Abstract
Viene analizzata nei suoi tratti essenziali la fase centrale del processo ordinario di cognizione in primo grado, ossia la fase che, in termini generali, è destinata a “preparare” la causa in vista della decisione, con specifico riferimento alla cd. trattazione ed alle attività che la caratterizzano.
In termini generali, per istruzione s’intende quella fase del procedimento destinata alla preparazione della causa in vista della decisione. Nella sistematica del codice di procedura civile, all’istruzione è dedicato il capo II del titolo I del libro II (Del processo di cognizione): l’istruzione, quindi, si colloca tra la fase di introduzione della causa ed il momento in cui questa è ritenuta «matura» per essere decisa.
Nella versione originaria del codice, l’istruzione coincideva con la fase del procedimento affidata al giudice istruttore, una fase a conclusione della quale la causa era rimessa al collegio per la pronuncia della sentenza: nel momento attuale, non si può più affermare che esista sempre una cesura netta tra funzioni svolte dal giudice istruttore e funzioni proprie del collegio, posto che decisione collegiale costituisce ora l’eccezione rispetto alla regola, rappresentata dalla decisione monocratica (ex art. 50 ter c.p.c.), ossia affidata al giudice istruttore, che provvede «con tutti i poteri del collegio» (secondo quanto dispone l’art. 281 quater c.p.c.). Tuttavia – e prescindendo dal fatto che il giudice istruttore operi effettivamente come tale nelle cause per le quali opera la riserva di collegialità o come giudice monocratico – il termine «istruzione» continua a designare la fase del procedimento in cui vengono compiute tutte le attività necessarie a «preparare la causa per la decisione sotto ogni aspetto di fatto e di diritto» (Taruffo, M.-Silvestri, E., Istruzione: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1997, 1).
All’interno dell’istruzione, intesa nel senso appena descritto, il codice distingue due momenti specifici, ossia la trattazione della causa e l’istruzione probatoria, che rispondono a funzioni diverse. La trattazione costituisce il “luogo” in cui si determinano, in maniera tendenzialmente esatta e definitiva, il thema decidendum (ossia, l’oggetto della causa, inteso come insieme delle questioni di fatto e di diritto realmente in contestazione tra le parti) e il thema probandum (ossia, l’oggetto della prova, oggetto rappresentato dai fatti controversi, che necessitano di essere provati). L’istruzione probatoria (detta anche istruzione in senso stretto) designa l’insieme di attività attraverso le quali si provvede alla “raccolta” delle prove necessarie per giungere ad una decisione sui fatti controversi: peraltro, si tratta di una fase che può risultare non necessaria, quando la risoluzione della controversia dipende dalla decisione di sole questioni di diritto o anche quando all’accertamento dei fatti controversi può pervenirsi sulla base delle prove precostituite (in particolare, prove documentali) prodotte dalle parti.
Alla trattazione della causa sono dedicate una serie di norme che, negli ultimi decenni, hanno subito una cospicua serie di rimaneggiamenti, frutto di ripetute riforme, nelle quali è impossibile identificare l’intento di realizzare un modello di preparazione della causa improntato all’efficienza e caratterizzato da una costante interazione tra le parti e tra le parti ed il giudice. In realtà, anche la disciplina codicistica della trattazione sembra rappresentare uno dei molti “eccezionalismi” italiani, di cui si apprezza (ovviamente, in negativo) la distanza rispetto ai modelli di trattazione in uso presso altri ordinamenti europei, modelli spesso frutto di riforme recenti, messe in atto per raggiungere il medesimo scopo che il legislatore italiano, ogni qualvolta è intervenuto sulla disciplina del processo civile, ha sempre proclamato di avere di mira, ossia la riduzione dei tempi epocali della giustizia (diffusamente, v. Trocker, N.-Varano, V., (eds), The Reforms of Civil Procedure in Comparative Perspective, Torino, 2007).
Digressioni comparatistiche a parte, non si può non segnalare che la norma in apertura della sezione del codice dedicata alla trattazione della causa e, più precisamente, alla forma in cui essa deve svolgersi, prevede che tale forma coincida con l’oralità (art. 180 c.p.c.). Chiunque abbia un minimo di esperienza delle aule giudiziarie italiane conosce bene quanto poco di “orale” vi sia nella normale conduzione di un ordinario processo di cognizione: nella realtà, la portata precettiva della norma citata si riduce ad un mero wishful thinking.
