914).
Storia.
Antichità. - La penisola istriana, dalla costa occidentale ai Monti della Vena, al ciglio dell'altipiano carsico, al gruppo del Monte Maggiore e al canale dell'Arsa (Arsia), era abitata dagli Istri, una popolazione di stirpe venetica. L'Arsa era il confine orientale, etnograficamente fissato, dell'Istria e insieme dell'Italia augustea, al di là del quale era il paese dei Liburni, mentre più a settentrione confinavano con l'Istria i Giapidi e i Carnî. Gl'Istri incominciarono verso la fine del II millennio a. C. a penetrare nella regione, passando sopra, con parziale distruzione, al Paleolitico e all'Eneolitico delle caverne e delle tombe dei rannicchiati e occupando i castellieri (v.), ai piedi dei quali o entro le cui cinte inferiori disposero i loro sepolcreti a cremazione.
Ciò si vede chiaramente a Nesazio, che, essendo il più forte castelliere istriano sul Quarnaro, passò alla storia come il capoluogo dell'Istria preromana. Sennonché nella necropoli di Nesazio, la quale ha le caratteristiche del periodo secondo e terzo di Este, si trovarono messi in opera nelle murature delle tombe numerosi e grossi frammenti lapidei di sculture e di decorazioni architettoniche appartenenti a qualche antichissimo edificio sacro di tipo miceneggiante. Questo oscuro fenomeno archeologico, che rimane ancora isolato in Adriatico, potrebbe connettersi con le leggende degli Argonauti, di Medea e di Apsirto, le quali sono localizzate alle foci del Timavo, a Pola, nelle isole del Quarnaro, e potrebbero forse adombrare antichissime relazioni con le civiltà preelleniche. Nelle tombe di Nesazio, di Pola, dei castellieri di Pizzughi, di Vermo, di S. Servolo e di altri luoghi: appartenenti alla civiltà italica dei metalli, non mancano tracce di prodotti industriali provenienti dalla sponda opposta dell'Adriatico, dalla Magna Grecia e dall'Apulia. All'incontro sono rare e senza importanza le infiltrazioni celtiche.
È dubbio se le piraterie, di cui secondo Livio ebbero a soffrire i Romani ancora nel sec. III a. C., piuttosto che agl'Istri siano da attribuire ai Liburni. Da Aquileia, fondata nel 181 a. C., i Romani mossero alla conquista dell'Istria. La guerra fu combattuta negli anni 178-177: nel primo anno, le legioni tentarono inutilmente di entrare nel paese dalla parte del Timavo (ai piedi dell'odierno Hermada), mentre nel secondo anno la spedizione finì con la distruzione di Nesazio, che era difesa dal principe e regolo Epulone. Per questa vittoria fu decretato il trionfo al console C. Claudio Pulcro. Nel 129 a. C., il console e storiografo C. Sempronio Tuditano trionfava nuovamente sui ribelli e ripristinava l'antico culto del Timavo. Oltre a questo, altri culti regionali rimasero anche dopo la conquista romana. Giulio Cesare fonda le colonie di Trieste, Pola e Parenzo; finalmente Augusto, debellati i Giapidi, protrae il confine dell'Istria dal fiume Formione-Risano sino all'Arsa sul Quarnaro e crea la X regione d'Italia, la Venetia et Histria (v. venezia e istria). Sotto l'amministrazione imperiale, l'Istria godé, specialmente nelle regioni litoranee, un periodo di grande prosperità. La Via Flavia, che nel 78-79 dopo C. mise in comunicazione Pola con Tergeste, creò la grande arteria di comunicazione che favorì il commercio e la cultura del paese. Resti importanti di ville romane si sono rinvenuti a Brioni Grande e in Val Bandon.
