Italia e storiografia (6°-20° secolo)
Nella generale crisi e involuzione in cui tramontò l’antica civiltà ellenistico-romana del Mediterraneo la storiografia non soffrì meno di qualsiasi altro settore o elemento di quella civiltà. E, quindi, dispersione o perdita di una gran parte dei testi, anche di primaria importanza, in cui si era espressa la storiografia antica, ma soprattutto mutamento di valori e di categorie del giudizio storico, profonde innovazioni nel sistema cronologico e nella natura e valutazione delle fonti, sostituzioni di nuovi ai vecchi elementi o parametri di riferimento logico e pratico, diversità di mezzi e di fini del racconto storiografico, alterazione profonda nel lessico e nei connotati grammaticali del discorso, riduzione amplissima non solo della conoscenza, bensì anche della tradizionale suggestione degli storici antichi.
L’Italia fu colpita, come tutte le altre province del mondo romano, da questo radicale e totale sconvolgimento delle condizioni civili di quell’imperium sine fine che era stato molto a lungo ritenuto l’impero di Roma. Uno sconvolgimento che non fu la tempesta di un anno o di un breve giro di anni, poiché occupò un lungo spazio di tempo. Nel 4° sec., fra gli anni di Costantino e quelli di Teodosio, molto si era già disperso dell’antico patrimonio culturale classico, ma il peggio doveva ancora venire; e venne, infatti, con il dilagare delle invasioni germaniche nel 5° sec. e con il drammatico acuirsi della crisi economica e sociale nel 5° e 6° sec., crisi che, secondo un giudizio abbastanza convenuto, toccò nel 7° sec. il suo culmine. Né, toccato il culmine, si avviò una ripresa. Il cosiddetto rinascimento carolino delineato da molti studiosi per il periodo dominato dalla figura di Carlomagno è discutibile nella sua effettività e nella sua portata, ma – fosse stato anche il più ampio che si possa pensare – non durò a lungo, e i secoli 9° e 10° furono ancora un’epoca di profondo travaglio, di letali traversie e di ulteriori impoverimenti del patrimonio morale e culturale dell’Occidente già romano; furono, cioè, ancora ‘secoli bui’, come suonava l’espressione consueta per indicare nel Medioevo una lunga notte della civiltà prima che di quel Medioevo le revisioni e le rivalutazioni delineatesi fra i secoli 18° e 19° modificassero del tutto l’immagine e l’idea.
Ciò premesso, appare anche difficile parlare di «fondamenti classici della storiografia moderna» (A. Momigliano, The classical foundations of modern historiography, 1990); e ciò tanto più in quanto sembra almeno altrettanto difficile una caratterizzazione del pensiero storico classico in base a «formule sintetiche, troppo sbrigative e relativamente facili», laddove la storia ha «per gli storici greci e romani metodo e senso diversi secondo le varie epoche e i varii autori» (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2° vol., t. 1, 19732, p. 359); e, del resto, è comune l’osservazione che molti e diversi furono i tipi di storia dell’antichità. Beninteso, sulla parte che il riferimento alla storiografia antica ha avuto negli storici del Medioevo e dell’età moderna nessun dubbio è possibile, e ancora meno è possibile dubitare del forte incremento di questa parte dai tempi dell’Umanesimo in poi. E per riferimento non intendiamo la semplice lettura e consultazione, che nel corso del tempo variò di estensione, di consistenza e di diffusione, bensì soprattutto l’imitazione degli storici antichi e l’adozione delle categorie e procedure a essi proprie. Tuttavia, quel che poi storicamente è più notevole, anzi dirimente, è che il percorso segnato dalla storiografia posteriore è un percorso nuovo, che va progressivamente delineandosi nel contesto di una storia intellettuale e morale nuova e molto diversa rispetto a quella antica.
Questa progressiva e profonda novità non può essere vista soltanto nella sostituzione – per quanto indubbia, radicale e fondamentale – di una concezione lineare del tempo, propria dello storicismo moderno, a una concezione ciclica del tempo, propria della storiografia antica (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, cit., 2° vol., t. 2, pp. 412-61). E neppure nell’inserzione di una tradizione storica e storiografica diversa in quella antica per il sopravvenire di una storiografia ecclesiastica alla Eusebio, o per l’importanza acquisita dall’antiquaria fra le caratteristiche costitutive della prassi storiografica moderna, o ancora per il trasferimento della nozione di immortalità dalla natura all’uomo, o per altri elementi particolari, per quanto, ancora una volta, presi ciascuno a sé, questi elementi siano di un rilievo indiscutibile.
La novità medievale e moderna è, infatti, una novità di produzione medievale e moderna, che non consente di parlare propriamente di fondamenti antichi del moderno. Da un altro angolo visuale, si può dire che l’eredità del passato vive, ma non si continua nel presente, perché è in esso trascesa e trasfigurata, assorbita e superata dalle spinte e dalle logiche del presente stesso. È questo il motivo della profonda, insuperabile diversità o alterità fra classicità e classicismo. Può suonare peregrino che una filosofia della storia a schema chiuso sul modello cristiano (Eden-caduta-redenzione) si ritrovi, nella forma (idealistica) affermata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel o nel suo rovesciamento (materialistico) operato da Karl Marx, nell’Europa dei secoli 18°-20°, quando, cioè, la laicizzazione o secolarizzazione della cultura europea è così forte e generale. Ma quel che si ritrova in questo caso è solo la forma esteriore di uno schema triadico, in una profonda differenza di senso che toglie anche a quello schema la sua materiale, per così dire, fisicità aritmetica, e ne fa, sostanzialmente, un’altra cosa.
Anche di questa generale vicenda della storiografia dall’età antica alla moderna, come di ogni altro aspetto della storia europea, l’Italia è pienamente partecipe. È, peraltro, davvero difficile parlare di una storiografia italiana per epoche anteriori all’effettivo delinearsi di una italianità, nel cui manifestarsi presenze e attività di storici, così come interessi e sviluppi storiografici nel senso moderno proprio di ‘storia’ e ‘storiografia’, abbiano una parte costitutiva rilevante. Per le epoche antecedenti, almeno fino al Mille, occorre piuttosto parlare di storiografia in Italia. Una storiografia che, scritta, come era consueto nei ‘secoli bui’, da ecclesiastici, tratta soprattutto di chiese, di abbazie o monasteri, oppure, magari a opera sempre di ecclesiastici per la quasi completa corrispondenza fra stato clericale e cultura, tratta pure di genti e di regni e delle loro vicende, ma su di esse, come su ogni altra vicenda degli uomini e del mondo, vede sempre ugualmente distesa la mano provvida o giustiziera del Dio «che atterra e suscita, che affanna e che consola».
Non basta, tuttavia, ancora questa caratterizzazione di ‘storiografia in Italia’ a designare la reale condizione o, se si vuole, qualità delle cose in materia nell’Italia di quei secoli. Altri problemi si delineano già per quanto riguarda, innanzitutto quella che possiamo considerare e definire ‘storiografia pontificia’. La si può senz’altro comprendere, senza riserve, anche quando è opera di autori italiani, nell’ambito della storiografia italiana? E così la storiografia non solo attinente alle genti straniere che scesero e si insediarono definitivamente in Italia, ma anche, e largamente, comprensiva di esperienze e vicende della popolazione locale, quando gli autori di questa storiografia sono espressione della cultura e degli interessi di quegli invasori?
Problema, comunque, ancor più radicale per ciò che riguarda la storiografia dei ‘secoli bui’ è, come abbiamo accennato, se essa, in senso proprio, in maniera pertinente, possa essere qualificata come, appunto, storiografia. Il suo aspetto formale prevalente è, come si sa, quello annalistico: la notazione, cioè, anno per anno degli avvenimenti che si intendeva registrare e di cui si voleva dare o lasciare notizia. Non era una novità medievale. Già la storiografia antica aveva adottato assai largamente questo modulo compositivo e, in particolare, lo aveva fatto proprio la cultura latina, alla quale l’esperienza del mondo europeo occidentale fu più strettamente legata. Gli storici più insigni della latinità vi si erano conformati in opere che lasciarono un segno profondo nella memoria storica dei tempi successivi, a cominciare da Livio nei suoi libri ab Urbe condita, nonché da Tacito – generalmente ritenuto «uno dei maestri della moderna storiografia politica dalla Controriforma fino agli inizi del secolo XIX» (A. Momigliano, Tacitus and the tacitist tradition, in Id., The classical foundations, cit., pp. 109-31) –, autore di un’opera anch’essa famosa e denominata, appunto, Annales. I lavori di storiografia più tematica, più concentrata su un argomento particolare e specifico – come accadeva, per es., per le opere di Sallustio sulla guerra di Giugurta e sulla congiura di Catilina – non solo erano più brevi, ma non alieni essi stessi dal seguire poi, al loro interno, lo schema annalistico.
Un altro genere storiografico antico, la biografia, aveva avuto indubbiamente una assai maggiore libertà compositiva, e fu anche il genere che, in certo qual modo, più si poteva legare ai nuovi tempi. La vita degli apostoli, dei martiri, dei santi, dei padri della Chiesa e dei suoi uomini (papi, abati, vescovi, preti, monaci, eremiti, predicatori, missionari ecc.) rappresentava, infatti, un modulo letterario molto idoneo alla esemplificazione di una pedagogia eroica ed edificante delle comunità cristiane. Si spiega, perciò, come il genere biografico abbia avuto nel mondo medievale una sua particolare fortuna, ma per esso più ancora che per altre opere storiche del tempo la pertinenza di una qualificazione come ‘storiografia’ è discutibile, o, almeno, dev’essere molteplicemente definita e delimitata.
In questa storiografia, comunque, gli avvenimenti erano meno importanti del loro senso generale. E anche sul rapporto fra avvenimenti e senso si deve fare qualche osservazione. Gli avvenimenti erano la cronaca alla quale quotidianamente si assisteva di persona o di cui si aveva in vario modo notizia. Erano la storia che direttamente si viveva o si subiva, e in cui ci si esaltava o si soffriva. Il senso generale degli avvenimenti era, invece, reso chiaro a priori e fino in fondo dalla presenza e dai decreti della Provvidenza, secondo il dettato della rivelazione. Nella sua pratica manifestazione la conversione degli annales in cronaca, il passaggio dalle notazioni annalistiche tradizionali alla scarna, ma pittoresca e viva, disordinata ma puntuale, notazione dei cronisti dei secoli più bui è anche un effetto della sfasatura incolmabile tra la singolarità degli eventi e il senso generale di tutto il corso degli eventi stessi; una sfasatura per cui può perpetuamente accadere che si debba constatare, interdetti o ammirati, atterriti o esultanti, che haec mutatio dexterae Excelsi.
Nella storiografia dei ‘secoli bui’ non sono, però, soltanto la sua tipologia né soltanto la sua qualità storiografica a dover essere messe in evidenza. Vi si aggiunge un elemento di non minore rilievo se si considera il suo rapporto, in generale, con la portata degli sviluppi storici dei suoi tempi. Tempi che nell’Europa occidentale furono quelli, innanzitutto, della formazione di nuovi nuclei e centri storici protagonisti della posteriore storia europea fino a tutta l’età moderna; dei popoli che formeranno poi le nazioni dell’Europa moderna; degli Stati che attraverso innumeri variazioni e integrazioni o riduzioni costituiranno il plurisecolare quadro geopolitico di base delle vicende europee. La grandiosità di questo processo storico, durato all’incirca dal 5°-6° fino all’11°-12° sec., è pari alla sua decisiva e radicale importanza storica, ma non è affatto eccessivo affermare che essa non trova nella storiografia del tempo una corrispondenza adeguata al suo rilievo.
Gli scrittori di cronache e di storie sono, infatti, largamente legati, per un verso, alle vicende delle singole entità o dei nuclei o centri storici in cui si ritrovano a muoversi (una gente, una corte, un monastero, un episcopio e così via); e, per un altro verso, condizionati dalla filosofia cristiana della storia, che è per tutti la bussola esclusiva dell’inquadramento e del giudizio dei fatti, e dal metro dell’esercizio della pietas cristiana, in particolare, quale criterio di valutazione della quotidianità. Gli elementi, se così si potesse o volesse dire, di fatto della grande trasformazione e formazione storica, che in seguito sarebbero apparse a molti come la ‘nascita’ o la ‘fondazione’ dell’Europa, sono presenti, in un modo o nell’altro, nei testi che costituiscono il corpus della storiografia europea dei ‘secoli bui’. Manca, invece, se non per rari squarci o in qualche particolare, il senso profondo della direzione e del significato della nascita o fondazione dell’Europa.
Vi fu, cioè, se lo si vuol dire in altro modo, un dislivello generalmente assai forte tra il piano della grande storia che oscuramente e faticosamente si viveva e il piano della storiografia, tutta concentrata sulle forme e sulle apparenze cronachistiche alle quali ci si interessava. E ben si può dire che l’ultima grande opera di pensiero storico, l’ultimo grande libro di riflessione storica di ambito occidentale debba essere considerato la Civitas Dei agostiniana, con la sua interpretazione dei motivi e del senso del dilagare dei ‘barbari’ nell’impero di Roma e del cadere della stessa Roma in preda alla loro violenza dissacratrice e devastatrice. Dopo di allora dovranno passare secoli perché si abbia di nuovo un pensiero storico di simile altezza e venga compensato il dislivello tra la forza e l’intensità dei processi storici in corso e la debole pulsione della riflessione storica coeva.
Al di fuori del problema centrale e fondamentale dell’epoca sono invero anche le maggiori idee storiche allora correnti. Una di esse, fra le principali, può essere forse considerata la teoria provvidenzialistica della formazione dell’impero di Roma, di ascendenza, peraltro, anch’essa tardoantica o patristica. Il provvidenzialismo sarebbe consistito qui nell’aver voluto un vasto mondo politicamente unificato, e quindi senza interni contrasti e travagli, che potesse accogliere più facilmente e rapidamente la Buona novella cristiana. Questa idea non escludeva le altre dell’impero romano come ultimo e definitivo nella teoria della successione degli imperi, familiare alla cultura ellenistico-orientale; o dell’impero come civitas terrena in drastica opposizione all’agostiniana Civitas Dei; o, ancora, dell’impero come premio alla virtù, saggezza e giustizia dei Romani. Tuttavia, il connotato provvidenzialistico forniva una versione particolarmente concordante con l’ispirazione generale della filosofia cristiana della storia, e non è un caso che esso abbia tanto rilievo in Dante, ossia in una delle personalità più emblematiche della cultura medievale.
A una migliore collocazione della storiografia nel panorama culturale del tempo può anche giovare il confronto – se praticato con tutta la dovuta discrezione – con gli svolgimenti coevi della filosofia fino ai culmini davvero notevoli della scolastica e del pensiero giuridico fino al cosiddetto risorgimento del diritto romano e alla formazione dell’imponente corpus del diritto canonico e del non meno ragguardevole sistema del diritto comune. La diversità di livello concettuale e critico della filosofia e del pensiero giuridico rispetto al pensiero storico del tempo, che da un tale confronto indubbiamente emerge, può in effetti aiutare a intendere il luogo certamente non primario, né privilegiato che la storia, la storicità occupano fra le idee regolative e i valori di questa età. Benché la vicenda della caduta e della redenzione sia distesa nel tempo e abbia le sembianze inconfondibili di un dramma dalla precisa cronologia di inizio e di conclusione, il tempo ne è, paradossalmente, la dimensione meno importante e meno fondante. La storia è, in ogni senso, il regno dell’effimero. È passata e passerà; ha avuto un inizio e avrà una fine, e di tutto si conoscono già le cause e il senso.
È anche in questa disposizione mentale la radice della così larga diffusione del falso storico in questi secoli. La ‘donazione di Costantino’ è solo il picco di un iceberg della falsificazione che in innumerevoli situazioni è pratica quotidiana per grandi e piccoli interessi, e da parte di grandi e piccoli falsari. E ciò a tal punto che la nascita della filologia moderna sarà fin troppo largamente collegata alla dimostrazione della falsità di documenti e narrazioni di ogni genere, di cui il campo delle fonti medievali è disseminato. In una storia senza un interno e autonomo statuto critico e ancorata a un quadro di valori trascendenti la pertinenza e l’autenticità documentaria diventano punti di non primaria importanza, e la tradizione orale – comunque costituita e riferita – assume un valore cui non può sostituirsi alcun elemento documentario, ma qualsiasi, anche meno probabile, elemento documentario può servire di conferma.
Su queste basi la conformità tra storiografica italiana e storiografia europea fin oltre il Mille è un dato evidente. I maggiori autori italiani di questo periodo – da Paolo Diacono a Liutprando da Cremona – e le cronache coeve navigano anch’essi nelle acque di quella storiografia, per la quale la storia dei Franchi poteva essere senz’altro definita Gesta Dei per Francos, e per la quale, come abbiamo notato, gli avvenimenti erano meno importanti del loro senso generale.
Nel complessivo quadro europeo dei ‘secoli bui’, l’Italia era, peraltro, un Paese dalla singolare struttura geopolitica, che la teneva sospesa fra l’Oriente, al quale apparteneva la sua parte meridionale, e l’Occidente, al quale apparteneva la sua parte centro-settentrionale. Proprio per questa sua bipartizione la penisola poté avere un suo ruolo anche nei rapporti culturali fra Est e Ovest. Vi si trovava, inoltre, al centro un potere politico-religioso di originalissima costituzione e fisonomia, qual era il papato, in costante rafforzamento; e vi fiorì con l’ordine benedettino una delle massime espressioni e un fondamentale veicolo della civiltà medievale, di cui l’Italia ospitò non solo la sede madre, ma innumeri altri insediamenti di grande prestigio e di forte tradizione.
In questo Paese non si ritrovavano sovrani della sacralità e del radicamento di quelli dei Franchi o di altre genti. A suo tempo, il legame con l’impero di Carlomagno e dei suoi successori fu originario e organico, ma nelle travagliate vicende delle successioni carolingie e nel finale passaggio del titolo imperiale ai sovrani di Germania, si tradusse ben presto nell’idea di un potere transalpino straniero. Vi si sviluppò, invece, un particolarismo politico-istituzionale più spinto di quanto fosse negli altri Paesi europei, che rimase la nota più caratteristica della sua storia per molti secoli. Peraltro, proprio da questo particolarismo l’Italia, attraverso un lungo e oscuro travaglio, avrebbe visto emergere, con il Comune, tra 11° e 12° sec., una delle sue massime e più originali creazioni in fatto di civiltà politica.
Nei limiti sopra indicati, la storiografia italiana dei ‘secoli bui’ espresse appieno, come era naturale, la complessità strutturale del mondo italiano, che tanto la distingueva nel contesto europeo. È bene, anzi, notare fin dal principio che alla singolarità italiana vanno senz’altro riportate molte di quelle che poi saranno giudicate ‘anomalie’ di un ‘caso italiano’ ritenuto poco conforme, da molti e diversi punti di vista, ai modelli europei. Di tali ‘anomalie’, giudicate negativamente, si farà nel corso del tempo la materia amplissima di una ricorrente e insistente critica e autocritica, assai spesso molto severa, dell’italianità e degli italiani. È, tuttavia, chiaro che in esse si manifesta, piuttosto, e come tale va inteso, il modo italiano di vivere la sempre piena e mai negabile compartecipazione del Paese alla storia europea.
Nella grande, straordinaria fioritura della vita italiana dopo il Mille, fra l’11° e il 15° sec. lo si vede più che evidentemente. La storiografia comunale italiana – anche se negli studi non appare abbastanza chiaro e riconosciuto – è una delle pagine maggiori della coeva storiografia europea, per forza, densità, novità e varietà di espressione del mondo nuovo che la generava: un mondo che nella generale vicenda della civiltà europea diede luogo a innovazioni definitive e condizionanti, dall’ambito della banca e della finanza a quello delle scienze e del loro metodo, da quello della vita di società e delle buone maniere a quello dei rapporti tra cultura e potere, da quello delle lettere e delle arti a quello della filologia e della critica. Cominciarono, così, anche una secolarizzazione o laicizzazione del pensiero e del metodo storico destinate, malgrado ogni contraria apparenza e vari periodi o episodi di opposto segno, a non arrestarsi più e completarsi nella storiografia dall’Illuminismo in poi.
Lo stesso periodo segnò pure il tempo in cui divenne specifico e consistente il contributo italiano allo sviluppo del pensiero politico europeo. In tale specificità è discutibile fino a qual punto rientri l’elaborazione del pensiero ierocratico che da papa Gregorio VII a papa Bonifacio VIII portò alle ultime conseguenze la tesi della preminenza del potere ecclesiastico su quello civile. Il fatto che questo pensiero sia stato elaborato in Italia e a opera di una curia in cui la parte degli italiani fu sempre forte non toglie che la Chiesa romana e la sua curia sono il soggetto di una storia che non è per nulla soltanto o soprattutto italiana. Nel pensiero politico da considerare più propriamente italiano la tendenza ierocratica non è, però, affatto assente, e si manifesta in varie forme e con vari episodi, fino a suoi sostenitori come Egidio Colonna (o Egidio Romano) e Agostino Trionfo fra i secoli 13° e 14°. Resta, comunque, che un’espressione di pensiero politico davvero qualificabile come italiana si può ritrovare piuttosto nei giuristi che resero gli Studi italiani, a cominciare da quello di Bologna, il faro del rinnovamento del diritto nella nuova Europa. E ciò vale sia per i fautori delle tesi papaliste, sia per l’opposta tendenza ghibellina, nella quale si ritrovano pure – ovviamente, nei termini lessicali e concettuali consentiti dal pensiero di quel tempo – le dottrine che preludono, attraverso la difesa del potere e della giurisdizione imperiale, alla formazione delle teorie moderne dello Stato.
Non sorprende, ciò premesso, che – come il pieno sviluppo del pensiero storico italiano dopo il Mille si ritrovi nell’epoca della massima fioritura comunale con gli scritti dedicati ai Comuni e alle loro vicende – così i semi sparsi nell’esperienza storiografica italiana fra l’11° e il 14° sec. siano sbocciati e fioriti e abbiano dato tutti i loro frutti nel periodo successivo, portando a un rapido conseguimento, grazie a ciò, di un primato italiano, culturale e civile, destinato a durare per più di un paio di secoli, del quale la storiografia fu un campo di esplicazione fra i più notevoli.
Neppure per gli storici il ritorno al latino ebbe, sul piano sostanziale, grandi effetti rispetto alla nuova cultura e allo spirito del tempo. Non che questo dato di fatto linguistico fosse senza importanza. La ricerca dell’eleganza e della correttezza o proprietà linguistica non era, però, fine a se stessa. Era anche l’affermazione di un’esigenza superiore di ordine concettuale e di spirito critico. Il migliore latino postulava e richiedeva una filologia nuova e un rigore stilistico e grammaticale che portavano all’implicita promozione di una sensibilità più attenta alle forme e ai volti propri del passato. Il latino rimase poi – come si sa – per ancora un lunghissimo periodo la lingua della comunicazione internazionale, dell’erudizione, di alcuni particolari e alti usi civili (per es. la diplomazia), degli ambienti religiosi. Quando alle esigenze cui esso aveva corrisposto con il ritorno umanistico al latino classico si sentì di poter rispondere appieno con l’uso dell’italiano (così come con la loro lingua negli altri Paesi europei), si fece un grande passo in avanti nell’ambito della vita culturale, nonché – come è facile intendere – nella storia dell’identità e della vita nazionale.
Documento-simbolo del nuovo avvio storiografico può, e deve, essere considerato la De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio composta da Lorenzo Valla nel 1440, e pubblicata a stampa per la prima volta nel 1517. Il suo valore non è per nulla sminuito dalle anticipazioni che ve ne possano essere state. Né questa, né altre critiche riducono, però, il valore della diretta polemica con la curia romana su un documento considerato ufficiale e avvalorato da una lunga tradizione storica, o il vigore di un attacco che non si rivolgeva a una semplice memoria o trasmissione cronachistica, o la perizia dell’analisi linguistica, che fu il principale strumento critico usato da Valla per confutare l’autenticità del testo contestato, o il particolare impegno di una critica non fatta in via marginale o addirittura incidentale nel quadro di altri interessi, ma in una monografia ad hoc, che già solo per questo assumeva il significato di un attacco frontale a un elemento centrale del pensiero storico-politico-giuridico della Chiesa di Roma.
Semmai, è, piuttosto, da ritenere più che probabile che nell’idea e nella stesura della Declamatio il Valla abbia potuto essere ispirato e guidato da fermenti e tendenze largamente aleggianti nella cultura del tempo. E non è, quindi, un caso che la Declamatio possa apparire come una istituzionalizzazione, per così dire, delle principali caratteristiche della nascente storiografa moderna. Tale è la secolarizzazione della storia, che libera la considerazione storica da ogni elemento di finalità, presupposto o argomentazione ecclesiastico-religiosa. Tale è la critica dei fatti condotta non solo con criteri di verisimiglianza o di probabile credibilità di ciò che si afferma, né solo ricorrendo a un incrocio o comparazione fra quanti più dati fosse possibile, ma anche e soprattutto con un procedimento di esegesi delle fonti, di cui, in età umanistica, filologia e linguistica erano la naturale e maggiore risorsa.
Il recuperato classicismo porta, inoltre, a separare e distinguere chiaramente antichità classica e mondo medievale, al quale si applicano rapidamente gli stessi criteri di studio adottati per l’antichità. Né passa molto tempo perché antiquaria, in senso lato, e archeologia vengano a integrare questi criteri. Con l’invenzione della stampa nasce, a sua volta, la prassi delle edizioni critiche, che sollecitano fortemente la filologia testuale e, con essa, la critica delle fonti. L’insorgere, poi, della Riforma protestante spinge ulteriormente, in funzione di polemica confessionale, allo studio filologico e critico delle fonti, specie nel campo biblico e patristico; e, ovviamente, alla lunga le esigenze polemiche finiscono con l’attenuarsi o, addirittura, con lo svanire, laddove i progressi nelle tecniche di studio restano e si emancipano dalle loro originarie radici ideologico-confessionali. Infine, con la scoperta del Nuovo Mondo si vanno gradualmente affermando nuove spinte agli studi storico-etnografici e alle connesse comparazioni. Comparazioni alle quali spingono anche l’instaurazione di rapporti commerciali diretti con l’India e l’Estremo Oriente e, dopo la caduta di Costantinopoli, la trionfale affermazione della potenza ottomana.
Di tutti questi avanzamenti l’Italia è in Europa, per tutto il periodo umanistico e rinascimentale, prima anticipatrice e poi massima protagonista. Un primato pienamente riconosciuto, d’altronde, dai contemporanei. Un primato consacrato anche dalla frequenza con cui autori italiani cominciano a scrivere, su commissione dei rispettivi sovrani, storie dei vari Paesi europei, ispirate e condotte con i nuovi criteri umanistici. Così a Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, l’imperatore Federico III chiese di scrivere un Bellum austriacum, poi malamente titolato Historia austriaca o Historia Friderici III, ossia una storia del contrasto fra la corona asburgica e gli Stati austriaci nel 1452, che il Piccolomini scrisse in una prima redazione fino a quell’anno e in una seconda redazione fino al 1458, e che fu messa a stampa oltre due secoli dopo (alla Historia si collegava, e nella parte finale coincideva, una Historia bohemica che giungeva fino al 1458, e che era stata pubblicata già nel 1475).
Così l’urbinate Polidoro Virgilio ebbe a Londra da Enrico VII l’incarico di scrivere una storia dell’Inghilterra, gli Anglicae historiae libri XXVII, di cui i primi ventisei, che giungono al 1509, furono pubblicati a Basilea nel 1534, mentre l’ultimo giunge al 1538, quando da tempo il re era Enrico VIII, e fu anch’esso pubblicato a Basilea alquanto dopo, ossia nel 1555. Così il veronese Paolo Emilio, al quale Luigi XII commissionò una storia di Francia, che, intitolata De rebus gestis Francorum libri X, giunge fino al 1488 e fu pubblicata a Parigi fra il 1516 e il 1539.
Così il meno valoroso siciliano Luca Marineo, detto Lucio Marineo Siculo, fu autore di un De rebus Hispaniae memorabilibus, che pubblicò in prima edizione ad Alcalà e in cui si dimostra disinvolto utilizzatore sia di buone fonti sia di falsificazioni, con il fine precipuo di attribuire antiche e illustri ascendenze romane alle grandi famiglie spagnole (ma non per questo un’autorità come Leopold von Ranke si tenne dal definirlo «laudatore bene informato»). Così in Polonia il fiorentino Filippo Buonaccorsi, noto come Callimachus experiens, fu autore di una Historia de rege Vladislao (ossia di Ladislao III Jagellone, che regnò dal 1434 al 1444), edita ad Augusta nel 1519. Così in Ungheria, in stretto rapporto con il re Ladislao II, il marchigiano Antonio Bonfini (o anche Buonfini) scrisse le Rerum Ungaricarum decades, in 45 libri, che seguono il modello compositivo liviano e giungono fino al 1495, e furono pubblicate le prime tre a Basilea nel 1543 e, sempre a Basilea, nel 1568 la quarta e la metà della quinta, con la quale, per le traversie di salute dell’autore, l’opera si arrestò, ma che ne è, peraltro, la parte di maggiore valore storico. Così in Portogallo, dove nel 1461 il governo avrebbe voluto assumere come storico del Paese Biondo Flavio, senza riuscirvi.
Sulla stessa linea si può segnalare la tempestività degli interessi storiografici italiani per le nuove condizioni geopolitiche determinate dalle lotte di potenza del 16° sec.; e da questo punto di vista sono meritevoli di menzione anche opere di non grande respiro, come i Commentarii delle cose dei Turchi, editi nel 1531 e poi nel 1537 in latino, De rebus gestis et vitis imperatorum Turcarum di Paolo Giovio; o come la Persicarum rerum historia in XII libros descripta dell’umbro, ma operoso lontano dall’Italia, Pietro Bizzarri, ad Anversa, pubblicata nel 1578, alla fine della quale, dopo l’errata-corrige, «sono aggiunte le ultime notizie da Costantinopoli, quasi fossero telegrammi arrivati dopo terminata la redazione» (E. Fueter, Geschichte der neueren Historiographie, 1911; trad. it. Storia della storiografia moderna, ed. riv. e corretta, 1970, p. 159): un dettaglio che dice da solo lo spirito di interesse per l’attualità di tutta questa storiografia.