Il momento topico della trattazione è costituito dall’udienza disciplinata dall’art. 183 c.p.c., un’udienza dalla struttura particolarmente complessa. Mette conto segnalare, innanzi tutto, che non è previsto che a tale udienza le parti compaiano personalmente: è possibile, tuttavia, che la comparizione personale delle parti sia disposta dal giudice, su richiesta congiunta delle stesse (o, meglio, dei loro difensori), con conseguente fissazione di una nuova udienza (ai sensi degli artt. 183, co. 3, e 185 c.p.c.) per l’espletamento dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione, tentativo che, in ogni caso, può essere ripetuto in qualunque momento successivo dell’istruzione. Riguardo alla conciliazione, sembra opportuno segnalare una delle norme di più recente conio (introdotta dal cd. “decreto del fare” – d.l. 21.6.2013, n. 69 – e riproposta, con modificazione, dalla legge di conversione, ossia la l. 9.8.2013, n. 98) tra le molte novità che, di riforma in riforma, hanno modificato l’assetto originario della trattazione. Si tratta dell’art. 185 bis c.p.c., secondo il quale, alla prima udienza o anche nell’ulteriore svolgimento dell’istruzione, il giudice «formula alle parti, ove possibile, … una proposta transattiva o conciliativa». Non è possibile, in questa sede, ripercorrere le alterne vicende dell’istituto della conciliazione giudiziale (per un’attenta ricostruzione dell’istituto, per tutti v. Brunelli, B., sub art. 185, in Carpi, F.-Taruffo, M. (a cura di), Commentario breve al c.p.c., VII ed., Padova, 2012, 746 ss.): va detto, tuttavia, che l’idoneità del giudice ad adoperarsi affinché le parti si accordino per una risoluzione consensuale della controversia è sempre stata velata dal sospetto che, essendo il giudice chiamato a pronunciare sentenza in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, le parti percepiscano qualunque ipotesi di componimento avanzata dal giudice come una sorta di anticipazione della decisione che sarà pronunciata, con il risultato di essere indotte ad accettare la proposta formulata dal giudice quale “male minore” (sul punto, v. ampiamente Briguglio, A., Conciliazione giudiziale, in Dig. civ., III, Torino, 1988, 228 s.). La nuova facoltà concessa al giudice dall’art. 185 bis c.p.c. sembra far ritenere che, a giudizio del legislatore, il timore che una proposta conciliativa o transattiva avanzata dal giudice possa in qualche modo appannarne l’imparzialità, nell’ipotesi in cui le parti non aderiscano a tale proposta, non ha ragione d’essere: se così fosse, però, non si comprende per quale ragione si sia ritenuto necessario stabilire, in chiusura della norma, che la proposta formulata dal giudice (e, presumibilmente, non accolta dalle parti) non può costituire motivo di ricusazione o di astensione del giudice stesso. Ad ogni modo, il nuovo art. 185 bis c.p.c. (di cui si segnalano le prime applicazioni: Trib. Milano, decr. 26.6.2013; Trib. Nocera Inferiore, ord. 27.8.2013; Trib. Fermo, ord. 17.10.2013) è espressione della tendenza a ricercare strumenti che, prima del processo o anche all’interno di esso, abbiano un effetto deflattivo del contenzioso: non a caso, l’introduzione della norma in questione è avvenuta con il medesimo provvedimento che ha reintrodotto in un’ampia tipologia di controversie la mediazione obbligatoria come “passaggio obbligato” prima dell’accesso ai tribunali e ha previsto che l’esperimento del tentativo stragiudiziale di mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda anche nel caso in cui sia disposto (o, forse, più correttamente, ordinato) dal giudice (v. art. 5, co. 1-bis e 2, d.lgs. 4.3.2010, n. 28, come modificato dall’art. 84 l. n. 98/2013).
Si è già detto che l’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. può subire uno “sdoppiamento” nel caso in cui sia disposta la comparizione personale delle parti (v. § 2). Un’ulteriore ipotesi che dà luogo alla fissazione di una nuova udienza è quella che si realizza quando il giudice, compiuta d’ufficio la verifica della regolare instaurazione del contraddittorio, appuri l’esistenza di vizi (quali, ad esempio, la nullità della citazione o l’assenza di un litisconsorte necessario e gli altri vizi cui fa riferimento l’art. 183, co. 1, c.p.c.) e ne disponga la sanatoria.