L'Istria durante le invasioni. - Alla caduta dell'Impero romano la penisola istriana, benché posta alle porte d'Italia, fu appena lambita dalla fiumana barbarica, tendente a dilagare piuttosto nella pianura padana. Essendo poi, per la sua stessa posizione geografica, naturalmente aperta alla penetrazione delle vicine terre romano-bizantine, nell'ampia distesa delle sue coste, da Aquileia, centro importante di vie commerciali e militari, unita al mare da un canale navigabile, alle vecchie colonie militari di Trieste e di Pola, poté mantenere intatti per lungo tempo i segni della civiltà latina. Un'unità di vita regionale istriana, anche oltre il confine politico dell'Arsa, si mantenne così nel periodo bizantino e durò sostanzialmente anche quando, dal sec. VII in poi, l'immigrazione slava venne ad alterare la compagine etnica dell'Istria, e quando il vario sviluppo delle forze locali e delle vicende della penisola portò a un certo differenziamento di condizioni politiche ed economiche tra le città della costa occidentale e quelle dell'interno. Questa unità venne rinsaldata dal cristianesimo, che, penetrato assai presto (forse già nel sec. II) nell'Istria, vi ebbe rigoglioso sviluppo, attestato dai numerosi vescovati istriani dipendenti nel secolo V dalla sede metropolitana di Aquileia.
La prima invasione che ebbe riflessi sulla vita istriana fu quella degli Unni, che nel 452 distrussero Aquileia. Ma né l'invasione dei Visigoti e degli Unni, né quelle degli altri barbari che li seguirono (Rugi, Eruli, Ostrogoti) alterarono profondamente le condizioni della regione che, durante il regno di Teodorico, attraversò anzi un periodo di pace e di floridezza. Durante la guerra gotica, l'Istria fu contesa tra Goti e Bizantini: occupata temporaneamente da Belisario nel 539, fu ripresa dai Goti e riconquistata definitivamente per Bisanzio dal principe Germanico. Ma per poco. Nel 568, l'invasione longobarda si abbatté sull'Italia e infierì anche nella parte settentrionale della penisola istriana: Trieste fu saccheggiata; Paolino, patriarca d'Aquileia, trasportò la sede metropolitana a Grado: per tutto il secolo VI e parte del VII, la regione ebbe a soffrire guerre e incursioni di Franchi, di Slavi e di Avari. Finché la pace del 680, limitando definitivamente la conquista longobarda alla linea Oderzo-Padova, venne a staccare l'Istria dalla regione friulana e dall'Italia ponendola sotto l'effettivo dominio dei Bizantini che, di quanto era loro rimasto della regione veneta, costituirono il ducato di Eraclea.
L'attrazione dell'Istria nell'orbita degl'interessi bizantini si era del resto già manifestata durante lo scisma aquileiese (554-698, v. aquileia, III, p. 805), scoppiato a causa della contesa dei tre capitoli. Durante tale scisma, contro Aquileia, caduta sotto l'influenza longobarda e divenuta sede di vescovi scismatici, si era affermata l'importanza di Grado come centro della vita religiosa istriana dominata dalle influenze di Bisanzio, non ancora venuta a una rottura con Roma. Ma durante la lotta iconoclastica, l'Istria fu tra le regioni più fedeli all'impero e tale rimase, tranne forse una breve parentesi di dominio longobardo durante il regno di Astolfo, fino a che nel 787 cadde sotto la conquista franca.
Gli stretti rapporti con Bisanzio avevano fatto sì che la potente aristocrazia terriera istriana si fosse, in processo di tempo, identificata con la burocrazia imperiale formando un'unica classe di governo posta a capo delle dignità sia civili sia militari. La conquista franca, che pose l'Istria sotto il potere del duca Giovanni, distrusse la posizione privilegiata di questa nobiltà, conservando forse le sole dignità civili dei iudices e dei lociservatores, ma togliendo alle città la giurisdizione sulla campagna, sottoposta ai centarchi franchi; ponendo nelle mani del duca ogni potere militare; interrompendo ogni diretto rapporto tra il governo centrale e i provinciali, sottoposti d'altronde ad angherie, servitù e prestazioni arbitrarie. I vescovi, favorevoli in genere ai Franchi, trassero occasione da queste condizioni per assodare antichi privilegi e acquistarne dei nuovi. Ma di fronte alle proteste degl'Istriani, delle quali si fece interprete Fortunato patriarca di Grado, Carlomagno nell'804 inviò nell'Istria tre missi dominici che, nella pianura del Risano, tennero quel famoso placito i cui atti costituiscono uno dei più importanti documenti che illustrino le condizioni dell'Italia sotto la dominazione franca. Tra le accuse portate contro il duca, particolarmente significativa è quella di aver destinato le decime dovute alla chiesa al mantenimento dei coloni slavi che egli aveva largameme attirato "super ecclesiarum et populorum terras". I messi sentenziarono in favore degl'lstriani: furono riconosciuti gli antichi privilegi e furono date garanzie per le esazioni illecite e gli altri arbitrî del duca. Ma in pratica, se si può supporre che subito dopo il placito del Risano le condizioni degl'Istriani fossero leggermente migliorate, se anche il diploma di Ludovico il Pio dell'820 confermava il placito missatico dell'804, concedendo agl'Istriani di eleggere "secundum legem antiquam" il rettore, il patriarca, i vescovi, i tribuni (mai però i capi militari), si può ritenere che sotto l'impero franco l'Istria andò a mano a mano perdendo quei caratteri di autonomia che le erano proprî nel periodo bizantino, per adeguarsi, alla fine del sec. IX, alle condizioni delle altre contee franche, mentre a questo affievolirsi della vita locale venivano ad aggiungersi (secoli IX e X) le scorrerie degli Ungari e gli assalti sempre più frequenti dei Saraceni e dei pirati narentani.