A sua volta, Pietro Martire d’Anghiera (di Arona sul Lago Maggiore) fu prolifico autore di un Opus epistolarum, serie di lettere sugli eventi dal 1488 al 1525, edita nel 1530 ad Alcalá de Henares; di una Legatio babylonica, resoconto di una sua ambasceria al Cairo nel 1501-02, edito nel 1511; e di Decades de orbe novo, che vanno dal primo viaggio di Cristoforo Colombo al 1525 (la prima edita a Siviglia nel 1511, le prime tre ad Alcalá nel 1516, e complete nel 1530), e furono da lui cominciate già nel 1523, per l’ultima parte delle quali ricevette un incarico ufficiale come «cronista per l’India».
Superfluo dovrebbe essere notare qui che il protagonismo e l’influenza europea, già pienamente in atto nella seconda metà del 15° sec., sono il riflesso di un quadro storiografico italiano già in crescente arricchimento quantitativo e qualitativo nella prima metà di quel secolo.
Al centro di tale quadro ben si può porre, ancora una volta, Firenze, i cui «cancellieri umanisti» (come li definiva Eugenio Garin) furono in prima linea nello sviluppo della nuova storiografia, così come lo furono nel conformare le scritture cancelleresche ai modelli della prosa classica.
Iniziatore di questa fase è indubbiamente da considerare Coluccio Salutati, e non solo per la sua opera di cancelliere, bensì anche per la parte da lui avuta nell’affermazione dei valori umanistici. Il suo trattato De tyranno (1400) ha, a sua volta, un’importanza storico-politica che va anch’essa sottolineata. Pur riconoscendo la rispettiva parte storica di Cesare, di Bruto e di Cassio, vi si afferma, infatti, che Cesare non era propriamente un tiranno. Lo si raffigura, invece, come detentore di un grande potere conseguito per vie legali. La sua uccisione non è, quindi, giustificabile con una violazione tirannica dell’ordine costituito e della legalità, che è la motivazione fondamentale della liceità del tirannicidio. E qui non è difficile leggere tra le righe la preoccupazione che l’ordinamento comunale fiorentino possa essere sovvertito dall’interno con un’azione illegale e violenta dei fautori di un regime signorile. Il rischio di sopraffazioni liberticide all’interno si configura, così, non meno temibile delle minacce esterne, di altri potentati, all’indipendenza e all’integrità del dominio fiorentino. Allo stesso modo, la monarchia si configura come la forma di governo preferibile, ma questa appare come una concessione essenzialmente teorica per meglio affermare l’esigenza primaria della legittimità e della legalità del potere, la trasmissione monarchica del quale sembra garantire contro i guasti e le degenerazioni che chi lotta per acquisirlo provoca nell’ordinato svolgimento della vita civile.
Non infondato appare, quindi, considerare il Salutati come un anello decisivo di congiunzione tra la fase di incubazione e di gestazione dell’Umanesimo e la piena esplicazione del nuovo spirito e della nuova cultura nel secolo detto, appunto, dell’Umanesimo. Quella incubazione e gestazione erano state già largamente espresse nell’attività di Francesco Petrarca e del Boccaccio, con i quali non è un caso che Eduard Fueter aprisse la sua Geschichte der neueren Historiographie (1911).
Vale anche la pena di notare qui che proprio con Petrarca il Salutati aveva condiviso l’interesse per la figura di Cesare, così importante per la sua riflessione politica. Il grande poeta ne aveva profondamente ripensato, nel suo De gestis Caesaris, l’opera e la personalità. Era così passato da una iniziale avversione (esemplata sulla Pharsalia di Lucano) per il conculcatore della libertà repubblicana di Roma a una valutazione diversa, fondata sulle ammirative espressioni dell’epistolario di Cicerone e sugli stessi Commentarii cesariani, da lui attribuiti a un Giulio Celso. Salutati non solo aveva riconosciuto per primo la paternità cesariana dei Commentarii, ma aveva anche raffigurato Cesare non come il primo imperatore romano, bensì come il protagonista dell’ultima fase della storia repubblicana di Roma. Inoltre, nel parlarne aveva decisamente spostato l’accento del suo interesse per lui dalla dimensione del vir illustris dalle grandi e mirabili imprese a quella dello statista e dell’uomo di governo, e su questo piano, per l’appunto, ne aveva escluso la qualificazione di tiranno.
L’indugio su questo punto è, quindi, giustificato a esemplificazione e riprova di quanto la piena maturazione dell’Umanesimo proceda attraverso una graduale accumulazione e sedimentazione di sviluppi culturali e civili, e non per salti o discontinuità più o meno repentini. È per ciò che per quanto riguarda, in particolare, la storiografia, nonostante ogni apparenza in contrario, nel Petrarca e nel Boccaccio (e nel primo ancor più che nel secondo) gli esiti umanistici sono soltanto presentiti e preannunciati. Basti, per es., pensare all’uso delle fonti in Petrarca, nel quale egli fece molti progressi, ma senza dimostrare «alcuna disposizione critica». Purché «una fonte fosse antica» egli la utilizzava senza esaminarne l’attendibilità, a meno che non si presentassero inverosimiglianze grossolane, e senza distinguere «fra autori più antichi e posteriori» (E. Fueter, Storia della storiografia moderna, cit., pp. 5-6) o studiarne la tendenza. E sorprende, perciò, che Fueter, che ne ha constatato questi tratti, lo abbia poi considerato un pioniere della storiografia moderna.
Il confronto con gli storici umanisti di pochi decenni dopo mostra, infatti, chiaramente quanto fosse ancora il cammino da fare per parlare di storiografia moderna, senza che per ciò si tolga nulla al rilievo storico della figura del Petrarca e della funzione da lui esercitata anche sul piano storiografico. È vero, invece, che dopo il Petrarca – e già lo si vede bene con il Salutati – la storia romana, e, più in generale, la storia antica, entra nel circolo della considerazione storico-politica della prima età moderna; viene spogliata dei suoi tratti medievali provvidenzialistici ed emancipata dalla dottrina o filosofia della storia fondata sulla successione degli imperi o di altre dottrine storiche pregiudiziali e condizionanti; comincia a essere analizzata e ricostruita come una grande fase storica della civiltà di cui l’Europa moderna si sente continuatrice, oltre che erede; è assunta quale paradigma imprescindibile di logiche storiche di valore imperituro e di perenne ammaestramento.
Nella già accennata centralità fiorentina allo sbocciare del nuovo tempo umanistico i nomi che subito risaltano sono quelli di Leonardo Bruni e di Poggio Bracciolini con le loro storie di Firenze, che il primo tratta dalle origini al 1404 e il secondo dal 1352 al 1455.
Nella scia di Jacob Burckhardt, la critica non è stata, in generale, molto indulgente né con l’uno, né con l’altro, e gli accenni di una revisione di questa severità, che non sono mancati, non sembrano aver portato a un effettivo superamento del relativo pregiudizio. In realtà, non sono pochi in Bruni i motivi che ne mettono in risalto un non trascurabile interesse storiografico: come l’esaltazione della libertas fiorentina che si è formata nella lunga e travagliata vicenda della storia cittadina e che è considerata la civiltà politica nella quale soltanto si possa esplicare il maggiore valore umanistico rappresentato dalla virtus individuale; o come il passaggio già chiaro dallo stato comunale cittadino allo stato regionale, per cui si ricorda l’exemplum romano della trasformazione di una potenza locale in una potenza egemone in ben più ampi spazi. Anche le capacità critiche di Bruni possono essere meglio valutate, così il suo ricorso a documenti cancellereschi e archivistici là dove poteva, mentre si può più che dubitare che possano essere considerati una «storia contemporanea d’Italia» i suoi Rerum suo tempore gestarum commentaria, che vanno dal 1378 al 1440 e nella cui prefazione si ritiene che sia stato in un certo senso esposto «il programma ufficiale della storiografia umanistica» (E. Fueter, Storia della storiografia moderna, cit., p. 27). E, quanto a Bracciolini, la cui opera si crede che non regga il confronto con quella di Bruni, sono certo almeno da apprezzare la sua diligenza nel narrare le guerre sostenute da Firenze e la sua chiara esaltazione della Firenze medicea, e, in specie, della politica del vecchio Cosimo.
La visione umanistica della natura e dei compiti della storiografia fu poi espressa – compiutamente, si può dire – da Bartolomeo della Fonte (o Fonzio) nella lezione che nel 1482 egli tenne nello Studio fiorentino come introduzione a un corso universitario sulla Pharsalia di Lucano, considerata come testo storico, e sui Commentarii di Cesare. In questa Oratio in historiae laudationem l’autore delineava un abbozzo di prospettiva storica della storiografia (Ch. Trinkaus, A humanist’s image of Humanism: the inaugural orations of Bartolomeo della Fonte, «Studies in the Renaissance», 1960, 7, pp. 90 e segg.) – anche se, occorre specificare, certamente non una storia della storiografia – proponendo un quadro significativo degli storici greci e romani. Ne veniva fuori, come punto basilare, la centralità di Livio, giudicato al di sopra di tutti gli altri non solo dal punto di vista letterario, ma anche per l’ampiezza da lui data al suo argomento. Da Livio è ugualmente tratto il principio della storia come magistra vitae in quanto magistero morale, scuola di vita morale, educazione alla virtù umanisticamente intesa.
In conclusione, si può pure ritenere non eccelso l’avvio fiorentino della storiografia umanistica, mossa fortemente, oltre che dall’accennata concezione della storia come magistra vitae, dalla definizione ciceroniana della storia come opus oratorium maxime, di cui risentì a lungo la prassi storiografica posteriore (il modello annalistico di stampo liviano, seguito in specie da Bruni, non prolungò, invece, altrettanto la sua influenza). Non per ciò, tuttavia, si può omettere di vedere in questo avvio il delinearsi della strada maestra poi seguita dalla storiografia moderna; e dovrebbe bastare a comprovarlo il confronto con la prassi storiografica dei due o tre secoli precedenti per quanto riguarda l’organicità e la qualità del discorso storico e la concezione puramente umana degli sviluppi storici di cui si tratta.
La storiografia umanistica di altre parti d’Italia lo conferma ampiamente con i suoi molti nomi di rilievo, per es., a Napoli (Lorenzo Valla, Bartolomeo Facio, Giovanni Pontano, Antonio Beccadelli) o in Lombardia (Giovanni Simonetta, Giovanni Crivelli, Francesco Filelfo, Donato Bossi, Giorgio Merula, Bartolomeo Calco) o a Roma (con le Vitae pontificum di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che scrisse anche una storia di Mantova) o a Siena (Agostino e il figlio Niccolò Dati) o a Ferrara (Pietro Cirneo). A Venezia, dove era anche proseguita la vecchia tradizione cronachistica (e basti menzionare Marin Sanudo il Giovane, i cui Diari, che vanno dal 1496 al 1536, sono fra le fonti più rilevanti del tempo), l’approdo della nuova storiografia ebbe in Marcantonio Coccio, detto Sabellico, un esponente di rilievo, cui vanno aggiunti Pietro Paolo Vergerio, Andrea Morosini, Pietro Bembo. Più isolato, ma non trascurabile fu il caso di Genova, dove il cancelliere della Repubblica Giacomo Bracelli fu anche uno dei primi umanisti liguri e scrisse un De bello quod inter Hispanos et Genuenses saeculo suo gestum libri V, sulla guerra fra Genova e l’Aragona conclusasi nel 1444, che fu spesso consultato. Da citare sono anche quegli autori di storie di argomento non cittadino, come la storia della Signoria dei da Carrara a Padova del Vergerio, la storia della guerra tra Siena e Firenze a metà del 15° sec. di Francesco Contarini, la storia della guerra fra Venezia e Milano del 1438-41 di Giorgio Bevilacqua, la biografia di Ercole d’Este scritta da Pier Candido Decembrio e quella di Bartolomeo Colleoni scritta da Antonio Cornazzano.
Peraltro, nella comunanza di ispirazione e di modello di questa storiografia che si sviluppa sul modello umanistico fiorentino, non si può fare a meno di scorgere anche qualche profonda differenza. E, ciò, soprattutto per il fatto che ovunque, a differenza da ciò che si ebbe in Firenze, l’impulso del governo fu per la storiografia un elemento determinante. Per Firenze si può, invece, parlare di una genesi prettamente culturale della storiografia umanistica, nata nel quadro di una restaurazione dell’antichità, nell’ambito della quale certamente il genere letterario della storiografia non poteva mancare. E questa genesi culturale si rivelò così essenziale e forte che la storiografia fiorentina ne continuò a essere ispirata anche, per qualche tempo, dopo che il regime politico della città si modificò nel senso del principato: altro elemento di quella singolarità della storia comunale di Firenze alla quale abbiamo già accennato.
Infine, il tempo umanistico fu anche quello della rivelazione e della prima pratica di un ‘uso pubblico’ della storia, che trovò rapidamente una sua istituzionalizzazione con la nomina di storiografi ufficiali di monarchie e repubbliche oppure con la diffusa committenza di determinate trattazioni storiche a letterati e studiosi più o meno di grido. Era uno svolgimento significativo, già in piena esplicazione nel 15° sec., che attestava l’avvento di una civiltà politica nuova in cui le ragioni della storia appaiono sentite con una specificità inedita.
La ‘pubblica storiografia’ fu ovviamente e fortemente condizionata dalle esigenze pratiche da cui nasceva, ma non per questo perde di importanza dal punto di vista sia storico sia storiografico. Nella misura in cui le scritture segnate dall’etichetta di ‘pubbliche’ o di ‘commesse’ rispondessero in tutto o solo in parte o per nulla ai desideri e agli interessi dei committenti o dei poteri interessati (il che non si può dire sempre, o per una certa autonomia dello scrittore o per sue eventuali deficienze di qualsiasi genere), ci dicono sempre, sul piano storico, qualcosa, e spesso qualcosa di importante, sui momenti e i problemi o processi storici di cui trattano; e altrettanto si dica per il piano storiografico, sia quando seguono, sia quando non seguono le convenzioni culturali e i procedimenti euristici e narrativi del loro tempo.
Se i temi dinastici o comunali e politico-istituzionali e le vicende belliche prevalgono di gran lunga fra questi storici, è vero pure che interessi più larghi non mancano di affacciarsi nella storiografia del tempo.
È soprattutto nell’allargamento antiquario ed erudito degli interessi storiografici che se ne può scorgere il primo e maggiore riflesso. Protagonista fu, per questo verso, Biondo Flavio. A parte le grandi visioni medievali (di cui il canto di Giustiniano nel Paradiso dantesco è un mirabile documento), la storia dell’età antica aveva sempre attratto soprattutto per le sue connessioni con gli orizzonti cittadini e comunali dominanti in storici e cronisti. Con il Biondo si andò oltre queste prospettive. All’antichità egli si volse in una prospettiva antiquario-archeologica e di erudizione che fondò, in effetti, tutta una serie di nuove discipline storiche, destinante a un grande futuro nella tradizione europea. Così fu con la Roma instaurata, manuale di topografia di Roma antica, terminato nel 1446 ed edito nel 1471; con l’Italia illustrata, una sorta di dizionario storico-geografico dell’Italia centro-settentrionale, terminato nel 1458 ed edito nel 1474; con la Roma triumphans, manuale di antichità romane, terminato nel 1459 ed edito nel 1472, cui servì da appendice un De militia et iurisprudentia, edito, però, solo quattro secoli dopo.
Una vera e propria storia del Medioevo furono le Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades, in 31 libri, che vanno dal 412 al 1441 e, composte fra il 1440 e, forse, il 1452, furono edite nel 1483. In effetti, agli ultimi quarant’anni di questo periodo sono dedicati ben undici libri, mentre al precedente millennio sono dedicati gli altri ventuno: il che fa pensare che l’autore sia partito, nel comporre l’opera, dagli anni più recenti e che il disegno gli si sia poi allargato fra le mani.
Il carattere fondativo di queste opere non è inficiato dalle notazioni indubbiamente giustificate dalla carenza di vera capacità storiografica e di riflessione storica dell’autore, nonché di altri interessi che quelli eruditi, per cui le sue opere appaiono molto di più come raccolte di fonti e di notizie che come vera e propria composizione storica, quasi lavori soltanto preparatori per il vero lavoro dello storico. È vero, inoltre, che la sua critica e il suo uso delle fonti sono piuttosto elementari e insufficientemente temporalizzati. Agli occhi dei suoi contemporanei umanisti questi difetti si sommarono alla qualità non eccelsa della sua prosa, e determinarono il concetto non elevato che ne ebbero, e che è poi durato alquanto anche negli studi successivi su Biondo.
In realtà, pur nella fondatezza di molti di tali rilievi, e senza poter in alcun modo parlare del Biondo come di uno storico di un certo spessore, neppure gli si può, tuttavia, negare un certo senso della storia e di quel che egli ne scriveva. Così, per le Decades dalla caduta dell’impero romano in poi egli nota che dopo Orosio non vi sono più stati autori che ne abbiano trattato. Di conseguenza, egli si accingeva consapevolmente a riempire un vuoto storiografico, postulando un’esigenza fondata. Così, quando esalta l’impero romano perché ha portato unità culturale e sicurezza al mondo europeo. Così, quando manifesta la sua preferenza per i periodi di pace in cui si può attendere agli studi rispetto ai periodi agitati da guerre mosse da ambizioni riprovevoli. Così, quando nella sua trattazione della storia medievale non pone in posizione privilegiata il ruolo del papato e lo sviluppo della sua potenza politica con la formazione dello Stato della Chiesa. Così, quando, narrando di Alberico da Barbiano, egli nota che l’Italia del suo tempo ha raggiunto un grado di prosperità e di civiltà di gran lunga maggiore rispetto al periodo precedente.
Che però nelle Decades, pur rivolgendo la sua attenzione alla storia dell’intera area europea, il Biondo abbia finito con lo scrivere, in pratica, una storia d’Italia è difficile da sostenere. Se un avvio di storia d’Italia si può ravvisare in questo periodo, parrebbe più pertinente ritrovarlo nella storia fiorentina del Bruni, che fissa nell’esposizione della storia cittadina dell’età postromana un canone al quale risalgono anche autori posteriori. È, inoltre, lo stesso Bruni a notare che l’Italia del suo tempo, come l’antica Etruria, è caratterizzata da una ricca fioritura di città-Stato; e a valutare negativamente l’assorbimento imperiale di questo pluralismo da parte dell’imperialismo romano, secondo una delle linee di lettura della storia dell’Italia antica e moderna che avrà poi largo corso nella storiografia italiana. Nel Biondo, invece, la prospettiva italiana si riduce, in effetti, al proposito di scrivere delle cose accadute nell’età postromana ubique in Italia, con una nozione, in effetti, puramente geografica del Paese italiano, di cui lo stesso Biondo nota quanto il pluralismo politico del suo tempo sia di ostacolo a padroneggiarne le vicende storiche.
Era già un guadagno aver individuato il tema di un’Italia postromana. Una vera e propria prospettiva storica italiana esigeva altre categorie. La storiografia italiana – malgrado i molti tratti che se ne sono ravvisati da Albertino Mussato al Biondo – ne restò ancora molta lontana, anche se un’idea di Italia si era fatta ampiamente strada fin dal 13° sec. e aveva avuto espressioni ripetute di varia natura, dalla letteratura al campo delle arti figurative, dal piano politico a quello diplomatico e a quello commerciale e finanziario.
La storiografia umanistica tende, tutto sommato, a irrigidirsi in un modulo letterario e compositivo che andrà diventando sempre più statico e uniforme. Essa non rimase, però, per nulla il modello esclusivo della storiografia italiana. Con il maturare della fase più alta e piena del Rinascimento nuovi concetti, nuove esigenze e nuove prassi si affacciarono e rapidamente si affermarono.
Mutò – e fu mutamento decisivo – l’idea della storia come magistra vitae. Questo magistero non fu più concepito essenzialmente come scuola di virtù, di moralità, di spinta a imprese gloriose. La storia diventò maestra della vita in senso eminentemente pratico, come scuola di arte politica, individuazione di ciò che l’esperienza insegna come ricorrente nel governo degli Stati e nelle relazioni fra di loro, nei rapporti politici fra uomini, partiti, istituzioni, realtà variamente statali. Le arti, insomma, come avrebbe detto Niccolò Machiavelli, della volpe e del leone.
Nasce così una nuova ‘storia prammatica’. Una storia di fatti selezionati in ragione della loro importanza e del loro significato ed effetto. Fatti umani considerati, analizzati, descritti e giudicati con criteri anch’essi tutti e soltanto umani, secondo quella metodologia della ricerca delle «ragioni e perché» dei fatti, che era stata già enunciata da Giovanni Villani nella sua Nuova cronica, ma che in lui era rimasta ancorata al quadro cittadino e settoriale dei suoi interessi storiografici, come un particolare della sua più generale considerazione storica, e che ora diventa, invece, espressione di tutta una cultura, di tutta una visione del mondo.
Che in questa nuova tipologia della materia storica la guerra abbia un primato tematico non sorprende. Era già nella storiografia antica la preminenza della guerra come tema dominante della materia storica e massimo metro del relativo giudizio. Nella storiografia umanistica questo criterio trovò immediata rispondenza: res gestae plerumque bellicae sunt, afferma decisamente il Pontano. Nel nuovo prammatismo storico che ora si afferma la guerra non è, però, semplicemente un dato di fatto costitutivo della realtà storica, né un percorso tematico obbligato in forza di una convenzione letteraria. La guerra diventa ora davvero, anche molto di più di quanto lo fosse mai stata nella tradizione storiografica antica, una naturale estensione, una ineludibile integrazione della politica. Di fatto siamo già alla convinzione che la guerra non sia che la prosecuzione della politica con altri strumenti e per altre vie. Nella Storia d’Italia di Francesco Guicciardini questa implicazione è di una evidenza macroscopica; nel Machiavelli sarà, a non dir altro, un’altrettanto macroscopica implicazione della politica considerata come naturale e indefettibile sintesi delle arti della volpe e di quelle del leone.
L’esame della volontà politica e dei fini dell’azione politica diventa così per lo storico un punto centrale di ricerca e di osservazione per la ricostruzione dei fatti e per il giudizio su di essi che egli intende proporre.
La forma espositiva può essere diversa, e anche molto discutibile. Nel Guicciardini, per es., l’inserzione dei discorsi dei protagonisti è realizzata in base a un criterio che si rifà alla storiografia antica anche più che alla storiografia umanistica (si pensi, per es., al proemio di Tucidide alla sua opera). Nel Guicciardini non c’è, invero, alcuna esplicita dichiarazione in materia, ma anche chi vede in questa prassi narrativa un cedimento alle convenzioni della storiografia umanistica deve poi riconoscere che il momento letterario è sempre accompagnato dalla severa analisi, che lo stesso autore compie, dei motivi reali delle azioni e decisioni di cui si parla nei discorsi attribuiti ai protagonisti. In effetti, i discorsi dei protagonisti servono allo storico per delinearne il carattere e la personalità in quanto elemento costitutivo della condizione storica in cui si opera, e anche, in qualche misura, per indicare, di questa condizione, particolari e dettagli che possono meno facilmente rientrare nel solco principale della narrazione.
Che si mantenga (come nel Guicciardini) o non si mantenga l’ordinamento annalistico del racconto non è più, a questo punto, una questione essenziale, sia che lo si voglia, sia che non lo si voglia considerare un’altra forma di cedimento a convenzioni umanistiche. L’importante non è il vaso annalistico, ma la qualità del vino storiografico che in quel vaso si versa; e nel caso del Guicciardini, come di altri autori, questa qualità è di prim’ordine.
Ben più importante è, invece, la nuova concezione della esemplarità politica attribuita alla storia. Grazie a essa, in misura e con frequenza tendenzialmente larga, negli scrittori del 16° sec., e soprattutto negli autori maggiori, racconto storico e riflessione politica si congiungono in un nesso originale di estrema importanza sia per la storiografia sia per il pensiero politico. È difficile, da questo punto di vista, non indicare nel Machiavelli il vertice di questa congiunzione e del rilievo che essa assume nella vita culturale e morale del tempo. E questo dovrebbe ammonire a non considerare Machiavelli quale storico soltanto nelle opere formalmente definibili come tali (le Storie fiorentine, la Vita di Castruccio Castracani, o, magari, i Decennali), e a considerare, invece, di interesse storico l’intera sua opera, a partire dal Principe e dai Discorsi.
Naturalmente, il Guicciardini è anch’egli da richiamare a questo riguardo, benché sia consueta e quasi rituale la sua contrapposizione al Machiavelli, fin dalle rispettive storie di Firenze. Realistico – il Machiavelli – ma pervaso di grandi idee etico-politiche, sostanzialmente repubblicano e legato all’ordinamento comunale fiorentino, appassionato critico della condizione politica dell’Italia nel contesto europeo e sostenitore della formazione di un grande Stato italiano per mettere il Paese sullo stesso piano delle grandi potenze transalpine, fiducioso nelle possibilità di reagire con la forza della volontà e dell’iniziativa politica e sulla scorta della «lezione» del passato e della riflessione sul presente ai condizionamenti delle situazioni storiche. Pessimista – il Guicciardini – sulla condizione umana e sulle sue prospettive di azione e di riforma, chiuso nella logica degli interessi e delle convenienze immediate e particolari, fautore di un regime oligarchico, convinto sostenitore del pluralismo politico italiano come grande risorsa e ragione della molteplice fioritura di centri di cultura e di civiltà nel Paese, oppositore perciò di ogni idea di superare il pluralismo con la formazione di un grande Stato peninsulare, fidente nell’ammaestramento della storia ma più ancora nel valore condizionante o obbligante del presente.
Una contrapposizione così piena è in gran parte fondata, ma è anche altrettanto fuorviante, poiché cede troppo al luogo comune del particolare quale sintesi esauriente e negativa della riflessione guicciardiniana, e troppo, altresì, a un’interpretazione, per così dire, romantica della personalità e del pensiero di Machiavelli. Ben più rilevante appare, invece, il parallelismo fra i due autori nella percezione di dati fondamentali della storia del loro tempo, a cominciare dal peso decisivo assunto dalle grandi potenze, dall’importanza del fattore militare nel determinare le vicende della grande storia contemporanea, dal rilievo delle grandi personalità agenti allora sulla scena storica, dalla radicalità e inevitabilità dei conflitti di potenza sia in Italia sia in Europa, e da altri vari argomenti. Semmai, quel che più diverge è in effetti il maggiore valore di esemplarità e di normatività della lezione del passato in Machiavelli.
È vero, inoltre, che nel Machiavelli tutto ciò si traduce in un’altezza e originalità del suo pensiero politico, che ne ha fatto per generale consenso, malgrado non poche opinioni e riserve in contrario, il geniale e originale assertore dell’autonomia della politica. Autonomia che non significa semplicemente immoralità o amoralità della politica, ma, piuttosto, il riconoscimento di una logica della politica considerata iuxta propria principia, che con la morale si può incontrare o scontrare senza che questo tolga o aggiunga nulla alla qualità dell’azione politica. Anche l’appassionato appello a un principe redentore dell’Italia preda della prepotenza straniera è condotto, a ben vedere, sulla scorta di un calcolo politico che giudica realistica la prospettiva di successo di questa azione redentrice, conforme alla logica indefettibile di tale azione.
La preminenza storiografica europea della storiografia italiana fu fortemente accresciuta dal rilievo e dall’originalità del pensiero politico italiano di allora, grazie – come è da sottolineare – soprattutto al Machiavelli.
Il panorama storiografico italiano del pieno Rinascimento fu, però, molto più ricco di quanto la preminenza dei nomi del Guicciardini e del Machiavelli potrebbe far pensare. Nei diversi Stati italiani proseguì o ebbe inizio la tradizione storiografica avviata nel 15° sec., mentre presero un loro spicco alcune branche storiche nuove, come, per es., quella relativa alle arti figurative.
Nel Regno di Napoli si ebbe, per es., a opera del marchigiano Pandolfo Collenuccio, la prima vera storia unitaria e complessiva del Mezzogiorno d’Italia, che rimase poi, in questo ambito, un classico, anche se spesso discusso, generalmente seguito. Angelo Di Costanzo e Camillo Porzio furono, a loro volta, storici di un certo rilievo nel trattare le cose del Mezzogiorno nel periodo angioino il primo e al tempo dei sovrani aragonesi il secondo. Grandi cronisti, fra cui indubbiamente primeggia Giovanni Antonio Summonte, fornirono testi rimasti poi fondamentali per la storia di Napoli e del Regno malgrado tutte le loro vistose insufficienze storiografiche.
La ‘pubblica storiografia’ veneziana proseguì dopo il Bembo sulla stessa linea di ufficialità, ormai colà stabilita al riguardo dalla tradizione statale. Con Paolo Paruta essa ebbe un esponente di rilievo, sia pure non già per vigore di pensiero storico, ma soprattutto per una certa acutezza dello sguardo politico con cui egli segue le vicende narrate, alla quale nuoce, forse, meno di quanto si pensi, il suo pregiudizio circa la perfezione del reggimento veneziano e le buone ragioni del suo governo nella sua azione a livello italiano ed europeo. Sensibilità politica che si può bene osservare anche in un esponente della classe politica della città quale fu Bernardo Giustiniani, autore di una storia di Venezia dalle origini, che si fa notare anche per lo scrupolo del suo lavoro di ricerca e di critica.
La maturazione di una storiografia umanistica fu più lenta, dopo il caso del Bracelli, a Genova, stanti le note vicende culturali della città, e una sua funzione pubblica venne effettivamente riconosciuta solo con Uberto Foglietta, ufficialmente nominato nel 1576 scriptor historiarum et annalium rei publicae. I suoi Historiae Genuensium libri XII rimasero incompleti e, giungendo fino al 1527, furono poi pubblicati nel 1585, con un’aggiunta che li portava fino al 1528. Altri autori (Pietro Bizzarri, Iacopo Bonfadio) ebbero minore rilievo, e non valsero davvero a irrobustire la tradizione storiografica cittadina.
Una vera schiera di storici fiorentini degni di nota si accompagnò nello stesso tempo ai due maggiori, da Bernardo Segni a Iacopo Nardi, da Piero Vettori a Benedetto Varchi e ad altri. Al Varchi viene riconosciuta una non indebita preminenza di vigore e di originalità di pensiero storico, ma in realtà negli storici fiorentini di questo periodo la qualità della scrittura e la tenuta del discorso storico sono quasi sempre degni di nota, e appaiono una conferma di quella centralità fiorentina che abbiamo già rilevato come caratteristica non solo di questo periodo. Notevole è pure che da Firenze ci si volgesse alle vicende di altre parti d’Italia, come accadde, in particolare, con Donato Giannotti, autore di un’opera sulle istituzioni e sul regime politico veneziano, in cui l’esame del loro stato attuale è sempre accompagnato dall’indicazione della loro origine e vicenda storica. E ciò richiama ancora al fatto che negli scrittori fiorentini del periodo l’interesse dell’osservazione politica integra costantemente l’interesse della ricostruzione storica; ed è un altro motivo per non ridurre questo panorama fiorentino alla semplice bipartizione in ‘scuola del Machiavelli’ e ‘scuola del Guicciardini’, davvero molto insufficiente a rappresentarne la vivacità e la varietà.
