ITALIA (A. T., 22-23, 24-25-26, 24-25-26 bis, 27-28-29, 29 bis).
Il nome. - Secondo Antioco di Siracusa (Dion. Halic., I, 35), il nome d' Italia derivava da quello di un potente principe di stirpe enotrica, Italo, il quale avrebbe cominciato col ridurre sotto di sé il territorio estremo della penisola italiana, compreso tra lo stretto di Messina e i golfi di Squillace e di Sant'Eufemia, e, chiamata questa regione da sé stesso Italia, avrebbe poi conquistato molte altre città. È questa una delle solite leggende a schema eponimico, ma se ne è voluto dedurre che l'estensione originaria del nome d' Italia non valicasse i confini dell'estrema punta della penisola, del che si è cercata una conferma in Ecateo, del quale abbiamo frammenti, che assegnano all'Italia Medma, Locri, Caulonia; ma non si può escludere che egli attribuisse del pari all'Italia altre località, e nell'estensione assegnata da Antioco al nome originario d'Italia non è lec. to vedere più che una semplice congettura dell'autore. Quello che è certo è che, al tempo in cui egli visse, il nome d'Italia designava la regione compresa tra lo stretto di Messina, il fiume Lao e il confine orientale del territorio di Metaponto, come risulta da Strabone (VI, 24), e anzi Erodoto colloca Taranto in Italia (I, 93; III, 136, cfr. Dion. Halic., I, 73), ma poiché pure per Tucidide (VII, 33, 4) l'Italia comincia a Metaponto, è meglio attenersi per allora a questo confine.
Anche Aristotele (Polit., VIII, 1329 b), seguendo Antioco, faceva derivare il nome d'Italia dal re Italo. Ellanico, invece (Dion. Hal., I, 35), raccontava che, mentre Eracle traversava l'Italia per condurre in Grecia il gregge rapito a Gerione, gli fuggì un capo di bestiame, e, ricercandolo egli affannosamente, e avendo saputo che, secondo l'idioma indigeno, la bestia aveva nome vitulus, chiamò Ούιταλίαν tutta la regione. L'essenziale di questo racconto è la riconnessione del nome d'Italia con la voce vitulus, la quale era affermata anche da Timeo e da Varrone, quando costoro quel nome giustificavano così: quoniam boves Graeca vetere lingua ἰταλοι vocitati sunt, quorum in Italia magna copia fuerit (Gell, N. A., XI,1), perché è evidente che ἰταλός nel senso di vitulus sarebbe in ogni caso una voce derivata dal Latino nel Greco dell'Italia meridionale. Un'espressione figurata della stessa riconnessione si ha nelle monete osche battute durante la guerra sociale con la figura del toro e nell'epigrafe Viteliu, sia che questa parola alluda alla capitale degl'Italici, Corfinio, che vediamo dagli scrittori chiamata Italica, sia che debba intendersi qual nome della dea Italia (v. Corp. Inscr. Lat., IX, al. n. 6088).
Se in conformità di queste opinioni degli antichi noi ammettiamo questa riconnessione, la potremo spiegare semplicemente con la ricchezza in bestiame bovino della regione, specialmente in quella parte da cui il nome prese origine, o anche si potrà pensare che il vitello fosse il totem della stirpe degl'Itali, ricordando come anche i nomi di altre popolazioni italiche derivano da animali. E, del resto, è più probabile che la regione abbia preso nome dal popolo che non viceversa.
Comunque, l'etimologia d'Italia da vitulus (umbro vitlu) lusinga: la caduta del v iniziale si può agevolmente spiegare con l'essere stata la parola trasmessa ai Romani per mezzo dei Greci dell'Italia meridionale, e con la stessa ragione o con le esigenze metriche si può dar ragione della lunghezza della i iniziale di Italia di fronte alla i breve della prima sillaba di vitulus. Ma se questa derivazione è accettata dai più, non mancano storici, quali il Niese, e glottologi, quali il Walde, che la ritengono incerta, e vi ha chi la nega addirittura, come M. Orlando.
Nel corso del sec. IV a. C. il nome d' Italia si estese, dall'una parte, sino a Posidonia e, dall'altra, comprese Taranto (Dionys., I, 74, 4 e Strab., V, 209); intorno al 300 a. C. si allargò alla Campania (Theophr. presso Athen., II, 43 b). Quando poi nei primi decennî del sec. III a. C. tutta la penisola, dall'Arno e dall'Aesis allo stretto di Messina, fu amministrativamente e militarmente unificata sotto la dominazione romana, e le diverse stirpi che l'abitavano, Latini, Sabelli, Etruschi, Apuli e Greci furono costretti a combattere sotto le insegne di Roma con la comune designazione di togati, cioè uomini della toga, il nome d'Italia abbracciò tutta la penisola nei limiti indicati.
La conquista infine del territorio padano e la consapevolezza dell'unità geografica della penisola fecero sì che nel corso del sec. II il nome Italia, pur conservando in senso stretto il significato politico sino al limite Arno-Aesis, si allargasse di fatto a tutto il territorio tra le Alpi e i due mari italiani. Le prime testimonianze su questo uso più largo del nome sono in Polibio e in Catone. E l'estensione anche ufficiale del nome a tutta intera la penisola fu compiuta allorché Ottaviano nel 42 abolì la provincia Cisalpina creata da Silla e comprese anche l'Italia settentrionale nella sua divisione in regioni (v. oltre).
L'unione amministrativa della Sicilia, Sardegna e Corsica, che avevano formato fino allora provincia a sé, all'Italia si ebbe solo con Diocleziano, che comprese le tre isole nella diocesi italiciana. È peraltro curioso notare come la suddivisione della diocesi italiciana dioclezianea in annonaria e urbicaria (la prima corrispondente a un dipresso all'Italia settentrionale con la Rezia, la seconda all'Italia centrale e meridionale con le isole, e rette rispettivamente dal vicarius Italiae residente a Milano, e dal vicarius Urbis residente in Roma) fece sì che nello stesso momento in cui la designazione Italia in senso lato abbracciava anche le isole, d'altra parte, in senso più ristretto veniva a escludere non solo le isole stesse, ma anche tutta o quasi l'Italia peninsulare.
Per comprendere le vicende del nome d'Italia nel Medioevo, e soprattuito per spiegaie le numerose contraddizioni e oscurità che si trovano nelle fonti, va premessa una necessaria distinzione, tra un significato della parola largo, unitario, affermatosi con l'impero e tradizionale fin dal tempo di Diocleziano (vicariatus Italiae, dioecesis Italiciana), e un significato più limitato, di denominazione riferentesi a un organismo politico-amministrativo autonomo. Se la coscienza dell'unità ideale dell'Italia non si spegne mai del tutto, e ne sono prova numerosi passi di scrittori medievali, diversa è invece la sorte della seconda accezione, che subisce vicende varie secondo il succedersi degli eventi politici, portando al fiazionamento e spesso alla scomparsa del nome nelle varie regioni, così che si può anche, benché con poca proprietà, parlare di diverse Italie medievali.
Particolarmente tormentate sono le vicende del nome nei secoli VI-XII. Non era riuscito ai Goti di sostituire al sacro nome Italia quello di Gothia, ma sotto la dominazione longobarda, dopo un certo periodo, in cui i due nomi d'Italia e Longobardia vennero usati indifferentemente (ancora nell'806 un documento ufficiale carolingio dice "Italiam... quae et Langobardia dicitur") il termine Langobardia finì col prevalere, ma sempre riferito alla regione sottoposta ai nuovi dominatori.
Coll'epoca post-carolingica l'antica denominazione di regnum Italiae già affermatasi con Odoacre e identificantesi presso a poco con la dioecesis italiciana, risorge per circoscrivere generalmente i limiti dell'Italia longobarda dalla valle padana al Friuli e all'Istria non costiera fino al Patrimonio di S. Pietro. Anche a lungo si mantenne il nome d'Italia nel mezzogiorno della penisola, sottoposto ai Bizantini, per quanto per le successive diminuzioni del loro dominio, finisse più che altro con designare i territorî loro rimasti "in Italia", e nel tempo stesso si venissero affermando gli altri nomi regionali (sul finire del sec. X troviamo un catapano "d'Italia" detto qualche volta anche "d'Italia e Calabria").
Analogamente in altre regioni si trova l'espressione "d'Italia" con significato di "in Italia": tipico il caso della marca d'Italia o in Italia per cui si intitolano "marchesi d'Italia" un Bonifacio marchese aleramico (Monferrato) e un Bonifacio di Toscana, e Ottone I crea per Alberto Azzo d'Este la "marca d'Italia" (uno dei discendenti s'intitola "dux Italiae") e nel 1093 Umberto II di Savoia è conte di Moriana e "marchio Italiae". Interessante la vicenda dei titoli di Ruggiero II di Sicilia. Come Roberto il Guiscardo nel 1082 s'era intitolato "invittissimo duca d'Italia, di Calabria e di Sicilia", e Ruggiero stesso "conte di Calabria e Sicilia e di tutta la regione italica", poi, divenuto re nel 1130, si chiamò "re d'Italia". Il titolo si riferiva senza duhbio ai territorî bizantini dell'Italia meridionale. Col sec. XI la denominazione viene assumendo limiti più precisi, per quanto sempre circoscritti. In un diploma di Enrico lI, a favore del monastero di S. Sofia di Benevento, si accenna ai possessi "tam infra Italicum regnum quam eciam in Apuliae partibus" (1022): la penisola veniva dunque considerata divisa in due parti: il regno Italico e l'Apulia, termine generico per l'Italia meridionale, all'incirca a sud della linea Garigliano-Pescara. Nel 1208 il patriarca d'Aquileia viene nominato da Ottone IV legato "tocius Italiae" e cioè "tam in Lombardia quam per universam Tusciam necnon in ducatu Spoleti et Marchia Anconitana et Romandiola".
Nel corso del secolo XIII la suddivisione geografica d'Italia si va facendo sempre più precisa e insieme il concetto dell'unità geografica d'Italia si viene diffondendo, finché si giunge all'affermazione solenne di Dante, che, oltre a delimitare i confini della nazione con assoluta precisione geografica, riconosce l'unità linguistica, storica e culturale dei suoi abitanti, cioè l'unità nazionale dell'Italia. Da allora il concetto d'Italia rimane immutato.
Con il Settecento acquista più forte rilievo di fronte al significato tradizionale, culturale, quello che già sopra fu detto politico-amministrativo. Più vivo si fa negl'Italiani il senso di particolari necessità e problemi italiani, più netto il distacco, la differenziazione da necessità e problemi di men vivo interesse nazionale. La coscienza letteraria s'avvia a diventare coscienza più determinatamente politica. Con l'avvento della Rivoluzione scrittori e giornali invocano "la repubblica italiana una e indivisibile" (1796) o la riunione in "una nazione dei diversi popoli d'Italia" (1797). Col 1802, infatti, la Repubblica Cisalpina assume l'augurale nome di italiana, e d'Italia o italiano o italico sarà tre anni dopo il nuovo regno, esteso a così gran parte della penisola. Pur nell'incertezza provocata dalle delusioni recenti e dalla diversità delle aspirazioni e dei programmi, il senso politico del nome d'Italia più non si perde. Federalisti e unitarî pensano ormai a una "Italia" concreta e ben differenziata dalle terre straniere. E il nome di "Ausonia" che i carbonari mettono innanzi nel loro progetto di una repubblica, non è che un'effimera, letteraria invenzione; ché subito il nome ritorna ad essere quello d'Italia, che nel'32 lo statuto della Giovane Italia porrà alla cerchia delle Alpi e ai tre mari. E il regno d'Italia, imposto dalla realtà nuova maturata in un secolo e mezzo di tentativi e di lotte e vivo già nelle coscienze degli Italiani, nasce ufficialmente il 17 marzo 1861, quando ancora Roma e Venezia e altre regioni sono sotto diversa signoria.
Sommario. - Geografia: Italia fisica (p. 694); Regioni e provincie (p. 737); Popolazione (p. 740); Condizioni economiche (p. 747); Comunicazioni (p. 765). - Ordinamento: Ordinamento politico (p. 774); Forze armate (p. 777); Finanze (p. 782); Educazione (p. 785); Dominî Coloniali (p. 790). - Preistoria e storia (p. 791). - Culti (p. 917). - Lingua e letteratura (p. 922). - Etnografia e folklore (p. 960). - Arte: Arti figurative (p. 971); Tecnica costruttiva (p. 1000); Musica (p. 1005). - Diritto (p. 1017). - Gl'italiani all'estero (p. 1029).
GEOGRAFIA.
Sommario. - Italia fisica: Storia della conoscenza (p. 694); Confini e area (p. 696); Situazione (p. 698); Tettonica e genesi (p. 699); Descrizione geopaleontologica (p. 702); Le forme del terreno e i tipi del paesaggio (p. 708), Terremoti (p. 718); Clima e regioni climatiche (p. 723); Acque interne (p. 725); Flora e vegetazione (p. 729); Fauna (p. 736). - Regioni e provincie (p. 737). - Popolazione: Antropologia (p. 740); Censimenti (p. 742); Distribuzione e densità della popolazione (p. 743); Insediamento rurale (p. 744); Migrazioni interne ed emigrazione esterna (p. 746). - Condizioni economiche: Prodotti del suolo (p. 747); Allevamento e pesca (p. 753); Prodotti minerarî (p. 755); Industrie (p. 756); Commercio (p. 763). - Comunicazioni: Ferrovie (p. 765); Strade (p. 766); Navigazione e porti (p. 768); Marina mercantile (p. 769); Aviazione civile (p. 770); Turismo (p. 771); Poste, telegrafi, telefoni (p. 771). - Bibliografia (p. 772).
Italia fisica.
Storia della conoscenza. - Una descrizione completa, sistematica, dell'Italia, nel senso inteso dalla moderna geografia, si cercherebbe invano presso gli scrittori dell'evo antico, ma ciò dipende anche dal concetto che allora si aveva della scienza geografica. Tuttavia i lineamenti generali della configurazione dell'Italia, che ne fanno un individuo geografico a sé, sono già chiaramente indicati da Polibio (II, 14-17) e una descrizione assai ampia si ha nel libro V della Geografia di Strabone. A essa poco aggiungono, nel campo della geografia vera e propria, i libri di Plinio e di Mela e altre meno autorevoli opere posteriori. Ma nessuna di queste opere ci espone organicamente tutto il complesso delle conoscenze degli antichi, le quali, per taluni elementi, come il rilievo, erano certamente ben più progredite di quanto non si ricavi dalle notizie rimasteci. Quanto alle rappresentazioni cartografiche, le due sole pervenuteci, quella della Tabula Peutingeriana, e quella della Geografia di Tolomeo, rispondono entrambe a fini speciali; della carta di Tolomeo non si ha poi, probabilmente, neppure una derivazione diretta, ma solo una ricostruzione fatta sulla scorta del testo, che dà gli elementi astronomici di circa 565 punti dell'Italia (comprese le isole).
Anche nel Medioevo le conoscenze erano certamente molto più sviluppate di quanto non appaia dagli scritti pervenutici, i quali, in genere, o sono condotti su fonti classiche di mediocre valore, o consistono in descrizioni frammentarie e condotte con intenti particolari. Buone descrizioni e anche rappresentazioni cartografiche dell'Italia si hanno in geografi arabi, soprattutto in Edrisi. Alla cartografia nautica si deve la prima figurazione esatta dei contorni della penisola e delle isole, figurazione la quale viene tuttavia assai presto (già nel sec. XIV) riempita anche per le parti interne con una ricchezza di elementi (orografia, idrografia, situazione dei centri) che sta a dimostrare appunto una conoscenza più avanzata di quanto non risulti dalla letteratura.