La marca d'Istria e la penetrazione veneziana. - Compresa nell'803 nella marca del Friuli, quando questa si sfasciò, nell'830, in quattro contee, l'Istria formò dapprima col Friuli la marca di Aquileia che, unita alla marca di Verona, fu sottoposta da Ottone I, nel 952, per assicurarsi la via delle Alpi, al ducato di Baviera, tenuto da suo fratello Enrico. Nel 976 Friuli e Istria, staccati dalla Baviera, furono uniti al ducato di Carinzia. Nel 1077 Enrico IV costituiva con il Friuli il principato ecclesiastico del patriarca d'Aquileia mentre fin dal 1040 Enrico III, per indebolire la potenza dei duchi di Carinzia, aveva costituito dell'Istria una marca, sottoposta direttamente all'Impero, infeudandola alla famiglia Weimar Orlamünde.
Dal 1040 al 1208, ai Weimar Oriamünde succedettero, nel marchesato d'Istria, gli Eppenstein, gli Sponheim e infine gli Andechs-Merania, e la marca risentì delle varie esigenze della politica imperiale, mentre scarsa vi fu l'autorità dei suoi, quasi sempre lontani, marchesi. Come conseguenza di questa debole autorità marchionale, e aggravandone i mali, si affermarono potenti nell'Istria, fra il sec. XI e il XII, signorie ecclesiastiche e laiche, quali quelle del patriarca d'Aquileia, che dall'827 aveva riacquistato la metropolia delle sedi istriane e aveva larghi possessi immunitarî anche nell'interno della penisola; quelle dei vescovi di Trieste, Parenzo, Capodistria e Pola; dei monasteri veneziani di S. Niccolò al Lido e di S. Martino dì Tripoli di Torcello; della chiesa arcivescovile di S. Apollinare di Ravenna; dei dinasti di Duino e finalmente la signoria dei conti di Gorizia (v.), i Lurn-Heimföls, che, da avvocati del patriarcato di Aquileia, riuscirono a costituirsi, verso i primi del '200, un dominio che dalla Pusteria e dal Palatinato di Carinzia arrivava fino al Carso Triestino e all'Istria pedemontana.
Ma fin dal sec. XI, altre forze politiche vennero ad aggiungersi a quelle delle varie signorie feudali ecclesiastiche e laiche, come fattori essenziali della storia istriana: Venezia e le città costiere, nelle quali specialmente, allo sfasciarsi dell'organismo feudale, rifiorirono i germi delle antiche autonomie.
Venezia, coi primi tentativi d'espansione (metà del sec. lX) della sua incipiente potenza nell'Adriatico, doveva necessariamente preoccuparsi, prima d'ogni altra cosa, di affermare la sua influenza sulle coste istriane. Stimolo a questi rapporti erano del resto, oltre al comune pericolo dei pirati slavi, i legami lasciati dal comune governo bizantino, tanto più forti quanto più i segni di un'antica tradizione locale legata a istituti bizantini riaffioreranno nell'Istria col risorgere della vita cittadina, e si mostreranno evidenti in magistrature d'origine pre-comunale (p. es., il marico o meriga (l'antico maior) che appariranno poi vicine, pur rimanendone nettamente differenziate, alle nuove magistrature del comune.