In tutta Italia il modulo storiografico umanistico, con poche variazioni, durò molto a lungo. Permanenza che, anche a giusta ragione, è spesso considerata un elemento deteriore nella storia della storiografia italiana. A parte, però, il fatto che ai suoi tempi il modulo umanistico aveva significato un oggettivo avanzamento dell’idea e della prassi storiografiche correnti in Europa, è anche da considerare, in primo luogo, che la tradizione umanistica non persistette a lungo soltanto negli schemi convenzionali e retorici del primo secolo dell’Umanesimo, perché larghissima fu la sua conversione nei moduli soprattutto guicciardiniani della moderna storia prammatica, e, in secondo luogo, che larga fu ugualmente la sua permanenza nella storia della storiografia in tutta Europa addirittura ancora nel 20° secolo. E ciò senza contare la varietà di forme e di temi in cui la storiografia umanistica e quella prammatica vennero praticate in Italia, oltre che fuori d’Italia.
Certamente nel solco della storiografia umanistica fu Paolo Giovio, la cui principale opera (Historiarium sui temporis libri XLV, una parte dei quali manca ed è offerta solo in epitomi), iniziata più o meno nel 1513, fu terminata nel 1549 ed edita nel 1550-1552, e godette a lungo di molto credito e fu più volte ristampata, e anche tradotta in altre lingue. L’opera copre il periodo 1494-1546, e fin dall’inizio non ebbe buona fama, sollevando molte più contestazioni e disapprovazioni che lodi. Certo, il Giovio non rivelava nelle sue pagine la tempra del grande storico: il confronto con la Storia del Guicciardini, con la quale la sua condivide gran parte del periodo trattato, basta da solo a dirlo. Tuttavia, il suo metodo di fondarsi su testimonianze dirette di coloro che avevano partecipato agli avvenimenti o ne possedevano altra diretta notizia, l’abbondanza di informazioni e notizie di cui non si dispone in opere coeve e un certo fiuto nel valutare uomini e circostanze danno del Giovio una figura molto più positiva di quanto una tradizionale opinione negativa ammettesse. Gli mancava soprattutto una forte percezione del senso generale del corso storico che descriveva, ma non una certa acutezza di giudizio, come provano la sua periodizzazione a partire dalla discesa di Carlo VIII in Italia, il suo giudizio che bisognasse risalire alla «congiura dei baroni» per le mire napoletane del sovrano francese, la cura e il rilievo della sua narrazione delle cose fiorentine, la ricchezza delle sue informazioni sul papato di Leone X, il suo sguardo esteso a «tutti i popoli che entrano nella politica europea» e vari altri elementi che fanno della sua opera un lavoro per nulla da avventato «giornalista ricattatore» (E. Fueter, Storia della storiografia moderna, cit., pp. 68 e 70), e neppure soltanto da sagace «raccoglitore di aneddoti» (B. Croce, La grandiosa aneddotica storica di Paolo Giovio, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, 2° vol., 1958, pp. 27 e segg.), pur nei limiti evidenti e macroscopici della sua figura di storico. E non è un caso, quindi, che sulle cose italiane le Historiae del Giovio furono molto a lungo ancor più presenti dell’opera del Guicciardini alla storiografia europea.
Il rinnovamento umanistico toccò pure quel genere storiografico particolare che sono le biografie, le autobiografie e, in generale, la memorialistica. Distinguere, però, il lavoro storico degli umanisti (come, sempre in generale, quello di ogni altro periodo) con il criterio dei generi letterari non porta molto lontano nella comprensione effettiva di quel lavoro, così come, a ragione, molti rifiutano di vedere l’interesse umanistico verso questo genere letterario in connessione con la nuova sensibilità nei confronti dell’uomo, dell’individuo generalmente attribuita all’Umanesimo. Il tema dei viri illustres allora in auge – già del Petrarca e del Boccaccio, come si è detto, e ora frequente in autori anche famosi come Facio, Piccolomini e altri e, soprattutto Vespasiano da Bisticci, e poi il Giovio e altri ancora – appare in molto più probabile connessione con il rinnovamento della tipologia dei generi letterari caratteristico della generale fisionomia letteraria di quel periodo.
Negli ampliamenti tematici della storiografia di questo periodo rientrano anche quelli relativi alla storia della cultura e, in particolare, alla storia dell’arte. Che questo ampliamento prenda, generalmente, la strada della biografia è certamente significativo, purché non ci si rifaccia anche qui, come notato per la biografia umanistica in generale, alla nuova filosofia e al nuovo senso dell’uomo attribuito all’Umanesimo e al Rinascimento. E ciò non perché filosofia e senso dell’uomo non vengano a essere innovati, e anche profondamente, nel moto umanistico e rinascimentale, ma perché questo dato di fatto non può essere trasformato in una chiave onnivalente di lettura di tutti gli aspetti e le movenze di quel moto, che ne verrebbero così semplificati nella loro reale fisionomia e impoveriti nei loro molteplici significati e implicazioni.
In via generale, la vita di Dante del Boccaccio iniziò una tradizione destinata a non arrestarsi più quanto all’oggetto – la biografia di un poeta o di uno scrittore o intellettuale – e a essere sempre largamente praticata in Italia così come in tutta Europa. Nella massima parte dei casi l’interesse erudito o cronachistico o, in generale, di minore profilo prevarrà in questo genere biografico sulla sostanza storiografica, e sempre poche saranno le biografie che assumeranno una fisionomia e un rilievo storiografico particolari.
La tradizione della storia letteraria comincerà, invece, in Italia e così pure in tutta Europa, alquanto più tardi. Non che ne manchino mai gli elementi. È, anzi, da ricordare che, addirittura agli inizi della tradizione letteraria nazionale, il De vulgari eloquentia di Dante offre una ricostruzione della storia della poesia italiana dalla Scuola siciliana al Dolce Stil novo praticamente seguita poi, nella sostanza, da tutta la storiografia posteriore. Nel caso italiano la questione della lingua nazionale, discussa pressoché ininterrottamente a partire dallo stesso Dante in termini spesso fortemente drastici e alternativi, ha, tuttavia, fornito altrettanto spesso elementi di storia della cultura e della letteratura nazionale, poi gradualmente sedimentati nella tradizione culturale del Paese e fecondi, quindi, di effetti importanti non solo su questo piano.
Per la storia dell’arte, invece, la biografia ebbe fin da principio una assai maggiore sostanza di costruzione storica. Giovò – è lecito credere – a questo effetto, la forte caratterizzazione regionale e provinciale dell’arte in Italia. Certo è che già nei secoli 14° e 15°, nelle discussioni, per es., sull’eccezionale personalità di Giotto o sulla cupola di Filippo Brunelleschi o sulla figura di Maestro Colantonio e sul rapporto della sua arte con quella del suo discepolo Antonello da Messina, si cominciano a disegnare visioni e scenari storico-artistici di grandissimo interesse, e che, per lo più, nelle loro parti migliori sarebbero rimasti canonici; e nei Commentari di Lorenzo Ghiberti si è potuta riconoscere, non per caso, una sorta di prototipo della letteratura storico-artistica.
Le Vite di Giorgio Vasari sono, perciò, ben lontane dal presentarsi come un frutto repentino ed estemporaneo della cultura nazionale. Inoltre, anche se esse non sono una storia dell’arte italiana in forma, ne sono, però, la sostanza o, almeno, un grande nucleo di prima sistemazione. E ciò è tanto più significativo in quanto le Vite sono dominate da criteri estetico-formali che, sia pure senza chiusure di geografia o di maniera, si riassumono per intero nella tradizione dell’arte toscana da Giotto a Michelangelo.
Il primato storiografico italiano nell’Europa dell’Umanesimo e del Rinascimento non significò affatto – né avrebbe potuto – un esclusivismo monopolistico. Grandi figure, particolarmente in qualche caso, certo non mancano nella storiografia europea di quel periodo: da Philippe de Commynes a Jacques-Auguste de Thou (Thuanus), da Tommaso Moro a Francesco Bacone, dal Beato Renano (Bild, detto Renano dal luogo di provenienza della sua famiglia) a Sleidan o a Johannes Thurmayr, noto sotto il nome umanistico di Aventinus, da Juan de Mariana a Juan Ginés de Sepúlveda o allo Zurita e a Diego Hurtado de Mendoza. Non per questo, però, quel primato, per un paio di secoli, fu mai in discussione.
Il primato italiano non fu soltanto di ordine tecnico (filologico, erudito, compositivo, letterario ecc.), ma si animò e visse anche di grandi idee storiografiche, passate poi nell’Olimpo del patrimonio culturale europeo e rimastevi come un legato indiscusso per molti secoli. Le idee di Medioevo e di Moderno furono, a questo riguardo, certamente la principale acquisizione del pensiero italiano. Il Medioevo – concepito come la media tempestas, media aetas fra antico e moderno, epoca oscura che aveva separato l’Occidente romano dalle altezze e dai fulgori della civiltà e della cultura classica, greco-romana – e il ristabilimento della cultura classica, delle humanae litterae e della migliore arte (e in specie dell’architettura) come inizio di un’epoca nuova, che portò subito il nome di Moderno – e anche, fin dall’inizio, a uno stato nascente, le definizioni di Umanesimo e di Rinascimento – rimasero poi, infatti, nella tradizione storiografica europea, ma (occorre anche subito notare) valsero pure, allo stesso tempo, a fornire gli elementi di base per tutta una nuova periodizzazione storica.
Per questa nuova periodizzazione la bipartizione medievale di ante Christum e post Christum fu sostituita da una tripartizione di antico-medievale-moderno, poi canonizzata in varie forme, e così forte da investire di sé anche le revisioni e rielaborazioni storiche sollecitate dal dilagare della Riforma protestante, che vedeva la storia cristiana articolata nella pura e alta religiosità del primo cristianesimo dei Vangeli e dei Padri, nel successivo corrompimento (medievale) prodotto dalla monarchia papale nella Chiesa e dal diffondersi delle credenze proprie del cattolicesimo connesso a quella monarchia, e infine restaurato nella sua purezza dal ritorno della Riforma alle origini cristiane.
Il boemo Cristoforo Keller (latinamente Cellarius), professore a Halle dal 1693 al 1707, introdusse il termine Medioevo, che è poi rimasto proprio di quella ‘età di mezzo’, di cui gli umanisti italiani avevano elaborato l’idea come spazio storico fra l’età antica e la moderna. Il Keller fissò, anzi, lo schema poi rimasto anch’esso canonico della manualistica storica europea sia per le scuole sia più in generale, pubblicando nel 1675 una Historia antiqua che giungeva fino alla nascita di Cristo; nel 1688 una Historia Medii Aevi a temporibus Constantini Magni ad Constantinopolim a Turcis captam; e nel 1695 una Historia nova, che trattava dei secoli 16° e 17°.
Questo nuovo ordinamento della materia storica, concepito nell’esperienza europea e dal suo punto di vista, aveva, peraltro, molte implicazioni di ordine tutt’altro che soltanto cronologico. Si riaffacciavano l’idea della circolarità dei tempi storici, della loro ciclicità e ripetizione, secondo il modello polibiano della anacýclosis; l’idea dei ‘ritorni’, dei ‘corsi’ e ‘ricorsi’ storici, secondo moduli diversi, ma che avrebbero poi prodotto l’idea del Medioevo come ‘barbarie ritornata’; l’idea, quindi, della ripetitività dell’esperienza storica, dello svolgimento del corso storico come perenne ripetersi di un déjà vu, sul quale si poteva anche meglio fondare l’idea del magistero della storia; l’idea, infine, della naturalità del corso della storia, pregna di altre implicazioni non soltanto naturalistiche.
Sarebbe poi occorso molto tempo perché questo naturalismo storico si evolvesse in più complesse e moderne idee di storia e di storiografia. Intanto, però, erano superate l’idea della linearità, sia pure fratturata, della storia cristianamente compresa fra caduta e redenzione; l’idea della centralità cristologica in storia e storiografia; l’idea di forze non naturali, soprannaturali che governassero e perfino alterassero il corso naturale delle cose. Che, a ben vedere, era allo stesso tempo un ulteriore grande passo in avanti nella laicizzazione delle idee storiche, anche se questa implicazione laicizzante restava in nuce o soltanto implicita.
Oltre che per questi motivi di carattere generale, il periodo umanistico-rinascimentale doveva rimanere nella storia della storiografia italiana per un motivo più specifico, e propriamente nazionale. È in questo periodo, infatti, che si può dire che davvero decolli, se non si vuol dire che addirittura nasca, l’idea, sostanzialmente compiuta, di storia d’Italia. Un’idea di lunga incubazione e maturazione già nell’Italia comunale, che con l’Umanesimo riceve, come si è ricordato, vari incrementi.
La Storia d’Italia del Guicciardini è correntemente ritenuta come la prima, vera, grande storia italiana nel senso proprio del termine; e certo non si saprebbe indicare altra opera di pari altezza e forza intellettuale che da allora fino alla Storia delle letteratura italiana di Francesco De Sanctis abbia stretto in un organico racconto le vicende della penisola e analizzarle e rappresentarle come legate da un comune, inesorabile filo di logica e di svolgimento storico. L’oggetto proprio della Storia del Guicciardini più che l’Italia considerata in sé e per sé come persona storica verteva, tuttavia, sulle ‘guerre d’Italia’, ed estendeva il raggio del suo interesse storiografico fin dove giungevano i nessi e le implicazioni di quel molteplice e molto complesso nesso di manovre diplomatiche e di azioni belliche in cui le ‘guerre d’Italia’ consistevano. Storia d’Italia, dunque, in quanto storia di quelle guerre (e non è un caso che il titolo dell’opera, edita postuma, fosse dei suoi editori, non dell’autore). E a ciò non contraddice che dell’Italia il Guicciardini certamente avesse un concetto di unità civile e culturale, come testimonia appieno già solo il proemio della sua Storia, che è a sua volta, altrettanto certamente, un testo fra i più classici e fondamentali nella storia dell’identità e della coscienza dell’italianità.
Una tale prospettiva di condivisione di uno stesso nucleo di vicende storiche, se non si vuol dire di uno stesso destino, si può considerare ormai acquisita nella storiografia italiana del 16° sec. anche quando ne rimangono implicite la presunzione e l’espressione. Di ben maggiore, straordinaria e decisiva importanza è, a questo punto, a sua volta, l’esplicita formulazione che ai primi di quel secolo si ha del nesso reciproco delle storie degli Stati italiani e del nesso ormai evidente fra storia italiana e storia europea.
Machiavelli fa certamente testo per il primo punto, quando nelle Storie fiorentine (all’inizio del libro VII) vuole prevenire l’obiezione che il lettore potrebbe muovere per il fatto che «uno scrittore delle cose fiorentine si sia troppo disteso in narrare quelle seguite in Lombardia e nel Regno», ossia nell’Italia settentrionale e nel Mezzogiorno; e risponde che così ha fatto e farà «perché, quantunque io non abbia mai promesso di scrivere le cose d’Italia, non mi pare perciò di lasciare indietro di non narrare quelle che saranno in quella provincia notabili». Egli voleva, cioè, scrivere una storia di Firenze, non una storia d’Italia, ma non poteva trascurare ciò che in Italia accadeva «massimamente perché dalle azioni degli altri popoli e principi italiani nascono il più delle volte le guerre nelle quali i fiorentini sono di intromettersi necessitati». Impossibile, quindi, parlare delle cose fiorentine come avulse dal contesto italiano. La consapevolezza dell’interdipendenza politica delle componenti del sistema degli Stati italiani aveva determinato un’analoga consapevolezza di reciproco intreccio delle rispettive vicende, al punto che non si riusciva a parlare più di una parte della penisola senza estendere lo sguardo al suo intero profilo.
In un tornante decisivo per la storia europea, e ancor più decisivo per l’Italia, e dopo quello dell’Italia come spazio linguistico, letterario, artistico, politico, giungeva così a piena maturazione il concetto dell’Italia come spazio storico unitario, corrispondente ai grandi spazi europei (Spagna, Francia, Inghilterra, Germania) che erano ormai in prima fila negli svolgimenti della storia europea. Nello stesso tempo, a opera di uno scrittore di molto minore rilievo del Machiavelli, benché molto più di lui in primo piano nella storia della Firenze di allora, Francesco Vettori, si guadagnava anche l’altro punto di vista sopra accennato, ossia quello europeo. Nell’epistola proemiale al suo Sommario della Istoria d’Italia dal 1511 al 1527 il Vettori scriveva di aver constatato di non poter parlare di questa storia senza «parlare ancora di quello che è occorso fuori d’Italia, perché le cose delle quali si tratta sono in modo collegate insieme che male si può scrivere di quelle d’Italia omettendo l’altre interamente». Constatazione che il Guicciardini in qualche luogo indicava anch’egli come obbligante, quando, per es., all’inizio del libro XI della sua Storia nota che «parrà forse alieno dal [suo] proposito, stato di non toccare le cose succedute fuora d’Italia, fare menzione di quel che [in un certo anno] si fece in Francia, ma la dependenza di quelle da queste, e perché a’ successi dell’una erano congiunti molte volte le deliberazioni e i successi dell’altra, [lo] sforza a non le passare del tutto tacitamente».
Per le ragioni sopra accennate la prospettiva che così veniva acquisita rappresentava una pietra miliare nella storiografia e nella cultura italiane, ma rappresentava un’acquisizione non minore su piano della storiografia e della cultura europee. Ne veniva, infatti, definito un ambito tematico e problematico fino allora certamente non del tutto assente (non sarebbe stato possibile) che, però, prendeva allora una forma canonica che non sarebbe più venuta meno, e integrava l’orizzonte storiografico europeo con un tema fra i suoi maggiori.
La diffusione della nuova cultura storica maturata nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento fu non solo assai larga, ma anche relativamente assai rapida. Le idee fondamentali di quella cultura divennero ben presto patrimonio comune nella formazione delle classi dirigenti, dei ceti intellettuali e professionistici, insomma della più generale cultura corrente.
È questo probabilmente l’aspetto meno conosciuto e meno indagato negli studi sul campo di cui ci occupiamo. Eppure, la nuova cultura storica si riversò in non esigua misura anche nella letteratura e nelle arti del tempo. Certo, non vi fu in Italia qualcosa di analogo al caso del teatro storico di uno Shakespeare (ma non vi fu, invero, neppure nella restante Europa), ma vi furono certamente derivazioni e influenze.
Di particolare interesse è notare poi come e quanto si diffonda quello che potrebbe essere definito un vero e proprio ‘bisogno di storia’ al di fuori degli schemi tradizionali e più elementari trasmessi specialmente dall’istruzione religiosa. L’informazione storica diventa adesso, più di quanto fosse mai stato nella consuetudine europea preumanistica, sia una premessa sia un complemento indispensabile dei discorsi politici. Si direbbe che la lezione, che fu soprattutto, a questo riguardo, del Machiavelli, abbia avuto fortuna e abbia fatto senz’altro scuola.
Tipica, per es., è da questo punto di vista la prassi degli ambasciatori veneziani di includere, quasi sempre all’inizio e a premessa delle loro relazioni al Senato, un più o meno ampio squarcio sulla storia dei Paesi in cui sono inviati, per il quale viene chiaramente utilizzata la più nota e accreditata letteratura disponibile. In alcuni casi si tratta di pagine ben costruite e anche acute, che tuttora hanno potuto e possono fornire allo storico posteriore importanti elementi di riflessione e di giudizio, oltre che, talora, qualche informazione o dato non altrimenti disponibile.
Molte di queste relazioni della diplomazia veneziana circolarono largamente, come si sa, manoscritte prima di essere messe organicamente a stampa nel 19° sec., così come quelle di diplomatici di altri Stati italiani, e in primo luogo dei nunzi e degli inviati pontifici. Fu, perciò, anche questo un canale particolare, ma non trascurabile della presenza italiana nella cultura storica europea ancora nel 17° sec., pur nella mutata situazione del Paese; e uno studio dei documenti diplomatici italiani del tempo dal punto di vista qui adombrato potrebbe certamente comprovarlo.
La nozione di Controriforma fa parte di quel numeroso gruppo di nozioni storiche che nel corso del 20° sec., e specialmente nella sua seconda metà, sono state rifiutate e dichiarate invalide e indebite. Ha avuto, invece, molta eco la definizione di Riforma cattolica, che è sembrata dare all’azione della Chiesa romana nei frangenti del 16° sec. e nel lungo periodo delle guerre di religione una propria autonomia e spontaneità, e non già solo il carattere di una reazione all’iniziativa protestante.
Senza entrare qui nel merito di tale questione, non si può, tuttavia, fare a meno di notare che il sommovimento religioso nell’Europa occidentale ebbe allora effetti di grande rilievo anche nella storia della storiografia.
Ciò non si riferisce soltanto alla nascita, come si usa dire, della storiografia ecclesiastica, accentrata sulla contesa nata dall’iniziativa di Matthias Vlacich (Mattia Flacio, detto Illirico dalla natia Vlach in Istria), intorno al quale operarono i ‘Centuriatori di Magdeburgo’, ossia i compilatori della Ecclesiastica Historia integram Ecclesiae Christi ideam […] secundum singulas centurias […] complectens, presentata come opera di «alcuni studiosi e uomini pii che vivono nella città di Magdeburgo», che in tredici volumi abbracciava la storia dei primi tredici secoli cristiani e fu pubblicata a Basilea fra il 1559 e il 1574, e ivi poi, rivista in qualche parte, riedita nel 1624. A questa visione protestante della storia della Chiesa si rispose da parte cattolica con varie opere, fra cui quella del gesuita spagnolo Francisco de Torres (Turrianus), Pro canonibus apostolorum et epistolis decretalibus pontificum apostolicorum adversus Magdeburgenses centuriatores defensio in quinque libros digesta, edita a Firenze nel 1572; quella, su commissione di papa Gregorio XIII, di Carlo Sigonio, Historiae ecclesiasticae libri XIV, che giunge al 311; e soprattutto con quella monumentale di Cesare Baronio, Annales ecclesiastici, in dodici volumi, che giungono fino al 1198 e furono pubblicati a Roma fra il 1588 e il 1607. Opere notevoli sia le Centuriae magdeburghesi sia gli Annales baroniani, e ricche di molti effetti sull’indipendenza culturale storica europea, ma inficiate da un confessionalismo preclusivo di ogni sostanziale indipendenza storiografica. E, del resto, l’intrusione di dispute e di tesi teologiche e confessionali nella storiografia europea dei secoli 16°-18° è evidente non solo in opere come quelle indicate, ma anche in un arco assai più largo, pur se, anche per effetto delle controversie allora sostenute, «la storiografia non rientrò mai più completamente nell’antico binario ecclesiastico» (E. Fueter, Storia della storiografia moderna, cit., p. 155).
Nessun dubbio è, comunque, possibile sul fatto che questa storiografia controriformistica, per quanto prodotta assai largamente in Italia e a opera di scrittori italiani, vada più che mai riportata alla storiografia pontificia anziché a quella propriamente italiana. In quest’ultima, anzi, come riconosciuto anche da autori di altri Paesi, «il dominio dei teologi sulla storiografia non pesò mai così fortemente come in altri paesi» (E. Fueter, Storia della storiografia moderna, cit., p. 155), e questo non è vero solo, come spesso si crede, per gli Stati italiani «indipendenti dall’estero» (p. 155), ossia per l’Italia non soggetta alla Corona spagnola, ma per tutta l’Italia.
Ciò non vuol dire che la storiografia, così come l’intera cultura italiana, non abbia risentito della contesa religiosa imperversante in Europa. Ne risentì, è ovvio, moltissimo, così come risentì della mutata scena politica europea e dell’ancor più mutata scena politica del Paese. La grande e condizionante novità sul piano politico era costituita dalla sopravvenuta sovranità spagnola su una gran parte della penisola. In seguito Controriforma e Spagna formarono il binomio individuato come causa della ‘decadenza’ italiana dopo la grande stagione rinascimentale e, se lungo fu il tempo di una revisione del giudizio sulla Controriforma, addirittura più lungo fu quello di una revisione del giudizio, consolidatosi nel corso del 18° sec., sul carattere nefasto dei due secoli di signoria della Corona spagnola in Italia.
Per il periodo dalla metà del 16° sec. in poi si è parlato su questa base, riassumendo una communis opinio, di un «vero regresso nel concepimento del quadro storico» (G. Toffanin, in Storia letteraria d’Italia, Il Cinquecento, 1935), ossia di un’involuzione della storiografia che ne avrebbe limitato le prospettive tematiche e la capacità rappresentativa e interpretativa. Giudizio che, peraltro, fu già dei contemporanei. «Si vedono – scriveva Agostino Mascardi nella sua Arte historica (1636) – certi cadaveri d’istoria, composti appunto nel modo in cui si scrivono ogni settimana le novelle di Roma»: dunque, una riduzione della storiografia, come poi si sarebbe potuto dire, a cronaca giornalistica. Il Sarpi osservava, a sua volta, che, stante l’esito delle ‘guerre d’Italia’, era l’Italia stessa a essere uscita dal grande circuito storico europeo e a trovarsi emarginata rispetto ai grandi centri e avvenimenti della storia europea, e, perciò, ridotta «in ozio così profondo che non solo ci tien lontani dalle novità, ma anco dai disegni e pensieri, in maniera che anco gli scrittori delle gazzette non hanno altra materia di scrivere storie, salvo che conviti e feste» (Lettere ai protestanti, a cura di D. Busnelli, 1° vol., 1935, p. 85): uno dei quadri più desolati della condizione italiana di quel tempo, animato da un’evidente amarezza. Omero Tortora rincarava la dose, osservando nella sua Historia di Francia (1619) che in Italia vi era più «comodità che materia» di scrivere storie, salvo che non si volesse soltanto «prendere a lodare la saviezza e la prudenza di coloro che l’hanno così felicemente conservata» (p. 1): insomma, un’Italia in cui la materia storica mancava, ma una storiografia cortigiana poteva facilmente attecchire e trovare un’agiata accoglienza. E, del resto, secondo quel che nota Gian Francesco Loredano, «chi scrive l’istoria ai nostri tempi è necessitato adulare o offendere i grandi» (cit. in C. Iannaco, con la collaborazione di M. Capucci, Il Seicento, 19662, p. 704): alternativa alla cui drammaticità si poteva sfuggire solo accettandone il corno meno pericoloso. Diagnosi confermata da Antonio Santacroce, che nella sua Secretaria d’Apollo (1653) ne faceva una regola di comportamento, perché se alla «narrazione di cose vere» non si fosse mescolato «un poco di adulazione, essendo di necessità concederne», non si sarebbe trovato alcuno «scrittore il quale potesse impiegarsi in tale maniera senza pericolo», e si sarebbe dovuto «concludere che fino a questo tempo non sieno mai state scritte storie». Tuttavia, Famiano Strada affermava, bensì, che il tono cortigiano di quella storiografia era dovuto al fatto che «a’ tempi nostri è già quasi perduta la libertà del dire», ma non esitava ad aggiungere che di questa condizione limitativa avevano «colpa per lo più» gli stessi «scrittori di storie», che adducevano «per iscudo della propria ambizione l’offesa de’ principi», sicché, «incolpando i tempi e i costumi», definivano «l’adulazione usanza d’oggidì» (cit. in C. Iannaco, Il Seicento, cit., p. 704). Una trahison des clercs, dunque, che si mascherava da atteggiamento forzato per le condizioni del tempo, ma accettato e praticato al di là di quanto quelle condizioni imponevano, come esplicita manifestazione di un servilismo allora diventato, si diceva, costume.
D’onde la legittima conclusione che, per quanto siffatte impressioni e giudizi di questi e di altri contemporanei potessero essere aduggiati da particolari ragioni personali, il loro ricorrere è talmente costante e uniforme da acquisire per ciò stesso il valore di un’attendibile indicazione storica.
L’impoverimento del suo orizzonte storiografico non significò affatto una riduzione del prestigio della storiografia italiana in Europa. Si determinò una condizione singolare. Si configurò e prese sempre più corpo il distacco dell’Italia dal gruppo di testa dei Paesi europei e apparve sempre più evidente il suo arretramento culturale. Non è più in questo Paese abitato una volta da semidei – diceva il poeta francese Jean Regnault de Ségrais – che ora on trouve la haute science: / malgré son triste aveuglement, / la présomptueuse Ignorance / y triomphe superbement. L’aveuglement italiano consisteva nell’incapacità di scorgere il dato di fatto del proprio arretramento anche culturale, e la fatale conseguenza era che nel Paese regnava un’ignoranza, rispetto agli avanzamenti europei, coperta solo dalla mal riposta presunzione di trovarsi ancora nel precedente stato di superiorità. In effetti, nel corso del 17° sec. erano sempre più gli italiani a doversi recare all’estero per i loro studi anziché gli stranieri a dover venire a tale scopo in Italia.
Persisteva, tuttavia, la convinzione della grande e superiore capacità degli italiani nelle cose dell’arte e della cultura. A lungo l’Italia e gli italiani, pur arretrando, non divennero, come poi avvenne, ‘provinciali’. Roma e Venezia restarono due grandi centri di contatti e di informazioni che riguardavano tutta l’Europa, e per Venezia anche il Mediterraneo ottomano. E l’Europa aveva bisogno degli italiani «che possedevano studi e conoscenza e versatilità, e sapevano vedere e intendere, e dire e scrivere quello che avevano visto e inteso» (B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, a cura di G. Galasso, 1993, p. 136); e perciò proseguì l’‘emigrazione intellettuale’ dall’Italia verso la restante Europa che aveva già caratterizzato il periodo precedente, ma che tra il 16° e il 17° sec., anche per il contemporaneo declino italiano, si venne evolvendo in una ‘fuga dei cervelli’ dalla penisola, che non offriva più le ampie prospettive dell’ancora recente passato, laddove altri Paesi europei si volgevano e si avviavano a un ben diverso avvenire e a buon diritto potevano apparire come i luoghi del prossimo futuro europeo.
Non si contarono allora le opere dedicate da autori italiani ai vari Paesi europei. Oltre una metà di quella ottantina di opere che il Croce elencò come testi indicativi della storiografia della sua «età barocca in Italia» (Storia dell’età barocca, cit., pp. 137-43) è, per l’appunto, dedicata a temi che concernono non solo l’Europa, ma anche il mondo ottomano e, in qualche caso, quello americano. Molti di questi autori avevano composto le loro opere su commissione di sovrani o altri eminenti stranieri. Vittorio Siri ottenne la nomina a storiografo ufficiale del re di Francia e, come lui, anche altri si videro riconosciuti incarichi o commissioni di un certo prestigio, trovando altrove quella materia storica degna di essere narrata e storicizzata, alla quale in Italia, come si è visto, si riteneva che le condizioni politiche del Paese non dessero luogo.