Con l'Umanesimo appaiono le prime descrizioni generali d'Italia, tra le quali primeggiano l'Italia illustrata di Flavio Biondo (1453) e la Descrittione di tutta l'Italia di Leandro Alberti (1550); ma entrambe sono soprattutto opere d'erudizione classica; l'elemento attuale, derivato dall'osservazione diretta, per quanto non manchi del tutto, resta molto in seconda linea. Il primo impulso a studî e ricerche sul terreno viene da cultori della geografia e topografia storica, volti a investigare in situ le reliquie della civiltà latina; perciò opere come l'Italia Antiqua e la Sicilia Antiqua di Filippo Clüver, che negli anni 1617-18 percorse a piedi, in compagnia di Luca Holstenio, tutta la Penisola e la Sicilia seguendo il tracciato delle vie romane (v. clüver; holste), hanno importanza rilevante anche per la storia della conoscenza geografiea del nostro paese. Ma le sintesi più notevoli si hanno pur sempre nel campo cartografico: la grande carta d'Italia di Giacomo Gastaldi (1561) corregge sagacemente molti degli errori di situazione e configurazione risalenti ancora a Tolomeo; l'"Italia Nuova", di G. A. Magini (1608) e il suo Atlante d'Italia pubblicato postumo dal figlio Fabio (1620) segnano un progresso enorme, soprattutto perché utilizzano già lavori topografici ufficiali eseguiti a cura dei governi dei singoli stati italiani. Il commentario che accompagna il suddetto atlante - sintesi di una descrizione geografica dell'Italia molto più vasta che non fu compiuta - ha invece modesto valore. Nel sec. XVII e nella prima metà del XVIII, la figurazione dell'Italia si perfeziona, soprattutto per il progresso nella rettificazione degli elementi astronomici di posizione (carta del Delisle 1701, carta di G.B. D'Anville e Analyse géographique de l'Italie dello stesso, 1744); mentre le descrizioni geografiche generali dell'Italia, hanno, ancor per tutto il secolo XVIII, scarso valore, soprattutto per quanto riguarda il quadro fisico: basta, per persuadersene, richiamarsi all'art. Italia nel grande Dizionario geografico e critico del Bruzen de la Martinière (1768) o ai volumi dedicati all'Italia nell'edizione italiana della grande Geografia Universale del Büsching (Venezia, 1780).
Per uno studio scientifico del rilievo mancava del resto la base essenziale, la conoscenza dell'altimetria, che ancor nel sec. XVIII è, si può dire, all'infanzia. Ma nella seconda metà di quel secolo cominciano, anche in Italia, operazioni geodetiche di precisione e compaiono alcune buone carte topografiche su base geodetica, le quali contengono anche dati altimetrici, sempre più copiosi ed esatti (qualche dato risultante dall'applicazione del barometro alla misura delle altezze, si ha già nel sec. XVII); tra la fine del sec. XVIII e il principio del XIX si hanno di tali carte topografiche per quasi tutti i maggiori stati italiani (Piemonte, LombardoVeneto, Toscana, Stato della Chiesa, Regno di Napoli, ecc.).
Ma lo studio scientifico della geografia dell'Italia s'inizia dopo il 1870. Prima di quest'epoca compaiono buone opere regionali, anche se in esse non di rado s'avverte l'influsso prevalente d'una concezione statistica della geografia (Notizie topografiche e statistiche sugli stati sardi del De Bartolomeis, 1860-67; Notizie naturali e civili sulla Lombardia di C. Cattaneo, 1844 Grande illustrazione del Lombardo-Veneto di Cesare Cantù, 1858-62; Saggio statistico-storico dello Stato Pontificio di G. Calindri, 1829; Description statistique physique... de la Sardaigne di A. De la Marmora, ecc.), e ottimi dizionarî pure regionali (di G. Casalis per gli Stati Sardi, 1833-36; di E. Repetti per la Toscana, 1833-46; di L. Giustiniani per il reame di Napoli, 1793-1805, ecc.); ma non mancano altresì opere generali sull'intera Italia: tra esse meritano speciale menzione l'ottimo Prodromo della Storia Naturale d'Italia di F.C. Marmocchi (1844); la Corografia d'Italia di C. Rampoldi (1833-34); l'opera di egual titolo del Fabi (1854) e la monumentale Corografia storica e statistica dell'Italia e delle sue isole di A. Zuccagni-Orlandini (1840-45) in 12 volumi, con un atlante di ben 690 carte (5 volumi).
Dopo l'unificazione politica dell'Italia la conoscenza geografica del paese si avvantaggiò soprattutto per l'opera di uffici pubblici ed enti governativi. In prima linea l'Istituto geografico militare (v. firenze, XV, p. 460) al quale si deve la Carta topografica del Regno d'Italia alla scala 1: 100.000 (con i rilievi originali al 50.000 e al 25.000), terminata nel 1902 ed estesa ai territorî annessi dopo la guerra mondiale (323 fogli); poi l'Istituto idrografico della R. Marina, cui si devono il rilievo delle coste e lo studio batimetrico dei mari; il R. Ufficio geologico, che provvede alla carta geologica d'Italia al 100.000, non ancora terminata, il R. Ufficio centrale di meteorologia e geofisica che raccoglie e coordina tutti i dati fondamentali per lo studio del clima; i varî uffici dipendenti dal Ministero dei lavori pubblici, organizzati in un unico grande servizio idrografico, per le ricerche sulle acque continentali (fiumi e laghi); il R. Comitato talassografico, di più recente istituzione; infine il R. Istituto centrale di statistica, cui si debbono innanzi tutto l'esecuzione dei censimenti generali della popolazione (ogni decennio dal 1861, con la sola eccezione del 1891; ogni quinquennio a partire dal 1931) poi numerose rilevazioni statistiche su quasi ogni ramo dell'attività economica dello stato e la pubblicazione dell'Annuario statistico italiano, di un Bollettino mensile, del Catasto agrario, ecc. Contribuirono specie al progresso della conoscenza geografica dell'Italia anche la Reale società geografica italiana fondata nel 1867, il Club Alpino Italiano (1878) e il Touring Club Italiano (1894)
L'opera dei singoli studiosi non può naturalmente essere esaminata qui. Ancora per tutto il sec. XIX, più che a geografi specializzati, gli studî dei cui risultati si avvantaggia la conoscenza del nostro paese, si debbono a geologi, a vulcanologi (la vulcanologia si può anzi dire sorta in Italia nel secolo scorso), a idraulici, a studiosi di statistica. Ma le nuove correnti della geografia penetrano in Italia e trovano sempre più largo seguito sul finire del secolo XIX, soprattutto per opera di Giuseppe Dalla Vedova e di Giovanni e Olinto Marinelli: s'iniziano o si rinnovano le ricerche di morfologia (sulle Alpi e poi anche sull'Appennino); quelle sui fenomeni carsici; sui ghiacciai, oggi coordinate da un apposito ente, il Comitato glaciologico italiano; sui laghi; sul clima; più tardi e con minore organicità d'indirizzo, quelle sui fiumi e sui mari d'Italia. Si sviluppano anche le ricerche antropogeografiche, inspirate dapprima ai concetti di F. Ratzel e degli antropogeografi francesi, ma poi volte a indirizzi originali, soprattutto per opera di O. Marinelli. Anche i lavori corografici si moltiplicano e mostrano sempre più l'applicazione di criterî e metodi rigorosamente geografici. Più sparsa e poco coordinata appare tuttora la produzione nel campo della geografia economica. Concorre in misura notevole al progresso della conoscenza anche l'opera di geografi stranieri.
Nel complesso ai nostri giorni si sono talmente moltiplicati, sia i materiali offerti nei varî eampi dagli enti pubblici su ricordati, sia gli studî e e ricerche particolari, che appare estremamente ardua la composizione di opere sintetiche sulla geografia d'Italia. All'alba del sec. XX apparvero due di tali opere particolarmente degne di menzione, e cioè il volume (quarto) dedicato all'Italia nel grande trattato geografico La Terra diretto da G. Marinelli; e la Penisola Italiana di T. Fischer, al cui rifacimento italiano (1902) collaborarono validamente studiosi nostri. Analoghi tentativi di sintesi non furono in seguito più ripetuti, ma sono comparse talune opere generali che costituiscono una preziosa base preparatoria: tra esse l'Atlante dei Tipi geografici dell'Italia di O. Marinelli (1922) e la Guida d'Italia del Touring Club Italiano. Una copiosa bibliografia sistematica di tutti gli scritti geografici concernenti l'Italia viene pubblicata annualmente a cura della R. Società geografica italiana; di grande aiuto riescono anche la più antica bibliografia inclusa nella Bibliographie géographique annuelle (Parigi) e le rassegne periodiche del Geographisches Jahrbuch di Gotha. Un valido impulso al progresso degli studî geografici sull'Italia apportano i congressi geografici nazionali, che si raccolgono ogni tre anni (dal 1892) e dei quali si pubblicano regolarmente gli atti.
Confini e area. - Partendo dal principio che il concetto geografico di confine, anche nel caso di un territorio politico, debba corrispondere a quello di un ostacolo naturale, idoneo a formare una zona d'isolamento e perciò di protezione tutt'intorno al territorio considerato, si può dire che tale concetto si traduce in una realtà concreta per l'Italia, forse meglio che per qualunque altra regione europea. Come è noto, infatti, la regione italiana è cinta da tre lati dal mare - onde il suo spiccatissimo carattere peninsulare -, e nel lato lungo il quale si salda al resto del continente europeo è circondata dalle catene alpine, che, contenendo nella loro parte mediana, per quasi lungo l'intero arco, aree molto elevate, coperte di nevi perenni o comunque disabitate e impervie, costituiscono nel loro insieme una eccellente zona d'isolamento e di protezione. Pertanto l'individualità dell'Italia, nettamente delimitata fra i tre mari e l'arco delle Alpi, è concetto antichissimo, che si trova già chiaramente espresso da scrittori latini e che si perpetua poi con costante ininterrotta tradizione fino ai nostri giorni, non soltanto presso i geografi, ma presso scrittori e pensatori di ogni categoria e che ha avuto, da parte di autori celebri, magnifiche definizioni in prosa e in verso. Anzi l'individualità dell'Italia entro la cerchia delle Alpi e dei suoi mari, non è affatto un concetto puramente geografico, ma una verità universalmente avvertita e quasi connaturata nell'espressione stessa Italia, secondo l'uso più comune e concreto di essa. Ed è anche antichissimo il concetto che, volendo determinare entro quella zona d'isolamento che è costituita dalle aree più elevate delle Alpi, una linea di confine, questa sia da far coincidere con lo spartiacque principale. Tale concetto, che si legge già chiaramente formulato presso scrittori latini, alludenti ai divortia aquarum come ai limiti alpini dell'Italia, trova poi a partire dal sec. XVI la sua concreta espressione nelle carte geografiche, non solo italiane (v. la carta del Magini a p. 698), ma anche straniere. E anche presso gli scrittori (non solo geografi, ma anche politici) questa tradizione perdura ininterrotta dal sec. XVI in poi.
Il percorso di questo che si suole chiamare il confine naturale alpino dell'Italia, è quasi dappertutto molto evidente, salvo all'estremo orientale, dove, non soltanto le catene alpine si abbassano, e per conseguenza, non più continue ma saltuarie s'incontrano le aree molto elevate, inaccessibili e disabitate rispondenti al più preciso concetto di confine, ma, per il carattere del territorio, a tipo carsico, con idrografia prevalentemente sotterranea, non si può neppure riconoscere sempre uno spartiacque superficiale.
Tuttavia nel complesso la linea del confine naturale può essere assai chiaramente indicata, per concorde designazione dei geografi: a) a O. da una diramazione delle Alpi Marittime, che, dipartendosi dal M. Pelat, limita a O. il bacino del Varo, poi dalla linea che correndo sulla cresta delle Alpi Occidentali, divide le acque che vanno al Po da quelle che vanno al Rodano, dal M. Pelat al M. Bianco; b) a N. dalla stessa linea spartiacque corrente sulla cresta principale delle Alpi Pennine e Lepontine fino al S. Gottardo, poi dallo spartiacque tra il Po e il Reno corrente sulle elevate creste delle Lepontine fino allo Spluga, e da quello fra il Po e il Danubio dallo Spluga al Passo di Resia, e fra l'Adige e il Danubio da Resia alla Vetta d'Italia e alla Sella di Dobbiaco; c) a NE. e a E. ancora dalla linea dello spartiacque fra il Danubio e i fiumi veneti, segnata dalla dorsale principale delle Alpi Carniche, poi dalle Alpi Giulie fino al valico detto di Nauporto. A SE. di questo si entra nella regione carsica cui sopra si accennava, nella quale il confine si può tuttavia seguire sulla dorsale che limita a E. il bacino del lago di Circonio e contiene i monti Cervaro, Nevoso, Jelenck e Rišnjak, indi scende col M. Tuhovič sul Canale del Maltempo a E. del vallone di Buccari.
Quanto al confine marittimo, va rilevato anzitutto che l'appartenenza all'Italia delle tre maggiori isole è pure un principio generalmente ammesso sino dall'antichità. Pertanto a O. il confine è evidentemente segnato dalla ripida scarpata con la quale la breve piattaforma continentale fiancheggiante la Riviera di Ponente scende verso le massime profondità del Mar Ligure e dalla scarpata pure assai ripida con la quale la più ampia piattaforma, su cui posano Corsica e Sardegna, scende verso le aree profonde del Mare Esperico; quivi a 80 km. dalla costa sarda si raggiungono già profondità superiori ai 3000 m. A S. Pantelleria e il gruppo di Malta appartengono indubbiamente alla regione italiana, perché giacciono al margine della piattaforma continentale costituente l'imbasamento della Sicilia, e anche Linosa, di origine vulcanica, rientra, per questo carattere, tra le formazioni insulari vulcaniche che fanno corona all'Italia; invece Lampedusa sarebbe piuttosto da ascriversi all'Africa, perché giace, di là del Canale di Tunisi, sulla piattaforma continentale africana e ha anche una struttura tabulare che la ravvicina all'Africa settentrionale. Nello Ionio e nell'Adriatico meridionale, privi d'isole, il confine marittimo è ben chiaro; assai meno nell'Adriatico settentrionale; quivi tuttavia sono indubbiamente da ascriversi alla regione italiana le Tremiti e Pelagosa e nel Quarnaro Cherso, Lussin e Veglia che sono, sotto l'aspetto della struttura, una continuazione dell'Istria (v. alle singole voci).
Entro i confini naturali ora accennati l'Italia ha un'area di circa 321.700 kmq.
I punti estremi sono rappresentati a N. dalla Vetta d'Italia (47° 5′ 30″ lat. N.), a S. dallo scoglio di Filfola presso Malta (35° 47′ lat. N.; la Cala Malùk sulla costa S. di Lampedusa è a 35° 29′ 24″ N.); a O. dalla Rocca Chardonnet nelle Alpi Cozie (6° 32′ 59″ long. E.), a E. dal Faro di Capo d'Otranto (18° 31′ 18″ long. E.).
Come è noto, l'attuale confine politico terrestre del regno d'Italia non coincide dappertutto con i sopra indicati confini naturali alpini. A ovest, dal Mar Ligure (circa a mezza strada fra Mentone e il Capo Mortola) fino alle sorgenti della Stura di Cuneo, esso segue una linea molto irregolare, che esclude dall'Italia una sezione della valle della Roia (coi paesi di Breglio e Saorgio), mentre include una piccola porzione dell'alto bacino del Varo. Dalle sorgenti della Stura di Cuneo corre sulla cresta spartiacque fino al M. Dolent (punto di convergenza del confine italo-franco-svizzero) poi fino al Sempione (confine con la Svizzera); indi, lasciando alla Svizzera la Val di Vedro, scende a sud-est lungo le Alpi Ticinesi, taglia la parte nord-est del Lago Maggiore e il Lago di Lugano raggiungendo di nuovo lo spartiacque allo Spluga; resta perciò inclusa nella Confederazione Elvetica tutta l'alta valle del Ticino (Canton Ticino) e resta isolato sul Lago di Lugano, in mezzo a territorio pure svizzero, il comune italiano di Campione.
Tra lo Spluga e il Piz Lat (a ovest del Passo di Resia, punto di convergenza del confine italo-svizzero-austriaco) il confine segue in genere lo spartiacque, ma lascia alla Svizzera la Valle di Poschiavo (Adda) e la Val Monastero (Adige), mentre include nel regno la valletta del Lei (Reno) e la Val di Livigno, solcata dallo Spöl (affluente dell'Inn.)
Il nuovo confine con l'Austria, oggi interamente segnato mediante cippi dal Piz Lat al M. Forno (altra vetta triconfinale: Italia-Austria-Iugoslavia), segue pure nella massima parte del suo percorso la dorsale principale, assicurando tuttavia all'Italia il possesso completo dei valichi di Resia, del Brennero e di Dobbiaco, includendo, anzi, in territorio italiano la testata della valle della Drava con l'adiacente Val di Sesto, e, più a est, una parte notevole della valle della Slizza (Gail, Drava) con le conche di Tarvisio e di Fusine. Interamente determinato è oggi anche il confine con la Iugoslavia dal Piz Lat al Quarnaro, oggetto di laboriose trattative. Esso corre sulla dorsale principale delle Alpi Giulie fino al valico di Nauporto, più a sud segue un percorso molto irregolare, lasciando alla Iugoslavia l'intera conca di Circonio con i suoi tributarî, all'Italia il gruppo del Monte Nevoso.