A parte queste ipotesi, nell’udienza di trattazione l’attore ha facoltà di esercitare il cd. ius variandi, ossia può proporre domande ed eccezioni anche del tutto nuove, purché siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni che il convenuto ha proposto (a pena di decadenza: art. 167 c.p.c.) nella comparsa di risposta; ugualmente, l’attore può richiedere di essere autorizzato alla chiamata in causa del terzo, sempre che l’esigenza della partecipazione di questi al giudizio discenda dalle difese del convenuto (art. 183, co. 5, c.p.c., primo e secondo periodo). Quanto alle domande ed alle eccezioni nuove che l’attore può proporre all’udienza nei limiti appena indicati, gli esempi classici sono quelli della cd. reconventio reconventionis e delle domande di accertamento incidentale; quanto alla chiamata del terzo, la ricorrenza dei presupposti indicati dall’art. 106 c.p.c. – come già ricordato – deve sorgere dalle difese svolte dal convenuto. Occorre sottolineare che la facoltà di dedurre nova nella prima udienza riguarda il solo attore e presuppone che il convenuto si sia costituito tempestivamente ex art. 166 c.p.c.; nel caso in cui la costituzione del convenuto sia avvenuta in udienza (e, ovviamente, l’attore sia posto in condizione di conoscere le difese dell’avversario solo dopo tale udienza), sembra ragionevole ritenere che il giudice, su richiesta dell’attore, fissi una nuova udienza ex art. 183 c.p.c., udienza in occasione della quale l’attore potrà avvalersi della facoltà di svolgere le attività innovative rese necessarie dalle difese del convenuto. Specularmente, anche al convenuto si tende a riconoscere, in applicazione del principio della parità delle armi, la facoltà di esercitare all’udienza di trattazione uno ius variandi corrispondente a quello che l’art. 183, co. 5, c.p.c. attribuisce espressamente all’attore, con riferimento ai nova che questi ha introdotto.
Sia l’attore, sia il convenuto possono esercitare il cd. ius poenitendi, ossia «precisare» e «modificare» domande, eccezioni e conclusioni già proposte (art. 183, co. 5, c.p.c., ultimo periodo). I concetti di precisazione e di modificazione di domande, eccezioni e conclusioni richiederebbero un approfondimento che qui non è possibile: semplificando problematiche assai complesse, si può affermare in sintesi che la precisazione è l’attività con cui la parte «esplicita quanto già contenuto nelle sue precedenti difese», essenzialmente allegando nuovi fatti secondari, mentre si rientra nel campo della modificazione ogni qualvolta l’allegazione riguardi «nuovi fatti storici principali, cioè nuovi e diversi elementi (costitutivi) della fattispecie del diritto fatto valere» (per entrambe le citazioni, v. Luiso, F.P., Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, VII ed., Milano, 2013, 38).
Nella prassi, tuttavia, è raro che le attività appena descritte vengano davvero svolte in udienza; in effetti, la regola sembra essere quella della “appendice” di trattazione scritta (art. 183, co. 6, nn. 1-3, c.p.c.), ossia svolta mediante il deposito di un triplice ordine di memorie, autorizzate dal giudice su richiesta delle parti, con contestuale assegnazione di tre termini perentori (30+30+20 giorni). Le memorie hanno un contenuto predeterminato dal legislatore. Il primo ordine di memorie può avere ad oggetto la sola precisazione o modificazione di domande, eccezioni o conclusioni già proposte: si tratta, in sostanza, di una «memoria di emendamento» (Consolo, C., Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2010, 52), anche se il riferimento a domande, eccezioni e conclusioni già proposte ha fatto sorgere il problema di come coordinare il co. 6, n. 1, dell’art. 183 c.p.c. con il co. 5 della stessa norma e, conseguentemente, l’interrogativo se le attività indicate dal co. 5 (e, in particolare, la proposizione di domande ed eccezioni nuove ex art. 183, co. 5, c.p.c. prima parte) debbano necessariamente essere esercitate all’udienza o anche mediante la trattazione scritta e con le memorie di cui al n. 1 della norma.