Erano, però, gli splendori autunnali di un grande ciclo. Nella realtà la condizione culturale italiana si faceva davvero sempre più provinciale, e di ciò e dell’intervenuto distacco dall’Europa – malgrado le numerose percezioni che di ciò vi furono e di cui abbiamo dato qualche esemplificazione – solo dopo qualche tempo si sarebbe presa piena coscienza. E una conferma singolare, ma non meno significativa se ne può vedere anche nella discussione sugli antichi e i moderni, che andò via via sviluppandosi nel corso del 17° secolo.
Una discussione importante: sanciva, infatti, la crisi del presupposto umanistico di una perfezione esemplare degli antichi, da doversi imitare, ma da non potersi superare, anche perché la perfezione degli antichi era, a sua volta, fondata sull’imitazione della natura, madre di ogni perfezione. In Italia la si iniziò tempestivamente. È già del primo decennio del secolo il Paragone tra il valore degli antichi e dei moderni, poi pubblicato postumo nel 1628, del genovese Vincenzo Gramigna, partigiano dei moderni, che contemplava, attraverso un ‘occhiale’ galileiano, scienza, musica, lettere, arti, filosofia, ed esprimeva, sia pure senza particolare chiarezza e vigore, la crisi di passaggio dalle misure rinascimentali a quelle dell’epoca successiva. Vigore e chiarezza senz’altro maggiori si ritrovano, invece, in Alessandro Tassoni che, nel Paragone degli ingegni antichi e moderni (1620), sostiene ugualmente la superiorità dei moderni negli stessi e altri campi (politica, milizia, agricoltura, vesti) e, in pratica, in ogni settore dell’attività umana. E con il Gramigna e il Tassoni anche altri svolsero in Italia questo tema, in generale sostenendo la superiorità dei moderni o, almeno, mettendo in discussione la superiorità degli antichi.
Non si può dire, però, che la tempestività della discussione italiana e la prevalente modernità delle vedute in essa manifestate ricevessero una corrispondente eco in Europa. Fu solo quando il tema divenne di grande attualità in Francia con la querelle des anciens et des modernes al tempo di Luigi XIV che la questione prese un rilievo europeo che non aveva avuto fino allora: una misura evidente della diversità di effetti che ormai separava le iniziative italiane da quelle transalpine. La polemica che insorse ai primi del 18° sec. fra Gian Giuseppe Orsi e il gesuita francese Dominique Bouhours, che aveva esaltato la regolarità e l’uniformità del francese rispetto alle opposte e negative qualità attribuite all’italiano, significava che non più solo di antichi si trattava, ma anche, come da un bel po’ già accadeva, di una nuova e già consolidata gerarchia culturale europea, nella quale il posto dell’Italia non era più quello di prima. E ciò malgrado il fatto che le vedute esposte dagli italiani conservassero o presentassero pregi di originalità e di modernità, diversi magari, ma spesso non inferiori a quelli dei contraddittori (come, per es., accadeva nella citata polemica Orsi-Bouhours, per il rilievo dato dal primo alla distinzione stilistica e funzionale tra il linguaggio della poesia e quello della prosa).
Paolo Sarpi fu indubbiamente in questo periodo il maggiore storico italiano, oltre che una personalità di rilievo anche al di là dei confini italiani. Nessuno dei suoi contemporanei italiani, pur degni di nota (Arrigo Caterino Davila, Guido Bentivoglio, Giovan Battista Adriani e così via), regge al confronto; e così pure la storiografia gesuitica con Scipione Maffei, Nicola Orlandini, Famiano Strada, che, tra l’altro, è anch’essa da considerare, stricto sensu, più nei termini di storiografia ecclesiastica che di storiografia italiana. La Storia del Concilio di Trento nasceva, in effetti, nel Sarpi non da un’iniziativa curiale o ecclesiastica, ma nel vivo e nel caldo di un’esperienza fra quelle più caratteristicamente italiane, da qualsiasi punto di vista la si consideri, quale di certo è quella veneziana. Ed è tanto forte questa radice dell’opera che essa si riflette anche sull’Istoria del Concilio di Trento del padre gesuita e poi cardinale Pietro Sforza Pallavicino, apparsa nel 1656-1657, che, proprio perché in diretta polemica con il Sarpi, e per quanto di iniziativa curiale e pontificia (l’autore fu sollecitato da papa Innocenzo X e dal generale dei gesuiti Goswin Nickel), s’inserisce anch’essa nell’alveo del dibattito storiografico più propriamente italiano.
La Storia del Sarpi era apparsa a Londra nel 1619, sotto il nome di Pietro Soave Polano, per iniziativa di George Abbott, arcivescovo di Canterbury, che fece trascrivere il manoscritto, di cui si era diffusa la fama, circolante inedito a Venezia e affidò la cura della pubblicazione a quella singolare figura che fu Marcantonio De Dominis, ma certo non all’insaputa o contro il volere dell’autore. L’opera fu subito tradotta in varie lingue. E già l’uso di uno pseudonimo (per quanto abbastanza trasparente: Paolo Sarpi, veneto) e la pubblicazione all’estero dicono molto sulla condizione morale e politico-culturale dell’Italia di allora. A sua volta il fatto che si sentisse a Roma il bisogno di una contestazione organica dell’opera indica quanto e quale effetto essa avesse avuto nell’opinione europea.
La contestazione, appoggiata anche a una documentazione cui il Sarpi non poteva accedere, fu abile, puntando su tre punti essenziali della sua opera: la responsabilità della mancata estensione del Concilio ai protestanti, addebitata dal Sarpi ai cattolici; il valore riformatore del Concilio, giudicato dal Sarpi inessenziale; e la preoccupazione assorbente di salvaguardare il potere papale, che il Sarpi vedeva imposta a danno dei poteri dei vescovi e del Concilio. In realtà, dietro questi punti eminenti la Storia del Sarpi sviluppava un pensiero più complesso, in rispondenza a quei motivi etici e religiosi che lo fecero, e spesso lo fanno, ritenere un semiprotestante, se non di più. Il suo sincero cattolicesimo non sembra, invece, da porsi in discussione, né la Storia è un attacco al cattolicesimo. Si trattava, però, di un cattolicesimo che, a parte i motivi cui si è accennato, contemplava una critica profonda della monarchia papale, e soprattutto per il peso, negativo, che si attribuiva a tale monarchia sia sulla purezza della fede cristiana, sia, e ancor più, sulla prassi della vita religiosa e civile. Il titolo completo, dovuto al De Dominis, della prima edizione londinese, traduce abbastanza chiaramente tutto ciò: Istoria del Concilio tridentino, nella quale si scoprono tutti gli artifici della corte di Roma per impedire che né la verità dei dogmi si palesasse, né la riforma del papato e della Chiesa si trattasse. Impossibile, perciò, a nostro avviso, non riconoscere che, accanto all’attacco alla curia romana e al papato, una delle radici fondamentali dell’opera vada vista nella contrapposizione giurisdizionalistica tra Venezia e Roma, che era un’esperienza quotidiana della vita civile in tutti gli Stati italiani. Non per nulla il Sarpi era stato nominato canonista e teologo della Serenissima e aveva adempiuto a tale nomina in occasione dell’interdetto inflitto da Paolo V a Venezia e con i trattati sull’immunità delle chiese e sulle materie beneficiarie.
La contestazione del Pallavicino, pur serrata e spesso ben documentata, si muoveva su altro terreno, ma la preoccupazione della Chiesa e dei gesuiti nel promuoverla era certamente dovuta, oltre che ai noti e più generali motivi dottrinari, anche alle implicazioni giurisdizionalistiche dell’opera, che toccavano la posizione ecclesiastica nella società civile; ed è anche per questo che abbiamo accennato all’appartenenza dell’Istoria del padre gesuita alla storiografia italiana, al di là delle ragioni che la legano per tanti versi e organicamente alla storiografia ecclesiastica.
Nel confronto sul piano più strettamente storiografico i vantaggi che il Pallavicino ebbe nell’avvalersi di un’ampia documentazione specifica e che gli permisero di correggere su vari punti il Sarpi (che, tuttavia, con ciò che aveva a disposizione fu di una sostanziale e spesso sorprendente attendibilità) sono, alla fine, insignificanti rispetto al vigore storico e alla profondità di ispirazione e di penetrazione che fanno della Storia del Sarpi un testo fra i più importanti non solo della storiografia del suo tempo e gli conferiscono un duraturo valore di lettura del tema trattato e un altrettanto duraturo vigore di suggestione non solo culturale. Valore e vigore per i quali non è indebito considerare il Sarpi nel proprio tempo come quello che il Guicciardini fu nel tempo suo. E tanto più in quanto perfino l’erudizione risentì di quello «scadimento» non solo «di tipo etico», ma anche «intellettuale e culturale», e «spesso anche stilistico e letterario» (D. Cantimori, Le idee religiose del Cinquecento. La storiografia, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi, N. Sapegno, Il Seicento, 19882, p. 60), che si nota nella storiografia italiana tra il 16° e il 17° secolo.
La frivolezza dell’erudizione, in effetti, si può rilevare in molti periodi della storia delle idee, o forse addirittura sempre. Prende però rilievo storico quando non vi si contrappone una ben più solida pratica erudita, e ciò sembra appunto accadere nel corso del 17° sec., nel quadro di una cultura della quale il Don Ferrante manzoniano, in via generale, può essere un buon punto di riferimento. Alla fine del secolo si sarebbe ripreso da questo punto di vista un rinnovato rapporto con gli avanzati studi filologici dei due secoli precedenti, ripubblicandone anche testi ritenuti al riguardo – ed è significativo – importanti, come fu, per es., nel 1691 per il lavoro del Sigonio sugli storici di Roma dalle origini a Carlomagno. Anche in questo campo si sarebbe, quindi, dovuto ripartire da altre basi.
A conferma dello ‘scadimento’ di cui si è detto viene pure, fra l’altro, ricordato il ‘tacitismo’, ossia, per dirla molto cursoriamente, l’uso dei testi di Tacito come sostituti di quelli dell’aborrito e condannatissimo Machiavelli nell’illustrare l’arte di governo, riassunta principalmente nell’idea di ‘ragion di Stato’. Una sorta, insomma, di occulto machiavellismo. Il tacitismo non era, così inteso, solo un dato che confermava i limiti intrinseci della vita civile per effetto dei condizionamenti politici e confessionali fra i quali ci si muoveva. Quei limiti intrinseci che spingevano Torquato Accetto a un’elaborazione Della dissimulazione onesta (1641) come regola di vita, che non era banale menzogna e mascheramento del proprio essere per paura o per interesse, ma era avveduta cautela nel condursi in un mondo corrotto e cattivo senza tradire se stessi, né il principio del bene. Che, a ben vedere, sul piano privato e individuale era una precettistica analoga a quella che sul piano politico e pubblico si credeva di poter o dover dedurre da Tacito o da Machiavelli e, per lui, da Tacito, il quale, per la verità non fu considerato solo come un alter ego del fiorentino, ma venne vagheggiato e studiato come maestro, di per se stesso, dell’arte di governo, non inquinato dall’immoralismo addebitato al Machiavelli.
Il tacitismo presentava, inoltre, al tempo stesso, un altro aspetto di grande interesse storico, e cioè la riduzione del pensiero politico a una casistica dell’‘arte di governo’ come, appunto, ispirata da quel che era indicato come ragion di Stato. L’insistenza su questo tema dei numerosissimi che ne trattarono in Italia trovò la sua espressione di maggiore livello in Giovanni Botero (Della ragion di Stato, 1589), autore, peraltro, di un trattato Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588) e di Relazioni universali (1591), che ottennero ampia eco e che introducevano la geografia e la considerazione delle sue implicazioni antropiche tra le discipline indispensabili alla considerazione di ogni sviluppo storico-sociale.
Difficile è, però, vedere nei trattatisti della ragion di Stato uno svolgimento effettivo di pensiero politico al di là del piano storico-precettistico (Tacito o Machiavelli o altro che sia il loro riferimento); e diremmo che più ancora appare difficile convenire che in essi si delinei la via di un superamento del conflitto fra morale e politica arrivando a non considerare la politica come qualcosa di essenzialmente negativo e chiuso alla morale, bensì «come alcunché di positivo, da distinguere dalla morale, ma da porre con questa in un determinato rapporto» (B. Croce, che cita al riguardo Ludovico Zuccolo, in Storia dell’età barocca, cit., pp. 124 e 127-33). La sensazione che la traduzione tacitista del machiavellismo forniva sul piano morale, più ancora che sul piano etico-politico, era quella di una umanità e di una vita pubblica e privata viste alla luce di tutto ciò che di deteriore, di torbido e di altra analoga connotazione s’intendeva per machiavellismo. Donde anche l’assenza non solo di qualsiasi idealità o generosità o slancio di pensiero e di azione, ma anche di un qualsiasi lume di speranza e di diversa e maggiore umanità. Dunque, un pessimismo che ha un suo senso particolare per la definizione della condizione morale e psicologica che fu quella dell’Italia di allora, e che rende più pregnante la dichiarata assenza di ‘materia di storia’ in un tale Paese.
Il livello del pensiero politico italiano di allora non fu, insomma, più alto di quello della storiografia, fatto sempre salvo tutto ciò che di buono e di importante, di peregrino e di nuovo qui e lì si ritrova anche in questi scrittori, e specialmente in alcuni di essi di più forte personalità, e non di rado anche in quelli che sembrerebbero più aduggiati da preoccupazioni confessionali o da risaputo servilismo. Dal che è giocoforza, però, dedurre che, se quel buono va rintracciato con una specifica ricerca di luoghi e di particolari, questa è precisamente la conferma dell’assenza di un’organica corrente e di una vera e propria fioritura di una certa qualità storiografica. E che è possibile costruire un’interessante antologia di pagine vive e felici, ma non già una biblioteca, piccola o grande non ha importanza, di autori del livello del Sarpi, significativa di un’epoca di effettivo e generale avanzamento storiografico.
Un indizio indiretto di ciò è anche il fatto che, mentre si ponevano per chi svolgeva attività di storico i problemi che si sono accennati, si sviluppava pure una precettistica sul modo di scrivere la storia.
Questa precettistica non è più quella prevalentemente letteraria e retorica in auge nel periodo umanistico, quando non molti scrittori si occupavano della storia come genere letterario, quasi in rispondenza a un’analoga scarsezza nell’antichità classica, allora modello indiscusso anche della tipologia letteraria, per cui si riluttava a definire generi letterari quelli non familiari alla tradizione antica. Ciò non vuol dire che Umanesimo e Rinascimento non avessero un interesse diretto alla storia. Fu giustamente notato dal Garin che la differenziazione colta ed elaborata tra passato e presente, che permetteva anche di parlare di un ritorno delle lettere e delle arti al passato, presupponeva una coscienza, ma anche un’esigenza storica. Ancor più, è lecito affermare che certamente non mancava negli umanisti il senso della storia, anche se presso di loro non si può dire che si possa ritrovare una vera e propria problematica di teoria e metodologia della storia, attinente alla gnoseologia a essa propria, al suo valore, al suo ruolo fra le altre branche e figure dell’attività culturale, pur se episodi ed espressioni di qualche rilievo anche da questo punto di vista certamente non mancarono. Fu, piuttosto, la ricerca di un innovativo genere letterario basato sulla storia – sia pure come genus oratorium maxime – l’aspetto più importante nella storia della cultura e della coscienza culturale umanistico-rinascimentale. È giusto, perciò, ritenere che a opera di storici e di non storici (letterati, filosofi, artisti ecc.) si sia così già avviato il moderno dibattito teorico intorno alla storia, che avrà poi ben più alti e robusti svolgimenti, anche filosofici.
La precettistica della seconda metà del 16° sec. è già su un piano diverso. Solo in parte ciò è dovuto al fatto che, come in ogni altro campo, si affermò allora una forte preoccupazione di stabilire e osservare un’ortodossia analoga a quella vigente in tutta la cultura del tempo. In effetti, mentre continuava la tradizione della storia come genere letterario, con tutti i connessi problemi di retorica e di stile, l’attenzione si andò concentrando sempre di più su questioni più di fondo. La distinzione aristotelica fra scienze dei fatti (storia) e scienze delle cause (filosofia) cominciò ad apparire insoddisfacente. Ci si mosse, più o meno consapevolmente, verso la rivendicazione dello spazio problematico delle cause alla storia, con una riluttanza crescente a lasciare i problemi delle cause ai filosofi.
Si manifestava in tal modo anche un’opposizione all’aristotelismo, ma soprattutto si delineava un’idea della storia non più soltanto come genere letterario, bensì come campo disciplinare a sé, con un proprio statuto di ricerca e di elaborazione e sistemazione conoscitiva. Quest’idea rimase, però, un’aspirazione limitata pur sempre a una classificazione dei saperi e a una teorica delle scritture, non riuscendo a toccare il piano sul quale il problema della storia esce dai limiti delle trattazioni del come si debba scrivere la storia, e rinunziando parimenti all’ambizione di disegnare in anticipo il cammino della storia secondo un piano preordinato di svolgimento, come, per es., nella teoria della successione degli imperi. Diventa, invece, un problema filosofico che porterà in ultimo a delineare una ‘ragione storica’ come sintesi di ragion pura e ragion pratica e costituirà, in seguito, il problema dello storicismo.
Di questi sviluppi la maggiore anticipazione fra 16° e 17° sec. è senz’altro da vedere in Jean Bodin. Essenziale è, però, anche la parte degli italiani, sia per il contributo dato, specialmente con Francesco Robortello, alla piena maturazione della posizione aristotelica in materia, ossia alla visione della storia come articolazione della retorica, destinata alla narrazione delle res gestae più rilevanti sul piano pubblico; per quello dato con Francesco Patrizi a una delle più ragionate e importanti esclusioni della storia dal campo della retorica, che porta a sottolineare la rilevanza filosofica della storia e il suo ruolo sia politico sia per la formazione morale; e con Agostino Mascardi (Dell’arte historica Trattati V, Roma 1636, 16462) al rapporto fra storiografia e altre discipline, per cui si riprendono, con minore polso teorico, ma con spunti originali, i problemi sollevati dal Patrizi.
Con il Mascardi siamo, peraltro, ormai a un epigono. L’ars historica come intesa pressappoco fino a lui scompare, in pratica, dalle materie di attualità culturale. Il rilievo della storiografia sia come problema tecnico-metodologico di ricerca e di fonti sia come problema filosofico rinascerà, su altre basi, nella seconda metà del 17° sec.; e anche allora il contributo italiano non solo fu rilevante, ma toccò l’eccellenza per l’uno aspetto con il Muratori e, soprattutto, per l’altro con il Vico.
Una veduta storiografica ormai consolidata anticipa allo scorcio del 17° sec. quel rinnovamento italiano che un tempo appariva avviato solo dalla metà, più o meno, del 18° secolo. Ne fanno fede vari elementi e, innanzitutto, la presa di coscienza, che allora maturò, dell’arretramento della cultura e della vita intellettuale italiana in Europa. Il Muratori (Le riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, 1708) datava più o meno al 1670 quel rinnovamento, e affermava senz’altro che in quel secolo l’Italia «lasciò rapirsi, non già le lettere, ma il bel pregio della preminenza in alcune parti delle lettere, e trascuratamente permise che altre nazioni più fortunate, certo non più ingegnose, le andassero avanti sul sentiero della gloria, che ella aveva dianzi insegnato ad altri» (cit. in B. Croce, Storia dell’età barocca, cit., p. 277).
Questa constatazione muratoriana sarebbe diventata la tesi canonica della storiografia italiana posteriore, e non solo per ‘le lettere’, ma per tutto il campo della vita civile. E, certo, gli studi storici italiani cominciarono a far notare con l’inoltrarsi del 18° sec. una nuova vivacità, che li andò via via allineando alle esigenze intanto maturate nella storiografia moderna specialmente nei Paesi allora in Europa più dinamici, e già nei decenni centrali del 17° secolo.
La storiografia imboccò, infatti, «proprio in questi decenni la via che doveva costituire il fatto nuovo, il fenomeno più notevole del suo sviluppo» in quel secolo, ossia l’erudizione (A. Tenenti, La storiografia in Europa, in Nuove questioni di storia moderna, 2° vol., 1964, p. 1032). Ciò può suonare perfino paradossale. Certamente il reperimento di documenti antichi, la collazione di manoscritti di varia epoca, le raccolte di fonti, la filologia del testo, le convenzioni ecdotiche non potevano costituire di per sé la fisionomia e il corpo di una nuova storiografia. Non erano neppure una novità assoluta, perché ci si muoveva su una strada aperta già nella stagione umanistica e sollecitata ulteriormente anche dalle grandi querelles religiose relative alla storia ecclesiastica, che furono sostenute da parte sia cattolica sia protestante. Sopravvenivano, però, nell’ormai compiuto esaurimento della spinta umanistica e nella stanchezza per gli inconciliabili contrasti e lotte di religione.
La vera novità dell’erudizione secentesca era nella sua impostazione ‘scientifica’ non più intesa come particolarità disciplinare nel campo delle humanae litterae, bensì come un’esigenza più generale di attendibilità fattuale e testuale della materia trattata.
Per questa sua indubbia esigenza il momento della sistemazione tecnica e metodologica delle discipline storiche filologico-erudite è stato apparentato a quello dell’analoga sistemazione che connota la nascita della scienza moderna fra 16° e 17° secolo. L’accostamento è stato giustamente respinto e limitato al profilo di non più che un’analogia. E, tuttavia, qualcosa di esso merita attenzione, nel senso che il rigore delle procedure euristiche e critiche che ora vengono stabilite in forma sempre più sistematica, e in modo tale da determinare una ortodossia europea da osservare e praticare in modo uniforme e concorde, è pur sempre – anche se quell’obiettivo di uniformità e concordia non viene del tutto conseguito, e tanto meno lo si consegue allo stesso modo che nel campo delle scienze fisico-matematiche e naturali – un’affermazione della modernità, che impone nuovi atteggiamenti e nuove regole in tutti i campi della vita intellettuale. Non è, in fondo, senza significato, da questo punto di vista, che l’Italia, pur in quel distacco dall’Europa di cui si è detto, sia nel campo scientifico sia nel campo dell’erudizione, sia tra i Paesi europei che partecipano con un proprio specifico e originale contributo tanto, con Galilei e la sua scuola, alla ‘rivoluzione scientifica’ quanto, con il Muratori, alla nuova erudizione.
In realtà, anche prima che con il Muratori l’erudizione italiana si era andata volgendo alle nuove esigenze del sapere storico. Ferdinando Ughelli aveva già collaborato alla prosecuzione e annotazione delle vite dei pontefici e dei cardinali pubblicate dallo spagnolo Alonso Chacón, che giunsero così fino al pontificato di Clemente IX (1667-69). La sua idea di costruire una serie completa dei vescovi delle diocesi italiane lo portò alla pubblicazione dell’Italia sacra, edita in 9 volumi in folio a Roma tra il 1642 e il 1648: un’opera rimasta poi fondamentale, e sul modello della quale il cardinale Mazzarino suggerì al Sammartano di compilare la Gallia sacra, edita nel 1656. Ancora agli inizi del 20° sec., nel 1911, il Fueter poteva scrivere che il non essersi «scritta, ad imitazione della Gallia christiana e dell’Italia sacra, anche una Germania sacra […] è una deficienza di cui ancor oggi soffrono gli studi dedicati al medio evo tedesco» (Storia della storiografia moderna, cit., p. 423): un giudizio autorevole ed eloquente che dà bene, in retrospettiva, il senso dell’importanza dell’opera dell’Ughelli, nonostante le vistose deficienze e gli errori che le ricerche posteriori vi hanno riscontrato.
In tutt’altra sfera ci si trova con il Muratori. La sua dipendenza dal modello della storiografia ecclesiastica francese di padri maurini e bollandisti, con il riconoscimento di Jean Mabillon come suo «vero maestro» nulla toglie alla sua originalità e alla novità del suo spessore di studioso e di ricercatore e interprete dei testi da lui raccolti, per cui il Fueter giudica che egli sia «andato oltre il Mabillon e il Tillemont» nella critica delle fonti; che «non ebbe la spregiudicatezza storica del Maurino», ma «non ricorse mai, come solevano i più antichi eruditi, a mezzi disonesti»; che «in modo più completo ed in misura più ampia dei contemporanei tedeschi […] seppe render fecondo per la storia della sua patria il metodo dei Maurini» (pp. 409-10).
Riportiamo questi ormai vecchi giudizi del Fueter solo per mostrare quanto chiaramente sia emersa nella storiografia europea la grandezza del Muratori quale originale interprete di quelle esigenze di fondo dell’erudizione del 17° sec. di cui si è già detto come matrici della nuova filologia storica. Ma il rilievo del Muratori non è dovuto soltanto a questi aspetti, pur fondamentali, della metodologia e delle tecniche di ricerca. In nessun momento egli pensò il suo lavoro come configurato solo su questo piano. Sempre egli portò nei suoi lavori storici uno spirito particolare, che si espresse anche negli intensi rapporti da lui mantenuti con i dotti del suo tempo, in Italia e fuori d’Italia, fra i quali figure come Gottfried Wilhelm von Leibniz; e sempre ugualmente portò nei suoi lavori uno spirito di equilibrio e di moderazione che non gli impediva di nutrire né ansie e pensieri di rinnovamento, né prese di posizione decise su problemi che andavano ben al di là del campo storico.
Queste doti egli mise già in mostra nel sostenere le ragioni dei duchi di Modena, per i quali lavorava, contro le pretese pontificie sia sulle Valli di Comacchio, sia sui diritti degli Este sulla città di Ferrara, a essi sottratta da Roma nel 1598. Ne derivarono le Antichità estensi: due volumi, pubblicati l’uno nel 1717 e l’altro nel 1740, in cui, oltre a una piena prova del suo metodo di lavoro, si ritrova pure la già formata idea dell’importanza del Medioevo come epoca storica, contro la trascuratezza e la cattiva fama da cui era circondato nella tradizione umanistica, come anche appariva ormai chiaro dai lavori a esso dedicati negli studi eruditi del tempo. Per l’Italia poi affiorava un’altra convinzione forte del Muratori, ossia il rilievo dei Longobardi nella storia della penisola e la necessità di non fermarsi alle note negative accumulate su di essi dalla tradizione storiografica pontificia ed ecclesiastica.
Da allora il Muratori avrebbe proceduto sulla stessa linea, pubblicando i ventotto volumi dei Rerum italicarum scriptores (1723-1751, ai quali si affiancarono i sei del Novus thesaurus veterum inscriptionum, 1739-1742). Gli Scriptores consistevano in una ricca serie di fonti narrative e documentarie sulla storia medievale dell’Italia dal 500 al 1500, che è rimasta poi l’insuperato fondamento degli studi in materia. Ancora alla fine del 19° sec. appariva opportuno curarne una riedizione critica, diretta da Giosue Carducci e da Vittorio Fiorini. Malgrado, infatti, alcune mende evidenti (alterazione della grafia latina medievale per conformarla all’uso umanistico, eccessiva fiducia nei testi forniti dal collaboratori e non tutti autentici e così via), il materiale raccolto dal Muratori costituisce una tale biblioteca storica da fornire da sola un indispensabile impianto della storia medievale italiana.
Il Muratori stesso lo comprovò con la pubblicazione delle Antiquitates Italicae Medii Aevi, in sei volumi (1738-1742), formati da sei dissertazioni, dedicate a illustrare usi, costumi, istituzioni civili ed ecclesiastiche, lettere e arti del popolo italiano; e, quindi, con i dodici volumi degli Annali d’Italia (1744-1749), in cui, com’egli stesso dichiarava, volle narrare la «storia civile d’Italia» dall’inizio dell’era cristiana fino al 1500, ma proseguendo poi fino al 1749. Gli Annali fornivano, peraltro, un tipo di narrazione in cui la ‘storia civile’ era strettamente limitata alla storia politica. Per questa ragione a essi si contrappongono spesso le Antiquitates, che certo sono un vero spaccato di storia sociale e culturale del Paese, anche se non condotto tutto fino al 1500 né con pari attenzione per tutte le regioni italiane, essendo più esteso sul periodo longobardo e più attento soprattutto all’area padana e toscana.
In realtà, la distinzione su queste basi tra un Muratori storiograficamente più avanzato e precorritore e un Muratori più tradizionalista e ancorato e fermo ai moduli annalistici della più elementare ‘storia prammatica’ di tipo umanistico è una distinzione di rilievo soltanto esteriore. Le grandi opere muratoriane furono concepite, in effetti, unitariamente e la diversa veste con cui esse si presentano (collezioni di testi, dissertazioni, narrazione cronachistica) non lede la loro unità genetica. Era sempre intorno allo stesso tema che l’autore ruotava e faceva ruotare i suoi interessi e la sua attività: il tema che aveva preso corpo nell’esercizio delle sue funzioni di bibliotecario a Milano e a Modena e aveva trovato spazio già nelle Antichità estensi e nei suoi scritti di polemica giurisdizionale antiromana al servizio degli Este. L’opzione tematica così delineatasi è stata copiosamente e originalmente perseguita su molti piani (epigrafia, araldica, diplomatica, istituzioni, reperimento ed edizione e critica di fonti narrative e documentarie, testimonianze artistiche e letterarie, questioni giuridiche, discussione in forma di dissertazione, narrazione cronachistica e così via). È, però, sempre lo stesso Muratori dietro ciascuna delle sue pagine, e la loro diversità di conduzione e di stesura non può farlo ignorare o sottovalutare.
La controprova è che il pensiero storico del Muratori emerge sostanzialmente unitario in tutte le sue opere: l’autonoma e specifica importanza del Medioevo come periodo della storia italiana ed europea, il rilievo dei Longobardi nella storia italiana e la loro relativa rivalutazione, le origini medievali della nobiltà italiana, la vita delle città italiane sempre notevole, il peso negativo del particolarismo politico nella penisola e delle rivalità fra gli Stati italiani, le rovinose lotte di partiti e di fazioni all’interno dei Comuni, un certo patriottismo italiano fatto di amore e di orgoglio per la storia della penisola e per le sue glorie civili e culturali. Vero è che questa serie di punti di vista, così come i molteplici piani dell’attività storiografica ed erudita, non trovarono in nessuna delle sue opere un centro unificante di osservazione e di trattazione: non trovarono, cioè, quella ispirazione trascinante e coinvolgente, quella sintesi organica e illuminante, che costituisce il vero e potente motore della grande storiografia. Ciò non basta, però, a far considerare il Muratori come un autore di poco rilievo dal punto di vista storiografico: non un vero storico, insomma. E, invece, anche negli Annali, la più criticata delle sue opere da tale punto di vista, il suo pensiero e la sua riflessione storica sono sempre vigili e attivi: basti pensare all’implicita valutazione positiva che vi si fa del pluralismo statale italiano e alla rappresentazione del periodo delle preponderanze straniere apertosi con il predominio della Spagna a metà del 16° sec. come un periodo di maggiore tranquillità politica e sociale nella storia del Paese.