Resta poi in territorio iugoslavo anche quasi tutto il bacino del fiume Eneo, il cui alveo solo nell'estremo tronco inferiore segna il confine del territorio di Fiume incorporato nell'Italia in virtù dell'accordo di Roma tra l'Italia e la Iugoslavia (27 gennaio 1924) insieme con una sottilissima striscia litoranea che lo unisce al resto dell'Istria. È rimasta alla Iugoslavia l'isola di Veglia, mentre l'Italia ha annesso Zara con un limitato territorio circostante e l'isola dalmatina di Lagosta con alcune minori adiacenti.
L'area del regno d'Italia risulta pertanto di 310.319 kmq., così suddivisi: parte continentale (comprese le isole minori a essa ascritte) 260.381 kmq.; Sicilia e isole circostanti 25.738 kmq.; Sardegna e isole circostanti 24.090 kmq.; Zara e Lagosta 110 kmq. Lo sviluppo del confine terrestre del regno è stato calcolato a circa 1878 km., (con la Francia km. 487, con la Svizzera 725, con l'Austria 421, con la Iugoslavia 245) di contro a circa 8.000 km. di confine marittimo (coste della Penisola 3980 km.; della Sicilia 1115, della Sardegna 1336, de" e altre isole 1565).
Situazione. - Elemento fondamentale, che contraddistingue l'Italia come individuo geografico, è la situazione centrale nel bacino mediterraneo, nel quale essa, per il suo netto carattere peninsulare, si slancia come un gigantesco molo proteso da NO. a SE. Come paese mediterraneo l'Italia ha, soprattutto dal punto di vista climatico, caratteri comuni con le altre due penisole sudeuropee, ma si avvantaggia più di esse dei benefici influssi del mare, per la sua situazione centrale e per la sua forma svelta, onde nessun punto, neppure nella parte settentrionale più massiccia, dista dal mare più di 250 km. (nella Penisola Iberica vi sono punti distanti 350, nella Penisola Balcanica si arriva a 390). Circondata e compenetrata dal mare, l'Italia è un paese d'intensa vita marittima; il Tirreno è un nare prettamente italiano, ma anche l'Adriatico è dominato dall'influsso dell'Italia. La penisola, con la Sicilia, divide il Mediterraneo in due bacini; la distanza fra la Sicilia e l'Africa è inferiore a 150 km. (C. Boeo-C. Bon); quella fra la Sardegna e l'Africa inferiore a 200 (Cagliari-Biserta). La costa NO. della Sardegna dista dalla costa spagnola (Barcellona) presso a poco quanto da Napoli; Messina è posta all'incirca alla stessa distanza da Gibilterra, da Suez e da Odessa. Il C. Passero, estremità sudorientale della Sicilia, dista circa 460 km. da Tripoli, 600 dalla costa della Cirenaica e 780 da Creta. Per questa sua posizione l'Italia ha sempre servito da intermediaria tra l'Europa meridionale e l'Africa, con la quale i rapporti furono sempre molto stretti, a partire dalle guerre puniche. Più stretti ancora i rapporti con la Penisola Balcanica, da cui dista appena 73 km. nel Canale d'Otranto, e in genere con tutti i paesi del Mediterraneo orientale verso i quali si protende l'estremità sudorientale della Penisola. Ma anche i rapporti con la Penisola Iberica risalgono a tempo remoto, almeno alle guerre puniche. Nonostante la presenza della chiostra alpina, per la frequenza in essa delle valli trasversali e dei valichi, anche le comunicazioni con l'Europa Centrale sono relativamente facili.
Tettonica e genesi. - L'Italia è terra giovane; all'opposto dell'Iberia, generatasi da un nucleo primordiale che si andò ingrandendo attraverso le età geologiche da addizioni successive, è sorta principalmente per opera del più recente dei grandi corrugamenti orogenetici, l'alpino; gli avanzi delle strutture più antiche sono, per ciò che riguarda l'estensione, subordinati e per posizione periferici.
Le orogenesi del Paleozoico (vedi europa: Geologia) avevano sollevato a occidente dell'attuale penisola una terra, in seguito scomparsa quasi del tutto, della quale sono nel Mediterraneo relitti la Sardegna, la Corsica, e il gruppo dei Maures con le isole Hyères in Provenza. Più a N., dove sorsero poi le Alpi, altre terre collegavano le ora nominate con le Ercinidi della Mesoeuropa.
A questo antico paese ercinico appartiene il substrato generale paleozoico della Sardegna, dove dapprima s'inarcarono i sedimenti del Cambrico medio, ricoperti poi dalla trasgressione ordoviciana e sconvolto il tutto subito dopo dall'orogenesi caledonica, che produsse pieghe fortemente costipate e forse anche carreggiamenti (Iglesiente e Nurra). Intorno alla terra così sorta si depose il resto del Paleozoico, finché intervenne il ripiegamento ercinico nel Carbonico superiore, seguito da intrusioni di granito e da effusioni di porfido, largamente sviluppate nella Sardegna orientale e nella Corsica di ponente. I graniti della Sardegna sono accompagnati da gneiss, micascisti e filladi che già il Lamarmora giudicò Paleozoico antico metamorfico.
Masse poderose di terreni antichi per lo più sotto forma di scisti cristallini si trovano nelle Alpi e nell'Appennino meridionale, le quali, con minor sicurezza che non la Sardegna e la Corsica, sono considerati come resti di Ercinidi rinserrati fra le pieghe alpine. Le meno controverse, nei limiti della regione italiana, sono l'Argentera, il Monte Bianco, il Gottardo e il Massiccio Calabro-Peloritano, ritenuti autoctoni. Però di nessuno di questi si ha la prova che alla fine del Paleozoico fossero in tutto o in parte emersi. Così rimane ignota l'estensione vera della terra formatasi in quel tempo e durata con limiti non troppo variabili tutto il Mesozoico. Da un lato di essa esisteva un mare continentale a sedimenti con facies germanica; dall'altro la Tetide con depositi a facies alpina.
Nel Mesozoico, era di calma relativa, l'epeirogenesi prevalse. Ne troviamo le prove in Sardegna, dove lembi di Autuniano (Permico), di Mesozoico a facies germanica, dal Trias fino al Cretacico, e di Eocene riposano ancora con penetta orizzontalità sulla platea ercinica allo stesso modo come in Calabria e nei Peloritani il Mesozoico. Non ebbe sosta l'attività eruttiva. Lo provano le eruzioni di "Pietra Verde" del Trias nelle Alpi Orientali, e svariate eruzioni di Predazzo nel Trentino, le estesissime prasiniti, eufotidi e serpentine dei calcescisti dell'alto Adige, dei Grigioni e delle Alpi Occidentali, i basalti dal Giurese in poi della Sicilia; le ofioliti appenniniche.
Le irresistibili spinte del diastrofismo alpino sollevano alla fine dell'Eocene in pieghe grandiose i sedimenti della Tetide e li rovesciano contro i massicci ercinici per modo che estese falde di carreggiamento li scavalcano.
La Sardegna soltanto rimane immune, ma sotto l'enorme pressione si spezza da N. a S. dando luogo a una fossa mediana (Campidano, Logudoro) che sarà più tardi colmata da sedimenti e da eruzioni, le quali, incominciate col prodursi della fossa, persisteranno fino al Pliocene. Contro i graniti della Corsica dalla banda di oriente sono sollevati in pieghe di carattere nettamente alpino gli scisti lucenti con ofioliti di Capo Còrso e quelli che stanno a levante della linea S. Fiorenzo-Corte-Ghisoni.
L'opera maggiore del sollevamento fu il Sistema Alpino col caratteristico decorso delle linee tettoniche che dirette quasi E.-O. nel settore orientale, s'incurvano nell'occidentale in un vasto semicircolo che sembra raccordarsi con l'Appennino per cingere il golfo padano. Curvatura attribuita alla presenza dei tre massicci ercinici presunti autoctoni del Monte Bianco, di Belledonne-Pelvoux, dell'Argentera, contro i quali le pieghe si sarebbero adattate inflettendosi. Si ammette che il sistema sia costituito da due grandi unità: le Alpidi propriamente dette a N., con tettonica tormentatissima di falde sovrapposte e intenso metamorfismo, contro le quali si serrano da S. le Dinaridi composte in prevalenza di strati secondarî e del terziario antico, a facies normale, con struttura più semplice di pieghe ordinarie e dislocazioni per frattura. La linea di separazione fra Alpidi e Dinaridi, non fatta evidente da alcuna accidentalita morfologica, partirebbe da Ivrea, passerebbe a N. dell'Adamello e proseguirebbe verso E. (linea alpino-dinarica o linea del Tonale o insubrica; v. alpi: Geologia).
Nel Miocene l'Appennino si delinea già dalla Liguria alla Sicilia dapprima non ancora continuo, ma interrotto da bracci di mare, dei quali il più importante lo attraversava da NNE. a SSO. fra Umbria ed Abruzzo. A settentrione di questo canale corre, dalla Liguria e dal Piemonte fino all'Umbria, il largo fascio assiale di terreni in prevalenza terziarî (scisti argillosi e arenarie), con andamento strutturale da maestro a scirocco (Liguridi), fiancheggiato dal lato di ponente dalla Spezia in giù, dal Preappennino toscano (Apuane e Catena Metallifera) ancora arcipelago, con terreni paleozoici e mesozoici preponderanti e direttrici tettoniche a N. da NO. a SE. ma che verso mezzogiorno diventano N.-S. nel Grossetano (Toscanidi). Dal lato adriatico, infine, a cominciare dall'Urbinate una zona orientale si addossa al fascio assiale, composta di terreni secondarî dal Trias al Cretacico, che termina, assumendo andamento trasversale, nei monti della Sabina; fascio tettonico di pieghe e tipici carreggiamenti (Spoleto) le cui direttrici, volgendo dapprima in senso meridiano fino al Monte Vettore, tendono dopo, man mano che procedono verso S., a diventare NNE.-SSO., interrompendo così il prolungarsi verso scirocco delle linee tettoniche del fascio assiale. Le pieghe di questa zona orientale deviano verso SO. per stringersi contro una linea Tivoli-Antrodoco-Monte Vettore, messa in evidenza da un contatto anormale fra i terreni secondarî e i miocenici, dislocazione trasversale, frattura o superficie di carreggiamento, di primaria importanza, che segna non solo un limite tettonico ma corrisponde a un cambiamento di facies del Sopracretacico appenninico che da scistoso-calcare (scaglia, calcare rosato, scisti a fucoidi), facies abissale, a NO., diventa a SE. di essa calcare ippuritico compatto, facies di scogliera, caratteristico di tutto l'Appennino meridionale.
Oltre tale linea, a cominciare dall'Abruzzo, l'allineamento tettonico dell'Appennino riprende la direzione da maestro a scirocco che aveva a N., sebbene con una ben diversa struttura, complicata di pieghe e dislocazioni longitudinali con predominio del Secondario quasi del tutto calcare o verso il Tirreno, del Terziario argilloso arenaceo verso levante.
Al Vallo del Crati incomincia il blocco di scisti cristallini Calabria-Peloro, di struttura ercinica, rimasto del tutto sommerso durante l'era mesozoica come attestano i lembi sovrapposti di calcare secondario di Monte Paleparto, di M. Coccuzzo (Cosenza), del M. di Tiriolo e altri minori, avanzi di un mantello mesozoico. Le linee tettoniche vanno da NO. a SE. nella Sila e diventano quasi E.-O. nelle Serre e l'Aspromonte. Lungo l'orlo ionico del blocco si adatta il sollevamento appenninico descrivendo un arco dal Golfo di Taranto al Mar di Sicilia e passando dalla direzione tettonica maestro-scirocco della penisola a quella E.-O. delle Caronie e Madonie.
La spinta orogenica continuò gagliarda oltre il Miocene più antico in modo che vediamo ora terreni miocenici recenti innalzati nell'Appennino centrale fino ai 2000 metri; più a S. nei Lepini e Ausoni e nei Monti dell'Irpinia i calcari ippuritici sovrastare orizzontali per carreggiamento rispettivamente sul Miocene inferiore e sulle argille scagliose. L'Appennino si è così saldato in una lunga catena con numerosi solchi vallivi longitudinali che si vennero colmando. Calabria e Sicilia rimangono ancora un complesso di isole staccate.
A levante della catena principale, come ondulazione lontana, si eleva il Monte Conero di costituzione analoga all'Appennino marChigiano. Più a S. il Gargano è un semplice inarcamento degli strati cretacei del tipo meridionale con lembi eocenici. Più a S. ancora la vasta piattaforma calcare della Puglia si allunga con strati orizzontali in senso parallelo all'Appennino, emergendo più lentamente di questo, come dimostra la sua parziale copertura di sedimenti miocenici e pliocenici.
Il Miocene si chiude con un movimento generale di emersione che dà luogo a depositi litoranei e lagunari (zona gessoso-solfifera) dovuti in parte a una fase caspica transitoria in quel Mediterraneo che si era andato formando durante il diastrofismo alpino in luogo della Tetide. Il Pliocene segna invece una trasgressione o periodo talassocratico nel quale sono invase dal mare tutte le insenature, canali e stretti rimasti fra le terre di recente sollevamento. La sola Sardegna fa eccezione, perché in essa, emersa dopo il Miocene medio, non v'ha traccia della trasgressione pliocenica.
Il Quaternario segna un nuovo sollevamento generale dove più, dove meno intenso, ma sempre forte, che innalza tutti i depositi pliocenici litoranei e compone cosi nell'attuale unità tutte le parti fino ad allora disgiunte. Si riuniscono in un tutto le varie isole plioceniche calabresi; si saldano all'Appennino la Puglia, il Gargano e il Conero; viene ridotto e successivamente colmato dalle correnti alpine il Golfo Padano. Il movimento è così intenso, che il Pliocene viene in qualche caso portato fin oltre ai 1000 m. sul mare (Monte dell'Ascensione, 1103 m. presso Ascoli); in Calabria il graduale innalzarsi quaternario è segnato sul versante tirrenico da una quadruplice linea di terrazzi; il più alto dei quali ha la quota di 1200 metri.
Il diastrofismo alpino è accompagnato fino dal suo inizio da manifestazioni eruttive. Fra le più antiche sono da annoverarsi nelle Alpi gli Euganei che datano dal Cretacico, i basalti del Monte Baldo, del Veronese e del Vicentino eocenici, e i Berici. Miocenici sono i graniti e porfidi dell'Elba e della Catena metallifera, le sieniti di Biella e le dioriti di Traversella, i graniti di S. Fedelino. In Sardegna trachiti e basalti si sono succeduti dal principio del Miocene fino all'aprirsi del Quaternario. In Sicilia i basalti della Val di Noto continuano fino al Miocene superiore un'attività iniziatasi nel Mesozoico nel centro dell'Isola. Nel Quaternario avviene una ripresa grandiosa del vulcanismo. Nel lato interno dell'Appennino Capraia, Monte Amiata, i Vulcani laziali, campani, pontici, eolici e Ustica. Sul lato esterno il Vulture e l'Etna, oltre i centri più lontani di Pantelleria e Linosa e quello sottomarino di Ferdinandea.
Descrizione geopaleontologica. - L'Italia esaminata dal punto di vista geologico presenta una tale quantità di terreni, sia cronologicamente e sia litologicamente considerati, una tale varietà e spesso complicazione di fenomeni tettonici, quale non si riscontra altrove sulla Terra in un'area relativamente così ristretta. Non affiorano però, per la relativa recente formazione dell'Italia, le rocce arcaiche. Infatti i terreni più intensamente cristallini, come gli gneiss, i micascisti, i graniti e rocce simili, che compaiono ampiamente nelle Alpi Occidentali e nella regione calabrosicula e che per lungo tempo furoeio attribuiti all'era arcaica o archeozoica, ora invece si tende a ritenerli prevalentemente quali rappresentanti metamorfici di terreni paleozoici.
Tuttavia non sembra improbabile che la parte più profonda di tali formazioni gneissiche possa ancora riferirsi all'Arcaico superiore o Proterozoico.