Di fronte ai legami che si andavano stringendo tra Venezia e l'Istria, i signori legittimi della penisola, prima i marchesi tedeschi, poi i patriarchi d'Aquileia, non potevano rimanere indifferenti. Un atto di omaggio della città di Capodistria al doge Pietro Candiano II, nel 932, eccitava, p. es., una violenta reazione del marchese Wintero. Ma la rottura dei rapporti commerciali che ne seguì diede il sopravvento a Venezia che, nella pace di Rialto del 933, ottenne soddisfazione delle ingiurie e dei danni subiti e la piena garanzia per il godimento di tutti i privilegi commerciali già acquistati: chiaro segno che la vita economica dell'Istria era intimamente e indissolubilmente legata alle sue relazioni con Venezia. Quando poi, nell'anno 1000, il doge Pietro Orseolo II, sconfiggendo i pirati narentani e i croati, gettò le basi dell'effettivo dominio di Venezia sulle isole del Quarnaro e sulla costa dalmatica, l'influenza veneziana si affermò trionfalmente anche nell'Istria, per subire un regresso nel sec. XI, a causa dell'attiva politica antiveneziana dei Sassoni e dei patriarchi d'Aquileia, e tornare poi ad affermarsi, in modo definitivo, verso la seconda metà del sec. XII.
Intanto dopo il 1000 si accentua sempre più nelle città istriane il movimento che porterà alla costituzione del comune. Ma bisognerà giungere alla seconda metà del sec. XII per trovare il comune compiutamente formato.
Il processo s'inizia prima, ma si svolge lentissimo, nelle città rette da un vescovo-conte (solo nel 1216 è documentato a Trieste un podestà); pure faticosamente si svolge nelle città che sono centro d'una forte signoria vescovile, come Parenzo (nel 1194 appare il primo podestà); più rapido e spedito è invece nelle città meno gravate da signorie vescovili e laiche come Pola (1177), Capodistria (1186), Pirano (1192). Elemento dove più dove meno importante per lo sviluppo della nuova vita comunale, quasi mai tuttavia assente, il clero cittadino.
Mentre però la vita cittadina rifioriva e da essa traeva impulso un'intensa attività economica; mentre anche nell'interno della penisola istriana si affermava il comune rurale; la potenza di Venezia veniva di nuovo a imporsi sulle città istriane piegandole, pur recalcitranti, al suo dominio. Nel 1145 a Rialto i Capodistriani sono costretti a giurare un patto di fidelitas al doge Pietro Polani, e lo stesso giuramento era imposto nello stesso anno a Pola, con l'obbligo da parte delle città istriane di garantire la sicurezza dei Veneziani nei loro territorî, di fornire una galera per ogni spedizione di Venezia, di esentare i mercanti veneti da ogni dazio di esportazione. Nel 1150 anche Parenzo fimiava un patto di fidelitas col doge che si fregiava ormai del titolo di totius Istriae inclitus dominator.
Il riconoscimento della potenza veneta non avvenne però senza tentativi di resistenza. Pola fu in questa la più accanita. Ma ribelle nel 1149, nel 1153 e nel 1193, sempre sottomessa, perfino saccheggiata, semidistrutta e costretta a dare ostaggi, aveva dovuto alla fine piegarsi e accettare nel 1198 un rettore veneziano: Ruggero Morosini, conte d'Ossero. E dopo Pola, dovettero accogliere un podestà mandato da Venezia anche Capodistria e Pirano. L'autonomia delle città istriane, affermatasi faticosamente contro il dominio dei marchesi, dei vescovi, dei signori, cadeva così, quasi appena sorta, sotto la predominante potenza di Venezia.
Il dominio dei patriarchi di Aquileia. - Intanto nel 1208, essendo il marchese Enrico IV d'Andechs-Merania messo al bando dall'Impero per l'uccisione di Filippo di Svevia, Ottone IV infeudava l'Istria al patriarcato d'Aquileia che ne tenne il dominio, almeno de iure, fino al 1451. Tutta l'opera politica dei patriarchi si esaurì in una lotta senza posa contro le autonomie cittadine, contro Venezia, contro i conti di Gorizia per restaurare il debole potere marchionale. E i successi, almeno sul principio, non mancarono.