Storico, dunque, certamente, e non trascurabile, il Muratori, anche se non dello stesso rilievo e della stessa forza di altri esponenti della storiografia italiana. E, peraltro, il suo ruolo italiano ed europeo va oltre queste graduazioni. Formidabile cultore di quelle che, con discutibile terminologia, si sogliono definire discipline ausiliarie della storia, grande rappresentante della cosiddetta storiografia erudita, il Muratori rimane un punto di svolta essenziale negli studi storici, e ciò anche al di là dei suoi meriti puramente storiografici, come, del resto, è stato affermato, e certo non per caso, anche per tutta la ‘storiografia erudita’ moderna. Nell’ambito, poi, dell’erudizione, la figura e l’opera del Muratori hanno un più specifico risalto, che è perfino superfluo sottolineare.
La fama del Muratori si diffuse con larghezza e rapidità, e i 14 volumi del suo epistolario (pubblicati a cura di Matteo Campori, 1901-1922) mostrano chiaramente sia la sua già ricordata frequenza e intensità di rapporti con il mondo intellettuale del suo tempo, sia, appunto, l’immediato affermarsi del suo nome nei campi di studio da lui coltivati (e che non furono solo quelli dell’erudizione, delle scienze ausiliarie della storia e della storia erudita). Non altrettanto si può dire per il Vico, che è l’altra, e ben maggiore, vetta del pensiero storico italiano tra il 17° e il 18° sec. e della sua eco europea.
L’attività propriamente storiografica del Vico fu esigua, limitata, com’è, alla biografia di Antonio Carafa e al racconto della cosiddetta congiura di Macchia a Napoli nel 1701. Per quanto entrambe le opere, più cospicua la prima, più esile la seconda, offrano vari motivi di interesse, non è, però, su questo metro che va misurato qui il suo ruolo italiano ed europeo. A tal fine è sul piano della concezione della storia che bisogna spostarsi. Concezione che in Vico solo nella parte meno interessante del suo pensiero si risolve in una filosofia della storia, imperniata sulla dottrina dei ‘corsi e ricorsi’ storici. Sul piano più geniale e creativo della riflessione vichiana, quella a cui il Vico perviene non è una filosofia della storia, bensì un’idea della storia come unico campo conoscitivo realmente aperto all’uomo e della storicità come dimensione essenziale – sia a parte obiecti sia a parte subiecti – di tale campo conoscitivo. Affermazione che trova una profonda giustificazione teorica nella tesi di principio logico-epistemologico del verum-factum che limita a ciò che si fa il campo delle conoscenze, sicché, da un lato, gli uomini possono conoscere bene la storia ‘perché’ e ‘in quanto’ sono essi a farla e, dall’altro, per lo stesso principio, possono conoscere solo la storia, non essendovi altri campi del fare umano.
Fondamentale è al riguardo la XIV «degnità» della Scienza nuova: «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che siano tali, indi tali e non altre nascono le cose». Dunque, non c’è una natura originaria e sempre uguale a se stessa. C’è una realtà storica che ha inizio nel tempo e in determinate forme; e perché tali forme siano uguali, occorrerebbe che siano uguali quelle condizioni di partenza. L’umanità stessa nasce e vive sulla base di questo principio. Da «sterminate antichità» essa si svolge in analogia con quelle che vediamo essere le fasi della vita degli individui. «Gli uomini – dice la «degnità» LIII della Scienza nuova – prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Di qui il succedersi nella storia degli uomini di un’età degli Dei, quindi di un’età degli Eroi, e, infine di un’età degli Uomini. Di qui il corso storico per cui le società umane esauriscono il potenziale di svolgimento che portano in sé. Insomma, un’umanità tutta senso e natura a poco a poco evolve, sperimentando le prime istituzioni sociali e sviluppando il quadro complesso delle società che conosciamo nella storia, e così pure l’insieme delle sue facoltà intellettuali e morali, e formando le civiltà e il patrimonio culturale che nella storia si susseguono.
Non un’‘età dell’oro’ è, dunque, all’origine dell’umanità, secondo tutti gli schemi storici prevalenti nella tradizione europea. I ‘secoli d’oro’ sono, semmai, formazioni storiche che si incontrano nella maturità delle culture e delle civiltà. E a questa luce il linguaggio, i miti, i riti, le credenze, le mentalità, i comportamenti sono altrettanti contrassegni dello sviluppo culturale e civile dell’umanità; sono il fondamento sul quale si formano le religioni, il diritto, le istituzioni politiche e sociali, i sistemi economici, le arti, le filosofie e le scienze; sono le tracce preziose quanto impreteribili del graduale arricchimento storico della razionalità umana e della sua consapevolezza logica; e sono anche il testimonio che l’uomo in atto o in potenza è sempre lo stesso uomo, e solo per ciò può recuperare la sua infanzia storica e seguire la storica maturazione delle grandi vette a cui nel corso della storia l’uomo si porta.
Le applicazioni storiche di questo ricchissimo e complesso canone di lettura della storia danno già in Vico un’idea della sua profonda e illuminante valenza storiografica: la questione omerica, la ‘barbarie ritornata’ del Medioevo, la ‘storia ideale eterna’ del feudalesimo, le origini di Roma. Ma si tratta di una piccola esemplificazione. Nel corso posteriore della storia delle idee quella valenza si sarebbe via via straordinariamente arricchita, e sarebbero emerse altre numerose implicazioni concettuali e metodologiche del pensiero di Vico (basti pensare, per es., all’estetica e alla questione della poesia come creativa espressione della condizione umana). Implicazioni così rilevanti da far passare in secondo piano le aporie, le incertezze, le incompletezze o le insufficienze di quel pensiero (come il rapporto tra Provvidenza e storia, il problema della decadenza di popoli e civiltà, la precisa natura dei «corsi e ricorsi» storici e se essa configuri oppure no una dottrina dell’«eterno ritorno»). E ciò spiega pure perché il nome e l’influenza di Vico siano andati in continuo crescendo e diano ancora luogo a riflessi e svolgimenti di primaria importanza.
Il 18° sec. vide esplicarsi a un ritmo crescente il rinnovamento italiano da quell’eclisse culturale nel quadro europeo di cui abbiamo visto la chiara presa di coscienza nel Muratori. Le vette segnate, per un verso dallo stesso Muratori e, per l’altro, e su un piano ben più alto, dal Vico non furono più toccate, ed è in quei due nomi che si può riconoscere una presenza italiana nella cultura europea del tempo di primario rilievo. Anche quel secolo fu, tuttavia, fervido per l’Italia di pensieri e di opere importanti anche sul piano storiografico.
Di questo fervore metteremmo in prima linea la formazione ormai completa dello schema interpretativo della storia italiana dal 16° sec. in poi e della ‘decadenza’ che essa presentava. L’Italia, maestra di civiltà all’Europa e suo primo Paese anche dal punto di vista economico e materiale, fucina di grandezza letteraria, artistica, filosofica e, in genere, culturale, era poi andata rapidamente perdendo questo primato innanzitutto e soprattutto per le rivalità degli italiani e per la loro imprevidenza, che aveva chiamato gli stranieri nella penisola provocandone l’emarginazione politica, economica e culturale. La Spagna e il suo malgoverno avevano accentuato la decadenza del Paese, che si era quindi trovato a dover intraprendere una sorta di ‘rincorsa all’Europa’, alla quale bisognava allinearsi, avendo perduto, dopo il proprio primato, anche il passo dei Paesi europei più avanzati. Per fortuna, con il recupero dell’indipendenza dinastica di Napoli e della Sicilia nel 1734 e con l’avvio sempre più spinto di una politica di riforme, l’Italia aveva cominciato a recuperare il terreno perduto, e le prospettive ne erano giudicate, verso la fine del secolo, molto rosee.
In questo quadro interferivano vari altri elementi. Il ruolo della Chiesa, per es., che alla luce delle dilaganti idee illuministiche appariva una parte non solo contraria all’interesse nazionale, ma oppressiva e spegnitrice delle energie italiane, con l’Inquisizione, i suoi roghi (Giordano Bruno), la damnatio della scienza moderna (Galileo Galilei), la censura e l’Indice dei libri proibiti, nonché con le pretese invadenti della giurisdizione ecclesiastica e con l’enorme patrimonio della ‘mano morta’ di proprietà fondiarie e di risorse che teneva nelle sue mani, con i numerosi privilegi di un clero sovrabbondante e parassitario e con privilegi di vario genere.
La critica ideologica, politico-sociale, riformatrice si trasferiva così largamente sul piano storico, e questo trasferimento non riguardava soltanto la Chiesa. Anche sul piano più generale della struttura assunta negli ultimi due secoli dalla società italiana vi fu un processo analogo di elaborazione critica. Persistenze feudali, privilegi giudiziari e fiscali di classe, vincoli alla libertà del commercio, privative e monopoli di vario genere, rigidità corporative nelle iniziative e nelle attività economiche, irrazionalità fiscali e metodi e sistemi di imposizione e di riscossione arretrati, ordinamenti giudiziari e legislazioni e normative che erano il regno di una clamorosa confusione, inefficienze e ristrettezze dei sistemi di istruzione e una serie di altre questioni occuparono allora il pensiero italiano con ricerche e riflessioni assai spesso di straordinario interesse.
Ne derivò una serie di pagine di storia italiana ripercorse ai fini di proposte e progetti di riforma che costituirono un patrimonio molto consistente di conoscenze storiche, in parte notevole destinate a restare alla base della storiografia posteriore e anche, ugualmente in parte notevole, a non essere sempre superate nelle ricostruzioni e nelle sistemazioni che davano. Quando, perciò, si parla di storiografia italiana del 18° sec., è indispensabile che grande attenzione sia riservata alla letteratura politica e riformatrice del secolo: come, certo, occorre fare un po’ per ogni periodo storico, ma per il 18° sec., in Italia e in Europa, è indispensabile in misura alquanto maggiore. E, se questa cura estensiva del campo dell’attenzione storiografica non vi fosse, non vi è alcun dubbio che l’intero quadro storiografico del tempo si restringerebbe alquanto.
Da notare è, inoltre, che la fioritura di studi di cui parliamo vide una presenza notevole in essa degli ecclesiastici, alcuni dei quali (in primis Muratori, ma anche Ughelli e altri) giocarono un ruolo di primissimo piano e, spesso, di decisa innovazione, non di rado anche in contrasto con i loro ambienti. Nello stesso tempo si attivò negli studi la nobiltà italiana, ben più in altri campi, invero, che nella storiografia, malgrado alcune presenze significative (per es. il Maffei). Il grande sviluppo che presero, dalla fine del 16° sec., le accademie, fino alla fondazione nel 1690 della maggiore fra tutte, ossia l’Arcadia, che ne assorbì una gran parte, e ancora oltre, fu un po’ la traduzione istituzionale del bisogno che così si manifestava di una socialità culturale o nuova o di nuovo modello. In quale rapporto era questo bisogno con le condizioni in cui il Paese si ritrovava dalla fine delle guerre d’Italia? In quale rapporto con quel processo di ripiegamento su se stesso definito correntemente come decadenza?
Le risposte possono essere molte. Quelle accademie erano in nettissima prevalenza letterarie; la produzione di versi e di prose accademiche nel senso peggiore del termine si moltiplicò a dismisura; i nomi stessi delle accademie che si formarono o riformarono in quel periodo erano per lo più incredibilmente capricciosi o stravaganti (attrassero perciò l’ironia di Salvator Rosa); l’irrilevanza nella vita pubblica quasi universale, e così pure la lontananza dalla vita reale della circostante società. Il bilancio sembrerebbe del tutto negativo. Eppure, a suo modo, la fioritura accademica di quel secolo indicava, sì, una reazione inadeguata e un po’ peregrina allo stesso bisogno al quale rispondeva, ma era, comunque, una risposta, conforme, oltre tutto, all’analoga fioritura accademica che si ebbe allora in tutta Europa, in gran parte sull’esempio e sul modello italiano: ulteriore, originale contributo della penisola alla civiltà europea, e contributo destinato a una vita lunga e per molti aspetti importante e positivo. Si aggiunga, per di più, che alcune delle accademie che cominciarono allora a fiorire furono dedicate a studi e ricerche scientifiche (come quella dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, degli Investiganti a Napoli) oppure a compiti filologici e linguistici di grande rilievo per l’identità e la coscienza italiane (come quella della Crusca a Firenze), nonché, in parte, senz’altro a materie erudite e storiche (come quella intorno al viceré Medinaceli a Napoli). Un retaggio positivo della fioritura accademica, detto in altri termini, non mancò, ed è noto che già la fondazione della stessa Arcadia fu per molto tempo considerata come un segno di risveglio italiano.
Può dirsi, perciò, che alla fine del 18° sec. la triade letteraria Parini-Alfieri-Monti – ossia un ecclesiastico, un nobile e un letterato che alla sua attività culturale doveva, secondo il modello umanistico, la propria fortuna – rappresenti davvero un condensato della fisionomia sociale che caratterizzò la cultura italiana per un paio di secoli e mezzo, tra la fine del 16° e la fine del 18° sec., e che riguarda, quindi, anche il mondo degli studi storici, con un mutamento significativo dell’analoga tipologia precedente, che meriterebbe uno studio a parte. Mutamento che corrisponde, in qualche modo, a quello delle accademie rispetto ai loro precedenti umanistici, sulla via della genesi delle società di cultura (tra cui quelle storiche) e della figura dell’intellettuale a partire dalla fine del 18° sec. in poi.
È questo il processo in cui si determina tutto il cammino che porta alla progressiva emersione della figura professionale dello storico quale si incontra sempre più frequentemente nella vita sociale e culturale, e che finisce con l’avere la sua personificazione più consueta e rappresentativa nel professore universitario di storia quale si venne configurando definitivamente nel 19° secolo. E sullo stesso cammino si sarebbe via via incontrata non solo la già accennata fioritura di società di promozione degli studi storici, ma anche la nascita delle riviste storiche, l’avvio di importanti collezioni di fonti storiche, l’istituzione di istituti e centri di studio nei vari campi della ricerca storica e vari altri elementi istituzionali e non istituzionali, pubblici e privati, che hanno dato alla storia come branca specifica dello scibile il rilievo che essa ha assunto nel panorama della cultura europea dei secoli 19° e 20°.
Di tutti questi sviluppi l’Italia è stata pienamente partecipe, anche se il ritmo e le forme di tale partecipazione sono variati di molto, e, per lo più, e fatte salvo quindi tutte le relative eccezioni, non l’hanno vista nella posizione di primato o di iniziativa nella quale aveva continuato ad apparire ancora per qualche tempo dopo la conclusione della grande stagione rinascimentale.
Il tempo di Muratori e di Vico (ultimi tre decenni del 17° e prima metà del 18° sec.) nel segnare, anche per la storiografia, l’avvio al rinnovamento di cui si è detto fu ricco di nomi e di opere che meritano almeno un ricordo.
Così è per vari momenti della storiografia erudita. Una figura a lungo dimenticata ma di un certo rilievo fu in questo campo il benedettino Benedetto (al secolo Bernardino) Bacchini, in rapporti con il Mabillon come il Muratori, e come quest’ultimo orientato a una revisione del tradizionale giudizio negativo sui Longobardi, autore di un De ecclesiasticae hierarchiae originibus (1703) ed editore del Liber pontificalis di Agnello Ravennate (1708), che gli valsero opposizioni e difficoltà da parte della censura.
A sua volta, Francesco Bianchini intraprese una Istoria universale provata con monumenti e figurata con simboli degli antichi, edita nel 1697, che giungeva solo fino agli Assiri, ma abbozzava un tentativo meritevole di storiografia a base archeologica. Un sostenitore del Mabillon fu pure Giusto Fontanini, che lo difese da ostilità e polemiche nelle sue Vindiciae antiquorum diplomatum (1705). A Marco Battaglini si devono una Istoria universale di tutti i Concili generali e particolari celebrati nella Chiesa (1686) e gli Annali del sacerdozio e dell’impero intorno all’intero secolo XVII di nostra salute (1701-1711), che attestano una duttile attenzione sia alla storia ecclesiastica che a quella profana. Guido Grandi scrisse la storia del suo ordine nelle Dissertationes camaldolenses (1707).
Ma questi sono solo alcuni dei nomi che poi per tutto il 18° sec. coltivarono studi analoghi e curarono edizioni di documenti e altre fonti, con esiti di larga eco, come accadde a Filippo Argelati, collaboratore del Muratori per i Rerum italicarum scriptores, cui si deve, fra l’altro, una Bibliotheca scriptorum mediolanensium (1745), che fu, invero, molto discussa, e che curò l’edizione delle opere di Carlo Sigonio: edizione significativa in quanto attestava l’interesse sempre vivo per i problemi di storia italiana nei quali, pur con i suoi limiti, il Sigonio si era distinto. Discutibile, ma imponente fu pure l’attività di ricercatori di testi e materiali di vario genere di Anton Francesco Gori con i suoi Museum Florentinum, Museum Etruscum e Thesaurus veterum diptychorum, pubblicati in parecchi volumi fra il 1731 e il 1759; di Giovanni Lami, di cui si ricordano le Deliciae eruditorum, i Memorabilia Italorum eruditione praestantium, i Sanctae Ecclesiae Florentinae monumenta e le Lezioni di antichità toscane, pubblicate nel trentennio 1736-1766; di Alessio Simmaco Mazzocchi, illustratore dei reperti ercolanesi nei Commentarii editi nel 1754-1755 e circondato da grande fama europea.
Molto facile sarebbe allungare di molto questa elencazione, che basta, però, a dare una idea della fervida attività che in questi e in altri affini campi di studi si ebbe nell’Italia del 18° sec., e della quale Scipione Maffei è certamente il nome più rappresentativo. La sua opera più importante, la Verona illustrata (1731-1732), è indubbiamente fra i maggiori conseguimenti dell’erudizione del suo tempo ed è rimasta anche in seguito un testo di sicuro interesse. Le sue tre parti rispondono a un disegno nuovo per la sua epoca. Di esse la prima, di maggiore solidità per impianto e svolgimento della materia, tratta della storia della città dalle origini a Carlomagno; la seconda tratta degli scrittori veronesi; la terza e la quarta sono una sorta di prontuario delle cose e degli edifici più notevoli della città.
Accanto all’opera maggiore, la fervida attività del Maffei si espresse in altri numerosi lavori. Ricordiamo qui soltanto il trattato De fabula equestris ordinis Constantiniani, che contestava l’istituzione dell’Ordine a opera di Costantino (1719, ma con la falsa data 1712); le Galliae antiquitates quaedam selectae, esposizione di reperti archeologici in Provenza (prima edizione a Parigi nel settembre 1733); il Primo abbozzo di una storia universale che può servire ad un giovanetto per introduzione, composto nella scia della già citata opera del Bianchini (1746); l’Istoria teologica delle dottrine e delle opinioni corse nei primi cinque secoli della Chiesa in proposito della divina grazia, del libero arbitrio e della predestinazione (1742), esposizione soprattutto delle dottrine agostiniane, valutate come conformi a quelle dei padri più antichi della Chiesa.
Un’attività molteplice, dunque, che nasceva anche da un’ampia esperienza europea (formatosi nelle migliori scuole gesuitiche della penisola, il Maffei militò nella guerra di successione spagnola al fianco del fratello, ufficiale nell’esercito bavarese, e fu per alcuni anni a Parigi, Londra, nei Paesi Bassi, in Belgio e in Germania). E, allo stesso tempo, un’attività tutt’altro che priva di implicazioni rilevanti anche al di là del piano storiografico, come si è notato per altri esponenti dell’erudizione del tempo, a cominciare dal Muratori, e come per il Maffei si vide per l’Istoria teologica, in aperta polemica con i giansenisti, ai quali si contestava di avvalersi a torto dell’autorità del grande Agostino quale fondamento e sostegno delle loro dottrine.
Nessun dubbio, comunque, è possibile sul posto eminente che in questo quadro dev’essere riconosciuto a Pietro Giannone. Non è un caso che Eleonora de Fonseca Pimentel, ristampandosi nel 1791 l’Istoria civile del Regno di Napoli (1723), la potesse definire tale da aver fatto dei Napoletani «quasi una nuova nazione». Indubbia è, infatti, l’efficacia dell’opera nel rivendicare la pienezza del potere, ancor più che l’autonomia, dello Stato rispetto alla Chiesa, nonché nel denunciare la serie storica delle usurpazioni attraverso le quali, nel corso dei secoli, la Chiesa aveva costruito e sviluppato la serie di privilegi e immunità che ne facevano insieme uno Stato nello Stato e un antistato. Il posteriore laicismo meridionale e italiano avrebbe avuto perciò nella Istoria un suo testo fondamentale di riferimento, ma questo non tocca l’importanza storiografica dell’opera.
Un’importanza – sia detto subito – che non è inficiata dal metodo di lavoro non ineccepibile dell’autore (uso delle fonti, citazioni, plagi ecc.), né dagli errori di fatto che specialmente la polemica ecclesiastica vi ravvisò, e tanto meno dalla irricevibile imputazione allo stesso autore di aver firmato un lavoro dovuto a molte mani. Un’importanza che si rifà innanzitutto alla originalità storiografica del criterio con il quale venne stabilito lo specifico tema dell’opera.
Essa, dice l’autore, «non sarà per assordare i leggitori collo strepito delle battaglie e col rumor delle armi»; e neppure vorrà dilettare il lettore con la descrizione della felice natura dei luoghi, né soffermarsi sulle antichità o sulla magnificenza dei luoghi e delle opere che vi sono stati realizzati. Il proposito dell’autore è altro: «sarà questa istoria tutta civile, e perciò […] tutta nuova».
Per i quindici secoli di storia del Mezzogiorno considerati si sarebbero raccontati «i varii stati ed i cambiamenti del suo governo civile sotto tanti principi che lo dominarono»; le variazioni registratesi «per la polizia ecclesiastica in esso introdotta, e per gli suoi regolamenti»; inoltre, «qual uso ed autorità ebbonvi le leggi romane durante l’imperio, e come poi dichinassero, [e] le loro obblivioni i ristoramenti e la varia fortuna delle tant’altre leggi introdotte da poi da varie nazioni»; e, infine, «l’accademie, i tribunali, i magistrati, i giureconsulti, le signorie, gli uffici, gli ordini», ossia, «in brieve, tutto ciò che alla forma del suo governo così politico e temporale come ecclesiastico e spiritual s’appartiene» (Istoria civile del Regno di Napoli, 1° vol., 1837, Introduzione, p. 11).
Una innovazione, dunque, ben consapevole della sua non piccola novità, che era nel proporre una storia di nuovo modello, definita storia civile, ma ricca, in questo aggettivo, di una problematica che abbracciava l’intera vita sociale. Si andava, infatti, oltre i canoni della storia prammatica, anche la più densa di motivi di interesse, e si faceva delle istituzioni, del diritto, della legislazione, degli ordinamenti politici e sociali, delle magistrature, della vita e degli istituti culturali, dei feudi, della pubblica amministrazione la materia amplissima e propria di quella nuova storia. Né sorprende che, in questo quadro, i rapporti e le interferenze tra Chiesa e Stato occupassero un luogo di prim’ordine. Sino alla fine dell’ancien régime, per non parlare del dopo, quei rapporti e interferenze avevano una tale portata sul piano della vita pubblica ed erano così pregiudiziali anche nella vita quotidiana privata da giustificare più che ampiamente il rilievo che il Giannone volle dare a questo tema. E volle dare anche perché ad animarlo (e a conferire spesso alla sua Istoria un andamento di vera e propria polemica) era il suo ideale filosofico, laico e razionalistico, che avrebbe trovato la sua massima espressione in un’opera rimasta a lungo inedita, e anch’essa ricca di sagace senso storico e di analisi illuminanti per la storia delle origini della potenza del papato, ossia Il Triregno.
Le molteplici implicazioni del pensiero e dell’opera storica giannoniana vanno, peraltro, seguite in dettaglio. Qui basterà osservare che quanto si è detto già consente appieno di ritenere l’Istoria civile «l’ultimo grande libro italiano che ebbe una accoglienza europea, e che formò scolari dappertutto, e taluni insigni» (B. Croce, La letteratura italiana del Settecento, 1949, p. 242).
Una menzione particolare dev’essere riservata, nella storia della storiografia italiana del 18° sec., al deciso approfondimento della storia di lettere e arti.
Per la storia letteraria le opere di Giacinto Gimma, di Giovan Mario Crescimbeni, di Francesco Saverio Quadrio, di Gian Maria Mazzucchelli formano una serie casuale, ma significativa della maturazione di un bisogno storiografico che è uno degli indizi maggiori di una nuova coscienza nazionale (come si può vedere, fra l’altro, nell’impulso che ebbe Pietro Verri a scrivere i Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia, che sono un nitido frutto di tale bisogno). Quelle opere, pur interessanti sul piano dell’erudizione e della raccolta di dati di fatto, non eccellono affatto, invece, per quanto riguarda la capacità di giungere a una rappresentazione di robusto senso storico, e obbediscono in generale a criteri di ordine retorico e convenzionale sia nell’ordinare e presentare sia nel giudicare la materia trattata, estesa spesso senza molto criterio dal punto di vista geografico e da quello cronologico. Si spiega così che finisca con il prevalervi una prassi classificatoria che, paradossalmente, si rivela, in molti casi o per alcuni aspetti, come la forma espositiva più conveniente a questo tipo di opere.
Queste caratteristiche valgono ugualmente per l’opera di gran lunga più importante in materia, ossia la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, apparsa fra il 1772 e il 1782 in prima e fra il 1787 e il 1794 in seconda edizione con aggiunte e correzioni, e subito oggetto di grande considerazione, e presto compendiata in francese e in tedesco, oltre che in italiano. Fama non immeritata, se si pone mente alla copia di dati e notizie raccolte dall’autore, rimaste poi sempre fondamentali e di assiduo riferimento negli studi di storia letteraria italiana. Per questo verso il Tiraboschi può davvero essere definito il Muratori della storiografia letteraria italiana, anche se non si può dire che si riscontri in lui quello spirito di grande coscienza, non solo culturale, che contraddistingue l’opera dell’autore delle Antiquitates Italicae, dei Rerum scriptores e degli Annali.
Può essere, in un certo senso, sorprendente che, mentre incontrava una crescente fortuna il pensiero del Vico, nel quale era certamente un concetto nuovo e superiore della poesia e della lingua, la considerazione prevalente della poesia e della letteratura continuasse a obbedire ai criteri retorici, classificatori, esteriori o puramente pragmatici che abbiamo notato negli autori sopra indicati. Al Croce ciò suggeriva l’osservazione che, quando un altro e più profondo concetto della poesia si affermò, ossia con l’inizio del 19° sec., «si richiese altresì una storia conforme e si manifestò l’insofferenza e la ribellione contro gli storici settecenteschi della poesia italiana, i Crescimbeni, i Quadrio e i Tiraboschi, per benemeriti che fossero come raccoglitori e ordinatori eruditi» (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 19642, pp. 275-76). Giudizio certamente fondato e da condividere, salvo che per l’importanza fondamentale da riconoscere a quella benemerenza, che non è limitata soltanto al campo della raccolta di dati e di notizie, né è tutta e sempre di natura erudita, perché non è affatto raro ritrovare nelle pagine di quegli autori giudizi e prospettive acute e illuminanti anche dal punto di vista dei posteriori e più profondi e sagaci criteri della storia letteraria.
Ancora di più certamente si può dire per quanto riguarda la storia delle arti figurative. Dopo il Vasari, dai trattati di Giovanni Paolo Lomazzo (1584 e 1590, il primo tradotto anche in inglese nel 1598) sino alla grande Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del secolo XVIII di Luigi Antonio Lanzi, pubblicata nel 1795-1796, si opera, in effetti, un’ampia sistemazione del panorama storico-artistico nazionale, di grande valore anche nel quadro europeo. In questa vicenda si delinea, si può dire, in maniera ancora più rilevata, la questione, a suo luogo già indicata, del rapporto tra la complessiva italianità dell’arte della penisola e il dominante protagonismo di ‘scuole’ e botteghe regionali e cittadine secondo le quali per antica tradizione sono in grandissima parte conosciute e classificate le opere d’arte italiane. Questa bipolarità, se non vera e propria antinomia, non era affatto superata neppure dalla grande opera del Lanzi, pendant – si può dire – di quella del Tiraboschi (dal quale il Lanzi fu incoraggiato) sulla letteratura.
Non era, però, soltanto questo punto a pesare sugli sforzi di ricerca e di sistemazione della storia dell’arte così come allora praticata. Più tardi sarebbe stato osservato che per la storia dell’arte – così come quella della letteratura nei termini sopra indicati a proposito del concetto di poesia – sarebbe stato auspicato che si scrivessero «non più storia degli artisti, ma dell’arte; non più serie di biografie o di ragguagli sulle ‘scuole’ regionali, ma studio delle opere in relazione al movimento della società e della civiltà; non più cronaca inanimata, ma racconto vivo guidato da un pensiero» (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 19642, pp. 275-76). Osservazione, ancora una volta, ineccepibile, ma ancora una volta da precisare, e in duplice senso.
Da un lato, infatti, un senso dell’italianità, un pensiero e un sentimento vivo dell’arte non mancavano nelle opere così criticate, ed era, anzi, questo senso, erano questo pensiero e questo sentimento a dare a esse la spontaneità e la serietà di intenti e di svolgimenti in cui si concretavano. Dall’altro lato, la loro intelaiatura, se così si vuol dire, erudita e fattuale non era un puro accessorio esteriore della storia a cui si mirava, poiché ne forniva un quadro referenziale di base, al quale non si sarebbe potuto mancare anche in seguito di rifarsi dai più vari punti di vista. E, infine, se è vero che da Johann Joachim Winckelmann ad Anton Raphael Mengs e a Joshua Reynolds e ad altri si diffonde tutto un nuovo pensiero estetico informato a un classicismo di nuovo modello, fortemente sollecitato anche dalle grandi scoperte archeologiche di quel tempo, non si può dire che già nell’opera del Lanzi questa novità non si riflettesse in nessun modo.