Il secondo ordine di memorie ha un contenuto duplice. Da un lato, infatti, con queste memorie è possibile o replicare alle emendationes dell’avversario, ossia alle «domande ed eccezioni nuove o modificate» da controparte o proporre le eccezioni che sono conseguenza di quelle stesse domande ed eccezioni nuove o modificate (art. 183, co. 6, n. 2, c.p.c.). Dall’altro lato, le memorie possono (o, meglio, devono) indicare le istanze istruttorie e le produzioni documentali nuove o comunque non formulate o effettuate negli atti introduttivi.
Il terzo ordine di memorie, infine, ha un contenuto limitato alle «sole indicazioni di prova contraria» (art. 183, co. 6, n. 3, c.p.c.), espressione da intendersi in senso ampio, ossia come prova contraria anche rispetto alle prove offerte dall’avversario nelle memorie di cui al n. 2 del c. 6.
In un’ottica di (ideale) collaborazione del giudice con le parti nella prospettiva di un’efficiente individuazione dell’oggetto della controversia, l’art. 183, co. 4, c.p.c. conferisce al giudice il potere di richiedere alle parti, nel corso dell’udienza di trattazione, i chiarimenti che reputa necessari «sulla base dei fatti allegati» dalle parti stesse. La medesima norma conferisce poi al giudice un altro potere (o forse, più propriamente, un potere-dovere), ossia quello di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, di cui ritiene opportuna la trattazione. La disposizione va letta in collegamento con l’art. 101, co. 2, c.p.c. secondo il quale è nulla la sentenza cd. “a sorpresa”, cioè resa sulla base di una questione rilevata d’ufficio e sulla quale non sia stato provocato il contraddittorio delle parti, mediante assegnazione di un termine per il deposito di memorie.
Esaurite le attività delle parti e del giudice descritte nei paragrafi che precedono, il giudice, se non ritiene la causa matura per la decisione, provvede con ordinanza sulle richieste istruttorie avanzate dalle parti, fissando l’udienza destinata all’assunzione delle prove ritenute ammissibili e rilevanti (ossia, l’udienza di cui all’art. 184 c.p.c.): l’ordinanza istruttoria è pronunciata in udienza (che, secondo un’opinione dottrinale, potrebbe anche essere un’udienza fissata ex novo per la sola discussione delle istanze istruttorie) oppure fuori udienza, entro un termine che l’art. 183, co. 7 c.p.c. fissa in trenta giorni, senza peraltro specificare a partire da quale momento tale termine decorra.
Con la medesima ordinanza, il giudice può anche disporre d’ufficio le prove che costituiscono oggetto dei poteri istruttori ufficiosi che, in misura assai limitata, la legge gli riconosce; in questo caso, tuttavia, a rispetto della garanzia del contraddittorio, l’art. 183, co. 8 c.p.c. prevede che sia assegnato alle parti un duplice termine perentorio, il primo per la deduzione delle prove che si rendono necessarie in relazione alle prove disposte d’ufficio, e il secondo per eventuali repliche alle deduzioni istruttorie formulate dall’avversario nel primo termine.
Con l’ordinanza istruttoria il giudice dovrebbe anche predisporre il cd. “calendario del processo”, ossia stabilire la scansione temporale delle udienze destinate all’espletamento dell’attività istruttoria, fissando anche l’udienza destinata alla precisazione delle conclusioni ex art. 189 c.p.c.: a questi incombenti il giudice dovrebbe provvedere «sentite le parti e tenuto conto della natura, dell’urgenza e della complessità della causa, … nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo». (art. 81 bis, co. 1, disp. att. c.p.c.). Nonostante sia previsto che la violazione dei termini fissati nel “calendario” possa costituire illecito disciplinare per il giudice, per i difensori delle parti e per il consulente tecnico d’ufficio, non sembra che l’istituto abbia (come forse era nell’intento del legislatore) rivoluzionato in positivo l’andamento dell’istruzione probatoria, accorciandone i tempi: le rarissime applicazioni della norma sul calendario del processo, in effetti, inducono a ritenere che essa rappresenti uno dei tanti «slogan-bandiera» (Consolo, C., Spiegazioni, cit., 60) che sembrano costituire una “tentazione” alla quale gli autori delle ultime riforme del processo civile difficilmente hanno dimostrato di saper resistere.