L'era paleozoica o primaria è rappresentata, invece, in Italia in quasi tutti i suoi periodi, ma con facies assai diverse. Anzitutto è da notare che una buona parte delle formazioni gneissiche, micascistose, granitiche e simili, eminentemente cristalline, che si sviluppano abbastanza estesamente nelle Alpi, specialmente Occidentali e nel cuore di quelle Centrali, nonché nella regione calabro-sicula, e nella Sardegna centro-settentrionale, sono riferibili al Paleozoico, senza però poterne generalmente precisare l'età per la mancanza di fossili, in causa essenzialmente dell'intenso metamorfismo; la loro parte superiore è attribuibile al Permo-carbonico per tracce carboniose, ma nella loro parte inferiore non si ha finora possibilità di determinare sicure suddivisioni.
All'infuori di queste formazioni metamorfiche del Paleozoico si trovano in Italia rappresentati i seguenti periodi:
Cambrico. - Compare essenzialmente nella Sardegna meridionale (Iglesiente) per circa un migliaio di kmq., con uno spessore di varie centinaia di metri.
La serie è rappresentata, dal basso in alto, da scisti filladici, calcescisti e calcari (il cosiddetto calcare metallifero, includendo esso parte dei noti giacimenti minerarî della Sardegna); arenaria e scisti arenacei, qua e là ancora con calcari. Tale serie è spesso ricca di varî fossili, specialmente Trilobiti (Paradoxides, Conocoryphe, ecc.), Lingule, Archeociati, Bilobiti, ecc.
Silurico. - Appare tipico specialmente nelle Alpi Orientali e in Sardegna.
Nelle Alpi Orientali la serie è complessivamente formata, dal basso in alto, da: scisti e calcescisti brunastri o varicolori con molti Brachiopodi (Orthis, Strophonema, ecc.), Cistoidei, ecc.; talora scisti brunastri ricchissimi in svariate forme di Graptoliti; calcari brunastri, della potenza anche di 300-400 metri, con frequenti e svariati Orthoceras, Cyrtoceras, Cardiola, Rhynchonella, qualche Trilobite, diversi Corallarî, ecc. Alla base della serie costituente le Alpi Apuane v'è qualche affioramento di calcari e micascisti con Orthoceras, che paiono attribuibili al Silurico; dubbi sono i riferimenti analoghi di certi scisti dell'isola d'Elba. Invece in Sardegna la serie silurica è assai bene costituita, dal basso in alto: da brecce o conglomerati; da una potente formazione di scisti argillosi o arenacei, brunastri, con parecchie Trilobiti (Asaphus, Trinucleus, Dalmanites), Fillocaridi, svariati Brachiopodi (Lingula, Orthis, Strophonema, Leptaena, ecc.), Crinoidei, Cistoidei, ecc.; da svariati argilloscisti grigiobruni con diverse forme di Graptoliti; da calcari con numerosi Orthoceras e Cyrtoceras, parecchi Molluschi (Cardiola, Pleurotomaria, ecc.), Ostracodi, ecc.
Devonico. - Fu ben riconosciuto nelle Alpi Orientali, dove vi appartengono potenti masse di calcari grigiastri (dello spessore anche di un migliaio di metri), per lo più a tipo di scogliera, con centinaia di specie fossili, con predominanza ora dei Corallarî, ora dei Brachiopodi, ora dei Cefalopodi; frequenti sono i generi: Pleurotomaria, Euomphalus, Murchisonia, Loxonema, Clymenia, Posidonomya, Stringocephalus, Productella, Rhynchonella, Spirifer, Atrypa, Stromatopora, Pentamerus, Syringopora, Cyathophyllum, Alveolites. In Sardegna appartengono al Devonico superiore speciali calcari a Clymenia.
Carbonico. - Per quanto non includano generalmente il vero carbon fossile industriale, assai sviluppati sono in Italia i terreni di questo periodo. Oltre alla facies metamorfica (scisti cristallini diversi, qua e là grafitosi o anche antracitiferi) che si sviluppa in particolar modo nelle Alpi Occidentali e in qualche punto della penisola, il Carbonico è rappresentato da scisti bruni di vario genere, talora riccamente fillitiferi a Sphenopteris, Pecopteris, Cordaites, Calamites, Sigillaria, Lepidodendron, Asterophyllites, Annularia, Lepidophyllum, e nelle Alpi Orientali da scisti, da arenarie e da calcari bruni talora arenacei a Fusuline, Coralli, Fenestelle, Crinoidi, Briozoi, Brachiopodi (Spirifer, Productus, Chonetes), Molluschi (Conocardium, Bellerophon, Euomphalus).
È anche riferibile al Carbonico una parte delle svariate rocce eruttive (porfidi, porfiriti, diabasi) e fors'anche alcune plutoniche (granitoidi e simili), che talora si trovano associate alle masse scistose di tale periodo o di terreni più antichi.
I terreni carbonici, spesso assai potenti e sovente con passaggio alla facies metamorfica, si sviluppano nelle Alpi, essi riappaiono inoltre in parecchi punti della Toscana, dell'isola d' Elba e della Sardegna, dove sono talora antracitiferi.
Permico. - I terreni appartenenti a questo periodo sono in Italia, come spesso altrove, talmente connessi con quelli del Carbonico e ad essi analoghi per caratteri litologici, che ne sarebbe logica la riunione in un solo tutto Permo-carbonico (o Antracolitico).
Nelle Alpi Occidentali e Centrali, nonché in Toscana, il Permico appare in parte con facies metamorfica (pseudogneiss, micascisti, talcoscisti, besimauditi), passante a scisti varicolori, arenarie, quarziti, conglomerati (anageniti, verrucano), nonché a scisti bruni qua e là con resti di Walchia, Sphenopteris, Neuropteris, Callipteris, ecc.; mentre nelle Alpi Orientali, oltre alle forme arenacee e conglomeratiche, vi appaiono pure, specialmente alla base, calcari a Schwagerina, Fusulina, Brachiopodi (Spirifer, Rhynchonella, Productus, ecc.), calcari bituminosi e dolomie con Voltzia, Bajera, Avicula, Pecten, Bellerophon, Athyris, Spirifer.
In Sicilia furono scoperti nella valle del Sosio a nord di Palermo piccoli ma interessantissimi affioramenti di Permico calcareo marino riccamente fossilifero (Schwagerina, Spugne, Brachiopodi, Bivalvi, Gasteropodi, Nautiloidei, Ammoniti, Phillipsia, ecc.).
In Sardegna debbono essere riferite a questo periodo varie formazioni arenacee, conglomemtiche e anche scistose a Walchia, Callipteris, ecc.
Al periodo permico vanno pure attribuite importanti formazioni eruttive (porfidi varî, spesso quarziferi, porfiriti, spiliti, tufi, ecc.) che si estendono anche per centinaia di kmq. in varie parti delle Alpi.
I terreni dell'Era secondaria o mesozoica, mentre in complesso fasciano o ammantano irregolarmente la regione alpina costituiscono l'ossatura dell'Appennino, comparendo anche qua e là in Sicilia e in Sardegna; essi sono essenzialmente calcarei, di deposito marino (talora di facies atollica) e spesso assai fossiliferi, con potenza complessiva anche di oltre 1000 metri.
Triassico. - S'inizia generalmente nell'Italia settentrionale (Alpi in modo speciale) con formazioni detritiche, litoranee, quasi come ultima fase della serie permica, come arenarie micacee, quarziti, conglomerati (anageniti, servino, ecc.), il cosiddetto Werfeniano, talora con resti di Equiseti, Voltzie. Talora compaiono assai presto calcari con Pseudomonotis, Turbonilla, Naticella, ecc.
Seguono in alto potenti serie calcaree, più o meno dolomitiche, talvolta un po' arenacee, non di rado passanti a marne più o meno scistose, con resti di Equisetum e di Voltzia, spesso con innumerevoli resti di Alghe sifonee (Gyroporella o Diplopora), e con una ricchissima quanto svariata fauna (donde il nome di Muschelkalk) a Rhizocorallium, Dadocrinus, Encrinus liliiformis, Terebratula vulgaris, Rhynchonella, Spirigera trigonella, Daonella, Halobia, grandi Omphaloptycha, Ceratites trinodosus e binodosus, Trachiceras, talora anche con resti di pesci e di rettili. Famosa e ricca è la fauna dei calcari a scogliera di Esino.
Chiudono infine la serie triassica altre considerevoli formazioni calcaree e dolomitiche (la cosiddetta Dolomia principale), con giganteschi Megalodon Gumbeli e Dicerocardium, Pleutomaria solitaria, Gervillia exilis, marne (con la nota fauna di S. Cassiano) e scisti a Carnites, Myophoria, Myoconcha, Pesci, ecc. (il cosiddetto Raibliano), zone gessose, terminando in alto con calcari ad Avicula contorta, calcari dolomitici a Terebratula gregaria, Plicatule, Cardite, Cardii, Mitili, talora a grandi stampi di Megalodonti (Conchodon), Lumachelle, ecc., costituenti il cosiddetto Retico o Infralias (il Dachstein dei Tedeschi) di passaggio fra il Triassico ed il Liassico.
Nell'Appennino meridionale invece la serie triassica incomincia con scisti silicei varicolori a Fucoidi o Condriti e Radiolarî, nonché Halobie, Posidonomie, ecc., e si continua in alto coi calcari marnosi fossiliferi (Cassianella, Myophoria, Cardita, ecc.) e con potenti dolomie compatte o stratificate a Megalodontidi e Giroporelle, con Wortenia, Neritopsis, Gervillia exilis, Avicula, Mytilus. Pecten, Myophoria, Myoconcha, Cardita, ecc., nonché con la ittiofauna di Giffoni. Le formazioni endogene, quasi solo marine, sono generalmente poco importanti nel Triassico, salvo che in alcune regioni, per esempio nel Trentino, come porfidi, porfiriti, melafiri, diabasi, oltre a varî tufi, nonché rocce sienitiche, granitiche e simili assai varie, ma di età non sempre sicura. Dal punto di vista economico è da ricordarsi che la dolomia è talora metallifera (galena, blenda, calcopirite, calamina) e che al Triassico appartengono i famosi marmi bianchi e grigi delle Alpi Apuane.
Giurassico. - Formazione molto complessa e varia. La sua parte inferiore, o Liassico, è rappresentata per lo più da calcari brunastri o grigi, talora però anche rossigni, con moltissime Ammoniti (Arietites, Arieticeras, Amaltheus, Lytoceras, Hildoceras), Belemniti, Aegoceras, Harpoceras, Phylloceras, Rhacophillites, Pettini, Mitili, Lime, Avicule, molti Brachiopodi (Terebratula, Pygope aspasia, Rhynchonella, Spiriferina, Waldheimia, Spirifer). Nell'Appennino meridionale prevalgono i calcari a Terebratule, Rinconelle, Lime, Pettini, Megalodi, ecc.
Seguono a costituire il vero Giurassico svariatissimi calcari grigi o varicolori, ma prevalentemente di color rossigno (donde è poi venuto anche il nome di Rosso ammonitico), fra cui sono predominanti Hildoceras, Harpoceras, Phylloceras, Coeloceras, Lioceras, Aspidoceras, Peltoceras, Posidonomya alpina, Pholadomya, Pecten, frequenti Brachiopodi (Rinconelle, Terebratule, ecc.), talora anche calcari a Nerinee e Coralli o calcari marnosi o arenacei o silicei, o a noduli selciosi, oppure infine speciali scisti ad Aptici.
Infine la serie giurassica si chiude generalmente con i calcari grigi del cosiddetto Titonico, oppure biancastri (la maiolica dei Lombardi, il biancone dei Veneti, il calcare rupestre dell'Appennino), passanti al Cretacico inferiore, con molti Corallarî, Brachiopodi (fra i quali ricorderemo Pygope diphya, Pygopejanitor, e altri), Belemniti, Diceratidi, molte Ammoniti.
Vi sono poi tipi di regimi intermedî, i quali divengono quasi la regola, quando si ha a che fare con bacini fluviali di grande estensione. Ciò ha valore soprattutto per il Po, le cui portate medie mensili mostrano oscillazioni assai meno marcate di quelle degli affluenti alpini e appenninici; giacché i regimi diversi dei due versanti si compensano in qualche modo fra loro, dando luogo a un andamento molto più regolare (v. Po).
L'intensità delle piene, carattere comune alla maggior parte dei fiumi appenninici e insulari, è accompagnata da un'intensa azione erosiva, favorita anche dalla grande diffusione delle rocce argillose, sabbiose, ecc. poco resistenti.
Nell'Italia meridionale e in Sicilia, dove nel periodo estivo alla siccità prolungata si associa l'intensa evaporazione, molti torrenti minori sono asciutti per un periodo assai lungo; le cosiddette fiumare, numerosissime nella Calabria e nella Sicilia, restano a secco per molti mesi, anzi molte portano acqua superficiale solamente durante i periodi delle piene, allorché strappano ai terreni attraversati, che sono quasi sempre erodibilissimi, enormi quantità di materiali; questi nel tronco inferiore, nel quale per la minor pendenza l'energia di trasporto naturalmente si attenua, restano a ingombrare il fondo, che risulta pertanto larghissimo in proporzione allo sviluppo del corso d'acqua.
La diffusione, già accennata, delle rocce calcaree, tanto nelle Alpi e Prealpi orientali, quanto nell'Appennino centrale, fa sì che in parecchie regioni d'Italia assuma notevole sviluppo l'idrografia carsica. Vaste aree prive interamente di circolazione superficiale (cioè con idrografia esclusivamente sotterranea) si hanno per vero solo nel Carso e nella Penisola Salentina; ma zone più ristrette si riscontrano sia nelle Prealpi orientali (Altipiano dei Sette comuni, Cansiglio), sia nei massicci abruzzesi (Velino, Duchessa, Maiella, Matese) e in quelli del Subappennino Romano (bacini dell'Aniene, del Salto e del Turano) e anche qua e là altrove (Lepini, massicci irpini, Madonie). Di solito l'acqua che circola in seno a questi massicci calcarei, affiora poi alla base di essi in sorgenti localizzate, spesso molto copiose; il loro comportamento ha grande influenza sul regime dei corsi d'acqua che esse alimentano, la loro distribuzione è di primaria importanza come fattore determinante della distribuzione dei centri abitati, che spesso si affollano intorno alle sorgenti, delle coltivazioni, ecc.
Bacini lacustri. - Tra le penisole dell'Europa meridionale l'Italia è la più ricca di bacini lacustri, pur essendo ben lontana dall'uguagliare la Finlandia, la Scandinavia, e anche la Svizzera. Questa ricchezza di laghi era ancor maggiore in epoche geologiche recenti. p. es. nel Pliocene; un gran numero di conche lacustri, anche di dimensioni considerevoli, allora esistenti nella penisola si sono prosciugate; in certi casi ne sono rimasti residui fino in età storica (Vallo di Diano) e le tracce permangono tuttora.
Oggi i laghi di maggiore estensione appaiono essenzialmente raggruppati in due zone, una subalpina, l'altra corrispondente all'Antiappennino tosco-romano. Per l'origine, assai complessa, dei grandi laghi subalpini, v. alpi. La maggior parte dei laghi dell'Antiappennino sono laghi vulcanici; essi occupano, cioè, il fondo di crateri di apparati vulcanici spenti, ovvero cavità più ampie risultanti in sostanza dalla fusione di più crateri contigui (laghi di Bolsena, di Bracciano, di Vico, di Albano, di Nemi, ecc.; v. alle rispettive voci); altri minori laghetti della stessa origine sono ora prosciugati. Non è tuttavia un lago vulcanico il più ampio bacino dell'Italia peninsulare, il Trasimeno, che occupa un'area depressa, interposta fra i rilievi dell'Antiappennino e del Subappennino, chiusa e trasformata in conca (di piccolissima profondità) da materiali alluvionali deposti da corsi d'acqua vicini (v. trasimeno). Laghi di analoga origine si hanno anche altrove (laghi di Bientina e Fucecchio; laghi reatini).