Nelle opere, poi, di Francesco Milizia il nuovo classicismo avrebbe avuto una traduzione tanto immediata e originale quanto apertamente dichiarata in una visione estesa dalla storia dell’architettura alla più complessa riflessione che trattava Dell’arte di vedere nelle belle arti del disegno secondo i principii di Sulzer e di Mengs (1781). Che era, evidentemente, una prova di reattività culturale, corrispondente alla generale ispirazione della cultura italiana del tempo, apertissima alle influenze e alle suggestioni della più avanzata Europa.
Il 18° sec. segnò anche un certo ritorno del pensiero politico italiano sulla scena europea. Se nella prima metà del secolo i segni di un interesse del pensiero giuridico e politico alle questioni di più stringente attualità nel pensiero europeo del tempo erano stati molteplici (si possono ricordare, oltre i nomi maggiori di un Muratori o di un Vico, quelli di vari autori, come, per es., per il Mezzogiorno, Gianvincenzo Gravina e Paolo Mattia Doria), non c’è dubbio che fu solo nella seconda metà del secolo che ci si avviò a un ampliamento e a un’intensificazione della riflessione italiana in materia tali da potersi davvero parlare di una nuova stagione culturale di significato e di eco non solo nazionale, e ciò in significativa coincidenza con l’accelerazione del pensiero illuministico in Europa negli anni a cavaliere del 1750.
La politica economica costruita da Ferdinando Galiani sul criterio della libertà del commercio dei grani (1770) e in relazione ai problemi della circolazione della moneta (1754) indicavano nel pensiero italiano una grande capacità di autonomia di riflessione e di proposta rispetto alle tendenze e agli andamenti del pensiero europeo del tempo, che perciò non mancò di notarla e di farne materia di propria riflessione.
Il maggiore successo italiano, e non solo di quel secolo, sul piano sia del pensiero politico sia del diritto e delle relative questioni procedurali fu, comunque, l’opuscolo di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (1764), che questo successo meritava ampiamente per la profondità delle sue vedute, fatte valere con una assai poco comune forza di sintesi, che colpivano al cuore pilastri dell’ordine costituito quali la pena di morte e la tortura. Non si trattava, infatti, di questioni di mera procedura giudiziaria o di semplice rapporto fra colpe e pene. Oltre la discussa e negata utilità concreta del sistema criticato e rifiutato, era, in effetti, in gioco la questione della dignità della persona e, con essa, quella del diritto a una giustizia giusta che presupponeva tutto un altro ordine di idee circa la struttura politica e sociale rispetto a quella vigente. L’eco destata dall’opuscolo del Beccaria è potuta apparire ad alcuni eccessiva in rapporto all’effettiva novità della tesi che vi era sostenuta o alla grande sinteticità con cui l’assunto era svolto. Ma chi rifletta sulla portata delle accennate implicazioni politiche e sociali dell’opuscolo non trova alcun eccesso nella straordinaria fama quasi fulmineamente conseguita dall’autore. Nella discussione sull’ancien régime sin nelle sue più radicate consuetudini di governo il Beccaria aveva segnato un punto di non ritorno su questioni e problemi fra i più interni alla logica di quel regime.
Una fama straordinaria toccò pure alla Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri (1780, e poi 1785 e 1791). In Francia quella fama avrebbe raggiunto una consistenza tale che per oltre mezzo secolo Filangieri rimase al centro dell’attualità in materia di scienze giuridiche, e il commento che Benjamin Constant scrisse alla sua opera a cinquant’anni circa dalla sua apparizione segnò la consacrazione di quello che molti consideravano il Montesquieu italiano. Per l’Italia era poi anche di più. Segnava un riscatto della libertà e modernità del pensiero rispetto ai vincoli dell’ordine vigente. A suo modo, Pietro Verri lo espresse perfettamente all’autore scrivendo che la sua opera era «una sacra espiazione all’ombra onorata dell’infelice Pietro Giannone» (cit. in Illuministi italiani, t. 5, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, 1962, p. 621).
Non si riduce, però, soltanto ai tre nomi maggiori la ripresa del pensiero politico italiano nel 18° secolo. Quello che più colpisce in esso è, anzi, proprio la generale diffusione di una sempre più e sempre meglio aggiornata riflessione degli italiani sui problemi discussi nel pensiero politico del loro tempo. Il livello dell’informazione cresce di molto, e dalla metà del 18° sec. in poi si può senz’altro dire che gli echi e il riflesso del pensiero europeo nella penisola sono immediati e mettono in moto ricezioni e reazioni, che non ottengono sempre, anzi ottengono alquanto meno frequentemente di quel che meriterebbero, un corrispondente riscontro europeo. Era la conseguenza ovvia di quel processo di ripiegamento postrinascimentale del Paese, al quale abbiamo già più volte accennato, e che non appare appieno superato neppure con la ripresa del 18° secolo. E, naturalmente, se gli echi europei si limitano soprattutto ad alcuni nomi eminenti, dal punto di vista nazionale, invece, già alquanto prima della metà del 18° sec., se non si vuole risalire, come sopra accennato, agli ultimi decenni del 17° sec., la discussione sui problemi del Paese tocca anche sul piano della riflessione politica livelli notevoli di consistenza e di qualità che sono uno dei sintomi più evidenti della maturazione di una nuova Italia.
La storiografia italiana della seconda metà del Settecento non conobbe opere di particolare rilievo. Saverio Bettinelli scrisse Del risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il Mille (datato 1773, ma 1775), che destò una notevole eco. Certamente apprezzabili sono sia la periodizzazione, che include appieno nella storia italiana la seconda metà del Medioevo, facendo tesoro della lezione muratoriana, sia l’accento posto sulle opere di civiltà (studi, lettere, arti, costumi sociali) anziché sulla storia politico-diplomatico-militare, con un ulteriore ampliamento, di netto stampo illuministico, del criterio gian-noniano della ‘storia civile’. A sua volta, l’inizio dell’opera al Mille non solo recuperava alla storia nazionale tre o quattro secoli di cui la tradizione umanistica non faceva conto, ma esprimeva sulla stessa tradizione umanistica riserve non lievi, vedendo in essa la causa del formalismo e della pedanteria poi allignati nella cultura italiana. Da considerare sono, poi, i «tanti motivi e impostazioni» che formano la vera ricchezza dell’opera del Bettinelli, ricca di «tanti spunti intelligenti e stimolanti», come emerge nel suo seguire il «faticoso processo di sviluppo» italiano dal Mille al Rinascimento, «nella valorizzazione di aspetti delle arti minori o dell’urbanistica in rapporto con la delineazione della storia della poesia o delle ‘arti maggiori’», o «nell’originale interpretazione della decadenza italiana dopo il Rinascimento entro il quadro della cultura europea, in cui quella stessa nazionale decadenza si equilibrava con la eccezionale offerta che l’Italia dava all’Europa con il suo patrimonio artistico e scientifico, essenziale allo sviluppo e alla civiltà di tutte le altre nazioni europee» (W. Binni, Il Settecento letterario, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi, N. Sapegno, Il Settecento, 1988, p. 647 e nota 2). Né si può mancare di osservare il protagonismo riconosciuto in questa rappresentazione alle individualità di coloro che contribuirono al progresso di studi, lettere e arti, e che sono essi, non i guerrieri e conquistatori, i veri eroi della storia. Per tutti questi motivi l’opera del Bettinelli avrebbe meritato una considerazione maggiore e migliore rispetto alle analoghe opere coeve, con le quali venne poi coinvolta nelle critiche destate dall’accennata esigenza di un più avanzato criterio di storia delle idee e della cultura. È stato, però, rilevato a ragione nel Bettinelli un insufficiente vigore di accento personale nella conduzione del suo discorso, che ne viene perciò indebolito anche nel suo vigore rappresentativo. E, soprattutto, è stata rilevata una discrasia tra la sua ispirazione tanto nutrita di motivi e idee illuministiche e le sue propensioni a un nuovo ruolo pontificio nella vita italiana, che ha fatto pensare, con errore fortemente distorcente, a una sorta di neoguelfismo ante litteram. In realtà, pur con tutti i suoi limiti (anche di cedimento alle mode e all’attualità), il Bettinelli è una figura molto rappresentativa dello spirito italiano del tempo, come si vede anche dalle difficoltà da lui incontrate con i superiori della Compagnia di Gesù, cui apparteneva, e si nota anche nei suoi motivi critici della realtà italiana (provincialismo, mancanza di una capitale, particolarismo per cui ogni parte del Paese ha propri stili e gusti), derivanti anche dalla sua esperienza europea di viaggiatore in molti Paesi.
Un ingegno ben più organico e vigoroso presiede alla Storia di Milano di Pietro Verri, che rimase incompiuta, giungendo fino al 1524, e fu pubblicata in due volumi il primo nel 1783 e il secondo, postumo, nel 1798. Doveva essere, per l’autore, un lavoro «per quanto possibile sintetico e scorrevole, pensato per lettori colti, ma non specialisti» (R. Pasta, Nota introduttiva a P. Verri, Storia di Milano, a cura di R. Pasta, 2009, p. X). La fonte ne furono la grande raccolta dei Rerum scriptores e le Antiquitates italicae del Muratori, ormai fondamento pressoché obbligato di tutti i lavori di storia italiana del Medioevo, e le Memorie spettanti alla storia al governo e alla descrizione di Milano ne’ secoli bassi, pubblicate da Giorgio Giulini, altro nobile milanese amico del Verri, in dodici volumi fra il 1760 e il 1774: un altro dei numerosi rami fioriti allora in tutta Italia nella scia e sull’esempio del grande lavoro muratoriano.
L’interesse per la storia rispondeva, peraltro, per il Verri, a un bisogno consolidato, di cui egli aveva dato già prova in suoi lavori precedenti. Bisogno del quale il Saggio sulla grandezza e decadenza del commercio di Milano dal principio del 1400 sino al 1750 (1760), le Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano (1761-1763), le Memorie (storiche) sulla economia pubblica dello Stato di Milano (1768), le Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse nell’occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l’anno 1630 (1777), nonché altri scritti rimasti inediti in vita dell’autore costituiscono una documentazione eloquente. Chiara era anche l’idea di storia alla quale il Verri si ispirava, e che contrapponeva all’opera di indiscriminata raccolta di fatti, notizie, documenti, propria dell’erudizione e dell’antiquaria, il lavoro selettivo dello storico, che discrimina tra ciò che per la storia è importante e caratteristico e ciò che non lo è, e da tale selezione ritrae il quadro delle relazioni e delle interferenze tra i fatti che formano la sostanza del quadro storico.
Tutto ciò valse a far nascere un’opera fra le più indicative del criterio di ‘storia civile’, allora ormai prevalente. Non valse, invece, a far nascere un’opera storica che superasse i pregiudizi di un moralismo pregno di tutti i più fondamentali ideali illuministici e di un intento pedagogico di educazione dei contemporanei a quegli ideali. Ciò spiega l’andamento e le scelte narrative del Verri e i suoi giudizi su azioni e mentalità del passato, per cui la Storia è molto prodiga di riprovazioni dei protagonisti di quel passato e avarissima di lodi. Tanto avara che uno dei pochi eroi positivi ne è il bolognese podestà Beno de’ Gozzadini, che nel 13° sec. aveva avuto la luminosa idea di portare a Milano le acque incanalate nei Navigli e aveva promosso un estimo dei beni immobili cittadini che includeva anche quelli ecclesiastici, ma che venne poi linciato dalla furia popolare, eccitata anche dal clero, mentre fra i signori di Milano si salvano quasi solo Azzone e Giovanni Visconti per la protezione da essi data alle lettere e alle arti. Né si può dire che il Verri facesse abbastanza tesoro del Saggio sulla storia d’Italia (1764-1766) di suo fratello Alessandro, di cui l’autore lasciò interrotta la pubblicazione, e per il quale Pietro manifestò spesso un vivo apprezzamento, ma senza che questo lo spingesse a un organico inquadramento italiano della storia di Milano, da lui mantenuta essenzialmente nel suo orizzonte municipale e cittadino.
L’ispirazione illuministica basta, tuttavia, a dare alla Storia il respiro robusto di una ‘storia civile’, che fra le altre del suo tempo sa cogliere nei problemi e nelle idee del presente una continua sollecitazione a volgersi al passato con unità di criteri e di ispirazione. Da quella sollecitazione questa ispirazione non rimaneva, però, libera fino al punto da dar luogo a un vero e proprio lavoro di grande storia; e qualcosa del genere dové risultare chiaro allo stesso autore, che a un certo punto si disaffezionò all’opera, e prima ricorse all’aiuto di altri per portarla avanti, e poi la lasciò incompiuta.
Diverso discorso è da farsi per Carlo Denina, autore di un’opera – Delle rivoluzioni d’Italia (3 voll., 1769-1770, 4° vol., 1792) – che ambiva a presentarsi come una vera e propria storia d’Italia quali al Denina non sembrava che fossero le opere del Biondo, del Sigonio, del Muratori. Né si può dire che egli avesse tutti i torti nel rilevare una tale deficienza della storiografia italiana. Nella storiografia italiana si può, anzi, dire che vi fosse come una qualche contraddittorietà fra l’acquisita e, ormai, consolidata percezione della dimensione e del nesso peninsulare dei problemi e della storia del Paese nell’imprescindibile contesto europeo (si ricordi quanto si è detto del Machiavelli, del Vettori, del Guicciardini) e la prassi storiografica che alla percezione di quella dimensione e di quel nesso non dava una corrispondente unità di considerazione e di trattazione storica. Riuscì a dare alla storia d’Italia questa unità storiografica il Denina?
La risposta non può essere senz’altro positiva, anche se non si vuole dare ascolto alle critiche severe formulate a proposito delle Rivoluzioni d’Italia. Non vi si ritrova, infatti, alcun robusto concetto sia di storia sia di politica a cui si appoggi la narrazione di tremila anni di storia della penisola a cominciare dagli Etruschi. Anche i giudizi storici che vi si succedono sono largamente inficiati o da un facile moralismo (come nelle dure parole usate contro il Machiavelli) o da idee distanti da quelle plausibili per una qualsiasi materia storica (come l’idea della Provvidenza che trattiene da più sanguinosi eccessi nelle guerre fra gli Stati italiani) o da convinzioni pregiudiziali di vario ordine (come sul nessun guadagno che l’Italia avrebbe fatto a essere, secondo l’auspicio del Machiavelli, più unita, o come sullo stato di piena felicità in cui la penisola si sarebbe ritrovata prima che vi irrompesse con il Buonaparte la Rivoluzione francese, o, ancora, come sulla invarianza del carattere nazionale fin dagli inizi etruschi da cui le Rivoluzioni muovevano).
L’opera del Denina certamente rispose, ciononostante, e sia pure a suo modo, all’attesa di una storia d’Italia, e vi rispose anche con l’idea che dava delle storiche difficoltà di un’unità italiana, e con un certo campanilismo culturale circa i primati italiani antichi e rinascimentali. Certo è che, tranne una certa eclisse nel periodo napoleonico, le Rivoluzioni furono la trattazione di storia d’Italia più letta anche in Europa, e dal 1815 in poi conobbero, anzi, una nuova e maggiore fortuna. E, semmai, sarebbe da riflettere sul fatto che a una esigenza di tanto rilievo etico-politico, culturale e, più specificamente, storiografico si trovasse a rispondere un’opera certamente inferiore alle sue ambizioni così come alla reale dimensione del bisogno a cui ebbe in sorte di rispondere, ma che apparve allora altra da quella che ha finito con il configurarsi nel giudizio più comune.
«La storia d’Italia – scriveva ancora nel 1865 Gabriele Rosa – fu ricchissima di scrittori speciali, ma per la sua materiale divisione, per la difficoltà di ridurre ad unità tanta varietà, e raccoglierne sinceri documenti, questa storia era povera di opere generali, nello spazio e nel tempo. Per epoche ristrette, l’aveano narrata per tutta la penisola prima il Biondo, poi il Sigonio, indi Guicciardini e Giovio. Appresso l’Italia ebbe una storia generale [con gli Annali di Muratori da Cristo al 1500]. Più elevata di queste nel concetto filosofico è quella di Denina, la quale nondimeno è povera di particolari. Ma empì lacuna sì importante che fu tradotta sino in greco ed in turco» (Storia generale delle storie, 1865, p. 335).
In che cosa il Rosa vedesse il più elevato «concetto filosofico» del Denina non è dato scorgere, ma la sua opinione comprova sia quanto si è detto sulla fortuna delle Rivoluzioni, sia quanto fosse sentito il bisogno al quale esse intendevano rispondere.
Abbiamo già accennato alla frequenza di considerazioni e trattazioni, indicazioni e suggestioni di carattere storico che si ritrova nella letteratura politica e riformistica che in Italia fu particolarmente feconda nella seconda metà del 18° secolo. E abbiamo, perciò, pure già notato come una visione della storiografia di quel tempo che non faccia tesoro di questo dato di fatto riuscirebbe meno comprensiva e meno attendibile del dovuto.
Dal Croce al Venturi, per non fare che i nomi degli studiosi al riguardo maggiori, l’opinione su questo punto è concorde. Il Croce non esitava a scrivere che «la storiografia civile del Settecento non è da cercare nei suoi eruditi», perché «la più valida storiografia settecentesca» va cercata «nei libri dei riformatori e critici, che trattano i varii problemi del tempo loro, la lotta dello Stato contro la Chiesa, l’opera del dispotismo illuminato che si alleava alla classe media o classe della cultura contro il feudalesimo o i resti del feudalesimo […], la critica e satira degli scrittori della nuova scienza dell’economia conto i cattivi ragionamenti e gli errati calcoli economici che i preconcetti e i privati interessi sostenevano, le richieste dei giuristi di rendere conforme ai tempi e di unificare le secolarmente sovrapposte legislazioni e, soprattutto, far cessare lo scandalo del persistente diritto penale, nato in età barbariche, e così via» (La letteratura italiana del Settecento, cit., pp. 249-50). E anche se non si vuole accedere all’idea di questa preminenza storiografica del pensiero e della letteratura riformistica, non si può fare a meno di convenire su quella ricchezza dalla cui constatazione siamo partiti.
Basterà, del resto, pensare alle tante ricostruzioni suggerite o riassunte delle vicende demografiche, commerciali, fiscali, legislative, istituzionali, culturali, delle varie parti della penisola o alle più generali ricostruzioni di vicende e istituti europei (che si tratti del feudalesimo o del potere dei sovrani o degli sviluppi di tasse e tributi o della storia delle idee e della scienza) per cogliere come merita la ricorrente componente storica della riflessione di illuministi e riformatori. E, tra l’altro, fu, inoltre, allora, e attraverso questo iter critico e propositivo, che si fissò definitivamente quello schema di storia d’Italia al quale abbiamo già accennato, che esaltava il ruolo e il primato italiano del Rinascimento e vedeva poi una caduta verticale delle condizioni del Paese, una decadenza che rendeva necessaria una ripresa generale di tutto il tono della vita morale e sociale della penisola e della cultura italiana perché il rapporto con l’Europa fosse ripreso in tutta la sua decisiva portata. Perfino nel celebre concorso milanese del 1797 sul tema del governo libero che meglio convenisse all’Italia, la riconsiderazione della storia d’Italia secondo un tale schema occupò uno spazio che ci si poteva anche, per quella occasione, non aspettare.
Su questo schema si accesero rapidamente una serie di altre questioni, in parte nuove, in parte rinnovate, in parte proseguite, circa le ragioni e le responsabilità della decadenza italiana, circa le radici autentiche – lontane o recenti – del pluralismo italiano e la sua positività o negatività circa lo storico evolversi dei rapporti fra Stato e Chiesa, circa la vera vocazione letteraria e culturale degli italiani, e circa tutta un’altra serie di grandi problemi, ai quali si cercavano risposte. Ed è quindi sullo sfondo di un tale fervore che va anche guardata la storiografia del periodo napoleonico.
Ad aprirla fu ancora una volta un grande libro, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco (1800), che giustamente è ritenuto all’altezza delle contemporanee riflessioni di autori europei come Edmund Burke e come il de Maistre. Anche il Saggio fu, in effetti, subito tradotto, ma interessò da principio soprattutto come una delle voci sollevate dalla propagazione della Rivoluzione francese in Europa, e su un episodio che aveva richiamato fortemente l’attenzione dell’opinione internazionale. Solo con il tempo si è dato il dovuto rilievo ai motivi ispiratori che del Saggio fanno un documento non meno importante per la storia dello storicismo italiano di quanto lo è per la storia del pensiero politico e per la storia della storiografia. Uno storicismo che parte dai dati elementari del condizionamento storico per elevarsi alla percezione di ciò che su tale base è il successivo svolgimento del movimento storico, non determinabile a priori, ma neppure aperto a qualsiasi arbitrio ci si voglia proporre. La critica all’astrattismo politico (che sia dei rivoluzionari o dei loro avversari non ha importanza) diventa, perciò, una delle maggiori lezioni del Saggio. L’altra e correlativa lezione sta nel richiamo al dato storico che impone il senso del limite dell’azione, e che per il caso napoletano viene dal Cuoco genialmente correlato alla critica della nozione di «rivoluzione passiva»: la rivoluzione che non scaturisce dalla volontà e dalla partecipazione di un autentico soggetto rivoluzionario, ma viene importata dall’esterno e modellata sull’esempio e sui tipi di esperienze allogene.
L’opera del Cuoco induce a sottolineare il delinearsi negli anni napoleonici di una storiografia, che non può essere definita napoleonica nel senso immediato del termine, ma che certo al clima politico e alle inclinazioni culturali di quegli anni per molti versi si ricollega, e che continuò a collegarvisi anche a stagione napoleonica conclusa.
Al nome del Cuoco si possono perciò ricollegare quelli di Giuseppe Maria Arrighi, Carlo Botta, di Francesco Lomonaco, di David Winspeare, di Luigi Blanch, di Gian Domenico Romagnosi, di Pietro Colletta, di Lazzaro Papi.
Fra costoro i disegni più ambiziosi furono del Botta, autore di tre ampie opere: una Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789 (1832), che porta la narrazione dal 1534 al 1789, di una Storia della Guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), e di una Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (1824). La concezione storiografica del Botta non va oltre quella della ‘storia prammatica’ rinascimentale alla quale si attiene, ma certo senza la penetrazione e la capacità di sintesi del Guicciardini, di cui volle proseguire l’opera, e con, in più, una decisa inclinazione letteraria e certo moralismo di stampo tacitiano. Nell’opera del 1824 la diretta esperienza di quel periodo gli consentì, tuttavia, di giungere a una maggiore pregnanza storica.
Il Winspeare fu autore di una Storia degli abusi feudali (1811), condotta sulla falsariga delle vedute illuministiche in materia di feudalesimo, che godé a lungo di molta fama, ma che, pur nel suo dominante ideologismo antifeudale, non manca di una certa ricchezza di informazioni e di acuti giudizi. Fama ancora, e alquanto, maggiore fu quella di Pietro Colletta, la cui Storia del Reame di Napoli dal 1784 al 1825 (1834), redatta con grande cura letteraria, e generalmente condotta con grande chiarezza di idee, ebbe grande successo e rimase a lungo l’opera più comprensiva e attendibile nella sua materia. Resta, tuttavia, fermo che, al di là di quanto ne è dedotto dalla migliore letteratura napoletana sul Regno nel periodo considerato, essa mantiene il suo interesse soprattutto come testimonianza di un protagonista e della cultura del tempo.
L’Arrighi scrisse un Saggio storico per servire di studio alle rivoluzioni politiche e civili del Regno di Napoli (1809), che non brilla certo per originalità di vedute e di contributi nella sua evidente finalità apologetica di Napoleone e di Gioacchino Murat, ma non manca di una passione spesso vivificatrice di molte sue pagine. Il Papi diede, con i suoi Commentari della Rivoluzione francese dalla congregazione degli Stati generali fino al ristabilimento dei Borboni sul trono di Francia (1830-1839) la prima storia italiana di quella rivoluzione. Nel che è un titolo di merito, poiché si tratta di un tema che anche in seguito fu alquanto scarsamente coltivato in Italia, ma del quale il Papi non diede una versione vigorosa, improntati come sono i suoi Commentari a un neutralismo del giudizio per cui torti e ragioni si distribuiscono del pari fra tutti i protagonisti delle sue varie vicende, e la linea generale di quel periodo storico non emerge con alcun rilievo da una narrazione che pure fu condotta utilizzando tutte le fonti allora disponibili e che per questa e per qualche altra ragione avrebbe meritato maggiore successo di quanto non ebbe. E ciò fece sì che l’opera avesse anche in Italia un successo assai minore di quel che forse meritava.
Un’autentica intelligenza storica, e non alieno da non superficiali interessi filosofici, anzi nutrito di buoni studi di diritto e di economia, fu certamente Luigi Blanch (1784-1872). La sua attività di studioso di cose storiche si svolse soprattutto dopo il 1821, data dopo la quale egli visse ancora un cinquantennio, ma sulla base di convinzioni e idee maturate appieno già negli anni napoleonici e poi rimaste sostanzialmente immutate. La sua bibliografia si compone soprattutto di articoli e saggi, sparsi in varie riviste e che egli lasciò in parte anche inediti. Sempre, però, emerge in lui una solidità di giudizio e una capacità di analisi che indicano una forte tempra di scrittore, a dispetto anche di una certa e frequente ineleganza del suo stile. La storia napoletana dei primi trent’anni del 19° sec. fu da lui esaminata con davvero grande acume, pur nel quadro delle sue convinzioni, e le sue molte pagine su questo punto restano tra le cose contemporanee migliori di cui si disponga. I suoi interventi su molti aspetti e problemi, momenti e figure della storia moderna (ma egli si interessò anche di quella antica con pari sagacia) sono ugualmente considerati illuminanti anche al di là di quanto ci si attenderebbe, e si estendono spesso alla storia del diritto e dell’economia. La sua opera Della scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale (1834) fu apprezzata anche da studiosi stranieri e fu pure tradotta (1854) in francese.
Di Gian Domenico Romagnosi va ricordato Del risorgimento dell’incivilimento italiano (1831), uno sforzo non banale di interpretazione della storia antica e moderna d’Italia, ma contò in generale anche tutta la sua opera filosofica, economica e giuridica che influì fortemente sulla formazione delle generazioni protagoniste del Risorgimento, e in particolare sul pensiero di alcuni dei loro più notevoli esponenti, fra cui Carlo Cattaneo. Su quest’ultimo agirono, fra l’altro, anche le idee del Romagnosi sull’arretratezza tecnico-produttiva delle attività economiche quale fattore determinante della complessiva arretratezza del Paese rispetto all’Europa più avanzata. E grande suggestione esercitò pure il lavoro che il Romagnosi svolse, in collaborazione con Pietro Custodi e con Melchiorre Gioia, con la fondazione degli «Annali universali di statistica» (1824), maggiore matrice di questi studi in Italia.
La ripresa e le aperture del 18° sec., culminate negli anni napoleonici, conobbero un’indubbia e forte contrazione negli anni della Restaurazione postnapoleonica. Il congresso di Vienna segnò da ogni punto di vista una riduzione dell’Italia ad area subordinata e marginale della politica europea come non accadeva da quando era cessato il predominio spagnolo nella penisola. Nessuno dei sovrani italiani era rimasto in piedi sotto Napoleone, mentre la Sicilia rimase borbonica e la Sardegna sabauda solo grazie alla protezione della flotta inglese. Per di più, i sovrani restaurati trassero dall’infelice esperienza degli anni napoleonici la poco corroborante lezione della presunta necessità di non indulgere più a nessuno spirito di novità e di rifiutare in via assoluta ogni idea di modificazione dello status quo stabilito a Vienna per la geografia politica della penisola, accompagnato dal connesso ritorno alle idee di monarchia assoluta contestate e rifiutate dai moti scaturiti in tutta Europa dalla Rivoluzione francese. Solo in Toscana si ebbe un regime in cui, se non della libertà, si poté almeno godere di una certa tolleranza, e così le cose rimasero, in pratica, fino al 1848.
Fu, a ben vedere, una nuova provincializzazione dell’Italia, più grave di quella precedente postrinascimentale, non avendo più l’Italia, come allora aveva avuto, un grande patrimonio di cultura e di capacità da offrire agli altri Paesi europei. Non può sfuggire che nel primo caso era stata piuttosto l’Italia a staccarsi lentamente, e quasi inconsapevolmente, da un’Europa che fervorosamente cresceva e che ben presto sentì di averla sopravanzata, benché la presenza italiana in Europa restasse, come a suo luogo si è detto, cospicua. Nel 19° sec. sembra accadere piuttosto il contrario. È l’Europa a dare l’idea di non prestare più alla cultura italiana quell’attenzione che per molti versi nel 18° sec. sembrava ristabilita.
Certo, la cultura italiana non perde, con ciò, affatto di interesse, come emerge più che chiaramente appena se ne ripercorrono opere e itinerari. È la sua capacità di circolazione europea a ridursi, e a ridursi in conseguenza della maggiore subordinazione e provincializzazione di cui si è detto, e che solo dopo l’unificazione del Paese andò decisamente riducendosi, se non invertendosi.
Di questa vicenda generale della cultura italiana la storiografia partecipò appieno, e ne fu, anzi, particolarmente rappresentativa. Mentre cresceva la fama del Vico e se ne sentiva più pregnante e attuale il pensiero, le opere, invece, degli storici italiani persero via via di rilievo nel quadro europeo, anche quando oggettivamente avrebbero meritato tutt’altra attenzione. Nel dibattito europeo poco mancò che i nomi degli storici italiani praticamente sparissero. E, se si avesse qualche dubbio al riguardo, basterebbe rifarsi alle storie non italiane della storiografia per rendersene pienamente conto.
Si sa, del resto, che proprio da una tale constatazione il Croce – riferendosi alla Geschichte der neueren Historiographie di Eduard Fueter, 1911 (trad. it. di Altiero Spinelli Storia della storiografia moderna, 1970) della quale pure faceva gran conto, ma nella quale riscontrava la completa assenza di nomi italiani da una certa data in poi – fu indotto a scrivere la sua Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono (1921). In realtà, l’assenza italiana nella Storia del Fueter ha inizio già con il 18° sec., poiché si può ben dire che dopo il Muratori e il Giannone, e fatto salvo per le note ragioni il Vico, nomi italiani non vi si riscontrino più, ma indubbiamente è nel secolo seguente che la condizione della storiografia italiana assume appieno i tratti dell’accennata emarginazione.