Qualche cenno meritano i provvedimenti che il giudice (istruttore, con le precisazioni fornite al § 1.) può adottare nel corso della trattazione. In base all’art. 176, co. 1, c.p.c., tali provvedimenti hanno, di regola, la forma dell’ordinanza; tuttavia, si tratta di provvedimenti che non hanno esclusivamente contenuto istruttorio o ordinatorio. Vengono qui in considerazione le cd. ordinanze provvisionali, la cui finalità dovrebbe essere quella di accelerare lo svolgimento del processo, mediante una “anticipazione”, sia pure in via interinale, della tutela che la normale (e tendenzialmente eccessiva) durata del giudizio rischierebbe di frustrare nella sua effettività. Si tratta dell’ordinanza per il pagamento di somme non contestate (art. 186 bis c.p.c.); dell’ordinanza di ingiunzione (art. 186 ter c.p.c.); e dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione (art. 186 quater c.p.c.).
Si è già detto che, a conclusione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., il giudice rimette la causa in decisione o dispone l’assunzione delle prove dedotte dalle parti o disposte d’ufficio (assunzione disciplinata dagli artt. 202 ss. c.p.c.). In questa seconda ipotesi, assunte le prove ed esaurita, quindi, l’istruzione probatoria, il giudice «rimette le parti al collegio per la decisione» (art. 188 c.p.c.).
Il momento conclusivo della trattazione è rappresentato dalla cd. precisazione delle conclusioni, ossia la formalizzazione delle richieste (aventi ad oggetto questioni di rito, di merito o anche solo istruttorie) che le parti intendono sottoporre al collegio (art. 189, co. 1, c.p.c.). Precisate le conclusioni davanti al giudice istruttore, la causa passa in decisione; l’adempimento successivo è lo scambio tra le parti degli atti difensivi finali, noti come comparse conclusionali e memorie di replica (art. 190 c.p.c.). Le une e le altre costituiscono «l’illustrazione delle ragioni in fatto e in diritto di ciascuna delle parti» (Luiso, F.P., Diritto, cit., 173): uno sviluppo delle rispettive tesi difensive esposte negli atti introduttivi e perfezionate mediante le attività compiute nel corso della trattazione. Nelle comparse conclusionali, ciascuna parte può chiedere che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio, in un’apposita udienza, a condizione che l’istanza sia riproposta al presidente del tribunale entro il termine per il deposito delle memorie di replica (art. 275, co. 2 e 3, c.p.c.).
Quanto appena descritto riguarda le cause per le quali opera la riserva di collegialità. Per quelle decise dal giudice istruttore in funzione di giudice monocratico trovano applicazione le norme relative alla precisazione delle conclusioni e allo scambio degli scritti conclusivi (art. 281 quinquies c.p.c.). Quanto alla discussione orale, questa deve essere richiesta da almeno una delle parti: è previsto, tuttavia, che il giudice, fatte precisare le conclusioni, possa ordinare la discussione orale nella stessa udienza o, su richiesta della parti, in una successiva, senza assegnazione dei termini per lo scambio delle conclusionali e delle repliche (art. 281 sexies c.p.c.).
Artt. 180-190 bis, 275, 281 quinquies-281 sexies c.p.c.; d.lgs. 4.3.2010, n. 28 (come modificato dall’art. 84 l. 9.8.2013, n. 98, di conversione del d.l. 21.6.2013, n. 69).
Carratta, A., La «nuova» fase preparatoria del processo di cognizione: corsi e ricorsi di una storia «infinita», in Giur. it., 2005, 2233 ss.; Cavallini, C., Il nuovo art. 183 c.p.c. e la riforma della trattazione della causa, in Riv. dir. proc., 2006, 241 ss.; Comoglio, L.P., Istruzione e trattazione nel processo civile, in Dig. civ., X, Torino, 1993, 207 ss.; Consolo, C., I nuovi artt. 180-183 e 184 c.p.c.: una prima diagnosi sul nuovo rito «concentrato» ed «elastico», in Corr. giur., 2007, 1607 ss.; Graziosi, A., Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo ordinario di cognizione, in Rass. for., 2006, 1523 ss.; Pagni, I., La «riforma» del processo civile: dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuovo processo di primo grado, in Corr. giur., 2009, 1309 ss.; Vellani, C., Le preclusioni nella fase introduttiva del processo ordinario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 153 ss.