Già Volchero, primo patriarca marchese dell'Istria (1209-1218), riuscì a piegare Pirano e Capodistria ad accordi che, se non portavano a una rinuncia delle due città alla loro autonomia, costituivano un riconoscimento preciso dell'autorità del patriarca. Il secondo patriarca marchese, Bertoldo d'Andechs-Merania (1219-1251), appoggiando la politica ghibellina di Federico II e ricevendone a sua volta aiuti per restaurare la sua autorità marchionale, e sfruttando abilmente le rivalità esistenti fra le singole città, riuscì a imporre di nuovo dei rappresentanti del suo potere a Parenzo, a Pola, a Capodistria (1232-1233).
Ma furono successi di breve durata. Venezia, che già si era posta a capo d'una lega di città istriane contro il patriarca, venuta nel 1242 in lotta con Pola dove governava un partito favorevole al dominio del patriarca, riuscì a prendere la città e a imporle di nuovo un suo podestà. E quando, specialmente per l'aiuto dato ai conti di Gorizia dall'imperatore che già precipitava verso la catastrofe, il patriarca venne, nel 1249, a mutare completamente il suo atteggiamento politico da ghibellino a guelfo, la sua posizione già scossa andò sempre più indebolendosi; finché, sconfitto dai conti di Gorizia, fu costretto a quella pace del 1251, che segnò il pieno riconoscimento del predominio acquistato nell'interno della penisola dai potenti signori del Carso.
Al vecchio dualismo tra i conti di Gorizia e il patriarcato che, tenendo occupati in una lotta continua i due rivali, aveva fatto sì che rimanessero inalterati í rapporti di fidelitas che univano le città istriane a Venezia, si veniva ora a sostituire la potenza espansiva d'una forte signoria tendente a costituire un saldo stato territoriale che avrebbe significato la fine d'ogni influenza veneziana. Venezia si vide perciò costretta a difendere con tutti i mezzi i suoi minacciati interessi e le città istriane stesse le vennero incontro preferendo darsi in suo potere, piuttosto che cadere sotto la conquista deì conti di Gorizia. Così, pur con la platonica riserva dei diritti del patriarca, aprirono le porte all'occupazione veneta Parenzo (1267), Umago (1269), Cittanuova (1270), S. Lorenzo (1271). Queste dedizioni instaurano il dominio diretto di Venezia nell'Istria. Il patriarcato, cui teoricamente appartenevano ancora le città passate a Venezia, dopo qualche effimero successo conseguito al tempo di Roberto da Montelongo (1251-1269), caduto il patriarca prigioniero dei Goriziani nel 1267, durante il disastroso periodo della sedevacanza (1269-1274), vedeva crollare in gran parte l'edificio della sua potenza politica. Risorsero velleità di resistenza a Venezia, sia da parte del patriarcato con Raimondo della Torre (1274-1299), sia da parte delle città e dei conti di Gorizia. Ma Venezia, che pure aveva accolto, non senza esitazioni, la dedizione delle città istriane, con ferma azione politica e militare difese le posizioni acquistate e sconfisse i conti di Gorizia alleati con Capodistria nel 1279, e poi il patriarca e di nuovo i conti dì Gorizia uniti con Trieste ai suoi danni, nella guerra durata con interruzione di due anni (1285-1287) dal 1283 al 1291. La pace di Treviso del 1291 divideva così l'Istria tra il patriarcato, i conti di Gorizia e Venezia. Il patriarca, oltre al possesso di Muggia, conservava ancora Castelvenere, Buie, Portole, Pinguente, la valle dell'Arsa, Albona e Fianona. I conti di Gorizia, ributtati ormai decisamente verso l'interno, si limitavano al dominio dell'Istria carsica. Venezia dominava la costa da Capodistria e Rovigno. Anche la questione giuridica dei diritti del patriarca sulle terre datesi a Venezia o da essa conquistate venne risolta nel 1300 con un compromesso tra la Repubblica e il patriarca Pietro Guerra, per l'arbitrato di Bonifacio VIII.