La reazione del Croce non era ispirata, come è facile intendere, a sue preoccupazioni nazionalistiche o semplicemente campanilistiche. Quel che lo animava era la meditata e documentata convinzione che a quella storiografia italiana emarginata non era mancata né capacità di studio, né originalità di tematiche, di ricerca e di riflessione storica. Eppure, anche quando nomi e opere degli storici italiani si riferivano a grandi temi di storia italiana ed europea e vi apportavano documentazioni consistenti e di prima mano – come era per Giuseppe De Leva con la sua Storia documentata di Carlo V in correlazione all’Italia (5 voll., 1863-1894) o per Nicomede Bianchi con la sua Storia documentata della diplomazia europea in Italia dal 1814 all’anno 1861 (8 voll., 1865-1872) – la risonanza europea, al di fuori del più ristretto ambito degli specialisti, e neppure sempre, ne risultava scarsa. Sugli stessi maggiori temi della storia italiana grandeggiarono in tutto il secolo autori stranieri, da Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (Histoire des républiques italiennes du Moyen-Âge, 1a ed. 1807-1809, 2a ed. 1809-1819) a Heinrich Leo (Über die Verfassung der freyen lombardische Städte in Mittelalter, 1820, trad. it. di Cesare Balbo Vicende della costituzione delle città lombarde fino alla discesa di Federico I in Italia, 1836) per il Medioevo, da Leopold von Ranke per la Roma moderna (Die römischen Päpste, ihre Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert, 1834-36, trad. it. I Papi romani, la loro Chiesa e il loro Stato nel XVI e XVII secolo, 1862) a Theodor Mommsen (Römische Geschichte, 1854-1856, trad. it. Storia di Roma 1857-1863) per la Roma antica. L’opera più nota di storia italiana, anche più di quelle degli autori or ora menzionati, fu, con tutta probabilità, Die Kultur der Renaissance in Italien di Jacob Burckhardt, 1860 (trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, 1876). Alla fine del secolo, per la storia pontificia ed ecclesiastica, il nome di Ludwig von Pastor avrebbe oscurato ogni altro nome con la sua monumentale Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters, 1886-1932 (trad. it. Storia dei papi dalla fine del Medioevo). Il lavoro cospicuo e importante di un italiano a Londra, quale fu quello di Antonio Panizzi, bibliotecario al British Museum, non ebbe rilievo in quanto lavoro, appunto, di un italiano, benché il Panizzi mantenesse i rapporti con il suo Paese anche sul terreno degli studi storici. Storici rispettati furono, fra altri, Luigi Tosti, Cesare Balbo, Carlo Troya. Un autentico ingegno storico, quale certamente fu il Cattaneo, vide la sua fama piuttosto strettamente confinata tra la Lombardia e la contigua Svizzera. Il capolavoro storiografico italiano, e uno dei maggiori libri europei del 19° sec., ossia la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, faticò a essere inteso nel suo rilievo già in Italia. Un rilievo a parte acquisì nell’ambiente scientifico internazionale Michele Amari, certo una delle menti storiche più eminenti del suo tempo, prima con la storia del Vespro siciliano (edita nel 1842 a Palermo e nel 1843 a Parigi), che gli procurò le simpatie dei circoli romantici e democratici nella Parigi in cui aveva dovuto esulare, e poi, e soprattutto con la Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872), che segnò una data insuperata in questa materia, e fu corroborata dalla Biblioteca arabo-sicula (1857, con appendici nel 1875 e 1887) e da altri preziosi studi.
Non giovarono allora alla storiografia italiana alcune etichette con le quali si è stati poi soliti indicarla e descriverla. Storici ‘guelfi’ e storici ‘ghibellini’ furono a lungo le principali di tali etichette. Si riferivano, chiaramente, alla questione, tutt’altro che nuova, ma fortemente attualizzata, dalle vicende risorgimentali, del ruolo della Chiesa nella storia italiana e nella storia moderna. Era stata o non era stata la Chiesa uno dei maggiori ostacoli a un migliore destino nazionale degli italiani? Era stata o non era stata la Chiesa uno dei maggiori ostacoli alla causa della libertà e del progresso civile e scientifico?
Domande che nella cultura storica e politica del Paese erano maturate già largamente fra il 16° e il 18° sec., ma che in quella stagione risorgimentale, pur animate dal calore della passione civile di tale stagione, potevano apparire piuttosto statiche, se non improduttive. Appaiono, cioè, come se fossero ormai soltanto ideologia rispetto alla loro genesi al tempo del Machiavelli e del suo veemente auspicio di un principe che sottraesse l’Italia al destino infelice procuratole dalla Chiesa, o al tempo della grande ondata illuministica con la sua esaltazione della Ragione e la sua individuazione ed esaltazione del Galilei come eroe e martire di quella Ragione. Vi erano di più, invero, le idee liberali, democratiche, nazionali, sociali dell’Europa postilluministica; vi era la passione risorgimentale non meno viva di quei suoi precedenti storici. Ma proprio perché attuali e in corso di inveramento ben più di quanto accadesse per Machiavelli o per la Ragione illuministica, il neoguelfismo e neoghibellinismo degli storici di quel periodo (dal Troya al Tosti, dal Balbo a Cesare Cantù, da Giovanni Battista Niccolini a Giuseppe La Farina, dal Manzoni a Gioberti, da Antonio Ranieri ad Atto Vannucci, da Gino Capponi a NiccolòTommaseo e a tutti gli altri che al riguardo si potrebbero citare) sa di forte ideologismo.
Accomunati da un identico mito nazionale declinato in modo diverso o opposto, gli storici delle due ‘scuole’ obbedivano poi a propri richiami specifici. L’opinione corrente finì con il considerare più feconda la ‘scuola’ cattolico-liberale o neoguelfa e più irretita nei suoi pregiudizi ideologici la ‘scuola’ opposta. Dei neoguelfi il Croce ricordava, perciò, «il progresso storiografico compiuto [per] erudizione e metodica, larghezza di sguardo storico, concezione di una storia sociale d’Italia», nonché le «verità particolari messe in luce» e i «consensi con la storiografia straniera protestante e razionalistica» Dei neoghibellini riteneva, invece, inferiore l’erudizione, prevalente un tono retorico dell’esposizione a scapito della sostanza storica del discorso, l’adozione del vagheggiamento dell’unità nazionale in principio e criterio storiografico, un razionalismo in ritardo sui tempi. Ed erano connotazioni generalmente accettabili, salvo che in esse sembrano trasparire, a loro volta, convinzioni crociane più generali, applicate a discapito soprattutto della storiografia ‘ghibellina’. Recepite le più che fondate critiche crociane, e fatta la tara di quanto anche in esse poteva esservi di ideologico, si può, in effetti, concludere che la ridotta qualificazione storiografica da riconoscere a quegli storici deriva molto di più da insufficienze o carenze e da deviazioni concettuali che da reali insufficienze e carenze metodologiche e tecniche. Il che vale, è vero, più per i ‘neoguelfi’ che per i ‘neoghibellini’, sul piano del metodo e della tecnica certamente meno solidi. Ma spiega perché per questa, pur discutibile, storiografia non si possa parlare di assenza di idee o pensieri fondati o interessanti, o di apporti sostanziosi alla ricerca e alla riflessione storica.
Non un deserto storiografico, insomma. Né si può dire che la discussione sul ruolo della Chiesa ne esaurisse tutti gli interessi e ne assorbisse del tutto l’orizzonte problematico. La ‘questione longobarda’, la responsabilità dell’avvio delle guerre d’Italia, il ‘malgoverno’ spagnolo nei secoli 16° e 17°, la valutazione dell’intervento francese in Italia e delle sue conseguenze, per non parlare dei rapporti etnici e civili fra Germani (elemento esterno) e Romani (elemento nazionale) nel corso della storia italiana dopo l’epoca delle invasioni e dei regni romano-germanici, o dell’origine e formazione dei Comuni, e varie questioni, bene o mal poste, ma sempre di grande rilievo, costituirono una problematica storica di non esiguo spessore. Né bisogna dimenticare che proprio in relazione a questa problematica si venne configurando, tra la fine del 19° sec. e gli inizi del 20°, una nuova storiografia italiana.
La fondazione nel 1841 dell’«Archivio storico italiano» segnò un momento eminente nel graduale maturare di una nuova temperie degli studi storici in Italia, attestato anche dalla serie di iniziative che in rapida successione temporale, specialmente dagli anni Quaranta del secolo, andavano nella stessa direzione: istituzione di cattedre universitarie (di ‘Storia italiana’ e di ‘Scienza storica’ a Napoli e a Torino, di ‘Storia militare’ a Torino, nel 1846, affidata a Ercole Ricotti, apprezzato storico delle Compagnie di ventura in Italia), costituirsi di varie ‘deputazioni di storia patria’, pubblicazione di ‘biblioteche storiche’ e di ‘dizionari storici’, avvio di raccolte organiche di fonti di storia locale nazionale. Poi in questa scia, e in particolare nel breve giro di tre o quattro decenni dall’unificazione politica del Paese, si ebbe tutta una serie di nuove iniziative dello stesso o di affine tipo sia in ambito regionale che pertinenti all’ambito degli Stati preunitari; e tutte contribuirono a porre su basi più aggiornate e in più costante contatto con la coeva storiografia europea l’attività storiografica in Italia.
La «Rivista storica italiana» nacque nel 1884 per impulso di Costanzo Rinaudo, che la diresse fino al 1922, e con la collaborazione di Pasquale Villari, di Ariodante Fabretti e di Giuseppe De Leva. Impostata essenzialmente come un bollettino bibliografico, essa vi accompagnò nel primo decennio anche una sezione di studi e saggi. I nomi soprattutto di Villari e del De Leva erano anche in armonia con le nuove tendenze storiografiche che allora andavano delineandosi, ma dal 1896, aprendosi una nuova serie della rivista, prevalse più decisamente l’indirizzo bibliografico originario. Si dichiarò allora che l’intento della rivista era di sopperire alla mancanza di un centro «che raggruppasse e facesse conoscere tutto il movimento storico italiano, e ad un tempo fornisse notizia di quanto al di fuori si pensa e si scrive sulla nostra storia». Mancanza che appariva tanto più sorprendente in quanto nel contempo «fiorivano in Italia molte deputazioni di storia patria e società storiche con numerosi archivi e giornali, loro organi diretti».
La constatazione era ineccepibile e rilevava lo stato effettivo della ricerca e degli studi storici italiani. Nei quali non solo si avvertiva questo molto cresciuto bisogno di informazione interna ed estera e di interazione con la fioritura ormai notevole di istituzioni e iniziative sparse in tutto il territorio nazionale, ma si riscontrava anche una forte diffusione di nuove idee storiografiche, legate essenzialmente alla ‘rivoluzione culturale’ che in tutta Europa portò, nella seconda metà del 19° sec., al tramonto del Romanticismo e all’avvento del positivismo.
L’idea della storia come scienza assunse allora connotati del tutto nuovi. Lo storico doveva dimenticare qualsiasi sua idea o concetto politico o filosofico o di altro ordine; «servirsi dei documenti come il fisico si serve delle esperienze e il naturalista delle osservazioni» (Paolo Negri); considerare l’archeologia come la sua geologia e il lavoro sulle fonti come il suo processo chimico (Giuseppe De Leva); ricercare da quali scienze o gruppi di scienze e «da quali cultori della scienza […] attendersi uno scambievole e sicuro aiuto per giungere alla soluzione di singoli problemi connessi» alla ricerca storica, essendo improbabile un «ultore di scienze storiche» esperto anche di biologia o meccanica (Ettore Pais); vedere «la parte più rigorosamente scientifica di tutta la storia» nella cronologia che si basa su dati astronomici come le eclissi ricordate da storici e cronisti (Julius Beloch); contare «per la ricostruzione [su] antropologia o psicologia, o psicologia sperimentale o addirittura psichiatria» (tutte le citazioni da B. Croce, Storia della storiografia italiana, cit., 2° vol., pp. 63-66).
Il metodo storico doveva essere, insomma «positivo e sperimentale» (Pasquale Villari). L’ideale di una ‘storiografia scientifica’, che avesse la stessa validità e la stessa uniformità e sicurezza delle scienze fisiche o naturali, l’ideale di una ‘storiografia pura’ da ogni interferenza filosofica o concettuale e che consistesse nell’accertamento dei fatti e delle loro cause, salvo poi a saldare gli accertamenti in ‘sintesi’ sempre più vaste fino a costruire una unica e superiore ‘scienza della storia’, ossia, in pratica, una filosofia della storia di vario disegno, ma sempre con uguali pretese di scientificità. Paradossalmente, tutta la premura di arrivare a un simile stato di purezza storiografica non evitava forti ideologismi o moralismi che alle opere storiche davano, in generale, toni che finivano con l’essere alquanto lontani dalla pretesa e pura ‘oggettività’ considerata come indispensabile elemento di scientificità. E per questo verso la differenza che il Croce faceva tra una prima generazione (Villari, De Leva, Bartolommeo Malfatti, Domenico Comparetti, Giuseppe De Blasiis e altri) e una seconda generazione (Carlo Cipolla, Arturo Graf, Ettore Pais, Amedeo Crivellucci, per non parlare della storia della letteratura e dell’arte) dei ‘puri storici’ appare piuttosto discutibile. Discutibile anche nell’attribuire ai primi il merito di una ancora forte sensibilità agli ideali patriottici e risorgimentali dei loro anni più giovanili, che sarebbe andata dispersa nei secondi. Anche in questi secondi appare forte, infatti, l’influenza delle idee intanto maturate, come nel caso del Crivellucci per la sua visione del problema dei rapporti fra Stato e Chiesa, senza contare l’errore di credere che il positivismo trionfante non avesse anch’esso una sua etica e, per così dire, religione, sia in generale che nella sua attività erudita spesso certosina e di pregio, nonché ispirata a un’alta ambizione di scienza.
Fu in questo clima che nel 1883 venne fondato l’Istituto storico italiano con lo scopo di dare «unità e sistema alla pubblicazione de’ Fonti di storia nazionale». In realtà l’attività dell’Istituto, prima iniziativa pubblica nel campo degli studi storici, gravitò soprattutto sulla storia medievale, nel ricordo dell’opera e del magistero muratoriano, messo in evidenza anche dal «Bullettino dell’Istituto storico italiano e Archivio muratoriano», che dal 1886 accompagnò con studi e ricerche l’attività dell’Istituto, presso il quale si iniziarono due collane rimaste basilari negli studi storici italiani: le Fonti per la storia d’Italia e i Regesta chartarum. Sotto la direzione di Vittorio Fiorini e di Giosue Carducci fu pure iniziata la riedizione critica dei Rerum italicarum scriptores muratoriani. Lo stesso Fiorini, insieme con Tommaso Casini, avviò, poi, nel 1896 una Biblioteca storica del Risorgimento italiano, che divenne una collana importante di fonti risorgimentali. Poi dal 1906 si diede anche vita a un Comitato nazionale per la storia del Risorgimento.
A sua volta, la rivista «Studi storici», fondata a Pisa nel 1892 da Amedeo Crivellucci e da Ettore Pais, fu l’esplicito araldo del positivismo storiografico, che allora giunse a maturità. A differenza dalla «Rivista storica italiana», essa ospitò fin dal primo momento articoli e saggi su impegnativi problemi di storia soprattutto, ma non soltanto, medievale (con una particolare attenzione alla storia di Pisa), e divenne anche perciò la palestra di una nuova generazione di storici (Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe, Gaetano Salvemini, fra gli altri), nonché uno dei luoghi principali in cui maturò il passaggio alla storiografia del 20° secolo. Trasferitosi il Crivellucci a Roma nel 1909, vi portò la rivista, nella cui direzione entrarono Volpe, Salvemini, Giacinto Romano, procurando la collaborazione di un’altra leva di studiosi (Luigi Salvatorelli, Antonio Anzilotti, Pietro Silva, Raffaele Ciasca). A questa data, però, si erano già prodotte differenziazioni importanti in tutto l’ambito della storiografia italiana, e andava esaurendosi l’iniziale positivismo che aveva costituito il fondamento della funzione della rivista.
Il «Giornale storico della letteratura italiana», fondato nel 1883 da Arturo Graf, Rodolfo Renier e Francesco Novati, espresse anch’esso nel suo campo con molto vigore il nuovo indirizzo storiografico erudito e positivistico, come già nella sua titolazione fa intendere l’uso dell’aggettivo ‘storico’. Tutta la migliore filologia e critica letteraria italiana, con nomi spesso di primissimo piano, fece molto a lungo riferimento al «Giornale» come principale organo di indirizzo, informazione e giudizio degli studi in questo settore. Ne venne scalzato così il prestigio e l’autorevolezza della ‘scuola’ del De Sanctis, imputata di scarso approfondimento storico-filologico e fatta oggetto di fiere polemiche, ma, in sostanza, non compresa nella sua diversa, ma altissima qualità storico-critica.
Già negli anni Novanta del 19° sec. si era fatta forte l’influenza del materialismo storico e del marxismo in tutta la cultura italiana. Storici come Ettore Ciccotti per l’età antica, Giuseppe Salvioli e lo stesso Salvemini per il Medioevo furono tra quelli che diedero varie espressioni, a volte notevoli, alla nuova tendenza. E notevoli furono anche gli spunti, e più che spunti, storici nei lavori di Antonio Labriola, indubbiamente il maggiore dei pensatori marxisti italiani, che del marxismo diede una versione strettamente ispirata alla concezione dialettica del materialismo storico, lontana, quindi, dal clima positivistico prevalente. Vero è, d’altra parte, che il pensiero di Labriola solo molto più tardi ottenne un ampio ascolto. Il marxismo italiano vide nettamente prevalere, invece, le sue versioni positivistiche ed evoluzionistiche, mentre il suo influsso sugli studi storici si andò piuttosto rapidamente esaurendo.
Corse ben presto la designazione di economico-giuridica per la storiografia italiana che dall’inizio del 20° sec. dimostrò di aver fatto maggiore tesoro sia dell’esperienza positivistica, per lo spirito di ricerca e di rigore filologico, che dell’esperienza marxistica, per il senso della realtà economica e sociale anche nei suoi aspetti di assetto giuridico e istituzionale. Si tratta, però, di una definizione molto insoddisfacente. Basti pensare agli esiti molto diversi che questa combinazione di interessi ha ricevuto in quelli che sono considerati i maggiori esponenti della ‘scuola’, ossia Volpe e Salvemini. E basti anche pensare alla molteplice diversità delle figure degli studiosi che alla ‘scuola‘ sono riportati o si possono riportare e che sono davvero molti. Indizio, tra l’altro, quest’ultimo, di un progressivo arricchimento dei quadri della storiografia, per così dire, degli ‘storici di mestiere’, che andavano allineando sempre più il mondo degli studi italiani alla prassi europea già da prima della metà del 19° sec., ma molto più dall’unificazione del Paese nel 1860. Che era, poi, quanto Antonio Cosci osservava fin dal 1878, scrivendo, con qualche enfasi, che «gli studi storici in Italia hanno fatto in questi ultimi diciotto anni [cioè, dalla unificazione del paese] più cammino di quanto non ne fecero nei primi cinquantanove anni del secolo» (cit. in B. Croce, Storia della storiografia, cit., 2° vol., p. 108).
Che con questo la storiografia italiana riacquistasse un nome e un’eco europei non si può dire. O, meglio, lo si può dire per qualche settore, come la storia antica, in cui, soprattutto con il Pais, con Gaetano De Sanctis, con Guglielmo Ferrero, e in qualche altro caso, una rinomanza internazionale effettivamente vi fu; o come la storia dell’arte, per la quale l’opera monumentale di Adolfo Venturi (Storia dell’arte italiana, 25 voll., 1901-1940) divenne un riferimento imprescindibile. Nel campo della storia medievale e moderna si rimase, invece, confinati quasi senza eccezioni, nello spazio nazionale. Anche gli autori maggiori videro solo raramente tradotti i loro libri, mentre, come abbiamo già ricordato, negli studi di storia italiana si faceva sempre maggiore e più autorevole la presenza di studiosi stranieri, soprattutto francesi e tedeschi, con un progressivo ampliamento delle loro tematiche e della loro frequenza, ricerca e conoscenza delle fonti della storia d’Italia. Sempre più nel corso del secolo la conoscenza delle lingue straniere si rese, perciò, necessaria. Dalla metà del 19° sec. l’influenza germanica affiancò e anche soppiantò in notevole misura la tradizionale influenza francese. Ne derivò un netto guadagno degli studi italiani per l’ampliamento in senso europeo e moderno delle metodologie e delle tematiche coltivate o da coltivare, ma anche, in parte non meno notevole, una condizione che si può definire di subordinazione psicologico-intellettuale, la quale, se si poteva spiegare per l’oggettivo ritardo di vari aspetti degli studi italiani, non giovava, in ultima analisi, né alla spontaneità della ricerca e della riflessione storica, né a un’equa e indispensabile considerazione dei molti, propri, originali e validi aspetti della storiografia italiana e delle più generali istanze culturali di cui essa era portatrice. Condizione che sarebbe poi continuata a lungo, e, in alcuni periodi, si sarebbe per qualche verso addirittura aggravata.
Nel primo ventennio del 20° sec. la linea storico-erudita e la condizione generale degli studi storici italiani non mutarono gran che. La profonda innovazione segnata nella fisionomia generale della cultura italiana dall’emergere, prima con Benedetto Croce e poi con Giovanni Gentile, di tutto un nuovo corpo di dottrine, attinenti anche alla storia, non ebbe ripercussioni immediate molto consistenti, se non nel campo filosofico e in quello letterario. Una maggiore diversificazione fu in parte segnata dal forte sviluppo delle dottrine nazionalistiche, che in quel ventennio divennero una componente ragguardevole anche del panorama culturale del Paese.
Per qualche storico dei maggiori, come Gioacchino Volpe, ciò avrebbe avuto una importanza decisiva portando, negli anni a cavaliere della Prima guerra mondiale a un generale riorientamento dei temi e del metodo di lavoro. Il volume più espressivo del suo mutamento di prospettive, Medioevo (1926), e quello successivo, Italia in cammino (1927), diedero modo al Croce di ravvisarne un limite depauperante in una sorta di riduzione del movimento storico a una, per così dire, meccanica e dinamica delle forze in campo, che si risolveva in un «profilo esterno di dramma storico», ma senza nessuna rappresentazione del «dramma intimo» a esso sottostante. Quella Italia, notava il Croce, «cammina, ma non pensa, non sogna, non medita, non si critica, non soffre, né gioisce: cammina» (Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia, in Id., Storia della storiografia, cit., 2° vol., p. 239).
Era una critica in larga parte fondata. Faceva, però, troppo torto al Volpe, il quale, nel suo distacco dalla linea strettamente storico-erudita della sua precedente attività, maturava una sua incerta, ma non inconsistente aspirazione alla rappresentazione di una sorta di storia in movimento: una storia colta nel suo continuo plasmarsi e riplasmarsi sotto la spinta delle circostanze, delle forze che la agitano. Spinte e forze che, certo, sono anche ora per il Volpe quelle della politica, ma di una politica sempre considerata non solo nella materialità, bensì anche nella complessità delle sue componenti. Quel che ora distingueva questo Volpe da quello dei suoi precedenti studi di storia medievale non era, dunque, una materializzazione dei suoi temi, per cui il Croce gli imputava di essersi «cacciato in una via che lo rimena al materialismo storico» (Intorno alle condizioni, cit., p. 239), dal quale si sarebbe invano sforzato di uscire. Era, invece, proprio l’aspirazione a immergersi nella materia storica in modo da coglierne il ritmo a un più profondo livello. Che ciò lo portasse senz’altro a una più alta forma di storiografia è certamente opinabile. Oltre tutto, quel Medioevo era stato scritto in due tempi diversi, a quasi dieci anni di distanza, e pubblicato quando dalle tematiche medievali il Volpe si era ormai distaccato con una definitiva opzione per gli studi di storia moderna. A questa forma egli non sarebbe giunto neppure con il coevo Italia in cammino. Si muoveva su quella strada, e il suo Medioevo non peccava tanto di materialismo e di carente strategia storiografica quanto – come l’autore stesso avrebbe poi riconosciuto – di una prospettiva troppo italocentrica e di un’insufficiente evidenza e di uno scarso rilievo della restante storia europea di quel periodo, in cui proprio la ‘nascita dell’Europa’ rappresentava un filo conduttore di assoluta preminenza. In compenso, vi era un acuto disegno del ruolo medievale del Mediterraneo e un suggestivo quadro del ruolo oscuro, ma attivo e cospicuo delle forze più spontanee ed elementari presenti sulla scena storica.
Ben più rilevante fu, peraltro, l’influenza che sul Volpe ebbero le ideologie nazionalistiche, e che da lui fu indicata come assunzione della nazione quale valore e motore storico ben più concreto e fondamentale della classe, come nuova sensibilità e interesse alla storia diplomatica e militare quale filo conduttore nell’esame dell’azione dei governi, come parallela assunzione dello Stato quale elemento sempre presente e influente nel processo storico, come inveramento della politica mercé la considerazione non solo dei «rapporti della vita economica», ma anche «del blocco anonimo delle forze grossolane che stanno al fondo dell’edifizio politico» (G. Volpe, Prefazione a Momenti di storia italiana, 19542, ora in Id., Storici e maestri, 19672, p. 244). Che era una autoindicazione abbastanza attendibile, e non solo autogiustificativa del suo cammino storiografico, sul quale, incontrandosi poi con il fascismo, certamente fu portato a un ‘uso politico della storia’ non (detto eufemisticamente) all’altezza del suo passato di storico. Il che non impedì che – caduto il fascismo e dopo la rovinosa guerra intrapresa da quel regime nel 1940 a coronamento della sua avventura totalitaria – Volpe scrivesse con l’Italia moderna quello che può essere giudicato il suo capolavoro e tornasse con accenti in parte nuovi sulla sua biografia culturale e rivedesse qualcuno dei suoi precedenti lavori (tra cui lo stesso Medioevo).
Diverso fu il cammino del Salvemini, anch’egli volto agli studi di storia moderna con pregevoli lavori, oltre che sulla Rivoluzione francese, su Mazzini, su Cattaneo, sui partiti politici nell’Italia unita. Una data segnò La rivoluzione francese (1905), che trattava il tema dal 1789 al 1792 e che, oltre che una delle non molte opere italiane di rilievo in materia, forniva una lezione di senso storico, mirando a individuare le personalità e i gruppi concretamente operanti negli anni rivoluzionari, e non già gli schemi ideologici o di classe consueti nella massima parte della relativa storiografia.
La sua attività politica portò, poi, ben presto Salvemini ad altri avvii, ma dopo la guerra egli diede ancora prova del suo ingegno storico con lezioni sulla politica estera dell’Italia unita (La politica estera dell’Italia, 1871-1914, pubblicate nel 1944) e soprattutto con le opere che scrisse nell’esilio a cui fu costretto dalla sua strenua opposizione al fascismo. E anche in esse egli proseguì la sua polemica nei confronti delle storiografie ideologiche e contro gli astrattismi, ma non come un semplice richiamo al ‘concretismo’, bensì come richiamo a una storiografia delle idee e a una storiografia politica in cui vi fosse un ragionevole equilibrio tra i fattori realistici del movimento storico e le relative ispirazioni ideali e morali. Un equilibrio, in effetti, ragionevole, suggerito dai fatti e verificato nei fatti, e perciò essenzialmente empirico, che non postulava, né ammetteva formulazioni concettuali o, comunque, particolari teorizzazioni, e diventava, quindi, una questione di esperienza e di arte dello storico.
Il che si poteva dire, peraltro, anche, per il Volpe; e ciò può spiegare perché né per Salvemini, né per Volpe si possa parlare di una ‘scuola’ in senso più che generale o tendenziale.
La non edificante vicenda del Volpe storico nel periodo fascista fu vissuta, a livelli inferiori e con note ancora deteriori, un po’ da tutta la storiografia italiana (e fu la parte maggiore) che al regime variamente si adattò. Il fascismo si acquistava, peraltro, dei sicuri meriti nella organizzazione istituzionale degli studi nel campo storico forse più che in altri campi.
Risale al 1934-35 l’istituzione di una Giunta centrale per gli studi storici che aveva come suoi ‘organi diretti’ l’Istituto italiano per la storia antica, l’Istituto storico italiano per il Medio Evo, l’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea e la Società nazionale (poi Istituto) per la storia del Risorgimento italiano, presso ciascuno dei quali era anche istituita una Scuola storica. Dalla Giunta e dai suoi organi sarebbero dipese tutte le istituzioni italiane nel campo della ricerca e degli studi storici. Importante fu pure la fondazione nel 1934 di un Istituto per gli studi di politica internazionale che operò molto anche nel campo storico. Già dal 1921 era stato fondato l’Istituto per l’Oriente, che nel 1933 divenne Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente. Per l’Africa si rimase, invece, all’Istituto coloniale italiano, nato nel 1906, poi Istituto italiano per l’Africa. Un suo rilievo ebbe pure l’Istituto nazionale di studi romani, fondato nel 1925. Dal 1909 era stata fondato un istituto italiano di archeologia, con il nome di Scuola archeologica italiana di Atene, mentre nel 1918 veniva avviato l’Istituto italiano di archeologia e storia dell’arte, poi istituzionalizzato nel 1922.
Era un grande passo avanti che proseguiva, come si è visto, idee e iniziative già in corso, e le ampliava e cercava di renderle anche sistematiche. Dietro tutto ciò vi era la spinta culturale dei settori più sensibili degli studi storici italiani, che sentivano l’esigenza di cominciare a darsi un quadro organizzativo più corrispondente alle nuove dimensioni della ricerca e dei problemi a livello internazionale, avviando istituzioni analoghe a quelle che altri Paesi, in particolare la Francia, possedevano già da tempo. A molto valse, comunque, l’appoggio delle maggiori personalità della cultura italiana di allora, a cominciare da Gentile. Le direzioni degli istituti furono assegnate a studiosi solitamente di grande prestigio, come, per es., il Volpe per la storia moderna e contemporanea. Numerose, ben più che nel passato, furono su queste basi le missioni di studio assicurate a giovani ricercatori italiani anche all’estero, e numerose anche le pubblicazioni, anche se non si può dire che i risultati di questo notevole sforzo abbiano corrisposto agli intenti e alle attese.