Numerosissimi sono poi in Italia i laghetti di piccole dimensioni, che non appaiono nelle carte ordinarie. Nelle Alpi vi sono parecchie centinaia di laghetti di circo, e taluni di essi s'incontrano anche nell'Appennino (considerato, questo, in tutta la sua estensione, dai gruppi montuosi del Piacentino e del Parmense al M. Pollino) e nelle Alpi Corse. Piccoli laghi intermorenici si trovano in seno ai maggiori anfiteatri ai piedi delle Alpi e taluni fra essi hanno una discreta estensione (laghi di Candia, di Viverone, ecc., nell'anfiteatro morenico della Dora Baltea; laghi briantei; laghi dell'anfiteatro morenico benacense, lago di Cavazzo nel Friuli, ecc.). Frequenti sono i laghi carsici, sia nel Carso istriano (Lago d'Arsa ora prosciugato, lago di Circonio) sia qua e là nell'Appennino e nel Subappennino (Lago del Matese, Lago di Canterno); alcuni di essi, di più ampie dimensioni, furono prosciugati. Non mancano laghi di sbarramento, a prescindere dai morenici (sbarramento per frana o altro; lago di Alleghe; lago di Scanno); parecchi di essi hanno peraltro esistenza precaria.
Numerosi sono poi, sia nella Penisola, sia in Sardegna e in Corsica, i laghi costieri, sebbene parecchi, specie sul litorale tirreno della Penisola, siano stati colmati o prosciugati anche artificialmente. I maggiori, nella Puglia settentrionale (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi), nel Lazio meridionale (laghi di Fogliano, di Paola, di Fondi, ecc.), in Sardegna (laghi di Sassu, di Cabras, di S. Giusta), sulla costa orientale della Corsica (laghi di Urbino, di Diana, di Biguglia), sono quasi sempre antiche insenature separate da cordoni litoranei, sia continui, sia interrotti in uno o più punti. Per altri laghi e lagune costiere, come quelle dell'Estuario veneto, l'origine è più complessa (v. laguna: Laguna veneta).
La seguente tabella dà i nomi e gli elementi dei principali laghi italiani (con area superiore a 10 kmq.).
Flora e vegetazione. - La prima fu oggetto da 4 secoli in qua di molte ricerche consacrate in opere estese a tutta l'Italia (v. flora) e a singole provincie e distretti, e che hanno fatto conoscere, quanto alle piante vascolari, quasi tutte le specie e le varietà che vi crescono. Meno studiato e approfondito fu il lato ecologico e quello fitogeografico, che solo da alcuni decennî si affrontano con criterio moderno, sicché restano molte lacune da colmare e di un cospicuo numero di specie, se è abbastanza nota l'area, poco note sono le condizioni in cui vegetano. Una prima sintesi geobotanica, rimasta incompleta, fu abbozzata da Filippo Parlatore (1878): è un Prodromo quello di A. Fiori premesso al vol. I della Flora analitica d'Italia (1908): ci manca, invece, un'opera d'insieme, condotta con metodo rigoroso e perfettamente aggiornata.
Complessivamente il numero delle vascolari italiane varia da 4 a 5000 e sarebbero precisamente 3877 (comprese le più largamente coltivate e naturalizzate) secondo la Nuova Flora Analitica d'Italia del Fiori (1923-29), che ne è l'ultimo accurato censimento: le oscillazioni dipendono dal diverso criterio che gli autori si son fatti delle specie; molto comprensivo è stato quello adottato dal Fiori. Sarebbe, invece, prematuro fissare il numero delle piante cellulari, certamente assai ragguardevole, come si ricava da quanto fu sin qui edito dalla Flora Italica cryptogama, ma molte ne restano a scoprire; meno nota è la loro distribuzione; perciò di esse daremo solo qualche cenno occasionale. Il numero delle prime è indice di un'indubbia ricchezza della flora nostrana non in proporzione con la superficie come emerge dal confronto, ad esempio, con la Francia e con la Penisola Iberica. Ma quest'ultima e la Balcanica la superano per una più potente individualità e originalità, testimoniate dal più elevato numero delle specie endemiche dovuto a una minore decimazione operata dal Glaciale, come sarà detto a suo luogo.
Tre climi fondamentali (nel senso con cui la parola climate è intesa dai fitogeografi americani e inglesi) si contendono il dominio della penisola e delle isole: quello mediterraneo di tipo marittimo, semi-arido e temperato, al quale corrispondono consorzî in prevalenza di sempreverdi: quello montano, carico di umidità e a tinta oceanica, di cui la faggeta è la più tipica espressione: finalmente l'alpino, del resto poco noto, ed è il clima che si caratterizza al disopra della cintura arborea e molto simile deve essere quello che regna nelle zone più elevate dell'Appennino e delle isole, che l'Emberger ha di recente chiamato clima mediterraneo di alta montagna, comprendendovi anche i boschi di aghifoglie. Essi del resto offrono una quantità di forme per così dire locali dovute alla latitudine, alla vicinanza della costa, all'esposizione dei versanti, alla direzione delle valli e sono questi climi locali che, assieme ai fattori edafici, hanno determinato un grande numero di associazioni, le più estese delle quali sono designate col nome di formazioni; qui si passeranno in rassegna le principali di esse in base alle zone di vegetazione.
La prima zona (prescindendo per ora da quelle coperte dalle acque) è la mediterranea, detta anche dei sempreverdi per il largo sviluppo di frutici, arbusti e alberi a foglie persistenti: sommano complessivamente a un centinaio di specie rappresentanti circa l'11% della sua flora, di fronte a 386 (41,2%) di sole piante annue; e la sproporzione aumenterebbe se nel compto si comprendessero le bienni e le erbacee perenni. Dunque, non è il numero che decide, ma la loro grande diffusione e la fisionomia che imprimono al paesaggio litoraneo o prossimo alla costa, in confronto con quello delle zone retrostanti.
Una delle formazioni più estese e caratteristiche è la "macchia mediterranea" costituita dalla consociazione di arbusti e suffrutici per lo più sempreverdi: quali i cisti (Cistus), le eriche (Erica), le filliree (Phyllyrea), l'oleastro (Olea europaea oleaster), il mirto (Myrtus communis), il lentisco (Pistacia lentiscus, cui spesso si associa la caducifoglia P. terebinthus), il corbezzolo (Arbutus unedo), tre ginepri, un'euforbia dal portamento arborescente ma priva di foglie nella stagione siccitosa (Euph. dendroides), una palma abbondante specialmente in Sardegna e Sicilia, l'unica indigena da noi (Chamaerops humilis), parecchie labiate ricche di olî essenziali quali il rosmarino, la stecade (Lavandula stoechas), due timi (Thymus vulgaris e Th. capitatus), qualche leguminosa spinescente (Calycotome, Genista sp.), alcune liane come gli Asparagus e la Smilax. ecc. Il nome di cisteto, ericeto, palmeto e simili stanno a indicare il predominio che alcune specie assumono; la macchia è bassa, con la prevalenza del corbezzolo, del ginepro fenicio, di alcune filliree, col mescolarsi dell'alloro e dell'oleastro come in alcuni settori della Sardegna e, dove predomina il leccio, trapassa a macchia alta, detta anche macchia-foresta: una variante della prima è la gariga (dal provenzale garigue) propria dei suoli calcarei. Con gli arbusti si mescolano e ne riempiono le radure numerose piante erbacee (specialmente Graminacee, Cariofillacee, Leguminose, Labiate, Composte) spesso annuali e, nei suoli sterili, ridotte alle più piccole dimensioni e a fioritura accelerata (la cosiddetta microflora mediterranea precoce), molte bulbose e tuberose (complessivamente 180 specie) quali gli Asphodelus e i Narcissus che si diffondono anche nelle intercluse o finitime formazioni pratensi, la Scilla maritima, la graminacea dalle ampie pannocchie Ampelodesmos tenax, gigantesche Ombrellifere (Ferula, Thapsia), Carduacee spinose dalle vistose infiorescenze (Onopordon, Cynara, Scolymus), mentre negli arenili un po' umidi vivono numerose microfite dei generi Juncus, Sagina, Montia, Tillaea, insieme alle Isoëtes dalle foglie graminiformi.
Ma nella fascia litoranea vi sono anche estese formazioni boschive sempreverdi, dove la macchia entra come sottobosco, con predominio ora di Quercus ilex (lecceti), ora di Q. suber (sugherete), con vario mescolamento, soprattutto là dove il suolo è profondo e fresco; e nel versante di terra, di caducifoglie quali la rovere, il cerro, l'ornello, il carpino, la carpinella, il nocciolo, il castagno e, come sottobosco, qua e là la stessa Calluna vulgaris che diventa più abbondante nella zona seguente. Ampie superficie sono pure occupate da boschi di aghifoglie formate dal pino marittimo (P. pinaster) ancora abbondante sulle pendici litoranee della Liguria e Toscana, dal pino d'Aleppo (P. halepensis) più comune a sud e più legato alla vicinanza del mare e frequente anche nel versante adriatico sino al Gargano, dal pino da pinoli (P. pinea), che spontaneo incornicia le basse pendici dei Peloritani attorno a Messina, mentre le estese pinete della Toscana e del Lazio, che del resto risultano di essenze diverse, e quelle classiche del litorale ravennate sembrano dovute ad antica introduzione dell'uomo. Ripete questa origine quel piccolo nucleo che forma il bosco Nordio presso Cavanella d'Adige che ospita le ultime stazioni del leccio, della fillirea, della Lonicera etrusca le quali, assieme ad altri tipi termofili, ricompaiono entroterra sulle pendici soleggiate dei Colli Euganei e lungo il mare nell'estesa pineda del Friuli alla destra e più ancora alla sinistra del Tagliamento formata però dal pino nero (Pinus nigra var. austriaca) elemento illirico-balcanico che spinge le sue propaggini anche sulle Alpi Carniche e Trevigiane.
Formazioni tipicamente litoranee sono quelle delle arene e delle dune e quelle dei terreni salati e umidi e che acquistano la più larga estensione nei territorî lagunari. Caratteristica delle dune mobili è l'Ammophila arenaria, graminacea con possente apparato radicale atto a fissarle, associata all'Agropyrum iunceum che spesso, però, la precede: i terreni salmastri e spesso paludosi o inondabili ad alta marea, come nelle lagune, alimentano parecchie Salsolacee alofilo-igrofile (Salicornia, Salsola, Suaeda, Arthrocnemum), alcune Statice, l'Aster tripolium, l'Inula crithmoides che si diffondono anche sulle rupi litoranee spruzzate dal pulviscolo marino. Pioniere di questa vegetazione nel litorale veneto-istriano è la graminaeea Spartina stricta, tipo atlantico euro-americano.
La zona mediterranea, così largamente rappresentata in Italia, è un settore della regione mediterranea, la cui posizione quasi centrale, la remota definitiva epoca di emersione di qualche suo lembo, i pregressi rapporti di continuità con i settori finitimi, hanno contribuito a popolare degli elementi floristici più disparati ed esso stesso ha fornito e favorito la diffusione di quelli sorti nel suo seno, di guisa che è ben difficile caratterizzarlo. Così l'attuale distribuzione della Chamaerops humilis, che è soprattutto iberica e africano-atlantica, e da noi esclusivamente tirrenica e sardo-sicula, svela i rapporti con l'antica flora occidentale-atlantica, di cui si trovano esponenti, ad es., nel settore ligure di ponente: Carex Mairii, Aphyllanthes monspeliensis, Leucojum hiemale, Genista hispanica, che sono tipi provenzali o iberici. Viceversa le colonie di Apocynum venetum disseminate nelle sabbie marine dell'Estuario veneto-padano da Trieste a Ravenna sono gli estremi avamposti di una specie che Béguinot ha potuto seguire dalla regione del loess nella Cina, attraverso la zona stepposa dell'Asia, dove ha i suoi eongeneri, per poi diffondersi lungo i litorali (eventualmente aiutata nella sua espansione dalle correnti litoranee) mentre altri tipi steppici, attraverso la valle del Danubio e affluenti, si spinsero sin nel cuore dell'Europa e penetrarono nello stesso dominio delle Alpi. La presenza in Puglia di due rare querce balcaniche, la Quercus aegilops e la Q. troiana (= Q. macedonica) e quella di numerose piante erbacee e fruticose circoscritte nel versante adriatico, dal Gargano in giù, fa pensare a un' irradiazione dall'opposta sponda, favorita forse da un'intercapedine nell'Adriatico meridionale (la cosiddetta Adria). È più abbondante la magnifica Quercus farnetto Ten. che si trova anche nel versante tirreno sino al Lazio meridionale ed e quasi tutt'uno con la Q. conferta che forma estesi boschi nella Balcania. Sno elementi tropicali la Woodwardia radicans, le Pteris longifolia e cretica, tre felci che si trovano sporadiche qua e là e in alcuni valloni della costiera amalfitana distinta per l'alta piovosità, il Cyperus polystachyus delle fumarole d'Ischia, i muschi Calymperes Sommieri di Pantelleria e Barbella strongyloides dello Stromboli; di origine capense è, tra gli altri, il genere Romulea che, con qualche sua specie nell'alta zona del Chilimangiaro e del Camerun, si è diffuso verso i paesi circummediterranei dove ha formato parecchie specie endemiche anche da noi, prova del remoto avvento di questo ceppo paleoafricano. Tanti altri fatti interessanti e tanti lati oscuri ci svelano, illuminandoli, appunto gli endemismi; questi, secondo il Buscalioni, sarebbero 52 su 2418 specie esodemiche e su un totale di 202 riscontrati in tutta l'Italia, ma il numero appare ben al disotto del reale, come emerge chiaro da una recente memoria di Béguinot e Landi quantunque limitata solo alle entità endemiche delle minori isole e a quelle che queste hanno in comune con le maggiori e la Penisola. Per importanza il primo posto è occupato dai paleoendemismi che si riconoscono per l'area molto isolata e circoscritta, ovvero disgiunta, per le affinità oscure o remote, per il frequente monotipismo. Ricordiamo l'Helicodiceros muscivorus Engl., monotipo che la Sardegna e la Corsica hanno in comune con le Baleari, il Pancratium illyricum L., unico rappresentante europeo della sez. Halmyra che cresce nelle isole nominate e a Capraia, l'Helxine Soleirolii Req. monotipo corso-sardo, Kochia saxicola Guss. di Ischia, Capri e Strombolicchio (Eolie) affine a K. pubescens Moq. del C. di B. Speranza; Morisia monantha Asch., strana Crucifera geocarpa e monotipa confinata nella Sardegna e Corsica ma anche nella zona montana; Bupleurum dianthifolium Guss. e Scabiosa limonifolia Vahl delle Egadi con affinità ibero-balcaniche; Mentha Requienii Benth. di Sardegna e Corsica, di Caprera e Montecristo affine, secondo il Briquet, a M. Cunninghami della Nuova Zelanda; Nananthea perpusilla DC. monotipo esclusivo di alcune isolette circostanti alla Corsica e Sardegna; Melitella pusilla Somm. che si trova a Malta e Gozo, la quale per l'abito ricorda l'abissino Dianthoseris, mentre remote affinità la collegano con il mediterraneo Zacyntha, Centaurea horrida Bad. esclusiva delle piccole isole sarde di Asinara e di Tavolara e quivi solo nel versante nord-est dove affiora il granito, affine a C. spinosa L. della Grecia e dell'Arcipelago Egeo, ecc. Ma non meno interessanti sono parecchi microendemismi discendenti da un capostipite a larga area distributiva nei territorî circummediterranei che si è frammentato in razze locali, alcune forse di origine mutativa, e che l'isolamento ha mantenuto, quali le Brassica che fanno capo a Br. oleracea: le centauree appartenenti al ciclo di C. cineraria L. e specie affini e cito tra queste ultime: la C. Friderici Vis. limitata alla Pelagosa Piccola e che ha i suoi prossimi parenti in endemismi dello scoglio Pomo presso Lissa, la C. aeolica Guss. ex DC. che le Eolie hanno in comune con l'isola di Ventotene (Ponziane) e Ischia, la C. gymnocarpa Mor. et Dntrs. di Capraia, la C. Veneris (Somm.) Bég. della piccola Palmaria, ecc. Questi fatti mostrano interferenza dei ceppi più diversi, affinità multiple e spesso remote che fanno del Mediterraneo una concentrazione di fossili viventi delle più disparate prosapie ma, come si vedrà, non mancano accessioni anche relativamente recenti.