Maggiori resistenze alla conquista veneziana opposero le città. In Pola la separazione dal corpo maggiore dei possessi patriarchini aveva favorito il risorgere di una certa vita autonoma. La città, pur riconoscendo in linea di diritto il dominio dei patriarchi e mostrandosi all'occasione acquiescente di fronte all'invadenza veneziana, si era raccolta intorno alla famiglia dei Castropola i quali nel 1310 fondavano una signoria, che però non poté sostenersi per più d'un ventennio: nel 1331, i signori di Pola battuti da Venezia (1310) e poi anche dai Goriziani in tentativi d'espansione lungo la costa e verso l'intemo, vedevano rovesciato il loro potere da una rivolta della città che si dava a Venezia. Trieste riusciva a mantenere più a lungo la sua indipendenza, finché per sfuggire alla dominazione veneziana, dopo una lunga vicenda di lotte, si dava ai duchi d'Austria, che promettevano di rispettare la sua autonomia cittadina, prima nel 1368, e poi definitivamente al duca Leopoldo III nel 1382. Contemporaneamente la potenza dei Goriziani si era andata sempre più affievolendo, per subire un tracollo nel 1344, quando Alberto IV fu costretto a impegnarsi a combattere a servizio della Repubblica.
Alla fine del sec. XIV, Venezia dominava così direttamente o indirettamente quasi tutta l'Istria. Durante la guerra di Chioggia essa perse per un momento le sue posizioni, ma le riacquistò interamente con la pace di Torino (1381). Quando poi il patriarcato, indebolito anche dallo scisma, venne a una nuova guerra con Venezia per il Friuli, la Repubblica poté, con la vittoria, costituire il suo stato di terraferma e dare l'ultimo colpo al potere patriarcale nell'Istria (1420). La caduta effettiva del dominio dei patriarchi d'Aquileia nell'Istria non fu riconosciuta subito né dal papato né dall'Impero, ma divenne nel 1451 un fatto anche giuridicamente compiuto con un trattato intervenuto tra Venezia e il patriarca, cui si lasciava la sovranità della città di Aquileia, delle terre di S. Vito e di S. Daniele.
L'Istria sotto il dominio veneziano. - Dal sec. XV al XVIII, la storia dell'Istria si confonde con la storia di Venezia. Ma non di tutta l'Istria, perché gli Asburgo, già signori di Trieste, per mezzo d'un patto di reciproca successione, stretto con i conti di Gorizia, morto senza discendenti l'ultimo conte, Leonardo, nel 1500 venivano a occupare anche Gorizia, la contea d'Istria e la Carsia assumendo nello stesso tempo una posizione di deciso antagonismo contro la potenza veneta. Questo antagonismo fu anzi una delle cause delle guerre di Venezia con Massimiliano, che parvero per un momento dover annientare la potenza veneta. Ma se pure la Repubblica venne a perdere, alla conclusione della pace, Gradisca, Plezzo e Tolmino e altre località, le sue posizioni nell'Istria rimasero inalterate.
Il governo di Venezia nell'Istria ebbe gli stessi caratteri che in tutte le altre regioni dominate dalla Repubblica: è il tipico governo di una città che accentra nella sua classe dominante tutti i poteri, escludendo decisamente da ogni partecipazione attiva alla vita politica dello stato le città soggette. Ma nello stesso tempo, per la sua imparziale giustizia e, oltre che per le affinità etniche e le comuni tradizioni, per il benessere che con la salda organizzazione dello stato e con la propria potenza ancora sempre grandeggiante essa portava alle popolazioni soggette, la Repubblica, riuscì a legare talmente alle sue sorti e assimilare le regioni dominate, che queste considerarono le fortune o i disastri di Venezia come le fortune o i disastri d'una patria comune. E nell'Istria, quest'opera d'assimilazione veneta fu particolarmente efficace, sì che dialetto della penisola divenne col tempo la lingua parlata dalla Dominante, e gl'Istriani parteciparono, con animo di cittadini veneti, a tutte le maggiori imprese di Venezia, dalle guerre contro gli Uscocchi alle imprese contro i Turchi.