Un altro luogo di importanza per gli studi storici fu, nello stesso periodo, l’Enciclopedia italiana, ideata e diretta da Gentile, la cui ispirazione mirava a una rivendicazione della tradizione italiana e del ruolo dell’Italia nella storia e nella cultura mondiale, congiuntamente a un sostegno o, come minimo, a un assoluto lealismo verso il regime fascista. La redazione dell’Enciclopedia fu, infatti, un luogo di formazione di molti giovani storici, che vi acquisirono, tra l’altro, attitudini importanti alla visione e alla rappresentazione sintetica di grandi momenti, movimenti, problemi e protagonisti del passato non soltanto italiano, ma europeo e mondiale, con un deciso allargamento delle loro prospettive, di cui si sarebbero visti nel futuro tutti i frutti. Il condizionamento fascista non vietò che all’opera collaborassero anche studiosi di varia età tiepidi nei confronti del fascismo, se non addirittura ostili, anche se si ebbero casi di censura di voci importanti (come quella di Walter Maturi su Risorgimento) o interruzioni di collaborazioni non meno importanti (come fu quella di Adolfo Omodeo per la Storia del Cristianesimo, che merita un ricordo particolare perché indizio dell’influenza che la cultura cattolica ebbe nella realizzazione dell’Enciclopedia).
Peraltro, è pure da notare che dei dodici professori universitari (su circa 1200) che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista ben cinque erano storici o interessati alle materie storiche (Francesco Ruffini, Gaetano De Sanctis, Ernesto Buonaiuti, Lionello Venturi, Giorgio Levi Della Vida).
Dopo la Prima guerra mondiale una nuova fase certamente si aprì nella storiografia italiana. Già la guerra stessa aveva catalizzato alcune esigenze, ancora confuse, che si riassumevano però, in sostanza, in un’incertezza di fondo nella complessità e molteplicità degli indirizzi e delle tendenze delineatisi in tutta la cultura italiana, non solo nella storiografia. Si discuteva ormai di positivismo e idealismo, di marxismo e di storicismo, di razionalismo e di irrazionalismo o di spiritualismo, e di altre ‘scuole’, senza che ancora si delineasse un orientamento in decisa prevalenza, benché Croce e Gentile apparissero ormai chiaramente avviati a rappresentare le due ali maggiori del rinnovamento culturale già in corso dalla fine del 19° secolo.
Espressione di quelle esigenze può essere considerata la «Nuova rivista storica», fondata nel 1917 da Corrado Barbagallo (che la diresse fino alla sua morte nel 1952), dall’Anzilotti, da Ettore Rota e da Guido Porzio. Il clima della guerra portava a una rivendicazione di italianità della storiografia nazionale rispetto alla lamentata dipendenza dalla cultura e dalla storiografia germanica. Si chiedeva, però, soprattutto, un più stretto nesso degli studi storici con l’attualità della vita contemporanea, e anche con la politica, come loro vitale nutrimento; un passaggio dalla erudizione minuziosa e disorganica di singole questioni e dalla illustrazione di testi spiccioli a una storiografia che procurasse una effettiva e larga «interpretazione e intelligenza dei fatti sociali, specialmente di quelli politici» (cit. in B. Croce, Storia della storiografia, cit., 2° vol., p. 232 nota 1). Al progetto di una tale rivista si era interessato anche il Volpe, e a essa collaborarono studiosi, come Salvemini, Ciccotti, Romolo Caggese, Ciasca, Silva, che continuavano in molti e vari modi l’esperienza della ‘scuola economico-giuridica’, mentre numerosi nuovi giovani studiosi vi fecero le prime armi.
L’appello a un ben diverso legame fra storia e vita nei suoi diversi aspetti (non solo la politica) era stato, peraltro, già avanzato dal Croce e fatto fortemente valere dalla sua rivista, «La critica», nata nel 1902, ed era stato da lui teorizzato con originalità e profondità di pensiero nella sua Teoria e storia della storiografia, edita in tedesco nel 1915 e in italiano nel 1917, ma anticipata in vari saggi sulla sua rivista. La battaglia principale di Croce era contro il positivismo e la sua ‘storiografia scientifica’, contro il materialismo storico, contro ogni filosofia della storia, contro l’erudizione e la filologia fine a se stesse. In base a queste idee egli aveva iniziato una revisione della sua precedente attività, appunto, di storico erudito, che tra la vigilia e l’indomani della guerra approdò a molti interessanti risultati. Agli inizi poi degli anni Venti, sotto l’urgenza di una ormai molto diversa congiuntura storica, Croce elaborò e formulò la sua visione della storia etico-politica quale sola prospettiva storiografica provveduta di rigore metodologico e di pienezza di senso storico. Nel decennio 1922-32 Croce ne diede versioni esemplari nella Storia del Regno di Napoli (1923), Storia dell’età barocca in Italia (1929), Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932).
Sia l’idea della storia etico-politica sia la problematica e il panorama disegnati da Croce in questa tetralogia avrebbero tenuto il campo fin ben addentro alla seconda metà del 20° sec., così come negli studi di storia letteraria e in altri campi degli studi storici (tra cui la storia del diritto con Francesco Calasso e Bruno Paradisi), laddove l’influenza gentiliana si fece sentire soprattutto negli studi di storia della cultura filosofica (ma senza contare che molte figure della cultura italiana di questo periodo sentirono in varia misura l’influenza sia del Croce che del Gentile: come, per es., Guido De Ruggiero, storico della filosofia, ma autore anche di una significativa Storia del liberalismo europeo, 1925).
Al Croce si rifece in vario modo anche tutta una generazione di storici maturati o già prima del 1915 o fra le due guerre mondiali, che continuarono la loro attività anche nella seconda metà del secolo, benché per molti di essi l’influenza crociana non impedisse altre e più o meno minori influenze, e benché in progresso di tempo tale influenza andasse declinando e spesso addirittura giustapponendosi o incertamente convivendo con altre influenze (Volpe, fra gli altri, ma non solo): Federico Chabod, Mario Falco, Ernesto Sestan, Carlo Morandi, Nino Cortese, Walter Maturi, Nino Valeri e ancora altri. Parallelo fu l’affacciarsi di una nuova generazione nella storia antica, nella quale spiccano vari nomi, fra cui quelli di Plinio Fraccaro e di Arnaldo Momigliano. Altre correnti e direzioni furono espresse da storici variamente rilevanti, da Luigi Salvatorelli a Nicola Ottokar, da Francesco Cognasso a Romolo Quazza, da Roberto Cessi a Franco Valsecchi, da Luigi Simeoni a Carlo Capasso, da Pietro Egidi a Paolo Negri, da Fabio Cusin a Ettore Rota, da Bernardino Barbadoro a Gina Fasoli e a Ettore Passerin d’Entrèves, e questo elenco potrebbe certamente proseguire. Nella «Nuova rivista storica» l’ingresso, nel 1930, di Gino Luzzatto e la collaborazione di Piero Pieri nella redazione diedero un nuovo avvio a varie tematiche. Con Luzzatto si sarebbero poi rinnovati anche gli studi di storia economica, nei quali già dagli inizi del secolo si erano registrati molti progressi nelle tematiche e nei metodi con Giuseppe Prato, Luigi Einaudi e in seguito con Franco Borlandi, con Amintore Fanfani, con Armando Sapori, con Epicarmo Corbino, con Gino Barbieri e con altri.
Una gran parte degli studiosi che abbiamo ricordato aveva già dato negli anni Trenta prove compiute di una loro alta qualità storiografica, e molti di essi continuarono a essere attivissimi e a figurare tra i nomi maggiori della storiografia italiana dopo il 1945, come, per fare un solo ma eminente esempio, fu per Chabod; e furono gli stessi di cui, intorno al 1930, si parlava come di esponenti della ‘nuova storiografia’.
Negli studi di storia delle religioni e del cristianesimo si ebbero ugualmente molti progressi. Dal positivismo e dall’erudizione dominanti nella seconda metà del 19° sec., in cui ci si attenne largamente alle acquisizioni della storiografia germanica (così con il Baldassarre Labanca, Il cristianesimo primitivo, 1886) o francese (grande fu la suggestione esercitata da Ernest Renan) si passò agli inizi del 20° sec. a nuovi indirizzi e a nuove vedute a opera di giovani studiosi come il Salvatorelli, l’Omodeo, il Buonaiuti.
Il Salvatorelli passò poi a trattare di storia medievale e moderna, e praticò un tipo di storiografia molto attento alla dimensione religiosa e, non senza influenza crociana, alle forze morali degli sviluppi storici, con lavori di sintesi di sicuro pregio. Omodeo ebbe una vicenda più complessa. Formatosi sotto l’influenza di Gentile, divenne poi un convinto sostenitore delle idee di Croce, così come passò agli studi di storia contemporanea, in cui segnò una traccia non peritura con i suoi lavori di storia del Risorgimento, e in particolare sulla Restaurazione in Italia e in Francia e sul Cavour, in diretto antagonismo con le varie interpretazioni nazional-fasciste e revisionistiche del Risorgimento, del quale si sottolineavano la complessità e i valori liberali e moderni. Quanto a Buonaiuti, partecipe non secondario dell’esperienza del movimento modernista, sviluppò una visione profondamente spiritualistica del cristianesimo per la quale si attrasse i fulmini della curia romana, perdendo anche la cattedra nel 1929 perché i Patti Lateranensi non permettevano l’esercizio di funzioni pubbliche ai sacerdoti che avevano lasciato l’abito o erano stati ridotti allo stato secolare. La storiografia cattolica si attenne, invece, a lavori di erudizione e di filologia o di storie locali e particolari, specialmente da parte di ecclesiastici, o a opere chiaramente di tendenza (come la storia della Compagnia di Gesù di Pietro Tacchi Venturi), ma non senza studi di qualche rilievo (come, per un qualche esempio, quelli di Giovan Battista Picotti su Leone X o di Giuseppe Ermini sullo Stato della Chiesa).
Un vicolo cieco fu quello imboccato da vari storici che al fascismo si riportarono per la loro attività storiografica, spesso rinnegando o invertendo gli indirizzi che avevano seguito in precedenza (Arrigo Solmi, Luigi Pareti, Ettore Rota, Francesco Ercole e altri), e adombrando spesso una tal quale continuità, che si considerava potenziata dal fascismo, fra la storia di Roma antica e quella italiana. In sostanza, nella misura, davvero esigua, in cui una storiografia fascista veramente vi fu, il suo lascito storiografico fu ancora più esiguo. Più frequente fu, in parallelo, l’associazione di vedute nazionali con una particolare sensibilità al ruolo della Chiesa e dei cattolici (Niccolò Rodolico, Ernesto Pontieri, Aldo Ferrabino e altri) o con convinzioni monarchiche che facevano della Casa di Savoia una chiave di lettura della storia d’Italia nell’età moderna (gli stessi Volpe, Rodolico, Cognasso). Proprio l’avvento del regime fascista portò, però, a una riconsiderazione critica della storia italiana del Risorgimento e dell’unità sulla base di motivi morali e sociali, e non (come accadeva nella storiografa fascista, e, in sostanza, anche nel Volpe) in base a motivi fondati sull’asserita debolezza dello Stato unitario e della sua politica di potenza, e a cui reagirono in particolare il Croce e l’Omodeo. Quella riflessione critica impegnò, comunque, una parte non trascurabile della riflessione storica italiana, e trovò nei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci una formulazione, il cui peso si sarebbe rivelato nella sua importanza e capacitò di influenza soltanto quando quei Quaderni furono pubblicati, ossia dal 1949 in poi.
Al Buonaiuti, in gran parte, si rifece Raffaello Morghen che prese a coltivare l’idea, sostenuta anche dal Falco, del Medioevo europeo come epoca di piena coincidenza fra storia cristiana e storia politico-sociale e religiosa, ma che ben presto si rivolse in particolare allo studio dei movimenti riformatori e di quelli ereticali dal 11° sec. in poi. Intorno all’Omodeo, e all’ombra di Croce, ma non senza altre influenze, crebbe Ernesto De Martino, che si volse agli studi di etnologia, dei quali avrebbe dato in seguito originali sviluppi. Al magistero di Francesco Ruffini era legato Arturo Carlo Jemolo, che si sarebbe illustrato con i suoi studi sul giansenismo e sui rapporti fra Chiesa e Stato nell’Italia unita. Un percorso personale – e influenzato dagli studi che condusse in Francia per l’esilio cui fu costretto il padre Lionello – fu quello di Franco Venturi che già nel 1939, con La jeunesse de Diderot de 1713 à 1753, dava una molto persuasiva prova del suo ingegno storico e avviava su una solida base gli studi che ne avrebbero fatto nel dopoguerra uno dei più illustri e importanti studiosi dell’Illuminismo. Ma ben più numerosi sono i nomi che al riguardo si potrebbero fare (da Giorgio Spini a Paolo Alatri, che per le leggi razziali si dovette denominare Paolo Romano, a Santo Mazzarino e a molti altri).
Altre notevoli energie di studiosi non poterono svolgere tutte le potenzialità di cui avevano già dato convincenti prove per ragioni particolari. Così fu per Nello Rosselli che, prima di perire in Francia nel 1937 per mano di sicari fascisti, aveva condotto importanti studi sul Risorgimento e aveva felicemente individuato la grande importanza degli ultimi anni di Mazzini nella storia dei movimenti democratici e sociali nell’Italia appena unita. Così fu pure per Vittorio Di Tocco, che aveva iniziato una solida ricerca sugli ideali di indipendenza nell’Italia durante il predomino spagnolo, fermata dalla sua morte e pubblicata postuma nel 1927. Ma non sarebbe improprio ricordare al riguardo anche Piero Gobetti, scomparso a 25 anni appena nel 1926, non storico di professione e, anzi, come storico di un ‘Risorgimento senza eroi’ e della lotta politica nell’Italia unita (La rivoluzione liberale, 1924) annoverato dall’Omodeo nella ‘storiografia dei giornalisti’, ma autore la cui suggestione influì non poco, a distanza di tempo, sulla storiografia dell’Italia risorgimentale e liberale.
Notevole fu ancora, nella storiografia di questo periodo l’interesse crescente per le questioni delle origini di un fenomeno storico, politico o religioso o altro, in cui sembrano fare irruzione nella storia straordinarie energie e forze morali, per cui l’Omodeo parlava di ‘primavere storiche’, si trattasse delle eresie e dei movimenti religiosi medievali, della formazione dei Comuni, del giacobinismo o dei movimenti nazionali e sociali del 19° secolo. Questioni che occuparono uno spazio cospicuo furono pure quelle dell’unità della storia d’Italia, della decadenza di grandi entità e organismi politici e civili, dei ‘fattori realistici’ da considerare come determinanti nel corso della storia, e altre, di una gran parte delle quali si può ritrovare l’indicazione nella discussione del 1930, promossa dal Croce, sullo stato della storiografia italiana in quel torno di tempo. Uno stato che certamente è alquanto lontano dal poter indicare un monopolio storiografico qualificabile come ‘dittatura’ crociana o idealistica, mentre la questione del rapporto fra storiografia italiana e storiografia europea e delle relative aperture o chiusure italiane è chiaramente, nella misura in cui effettivamente sussiste, una questione che, come si è visto, non era nata con il Croce e negli anni Venti e Trenta del 20° secolo.
Nella storiografia italiana di questo periodo confluirono, del resto, vari settori della cultura nazionale. Un esempio ne è il pensiero meridionalistico, che ebbe in Giustino Fortunato un esponente che illustrò con grande cura molti aspetti e momenti della storia del Mezzogiorno, oltre a sollecitare una riflessione di alta ispirazione sul fascismo e sul suo significato nella storia, anche morale, del Paese. La questione della lingua, le correnti letterarie e quelle artistiche furono spesso all’origine di interessi storici che non sempre maturarono allo stesso modo in determinate opere propriamente di rilievo storiografico, ma sollecitarono problematiche di indubbio spessore storico.
Molto più dirette e consistenti furono, comprensibilmente, le sollecitazioni che agli studi storici vennero dal pensiero politico, economico e giuridico, in grande sviluppo dopo i precedenti risorgimentali. Una serie di personalità di forte rilievo, da Gaetano Mosca (Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, 1884, e gli Elementi di politica, 1896) a Vilfredo Pareto (Manuale di economia politica, 1906, e Trattato di sociologia generale, 1916), a Maffeo Pantaleoni (Principii di economia pura, 1889 e poi 1894) e ai già ricordati Antonio Labriola e Croce, ebbe una notevole influenza sulla vita culturale del Paese.
Si è parlato poi di una ‘scuola italiana’ del pensiero politico, caratterizzata da una visione realistica dei problemi della vita politica, con una forte accentuazione soprattutto del ruolo delle classi dirigenti, e più in particolare della classe politica, intese come minoranze, anche esigue che, con vari metodi, ivi compresa la forza, si assicurano il governo e il controllo della società in cui operano. Nasce così una forte contrapposizione tra governanti e governati, cui non sfuggono neppure i regimi liberali e democratici, i cui sistemi sono altrettante forme di selezione e affermazione delle classi dirigenti. Connessi alla influenza di pensatori stranieri, tra i quali ebbe grande importanza (specialmente per il ruolo che nella vita associata riconosceva alla violenza) Georges Sorel, questi vari indirizzi, anche contro la loro più autentica ispirazione, rientrarono non poco nello sviluppo di tendenze autoritarie, antiliberali e antidemocratiche, che con il tempo guadagnarono uno spazio crescente anche nella opinione pubblica, rafforzate dalle coeve spinte nazionalistiche e imperialistiche, nonché da quell’atteggiamento psicologico-sociale, che Croce definì dell’attivismo e che egli vedeva tipico della civiltà contemporanea, ma anche indice di una profonda crisi morale. Parallela fu la revisione marxistica di Achille Loria, che avrebbe suscitato a suo tempo la sarcastica critica di Gramsci, mentre la stessa revisione fu operata da altri nel senso di un socialismo sindacal-rivoluzionario, che ebbe anch’esso non poca fortuna.
Meno evidenti furono fino alla Prima guerra mondiale gli sviluppi del pensiero liberale e democratico, che si fecero invece importanti dal momento in cui l’avvento del fascismo mise fuori causa il regime liberal-democratico del Paese, con vari nomi (Croce, Giovanni Amendola, Francesco Saverio Nitti, Einaudi, Gobetti). Una fucina di nuovi pensieri fu, a sua volta, l’esperienza dell’antifascismo nell’esilio. Si staglia in essa Carlo Rosselli (Socialismo liberale, 1930), generoso tentativo di fondere l’ispirazione socialista con una piena riaffermazione delle ragioni liberali. L’esilio portò peraltro anche a maggiore sviluppo le tendenze comuniste fiorite nella scia della Rivoluzione russa, ma la riflessione di Gramsci, che ne fu la massima espressione, rimase ignorata fino all’indomani della caduta del fascismo. Un effetto particolare di tali condizioni fu pure la debole prosecuzione delle precedenti tendenze socialdemocratiche, poiché i socialisti italiani tesero a unirsi ai comunisti, adottando una strategia politica (espressa nel ‘patto di unità di azione’, Parigi 1934) che avrebbe poi rivelato un’insufficienza operativa non inferiore a quella teorica. Parallelo fu un ripensamento approfondito fra i cattolici, che ebbe anch’esso un protagonista di forte rilievo in Luigi Sturzo, nel senso di uno sviluppo in senso democratico del pensiero sul quale aveva fondato la sua esperienza politica nel ventennio prefascista.
Tuttavia, la novità più rilevante di questo periodo fu proprio il fascismo (e non è un caso che la parola fascismo è la sola del lessico politico italiano contemporaneo ad aver avuto una diffusione mondiale che è stata davvero straordinaria e perdura senza accennare a un tramonto). Il pensiero politico fascista fu espresso in forma ufficiale nella voce a esso dedicata dell’Enciclopedia Italiana. Voce firmata da Mussolini, ma scritta dal Gentile, del quale Mussolini modificò variamente il testo. Nel fascismo convissero, peraltro, ispirazioni e indirizzi molto diversi, che trovavano il loro maggiore punto di convergenza nella visione dello Stato come effettiva incarnazione storica e politica della nazione, e protagonista e dominatore della vita sociale in tutti i suoi aspetti: punto teorico che fu forse il maggiore elemento totalitario del regime. Il corporativismo ne fu, tuttavia, un altro tratto fortemente distintivo e alimentò tutta una letteratura economica e politica che ebbe fortuna anche fuori d’Italia. Concezione e funzioni dello Stato, statuto del partito unico e dei sindacati, concezione del diritto e dei suoi istituti e prescrizioni, corporativismo e diritto del lavoro, relazioni internazionali formarono pure il campo di una letteratura, della quale dizionari, digesti ed enciclopedie del diritto del tempo rendono appieno la molto complessa fisionomia. Incerto rimase, invece, il tratto populistico del regime («andare verso il popolo»), che pure sviluppò una politica sociale non priva di pregevoli novità, ma non conciliò mai davvero le idee di popolo e di nazione. Residuo dell’originaria formazione socialista di Mussolini può essere considerata la visione della politica estera come governata non solo da una incondizionabile assunzione della politica di potenza e della Realpolitik come suoi criteri esclusivi, ma anche da un’idea di lotta delle «nazioni proletarie» contro le più ricche. Alla fine, le insufficienze molto corpose della ideologia fascista si manifestarono nella teoria e politica razzistica, che segnò al tempo stesso un significativo allineamento mussoliniano ai moduli ideologici e politici del Terzo Reich e di Adolf Hitler.
Nel complesso, è difficile sistemare la cultura italiana del ventennio fascista nella casella fascismo. La varietà di voci in seno allo stesso regime era tanto forte da indurre molti a dubitare anche dell’esistenza di una ‘cultura fascista’, e altrettanto, in ogni senso, si dica della storiografia. Del resto, fu questo un punto che costituì un problema già allora. È significativo che l’Enciclopedia Italiana voluta da Gentile, che ne ebbe da Mussolini l’autorizzazione e i mezzi, finì con il non soddisfare appieno lo stesso Mussolini e gran parte delle gerarchie del partito fascista. Ciò accadde, certo, perché il condizionamento ideologico e politico del regime non impedì, come si è detto, la collaborazione di autori non ritenuti del tutto allineati al regime, e anche un po’ per le posizioni teoretiche ed etico-politiche dello stesso Gentile, un po’ per le pressioni di sfere cattoliche alle quali egli non fu insensibile, un po’ per la notevole e non tutta ortodossa figura politico-culturale di parte dei collaboratori. Anche se l’Enciclopedia rimane pur sempre una delle fonti principalissime delle dottrine e dei punti di vista del regime, e in specie nelle sue voci da questo punto di vista più significative. E fu per ciò che si decise di dar vita, per volontà di Mussolini e su disposizione del segretario del partito Achille Starace, a un Dizionario di Politica (4 voll., 1940), diretto da Antonino Pagliaro, un linguista di solida formazione filologica, che, peraltro, dal punto di vista fascista non ebbe neppur esso una struttura del tutto più lineare di quella dell’Enciclopedia, a conferma della difficoltà di individuazione e definizione organica di una ‘cultura fascista’.
Sia nell’Enciclopedia sia nel Dizionario la partecipazione degli storici fu cospicua, poiché ci si avvalse delle collaborazioni di gran parte degli studiosi allora attivi fino ai più giovani, anche se notoriamente, per poco o per molto, non allineati sulle posizioni del regime, e chi fa l’indice di tali collaborazioni ottiene ipso facto un quadro amplissimo della storiografia italiana degli anni Trenta e Quaranta e oltre.
Il bilancio che della sua molto più che millenaria vicenda la storiografia italiana poteva tracciare a metà del 20° sec. non era né esiguo, né di scarso rilievo sia in relazione alla storia nazionale del Paese, sia nel quadro della storiografia e della cultura europea. Era stata anche una vicenda che si era atteggiata e riatteggiata più volte e in diverse maniere sia dall’uno che dall’altro punto di vista.
A stare solo agli aspetti più strettamente storiografici, l’Italia aveva contribuito con molte voci alla particolare e ricca vicenda della storiografia medievale. Da Paolo Diacono a Liutprando da Cremona, dai cronisti del Mezzogiorno normanno-svevo e angioino a quelli dei grandi Comuni italiani da Genova a Venezia come da Milano a Firenze, da Salimbene da Parma ad Albertino Mussato, per fare solo alcuni nomi e casi più rilevanti, e a non parlare delle radici italiane di buona parte della storiografia pontificia, il panorama italiano si rivela sempre parte essenziale, determinante e rivelatrice del contesto europeo, oltre che specchio a volte più, a volte meno limpido, ma sempre profondamente partecipe e coinvolgente rispetto alle vicende del Paese. Non è un caso che già nei primi grandi scrittori italiani – Dante, Petrarca, Boccaccio – si ritrovino molteplici aspetti di interesse storiografico, quasi a indicare una sensibilità alla storia e alla storicità che avrebbe poi sempre contraddistinto la tradizione italiana.
Dalla filologia umanistica al Muratori si sarebbe poi delineato il grande tracciato di un altro importante tratto distintivo del lavoro storico italiano di attiva partecipazione e di interscambio con quanto al riguardo si faceva in Europa. Tratto che, sia pure dopo aver perduto il grande slancio iniziale, e con alti e bassi fra picchi eminenti e pigre e passive consuetudini, sarebbe poi rimasto sempre vivo nella cultura italiana. Dalla metà, almeno, del 19° sec. in poi questo tratto si sarebbe, anzi, andato rivitalizzando, fino a segnare uno degli aspetti più importanti del riallineamento all’Europa al quale la cultura italiana aveva pensato fin dal 18° secolo.
Modelli storiografici originali e rilevanti segnarono nell’età moderna in modo peculiare il cammino della storiografia italiana. Dalla ‘storia prammatica’ umanistico-rinascimentale alla ‘storia civile’ canonizzata dal Giannone; dalla ‘storia nazionale’ variamente perseguita fino al grande disegno di Francesco De Sanctis alla ‘storia economico-giuridica’ in cui si riflettevano, sia pure in forme per lo più poco organiche, i grandi impulsi della storia sociale di impronta marxistica e della storia sociale del diritto affermatasi nell’Europa del 19° secolo; dalla ‘storia scientifica’ di taglio positivistico alla ‘storia etico-politica’ nella formulazione del Croce, sono stati molti i modelli storiografici italiani, che, ovviamente, hanno costituito una parte rilevantissima, oltre che imprescindibile, della vicenda nazionale, ma che in vari periodi e in molti casi hanno anche avuto grandi riflessi europei. Anche l’adattamento italiano di modelli transalpini è stato spesso segnato da grande capacità di svolgimento in senso più caratteristicamente italiano: basti pensare alla ‘storia politica’ di scuola rankiana o alle esperienze compiute in vari campi particolari, dalla storia e della lingua a quella della scienza. Nella storia della letteratura la contrapposizione fra ‘scuola storica’ e ‘scuola estetica’ ha consentito ugualmente alla storiografia italiana originalità e fecondità di accenti e di conseguimenti; e altrettanto si dica della storia dell’arte per biografie e per scuole sul modello del Vasari variamente declinato, nonché delle tendenze culminate nella significativa attività di Roberto Longhi e delle polemiche e contrapposizioni che esse sollevarono.
Parallela fu pure la costante tendenza della storiografia italiana a riconoscersi non solo nei modelli storiografici di volta in volta tenuti presenti, ma anche nello sforzo ricorrente di costruire un pensiero storico. In questo sforzo si è andati progressivamente dalle visioni medievali di una ‘storia sacra’ (sacra in quanto compenetrata dai valori del cristianesimo occidentale di quell’epoca e identificata, nel suo senso, con il senso di questi valori) a quelle dell’epoca moderna, caratterizzate da una prevalente razionalizzazione della storia. È importante notare che questa razionalizzazione procede in parte per la via di una cultura cattolica in progressivo sviluppo e in rapporto con il proprio tempo. Nella parte maggiore, e più originale e propria, procede, invece, per la via di una visione mondana e laica delle cose del mondo e della loro storia.
Il pensiero storico italiano che così si viene definendo nel tempo dà luogo, quindi, a numerosi e molteplici esiti, di grande rilievo anche nel quadro europeo. Valga a darne solo un esempio lo sforzo di trovare e rappresentare un senso intrinseco della storia d’Italia quale storia di una delle grandi nazioni europee del Medioevo e dell’età moderna: un problema quanto mai altri intrinseco e coessenziale sia alla storia sia alla storiografia italiana. Si è potuto così indicare come rilevante in questo sforzo il delinearsi, tra la metà del 19° e la metà del 20° sec., di indirizzi, del tutto indipendenti fra loro, che proponevano moduli di lettura della millenaria vicenda italiana alla luce di criteri come quelli di ‘egemonia’ e di ‘dominio’ quali strutture sociali storicamente determinanti (Gramsci), di ‘carattere razionale’ dato dall’affermazione della borghesia oligarchica tardomedievale quale asse storico portante della storia nazionale (Antonio Labriola) e di molteplicità di elementi e di principi costitutiva, ma potenziante di tale storia (Cattaneo). Allo stesso modo, un tale delinearsi di letture unitarie è potuto apparire del tutto conciliabile con la lettura di altri, come il Croce, in primo luogo, che alla storia d’Italia negano unità di svolgimento fino all’unificazione politica della penisola nel 19° secolo (G. Galasso, L’Italia come problema storiografico, 19912, pp. 187-89).
Ancora più interessante per il profilo europeo dell’Italia in questo settore è, infine, la profondità teoretica che la riflessione sulla storia ha avuto in molti momenti della cultura e della civiltà europea. Basterà ricordare, da questo punto di vista, il pensiero machiavelliano sull’autonomia e sulla natura della politica e quello del Vico sulla natura e sulla struttura della conoscenza storica (principio del verum-factum, la natura delle cose come loro nascimento in certe forme e certi tempi). E Machiavelli e Vico sono stati certamente le stelle più brillanti in questo firmamento italiano, ma non sono stati affatto le uniche. Ancora tra il 19° e il 20° sec., con il Cattaneo, con Antonio Labriola, intorno al nome di Croce o in opposizione a lui, e per alcuni aspetti nella scia del Gentile, e fino a Gramsci, il pensiero italiano ha dimostrato una volta di più la sua attitudine e capacità a fare del pensiero storico una filosofia della storia. E, beninteso, una filosofia della storia non in quanto si costruisca un disegno dello sviluppo storico dall’alba dei tempi (o addirittura da prima) alla fine dei tempi (o addirittura a dopo), bensì in quanto si dà della storia una lettura che ne elabora e ne esplicita il senso alla luce di determinate categorie logiche e critiche e di determinati valori, assunti come criteri di quella lettura (un senso, dunque, ex post, non ex ante rispetto al corso della storia).
Era, dunque, sulla base di un molto consistente patrimonio di attività, di idee e di presenze spesso primeggianti nella storia della civiltà europea e sempre molto attive nella storia della società e della cultura nazionale, che la storiografia si apprestava a vivere, alla metà del 20° sec., la nuova epoca che allora cominciò ad aprirsi e che ha finito con il denominarsi della globalizzazione. Ed è sulla base anche di quel patrimonio che, quindi, bisogna seguire e giudicare la storiografia italiana in tale nuova epoca.