Il passaggio dalla zona mediterranea alla submontana è segnato dal prevalere delle caducifoglie rappresentate dai querceti del tipo farnia e più ancora di varietà e razze che fanno capo a Q. lanuginosa, e a Q. cerris, dai castagneti nei suoli silicei, mentre in esposizioni propizie e dove la piovosità si accentua si trova lo stesso faggio che un tempo si abbassava ancora di più e anche a quote minori si trova l'emblema della brughiera, la Calluna che, per citare un solo esempio, entra a costituire il sottobosco del versante di terra del promontorio di Portofino coperto di caducifoglie, mentre le pendici sul mare hanno il pino marittimo, l'Erica arborea, i cisti, il leccio e tanti altri tipi della macchia e del bosco sempervirenti: ché anzi è una caratteristica della zona di ospitare elementi dei due consorzî, ora in continuità con le formazioni litoranee, ora a isole là dove le condizioni sono parzialmente propizie: i lecceti vi raggiungono i 1000-1200 m. intersecando con il faggio o con questo spingendosi sino alla sommità del versante a bacio: nell'Appennino meridionale la Q. farnetto acquista importanza su questa zona: in Sicilia, la Q. cerris vi forma una fascia compresa fra i 700 e i 1000 m., più di rado a 1500 m., e che si sovrappone ai sughereti, ma vi è una zona d'intersezione dove crescono magnifici esemplari di Q. pseudo-suber concepita come un prodotto di incrocio fra le due essenze: sono due elementi ad affinità orientale l'ontano di Napoli (Alnus cordata Ten.) diffuso nell'Appennino meridionale che ha il suo omologo nell'A. subcordata Mey. del Caucaso e una forma locale del Platanus orientalis in alcune vallate della Basilicata e Calabria e, più abbondante ancora, nella Sicilia orientale. Zona, dunque, di tensione e di contrasto la cui vegetazione riflette forse meglio di altre quelle oscillazioni climatiche che caratterizzarono il Quaternario e l'immediato postglaciale e l'opera modificatrice dell'uomo, come sarà meglio detto avanti. A essa si può assimilare, a parte l'altitudine, la zona padana con gli annessi distretti collinari e gli apparati morenici: i querceti misti, le brughiere degli altipiani diluviali dove domina la Calluna, i castagneti, le isole di macchia mediterranea negli Euganei, le colonie microtermiche dove affiorano torbiere, le propaggini di steppa nei substrati più clastici del morenico recente, mentre l'antico ha la mediterranea Erica arborea, sono altrettanti elementi di contrasto che è, come si disse, quasi un appannaggio di questa zona. Di essa è facile riconoscere i segni e gli esponenti nella più o meno ampia fascia pedemontana delle Alpi e attorno alle conche lacustri con i castagneti del settore insubrico, le macchie di cisto salviefolio e dell'erica arborea nei solatii del lago di Como, i laureti della sponda bresciana del Garda e un po' dovunque il bosco misto di Quercus lanuginosa e di Q. ilex che riveste anche le pendici della bassa valle del Sarca sino alla conca di Toblino e sino a circa 1000 m. dove il leccio raggiunge, con l'olivo che si arresta un po' più in basso, una delle latitudini più elevate e un'altra sua colonia c'è nel bacino di Gorizia, ben noto per il suo clima invernale temperato: molto estesa e del tutto isolata è la colonia di Erica arborea nella media valle del Chiese tra Caffaro e Brione dove, con Calluna e Sarothamnus, costituisce il sottobosco di estesi castagneti. Questi fatti portano alla conclusione che la regione mediterranea con le sue espansioni giunge sino ai limiti estremi della zona submontana e sono queste irradiazioni una delle cause di quel mosaico di consorzî che la caratterizzano.
La zona montana è propriamente il clima del faggio e delle conifere di alta montagna. Le Alpi hanno in comune il primo con tutto l'Appennino, Sicilia e Corsica (v. alpi; appennino): faggete ora pure, ma più spesso consociate con l'abete bianco (Abies alba) che ha esigenze ecologiche simili al faggio nelle Alpi, con l'abete rosso (Picea excelsa) atto a resistere a un clima più rigido e continentale e che finisce perciò per sovrapporglisi, in Calabria e sull'Etna col Pinus laricio mentre si giustappone a questo nelle alte montagne della Corsica preferendo il pino i versanti più soleggiati. Altri consorzî sono il Pinus silvestris, che preferisce i terreni sciolti e asciutti dove forma pinete anche pure e che serve di collegamento con la zona precedente ritrovandosi, a quanto pare, anche nell'Appennino settentrionale e in Corsica, e lo stesso larice (Larix europaea), la sola decidua fra le conifere nostrane, che del resto forma lariceti puri e compatti ai quali sovrastano individui isolati a rami contratti quasi colonnari che si avanzano nella zona subalpina, come fa il congenere L. sibirica che si spinge oltre il limite della foresta siberiana, nel terreno gelato della tundra. Eliofilo e, quindi, preferibilmente nelle esposizioni solatie, è sostituito in quelle a bacio dal cembro (P. cembra) che tende pure a occupare le posizioni più elevate raggiungendo i 2500 m. e con individui isolati anche più: cembro, larice e picea sono elementi siberiani mancanti nell'Appennino e nelle isole. Tutte le conifere nominate tendono a prendere il predominio e finiscono per sostituire il faggio, essenza fondamentalmente oceanica, a mano a mano che dalle Prealpi e dalle vallate più periferiche si penetra nel cuore della catena o ci si inoltra in vallate a scarsa piovosità come, ad es., la parte media e superiore della Val Venosta, dove il settore sottostante alle abetaie del versante a solatio e lembi più o meno estesi di quello a bacio sono coperti da una formazione a fisionomia e a struttura di steppa nella quale il Pinus silvestris è ridotto a piccoli nuclei e la stessa Quercus lanuginosa si trova a disagio e finisce quasi del tutto per scomparire da Castelbello in su. Vi si sostituisce una rada boscaglia di juniperus communis, Berberis vulgaris, Hippophaë rhamnoides con interposte cenosi a base di Andropogon ischaemum, di Stipa capillata (più rara e a piccole colonie la St. pennata), di Lasiagrostis calamagrostis nelle frane e nei dirupati, ecc.: molto abbondanti e ovunque diffusi alcuni Astragalus e Oxytropis di tipo steppico (A. excapus, onobrychis, leucanthus; Oxytr. velutina, pilosa, ecc.), il Telephium Imperati che si riscontra pure nelle colonie xerotermiche della Val di Susa e Val d'Aosta, ecc. Nel versante opposto i boschi di conifere sono orlati da una cintura più o meno spessa di Betula alba (verrucosa) e in generale si nota in quei distretti dove questa pianta e l'ontano verde (Alnus viridis) diventano abbondanti, il faggio è scarso o manca del tutto. Bisogna tenere presente che la betulla ha una sua razza endemica nell'alta zona boscosa dell'Etna e l'ontano trova un suo omologo nell'A. suaveolens Req. che ricinge le elevazioni maggiori della Sardegna e della Corsica tra 1600 e 1900 m. e se ne deve di necessità concludere che tali collegamenti tra catene così distanti dipendono da qualche fattore distributivo generale cui si accennerà in seguito. Le formazioni forestali della zona montana delle Alpi hanno un carattere fondamentalmente centro-europeo e tale si mantiene nell'Appennino settentrionale, mentre nel centrale la presenza di P. nigra, in quello meridionale questo stesso e P. brutia e P. leucodermis che sono tutti elementi balcanici e quella di P. laricio che la Calabria ha in comune con la Sicilia e Corsica e che si spinge sino alla Spagna dànno a questi consorzî impronta meridionale a colore specialmente orientale; e ciò dimostra che le affinità transadriatiche non sono limitate alla zona litoranea, né del resto riguardano solo le essenze legnose. Un lavoro di A. Trotter sugli elementi balcanici in Italia in rapporto all'intercapedine che si chiamò Adria svela quanto cospicuo sia il contributo di piante erbacee di origine illirica nell'Appennino centrale e meridionale.
Altre formazioni della zona sono i pascoli e le rupi aride e stillicidiose, e detriti di falda, ecc., ma troppo lunga riuscirebbe l'esemplificazione delle loro specie più caratteristiche e delle endemiche.
Al disopra della vasta e cupa cintura arborea, interrotta da prati e da scoscendimenti rupestri, è molto sviluppato nelle Alpi un consorzio di arbusti gregarî, molti dei quali trasmigrati dalle sottostanti foreste e che caratterizzano meglio di altri la zona subalpina che qualche vecchio botanico designava col nome di zona dei mughi dall'abbondanza del Pinus mugo (= P. montana) che riveste specialmente i dirupati dolomitici, cui si associa una forma nana e prostrata del comune ginepro (Jun. montana), parecchie Ericacee, alcuni salici a fusti aderenti al suolo e a piccole foglie che salgono anche alla zona successiva (Salix herbacea, reticulata, retusa), l'Empetrum nigrum, ecc. Se ne trovano tracce nell'Appennino settentrionale: il ginepro nano e un suo congenere, il J. hemisphaerica, la Daphne glandulosa, una razza di mugo (P. pumilio) sono a ricordarla nel centrale assieme al faggio che diventa cespuglioso e a fusti contorti. Il consorzio è molto sviluppato nell'Etna col ginepro emisferico, il Berberis aetnensis, l'endemico Astragalus siculus Biv. di un ceppo orientale, la giunchiforme Genista aetnensis DC. che l'Etna ha in comune con la Sardegna. Qui e in Corsica un'altra Berberis (B. Boissieri Schn.) che sembra però identica all'aetnensis e il già ricordato Alnus suaveolens stanno a designare questa zona che presenta molti dei suoi componenti xerofili alcuni dei quali sono sempreverdi.
Lo stesso carattere impronta molte delle specie della zona propriamente alpina nella quale penetra qualche suffrutice e vegetano alcune poche annuali, mentre il percento assai più elevato è dato dalle piante erbacee perenni atte a compiere il ciclo vitale nel breve periodo di 3-4 mesi: ma naturalmente, date le molto disparate condizioni ecologiche, non mancano specie con adattamenti igrofitici e consorzî igrofili. Rimandando alla voce alpi (II, p. 609 segg.) per quanto concerne le condizioni e i limiti altimetrici, diremo che, secondo i calcoli del Fiori, la nostra flora alpina presa nel suo complesso (da 1600-2100 m. in su) conta di proprio 371 specie, cui vanno aggiunte 521 in comune con la montana e 153 con questa e la mediterranea. La catena delle Alpi anche nel suo versante sud, che è quello che ci riguarda, offre una delle più tipiche concentrazioni d'ipsofite e certo la meglio studiata. Esse derivano da capostipiti già presenti nel piò recente Terziario con affinità ora molto strette e ora solo di genere con le ipsofite evolutesi in altre catene montuose elevate dell'Eurasia e dell'America alle quali vennero aggiungendosi specie di origine mediterranea e subtropica mancanti alle catene oloartiche (Phyteuma, Achillea, Anthyllis, Sempervivum, Globularia, Erinus, Berardia, ecc.), specie di origine circumpolare ovvero steppica che raggiunsero la catena nel Quaternario grazie a quelle alterne condizioni di clima ora continentale e ora oceanico di cui si dirà avanti, ma alcune sono così strettamente imparentate con capostipiti esistenti nelle zone più basse o nelle pianure e valli intergiacenti o finitime da doversi considerare come derivazioni in posto per adattamenti all'altitudine non ereditarî eventualmente replicatisi in luoghi e tempi diversi (variazioni parallele politopiche). L'influenza del Glaciale si fece risentire su tutta la catena determinanoo l'abbassamento del livello delle nevi perpetue e obbligando le ipsofite ad abbassare i loro limiti, a scendere a valle o a emigrare in massicci periferici. Ma che nel versante sud e specialmente nelle zone estreme delle Alpi Marittime e Orientali le crisi glaciali siano state meno potenti si deduce da una trentina di endemismi, tra arcaici e neogenici, salvatisi in corrispondenza di questo versante nei cosiddetti massicci di rifugio: sta di fatto che nel versante opposto, se si prescinde da forme di origine apogama o dovute a mutazione, mancano endemismi propriamente specifici. Nel ripopolamento avvenuto dopo l'ultima crisi glaciale molta importanza hanno avuto le immigrazioni dall'Oriente e specialmente dalla Balcania il cui percorso, come ha dimostrato da noi R. Pampanini, è stato guidato dalla natura fisico-chimica del terreno e ha trovato i suoi arresti in corrispondenza delle principali vallate e dei laghi. Queste barriere sarebbero state il massiccio tra l'Adige e il Brenta, corrispondente al limite occidentale delle Alpi dolomitiche, l'Adige, il lago d'Iseo con la Val Camonica, il braccio specialmente orientale del lago di Como e il lago Maggiore: arresti che, almeno in parte, coincidono con i limiti delle regioni naturali delle Alpi quali furono stabiliti dal Haug su dati geologici e geofisici. È l'estrema propaggine di un oriente anche più remoto la Wulfenia carinthiaca Jacq. che sfiora appena il suolo italiano presso Pontebba e che si trova in Carinzia, Carniola e Montenegro, ma della quale sono specie affini la W. Baldacci Deg. dell'Albania, la W. orientalis Boiss. della Siria e la W. Amherstiana Benth. dell'Asia centrale.
Importante, anche per la sua originalità, è la zona alpina dell'Appennino e particolarmente del centrale con un numero ragguardevole di specie in comune con le Alpi, poche le alpine-circumpolari e in generale le eurasie-americane, parecchie e altamente indiziarie quelle in comune con la Balcania (Saxifraga glabella Bert., S. porophylla Bert., Scabiosa silenifolia W. et K., Hypochaeris cretensis Chamb. et Bory), una trentina almeno di endemismi alcuni dei quali rappresentati da razze geografiche di cui la vicaria è presente nelle Alpi (Saxifraga tridens Jan. del ciclo di S. androsacea L.; Astrantia pauciflora Bert. del ceppo di A. minor L.; Gentiana Columnae Ten. di G. campestris L.; Pedicularis elegans Ten. di P. gyroflexa; Androsace Mathildae Lev. di A. alpina L., ecc.), e altri che con le Alpi non hanno nulla da vedere e rappresentano ceppi mediterranei o balcanico-orientali (Malcolmia Orsiniana Parl., Adonis distortus Ten., Hedraeanthus graminifolius DC. f., ecc.). Degno di nota il rinvenirsi di alcune specie o forme affini in Sicilia, ovvero Sardegna e Corsica (Colchicum parvulum Ten., Arenaria Bertoloni Fi., Bunium alpinum W. et K., Hipochaeris cretensis Ch. et Bor., Robertia taraxacoides DC. ecc.) in quanto lascia intravedere certi collegamenti anche con sistemi montuosi piuttosto distanti, prova di antichi scambî e interferenze.
Poche le specie di carattere ipsofilo che si spingono nell'Appennino meridionale che ha di proprio, ma limitata nella zona montana, la bella Cryptotaenia Thomasii DC. di cui un'altra specie vive nel Camerun e una terza nell'America Settentrionale. È pure solo montano ornamento del siculo Valdemone così povero di endemismi, la singolare Petagnia saniculaefolia Guss. che costituisce un genere monotipico fra i più aberranti tra le Ombrellifere. Fatte poche eccezioni di cui si è accennato, i parecchi endemismi dell'alta regione dell'Etna, compreso il senecio aetnensis, si rivelano forme di adattamento di specie planiziarie o di bassa montagna.
Ragguardevole è il complesso d'ipsofite che popolano la zona alpina della Sardegna e della Corsica al disopra della cintura di Alnus suaveolens. L'analisi fatta per quest'ultima isola dal Briquet svela i varî componenti, tra i quali non manca il boreale-alpino e l'alpino, ma è degna di nota la mancanza di generi più ricchi in specie nelle Alpi (Campanula, Gentiana, Pedicularis, Primula, Androsace, ecc.). Una trentina almeno gli endemismi alcuni dei quali certo paleogenici e valga per tutti il raro Delichrysum frigidum W. della sez. Virginea DC. che comprende il nominato, l'H. virgineum Boiss. della zona alpina del M. Athos, l'H. Amorginum Boiss. et Orph. dell'isola di Amorgo (Cicladi) e l'H. Billardieri Boiss. et Bal. del Libano. Ma anche più cospicuo è nelle due isole il contingente di forme endemiche della zona montana alcune delle quali salgono su dal litorale e, tenendo conto di quanto già si disse della ricchezza di endemisari mediterranei, è lecito concludere che l'arcipelago corso-sardo rappresenta da noi la massima concentrazione di specie proprie, molte delle quali di tipo arcaico.