Scarse furono invece nell'Istria le influenze dei paesi austriaci, con i quali pure la regione ebbe, anche nel passato, tanti contatti. Se p. es. nella seconda metà del sec. XVI la vicinanza della Stiria, della Carinzia e della Carniola sembrò esser la causa di una certa diffusione del luteranesimo nella regione (sì che lo stesso vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, passato alla nuova confessione, si diede perfino a preparare opuscoli di propaganda per le popolazioni slave), il pericolo appariva insussistente o completamente vinto già prima della fine del secolo. La stessa Istria austriaca, quando nel 1797 fu riunita dal trattato di Campoformio all'Istria veneta, si trovò all'unisono con questa nel rimpianto della patria veneta perduta, come si troverà fusa con l'Istria veneta, più tardi, nell'opposizione contro l'Austria e nell'aspirazione a riunirsi alla patria italiana. Durante il dominio veneto, nel sec. XVI, si accentuò invece nell'Istria quell'invasione di popolazioni slave che, incominciata già nel sec. VII, si era diffusa nei secoli successivi, con diverse ondate, specialmente nelle campagne. Questa immigrazione trovava la sua precipua ragione nelle necessità di dare braccia all'agricoltura in una regione scarsamente popolata e spesso malsana qual'era specialmente l'interno della penisola. E appunto per questa ragione il ducato veneto, già nel 1376, aveva concesso 5 anni di esenzioni dai tributi a tutti i forestieri che fossero venuti a stabilirsi nell'Istria. Nel sec. XVI, alla politica di Venezia favorevole all'immigrazione di forestieri, si venne ad aggiungere l'esodo di grandi masse delle popolazioni balcaniche cacciate dalle loro sedi dalla conquista turca, e ciò spiega facilmente come l'Istria proprio in questo periodo vide le sue campagne invase da Bosniaci, Albanesi, Serbi, Croati. L'elemento slavo rimase però esclusivamente nelle campagne, mentre nelle città l'elemento indigeno si conservò assolutamente predominante, e anche per il fatto che costituiva le classi sociali più elevate e più colte, mantenne di fronte all'elemento slavo una superiorità assoluta.
Alla caduta della Repubblica veneta e durante le guerre napoleoniche, l'Istria passò più volte dal dominio austriaco a quello francese. Ceduta da Napoleone all'Austria col trattato di Campoformio (1797), veniva in potere dei Francesi con la pace di Presburgo (1805), eccettuatene Gorizia, Gradisca, Trieste e la contea d'Istria che rimanevano all'Austria. Dal 1806 al 1809 fece parte del Regno Italico. Riconquistata dall'Austria, tornava con la pace di Schönbrunn (1809) alla Francia che dell'Istria (accresciuta delle isole dalmate di Veglia, Cherso e Lussino), la Dalmazia, la Carsia, la Croazia e la Carniola, costituì le Provincie illiriche. Ritornò in possesso dell'Austria con la Restaurazione (1815). L'Impero riordinò tutta l'amministrazione della Venezia Giulia (detta Provincia del Litorale), dividendola in tre circoli con a capo le città di Gorizia, Trieste e Fiume. Ma annessa Fiume nel 1822 all'Ungheria, fu costituito nel 1825 il circolo d'Istria con capoluogo Pisino. Nel 1861 il riordinamento amministrativo dell'Impero e l'istituzione delle diete provinciali, portò nell'Istria alla creazione della Dieta istriana, a Parenzo, che da organo amministrativo diventerà in processo di tempo centro di raccolta delle forze istriane nella lotta contro il dominio straniero.
Poiché, se alla fine del sec. XVIII il popolo istriano aveva espresso con sommosse la sua protesta contro il trattato di Campoformio e la sua devozione a Venezia; se nel 1809 l'antico senso d' autonomia e l'oppressione dei Francesi avevano dato incentivo alla rivolta di Rovigno, è certo che dopo le campagne del 1866, la delusione dolorosa di tutte le popolazioni della Venezia Giulia, separate dal Veneto, che solo fu ricongiunto all'Italia, si mutò in quella fiera opposizione contro l'Impero che diede origine al movimento dell'irredentismo (v.). Al movimento di difesa nazionale l'Istria diede largo incremento con uomini come Antonio Madonizza e Carlo Combi, di Capodistria; Tomaso Luciani, di Albona; Niccolò Vergottini, di Parenzo; Carlo de Franceschi, di Moncalvo; dalle sommosse di Pirano nel 1894 contro le tabelle bilingui, in italiano e in slavo, imposte dal governo austriaco, all'opera coraggiosa e fiera di Pisino per difendere la purezza del suo carattere italiano contro l'invasione slava, largamente protetta e incoraggiata dall'Austria, alla propaganda viva e operosa dell'idea italiana fatta dai giornali istriani, quali il Popolo Istriano di Pola, l'Idea Italiana di Rovigno, L'Istria di Parenzo. La guerra del 1914-1918, a cui l'Istria partecipò con molti eletti suoi figli, tra cui il martire N. Sauro (v.), ricongiungeva definitivamente anche l'Istria all'Italia.
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