Alle notizie sulle varie zone terrestri giova aggiungere quelle relative alle zone coperte dalle acque marine o dolci e che interessano piante immerse nelle acque ma aderenti alle sponde, piante sospese nelle acque, il cosiddetto fitoplancton, e piante del fondo costituenti il fitobentos. Nelle acque del mare a una profondità non superiore ai 30 m. vivono pochissime fanerogame delle quali le piti comuni sono: Posidonia oceanica, Cymodocea nodosa, Zostera marina e nana che formano vaste praterie sottomarine e, a eccezione della prima, anche in fondi lagunari con l'aggiunta di Ruppia maritima e a volte di Zannichellia palustris. Numerosissime sono, invece, le alghe. Per quelle aderenti alla costa è stata distinta una zona litorale o intercotidale alternativamente scoperta o coperta dalla marea; una zona tra questa e la profondità di 5 m.; una sino alla profondità di 35 m.; e finalmente un'ultima fra la quota 35 e il limite inferiore che in generale non oltrepassa i 150 m. Nelle prime due zone prevalgono le Cloroficee, nelle ultime due le Rodoficee; le Feoficee sono soprattutto nei livelli intermedî, ma in generale quasi tutte le cenosi contengono un vario miscuglio dei tre tipi e tutto si riduce alle proporzioni diverse degli stessi. Anche per le alghe, che pur si prestano a un facile trasporto, si notano singolari localizzazioni e, quindi, forme endemiche. Una di queste è il Fucus virsoides (Don.) Ag. così frequente ed esclusivo della zona intercotidale dell'alto e medio Adriatico, ma che d'altra parte è affine a specie del nord-atlantico. Così nel golfo di Fiume l'afflusso di acque sotterranee fredde determina le condizioni opportune per l'esistenza della Diatomea Thalassiothrix Nitzschioides e di parecchie naviculoidi dei mari del nord non certo importate dalle correnti attuali, perché queste correnti non arrivano nell'Adriatico, ma vi è pure qualche rappresentanza di tipi orientali trasportati da correnti litoranee e questo ricorda il caso già ricordato dell'Apocynum venetum.
Ma molte alghe (soprattutto Cloroficee, Diatomee, ecc.) sono abitatrici delle acque dolci e, quindi, dei laghi, stagni, paludi, corsi d'acqua, ecc. che offrono svariate condizioni ecologiche anche alle altre cellulari (licheni, muschi, ecc.) e alle stesse piante superiori che si sogliono distinguere in igrofile e idrofile. Interessante è quanto si constata nei laghi nei quali i limnologi hanno riconosciuto: la riva o spiaggia insommergibile o solo temporaneamente sommersa; il litorale da questa sino alla profondità di 15-30 m.; una zona bentonica da quest'ultima quota al fondo; una zona limnetica comprendente la massa d'acqua occupata dagli organismi planctonici. Varia è la successione delle cinture di vegetazione, ma una delle più frequenti è, per le igrofile, la serie cariceto-fragmiteto-scirpeto (con predominio, rispettivamente, di specie del genere Carex, della cannuccia di palude o Phragmites communis e dello Scirpus lacustris) e per le idrofite la serie nimfeeto o nenufareto-potamogetoneto o potameto-caraceto comprendente piante radicanti al fondo o sospese con foglie appoggiate alla superficie delle acque, come appunto la Nymphaea alba e il Nuphar luteum (lamineto), o con il corpo totalmente sommerso come è la Vallisneria spiralis e come sono poi le Chara, le Nitella, ecc., costituenti il caraceto con cui terminano alla profondità di 20-30 m. i macrofiti. Molte conche lacustri sono circondate da torbiere o ne sono indipendenti: risultano di muschi con prevalenza di Polytrichum (politricheti) e di Sphagnum (sfagneti) che mantengono un substrato perennemente umido sul quale s'insediano specie igrofite montane e alpine tra cui Drosera e Pinguicola, note piante insettivore (v. carnivore, piante), mentre Aldrovanda e Utricularia sono carnivore sommerse. Le torbiere di pianura come nella Padania, in Toscana, Lazio alle Paludi Pontine, ospitano un certo numero di orofite il cui abbassamento si ritiene avvenuto nelle crisi glaciali e che si sono potute mantenere grazie al substrato perennemente inzuppato. Sono le colonie microterme e tra le specie più caratteristiche ricordiamo: Deschampsia caespitosa, Carex Davalliane, Eriophorum latifolium, Gymnadenia conopsea, Caltha palustris, Drosera rotundifolia, Gentiana pneumonanthe, Pedicularis palustris, Cirsium palustre, ecc. Anche i corsi d'acqua hanno consorzî idrofili sul tipo dei lacustri con svariati adattamenti delle specie al movimento e alla profondità delle acque, e ricca è la flora spondicola e alluvionale a base di salici, pioppi, ontani cui si mescolano, in molti dei solchi vallivi del settore alpino e dell'Appennino settentrionale e centrale, l'Hippophaë rhamnoides e Myricaria germanica che sono elementi steppici penetrati da distretti litoranei; e difatti il primo si riscontra qua e là nell'Estuario veneto-padano: ma i corsi d'acqua rapinando frutti, semi o anche intere piante di zone elevate e deponendoli nel basso corso, concorrono ad abbassare i limiti e a creare stazioni eterotopiche più o meno stabili.
Un substrato speciale indipendente dalla terra e dalle acque è quello che le parassite trovano sugli organismi viventi, come sono un grande numero di funghi e di batterî: tra le fanerogame ricordiamo il Cytinus hypocistis, unica Citinacea europea che parassita alcune specie di Cistus della macchia mediterranea; lo strano Cynomorium coccineum, unica Balanoforacea europea parassita di varie alofilo-igrofile a Malta, Sicilia, Sardegna e qualche altra isolata stazione; il vischio e il loranto su svariate piante arboree; le numerose Orobancacee tutte parassite e le parecchie Cuscute indigene ed esotiche, alcune assai dannose alle piante pratensi. Le epifite sono da noi limitate alle briofite e ai licheni e, quanto alle piante superiori, sono frequenti quelle epifite occasionali che A. Béguinot e G. B. Traverso designarono col nome di arboricole che formano piccoli giardini pensili specialmente sui salci e gelsi a capitozza caratteristici del paesaggio padano.
È necessario dare anche un rapido sguardo al passato della nostra flora e alle vicende che la condussero, in seguito a variazioni di clima e di terre, all'assetto e alla struttura attuale.
Per quel che concerne la regione mediterranea la fitopaleontologia ha dimostrato che nei territorî mediterranei e finitimi, naturalmente con una configurazione molto diversa dalla presente, esistevano nel Terziario e specialmente dal Neogene in qua (gli esempî più numerosi e istruttivi promanano dai ricchi depositi fillitiferi della Francia meridionale) parecchie specie identiche o strettamente affini a quelle che compongono i boschi e le macchie sempervirenti, quali le querce del gruppo del leccio, della sughera, della coccifera, l'oleandro, il mirto, due pistacie affini a P. lentiscus e a P. terebinthus, la fillirea, il siliquastro, la palma nana, un gruppo di generi che oggidì forma le foreste delle Laurinee nelle isole Canarie, quali Laurus, Persea, Ilex, Notelaea, Oreodaphne, Celastrus di cui sono avanzi il comune alloro (L. nobilis) affine al vivente L. canariensis che resse da noi sino al tardo Quaternario, e con tutta probabilità l'Arbutus unedo affine ad A. canariensis e l'Erica arborea che pur vegetano in quei boschi, ma non furono sin qui trovati allo stato fossile. Sorprende pure la mancanza di specie del genere Cistus oggi così diffuse, la scarsità delle filliti riferibili all'olivo, alla palma nana e in generale alle sclerofille ora dominanti: ma ciò si deve probabilmente al fatto che le zone inferiori, quindi più vicine ai luoghi di fossilizzazione, erano popolate da una vegetazione affatto diversa e poi in grande parte scomparsa composta di rappresentanti di famiglie proprie delle parti più calde del globo (Mimosacee, Sapotacee, Malpighiacee, Combretacee, Sterculiacee, molte Palme, ecc.), mentre le attuali sclerofille dovevano starsene confinate in zone asciutte e soleggiate di media montagna. Comunque la presenza nel Terziario di molti costituenti della flora mediterranea è accertata dai numerosi paleoendemismi parecchi dei quali monotipici, dalle specie ad area disgiunta e frazionata comprendendovi nel novero quelli e quelle vegetanti in zone elevate e le stesse ipsofite che hanno origine mediterranea. Forse in nessun settore l'impronta arcaica è così manifesta come in Sardegna e in Corsica e ciò si deve all'antica definitiva emersione di quelle isole che sono da noi gli avanzi più cospicui di una configurazione di terre e di mari diversa dall'attuale, ma non meno allo stato di relativo isolamento in epoca geologicamente recente quando le masse continentali e le stesse penisole subirono quei profondi mutamenti floristici che caratterizzarono il Quaternario. Il primo motivo, che si collega con la nota ipotesi della Tyrrhenis o Tirrenide, ci dice come si siano potute arricchire, il secondo come abbiano potuto conservare tanti superstiti di paleoflora, ma ciò non esclude che anch'esse abbiano ricevuto alcune recenti per quanto limitate infiltrazioni.
Le crisi termiche e in generale i profondi cambiamenti climatici che caratterizzarono il Glaciale e l'immediato Postglaciale hanno interessato il versante sud delle Alpi, e, per quanto in maniera più attenuata, l'intera penisola non esclusi i distretti litoranei o prossimi alla costa. Una prova decisiva sta nei risultati dello studio dei vertebrati di numerose caverne, quando sono accuratamente esplorate, che mostrano la sostituzione della fauna quaternaria calda a base d'ippopotamo, di rinoceronte di Merck e di elefante antico con una fauna in cui si trova una varia mescolanza di tipi artici, di elementi di steppa e di foresta che lascia supporre nelle varie regioni della penisola compresi i distretti meridionali (esempio tipico la Grotta Romanelli nel Leccese) una vegetazione nella quale erano rispettivamente possibili e probabilmente in tempi diversi diversamente estese le condizioni rispettivamente della tundra, della steppa e di formazioni boschive oggidì proprie della zona montana, testimoni le prime due di un clima continentale e le seconde di un'accentuata piovosità e, quindi, di un clima oceanico. Le acme glaciali determinarono la scomparsa di quasi tutti i tipi tropicali del Terziario anche più recente, la discesa verso il litorale della macchia sempreverde e il suo accantonamento in distretti privilegiati, l'emigrazione sin nelle alte montagne della Sicilia d'ipsofite alpine e alpino-boreali (si ricorda la Betula aetnensis semplice razza della betulla bianca), la discesa in pianura di specie microterme sin nel Lazio meridionale nelle Paludi Pontine (Deschampsia caespitosa, Rhynchospora alba, Eriophorum latifolium, Caltha palustris). Sembra logico ammettere che proprio sotto l'impero di queste condizioni sia avvenuto lo scambio, forse favorito dalla cosiddetta Adria, tra la flora orofila della Balcania e quella dell'Appennino centrale e meridionale, in seguito a che vennero rendendosi più intime e strette quelle affinità che preesistevano al Quaternario e ciò senza bisogno di ammettere che il collegamento sia stato fatto da terre molto elevate, e perciò stesso troppo ipotetiche. La presenza nella zona subalpina della Sardegna e della Corsica dell'Alnus suaveolens così affine all'ontano verde delle Alpi, e quella di parecchie nemorali di media montagna (Anemone hepatica, Saxifraga rotundifolia, Sanicula europaea, Adoxa moschatellina, Asperula odorata, ecc.) fanno pensare a rapporti di continuità o almeno di maggiore vicinanza di quelle isole con la terraferma con l'intermezzo delle isole toscane in coincidenza di una fase pluviale: ma deve essere stata una ben debole e fugace interferenza ove si tenga presente quanti pochi elementi della fauna quaternaria calda e fredda riuscirono a penetrare nella Corsardegna. Clima oceanico a medie termiche corrispondenti, ad es., a quelle del Portogallo e a piovosità uniformemente distribuita postula la presenza di Rhododendrum ponticum nella breccia di Hottinga, di una forma locale di questo assieme ad Acer laetum Aesculus hippocastanum e ad altri elementi della cosiddetta flora pontica in depositi fillitiferi insubrici che si sogliono riferire all'interglaciale riss-wurmiano, mentre sembrano più recenti e, quindi, postglaciali quello di Re in Val Vigezzo (Valle d'Ossola) dove si rinvenne pure il rododendro, quello di Calprino, ecc. Anche la penetrazione del componente atlantico che il Negri ha rintracciato nella flora piemontese e toscana e che ha i suoi più tipici esponenti nei suoli argillosi e freschi e in settori piovosi deve essere avvenuta in ondate successive coincidenti con fasi oceaniche che spinsero, inoltre, il faggio a vegetare a una quota più bassa dell'attuale o in distretti isolati come sono gli Euganei, il Gargano, ecc. Erano, invece, probabili superstiti di flora terziaria il Laurus canariensis, la Persea amplifolia e indica, l'Ilex canariensis, la Zelkova crenata e acuminata (tipi canariensi i primi tre, asiatici gli ultimi due) riconosciuti da Béguinot in filliti dei dintorni di Palermo riferibili a un Quaternario recente e forse all'interglaciale riss-wurmiano. La loro scomparsa deve ascriversi, più che a nuovo rincrudimento del clima, al crescente suo inaridimento e questo fattore deve aver fatto risentire la sua influenza, ad es., nel gruppo delle isole Maltesi, avanzo di un'intercapedine afro-sicula già ricca di vegetazione come dimostra la fauna di vertebrati e la stessa presenza del papiro, pianta di resorgive, scomparsa solo nella prima metà del secolo scorso, e la povertà di paleoendemismi nonostante una relativamente antica emersione di questa terra.
Molto studiate fuori d'Italia sono le oscillazioni climatiche verificatesi dopo l'ultima acme glaciale - la wurmiana - e che furono documentate, fra l'altro, con l'analisi del polline fossile trovato nelle torbiere e nei ganghi palustri. I pochi dati raccolti sin qui da noi non permettono generalizzazioni: diremo solo che alle oscillazioni di Achen si tende a riferire quel periodo aquilonare (Kerner) o xerotermico (Briquet), durante il quale specie mediterranee e alcuni degli stessi componenti della macchia e del bosco sempreverde hanno potuto irradiare ed espandersi formando, nella zona pedemontana delle Alpi e specialmente nei versanti più propizî delle conche lacustri e qualche volta penetrando nelle stesse valli, quelle colonie termofile che abbiamo a suo luogo ricordate. Interessante per la sua completezza e per l'attuale suo isolamento nel bassopiano padano è quella insediata nei versanti sud ed est dei Colli Euganei con Quercus ilex, Cistus salvifolius con il suo parassita Cytinus, C. laurifolius (scomparso sui primi dello scorso secolo), Erica arborea, Arbutus unedo, Spartium junceum, Ruscus aculeatus, Asparagus acutifolius, con attorno alle sorgenti termo-minerali ai piedi del versante orientale Polypogon monspeliensis, Lepturus incurvatus, juncus acutus e maritimus, Spergularia Dillenii, Aster tripolium, Sonchus maritimus, e altre alofite oggidì scomparse testimonianti un'antica linea di spiaggia e in complesso una termofilia più accentuata che in corrispondenza dell'attuale litorale. Degna di nota la presenza d' isolate colonie di Ruta patavina, le cui più vicine stazioni sono a Parenzo e a Postumia e che è un elemento orientale irradiato dall'Asia Minore in Grecia e quindi, attraverso l'Illiria, sino in Istria e poi nel Padovano, ed è d'irradiazione transadriatica la macchia mediterranea che riveste alcune isole del Quarnaro, l'Istria meridionale e qualche punto del golfo di Trieste. Viceversa il Cistus laurifolius (già esistito negli Euganei), il C. albidus fra Torri del Benaco e Albisano (Garda), l'Aphyllanthes monspeliensis al Dragoncello presso Brescia hanno evidentemente irradiato da territorî occidentali. Carattere saliente di queste colonie è il loro isolamento e questo lascia supporre che l'immigrazione sia stata favorita da un clima più caldo e più secco dell'attuale, quale è il supposto xerotermico, ma negli Euganei qualche tipo può essere prequaternario. Hanno un'origine e una costituzione diversa le colonie steppiche, ad es., della Val Venosta, di cui si fece cenno, ma non è ancora chiaro a quale fase climatica si debbano sincronizzare.
Si deve infine osservare che il fattore antropico esercitô un'azione in Italia, culla di antiche civiltà e teatro delle più diverse immigrazioni, particolarmente profonda e che tuttora continua e anzi s' intensifica. È ad esso che si deve la distruzione di tanta parte delle primeve foreste, il prosciugamento di vaste zone paludose, la protezione di alcune essenze a scapito di altre per cui si vennero a turbare i naturali rapporti ecologici, l'insediamento di formazioni pratensi dove c'era bosco, o di prati artificiali, la creazione di qualche nuova condizione quali i ruderati e le concimaie che richiamarono associazioni di piante nitrofile (urtiche, parietarie, chenopodi, ecc.), ma più che tutto l'introduzione di tante piante esotiche o un razionale sfruttamento delle indigene in quel paesaggio colturale che maschera in alcuni settori quello stesso naturale. Azione, dunque, molto complessa che si è esercitata specialmente nella zona submontana; e basta pensare agli ampî squarci del suo ammanto forestale, all'introduzione del castagno o al suo sfruttamento dove preesisteva, all'ampio sviluppo della viticultura e dell'olivicultura che del resto ha in comune con i distretti litoranei. Ma sulle principali coltivazioni si è detto abbastanza alle voci alpi e appennino. Con le sementi delle piante coltivate l'uomo ha inconsapevolmente introdotto numerose specie alcune delle quali restarono confinate alle colture e altre passarono a inquinare formazioni naturali. Il rilascio della zavorra delle navi, l'introduzione delle lane, la risicoltura nella Padania, i prati artificiali, furono altrettanti punti d'insediamento di specie esotiche dai quali alcune irradiarono e si estesero. Ma un altro punto di partenza fu la stessa coltura intenzionale di specie straniere che hanno trovato nel nostro suolo condizioni eccezionalmente propizie per propagarvisi, quali la Robinia pseudoacacia lungo gli argini ferroviarî e nei terreni franosi, l'Agave americana e alcune Opuntia (fico d'India) piantate al sud e nelle isole ai margini dei campi e lungo le vie, diventate parte integrale del paesaggio botanico e qui si ricordano le Tulipa, i Narcissus, l'Anemone coronaria coltivati e perfezionati con la selezione e l'ibridazione negli antichi orti di alcune città (Firenze, Bologna, Lucca) e poi sfuggiti alla coltura e naturalizzati a tale punto da mentire l'aspetto di piante insorte nello stato di natura. Complessivamente Béguinot e Mazza hanno enumerato 538 specie esotiche trovate allo stato avventizio, delle quali 216 riconosciute naturalizzate e alcune diventate affatto infestanti quali la Oxalis cernua nei campi e negli agrumeti dell'Italia meridionale e insulare, la Galinsoga parviflora e l'Acalypha virginica nelle ortaglie del nord e del centro, l'Azolla caroliniana e filiculoides e l'Helodea canadensis nelle acque tranquille, alcune Cuscuta parassite nei prati artificiali, la Oenothera biennis nelle arene marine e nelle sabbie alluvionali, ecc.
Fauna. - La fauna italiana si presenta ricca e varia, per quanto le vicissitudini climatiche, il diboscamento di grandi estensioni, l'estendersi delle colture e la caccia abbiano fatto scomparire o abbiano ridotto l'area di distribuzione di parecchie specie. L'uomo quaternario conobbe il mammut, l'uro, l'alce, il bisonte, l'ippopotamo, l'orso delle caverne, la iena delle caverne, il gulo. Le pianure erano battute da elefanti, da buoi e da cavalli selvatici. La Sardegna ebbe anche due specie di scimmie e potamocheri; e un rosicante, il Prolagus corsicanus, pare vivesse nell'isola di Tavolara fino a due secoli or sono.
Attualmente i grossi Mammiferi non sono numerosi e si presentano piuttosto strettamente localizzati. Lo stambecco (Capra ibex), nei tempi preistorici sparso su tutte le Alpi ed esteso fino alle catene nevose dell'Europa centrale, sarebbe scomparso, se a cominciare dal 1816, non fossero state emanate delle leggi per salvaguardare gl'individui che sopravvivevano nei massicci montuosi del Gran Paradiso e della Grivola. Oggi il Parco Nazionale del Gran Paradiso alberga circa 3000 stambecchi.
Altra bella specie alpina è il camoscio (Rupicapra rupicapra): se ne rinviene ancora in discreto numero su tutta la catena delle Alpi; ma solo nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, severamente protetto dalla caccia, prospera indisturbato. Il camoscio si estendeva ancora sull'Appennino, ma ormai nella penisola è ridotto all'Abruzzo e precisamente al gruppo montuoso che si estende fra Opi, Civitella-Alfedena (Sulmona) e Settefrati (Caserta). Assai più diffuso è il capriolo (Capreolus capreolus), il quale, oltre a trovarsi piuttosto abbondante in Valtellina e nelle Alpi Venete, abita, benché scarso, tutto il versante tirrenico dalla Toscana alla Sila, nonché il Gargano. In quanto al cervo (Cervus elaphus) esso è raro sulle Alpi orientali; indigeno si mantiene, grazie alla protezione, nel bosco della Mesola presso le foci del Po. I cervi sardi (Cervus corsicanus) sono relativamente abbondanti nell'isola. Esclusivi della Sardegna sono il daino (Dama dama), ormai scomparso dal continente, e il caratteristico muflone (ovis musimon).
Il più abbondante dei grossi Mammiferi che vivono allo stato selvaggio è il cinghiale (Sus scrofa): eccezionale verso i confini occidentali del Piemonte e della Liguria, lo si trova, spesso numeroso, lungo tutto il versante tirrenico dall'Arno alla Calabria e non manca al Gargano e in Puglia; frequente è in Sardegna, ove ha una particolare fisionomia.
L'orso si conserva nelle boscaglie attorno al Gruppo di Brenta, in Val di Tovel e in Val di Genova (Orso delle Alpi) e nell'alta valle del Sangro. La lince (Lynx lynx), ridotta a qualche località del Piemonte, è divenuta rarissima. I lupi, altre volte assai diffusi, permangono nell'Appennino centrale e meridionale e in Sicilia; le volpi si trovano dappertutto e sulle Alpi raggiungono i 2500 m. Sparso su tutta la penisola, ma poco abbondante soprattutto nelle provincie meridionali, è il tasso, amante delle località montuose. In quanto ai gatti selvatici (Felis silvestris), che bisogna ben distinguere da quelli rinselvatichiti, sono rari dappertutto salvo che nella Maremma, nel Gargano e in Calabria; anche la Sardegna ne possiede, ma diversi da quelli del continente (Felis ocreata). Schiettamente alpino è l'ermellino (Putorius ermineus); la donnola (Putorius nivalis) si trova anche nelle isole, ove è rappresentata da particolari forme; diffusa nel continente è la puzzola (P. putorius); la martora (Mustela martes) vive anche nelle isole, ove manca invece la faina (M. foina). La lontra (Lutra lutra), assente dalle isole, è rara in tutto il continente.
Comune anche nelle isole è il riccio (Erinaceus europaeus); le talpe mancano tanto in Sicilia quanto in Sardegna. Piccoli Insettivori sono i toporagni e le crocidure, abbastanza diffusi e abbondanti; il piccolissimo mustiolo toscano (Pachyura etrusca) vive dalla Toscana alle provincie meridionali, nonché in Sardegna.
Fra i Rosicanti si hanno specie prettamente alpine: tali la lepre bianca (Lepus variabilis), la marmotta (Marmota marmota) e il piccolo campagnolo delle nevi (Arvicola nivalis), che si spingono nelle zone fra 3000-4000 m. di altitudine. L'istrice (Hystrix cristata), al contrario, è specie meridionale non infrequente in Sicilia, piuttosto rara sul continente, ove si spinge fino in Toscana. La lepre comune (Lepus timidus) si trova in tutta Italia e in Sicilia; la Sardegna possiede il L. mediterraneus, più piccolo; il coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) abita soprattutto la Val d'Aosta, l'arcipelago toscano, la Sicilia e la Sardegna. Lo scoiattolo (Sciurus vulgaris) e il ghiro (Myoxus glis) costituiscono una popolazione arboricola comune ai nostri boschi: il secondo si trova anche nelle due isole maggiori. Pure assai diffusi sono il topo quercino (Eliomys quercinus) e il moscardino (Muscardinus avellanarius). Varie specie di topi e di arvicole apportano danni considerevoli negli abitati e soprattutto nelle campagne.
Numerose specie rappresentano il gruppo dei Pipistrelli fra cui il Vesperugo maurus è tipicamente alpino.
Una specie di foca (Pelagius monachus) frequenta le nostre spiagge solitarie e rocciose.
Ricca, varia e multiforme è l'avifauna: se si prescinde da quelli che vi capitano eccezionalmente, l'Italia possiede circa 400 diverse specie di Uccelli, ma solo poco più di un terzo vi sono stazionarie. Come esclusivo dell'Italia possiamo considerare il passerotto comune (Passer Italiae) proprio del continente.
Una delle regioni meglio caratterizzate è certamente quella alpina. Quivi, nel folto dei boschi elevati vivono quei magnifici gallinacei che sono i tetraonidi: il gallo cedrone (Tetrao urogallus), ormai raro e localizzato nel Cadore, nel Trentino, nel Friuli e in qualche altro sito delle Alpi lombarde e venete, il francolino di monte (Tetrastes bonasia), il fagiano di monte (Lyrurus tetrix), la mutevole pernice di monte (Lagopus mutus). Esclusivi delle Alpi sono il picchio cenerino (Gecinus canus), specie settentrionale stazionaria nel Trentino, il magnifico picchio nero (Dryocopus martius) e, benché talora se ne allontani, la nocciolaia (Nucifraga caryocatactes); mentre, diffusi in tal zona più che altrove, notiamo anche i gracchi (Pyrrhocorax alpinus, Fregilus graculus), il sordone (Accentor alpinus), il fringuello delle nevi (Montifringilla nivalis), il picchio muraiolo (Tichodroma muraria), il rampichino alpestre (Certia familiaris) e altri uccelli, che possono anche rinvenirsi nella penisola e nelle isole.
La regione subalpina e la pianura padana non presentano spiccate peculiarità: vi notiamo peraltro il precoce arrivo delle specie migranti che giungono dal settentrione, e il ritardo di quelle che vengono dal mezzogiorno. Durante l'inverno v'è gran copia di varie specie di tordi. Nella pianura padana fa non rare e spesso abbondanti comparse l'oca lombardella (Anser albifrons), mentre le lagune e le paludi, soprattutto nell'estuario veneto, richiamano gran copia di trampolieri e palmipedi, fra i quali sono notevoli la moretta grigia (Fuligula albifrons), la moretta pezzata (Harelda glacialis), l'orco e l'orchetto marino (Oedemia) e le strolaghe (Colymbus).
Altri Uccelli nordici capitano invece in Liguria: tali le caratteristiche alche (Alca) e il curioso pulcinella di mare (Fratercula arctica). La Liguria è peraltro la regione più ricca d'Italia in fatto di uccelli, specialmente per il gran numero di specie di passo e di stazione estiva o autunnale che si susseguono durante l'anno.
Anche in Toscana l'avifauna è ricca; nella Maremma comincia a incontrarsi con una certa abbondanza la calandra (Melanocorypha calandra), che si fa sempre più numerosa nelle provincie meridionali e nelle isole; vi abbondano il pagliarolo (Calamodus aquaticus), il forapaglie castagnolo (Lusciniola melanopogon), la salciaiola (Lusciniopsis luscinioides), ecc.
Sulle vette appenniniche si rinviene ancora qualche elemento alpino; nelle regioni meridionali scompare il gracchio (Pyrrhocorax pyrrhocorax), ma il gracchio corallino (P. graculus) continua a esser comune in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Nelle pianure dell'Italia meridionale, oltre a buona parte delle specie comuni alla centrale, si vedono frequentemente la volpoca (Tadorna tadorna) e altri palmipedi; in alcune località vive la bella gallina prataiola (Otis tetrax).
Uno dei fatti più singolari delle grandi isole è la mancanza del comune passerotto, sostituito dal Passer hispaniolensis. Caratteristiche della Sicilia sono la rara quaglia tridattila (Turnix sylvatica) e il bellissimo e ormai estinto francolino (Francolinus francolinus). Il pollo sultano (Porphirio caeruleus), abbondante in quest'isola, si trova anche nella Puglia e in Sardegna. Il fenicottero (Phoenicopterus roseus), raro in Sicilia, è invece comunissimo negli stagni di Cagliari e di Oristano: questo uccello, a differenza di tutte le specie migranti che vengono dal sud, arriva da noi in autunno e ne riparte in primavera. Gli stagni della Sardegna offrono acconcia dimora a gran numero di trampolieri e di palmipedi, come volpoche (Tadorna tadorna), fistioni turchi (Fuligula rufina), gobbi rugginosi (Erismatura leucocephala), ecc., mentre le scogliere litoranee sono frequentate dal marangone col ciuffo (Phalacrocorax Desmaresti). Le colline albergano la gallina prataiola e la caratteristica pernice sarda (Perdix petrosa). Ma ciò che maggiormente colpisce nell'avifauna sarda è l'abbondanza e la varietà dei grossi rapaci, così scarsi nel continente: comunissimi gli avvoltoi (Aegypius monachus), i grifoni (Gyps fulvus), gli avvoltoi degli agnelli (Gypaëtus barbatus); comune l'aquila del Bonelli (Nisaëtus fasciatus); non rare l'aquila di mare (Haliaëtus albicilla) e l'aquila reale (Aquila chrysaëtus), a cui si aggiungono il falco pescatore (Pandion haliaëtus), il nibbio reale (Milvus milvus), l'astore (Astur palumbarius), ecc.
Passando ai Rettili, la testuggine palustre (Emys orbicularis) è diffusa in tutto il continente e nelle isole; mentre la terrestre (Testudo graeca) è specie meridionale e insulare, benché la si trovi indigena anche in Liguria e nell'Istria. Comunissima dappertutto la lucertola muraiola (Lacerta muralis); il ramarro (L. viridis) manca in Sardegna. L'orbettino (Anguis fragilis) è proprio del continente. Le tarantole (Tarantola mauritanica, Hemidactylus turcicus) appartengono alla fauna peninsulare e insulare. Assai diffusa è la vipera comune (Vipera aspis) che manca solo in Sardegna; un'altra vipera, il marasso palustre (V. berus) è propria dell'Italia settentrionale; più localizzate la Vipera Ursinii e la vipera cornuta (V. ammodytes). La biscia acquaiola (Tropidonotus natrix) vive dappertutto. La Sardegna è peraltro poverissima di serpenti e manca di colubri (Coluber) e di coronelle (Coronella).
Mancano in Sardegna anche la salamandra, il rospo comune e le rane; mentre queste popolano il continente e la Sicilia con varie specie, di cui la rana comune (Rana esculenta) è la più diffusa. Schiettamente insulare è il discoglosso (Discoglossus pictus). I tritoni (Molge) vivono, se si eccettua una specie sarda, solo sul continente. Interessante è il proteo (Proteus anguinus), che abita le acque sotterranee dall'Istria al nord dell'Erzegovina.
Le acque dolci nutrono gran copia di Pesci. Gli storioni (Acipenser sturio, ecc.) s'inoltrano solo nei grandi fiumi e soprattutto risalgono il Po. Le anguille sono abbondantissime dappertutto e popolano anche le acque salmastre e i bacini non comunicanti con i corsi d'acqua. Diffusissime sono anche le tinche (Tinca vulgaris) e i salmoni (Salmo fario), il luccio (Esox lucius) e il pesce persico (Perca fluviatilis) mancano nelle provincie meridionali e nelle isole.
Numerosissimi sono gl'Insetti, i Molluschi e gli altri invertebrati. L'Italia non è immune dalle orde devastatrici delle cavallette: gli Acridium e gli Stauronotus compiono le loro devastazioni soprattutto nelle isole, il Caloptenus italicus nelle regioni centrali e settentrionali, il Pachytylus migratorius dappertutto.
Temuti sono anche parecchi Coleotteri e principalmente il maggiolino (Melolontha vulgaris). La fillossera (Phylloxera vastatrix), originaria dell'America, si è estesa compromettendo, spesso gravemente, le nostre viti. Non vi sono in Italia Artropodi il cui veleno sia veramente pericoloso per l'uomo: se abbastanza temibili sono le scolopendre (Scolopendra), poco lo sono i piccoli scorpioni (Euscorpius) viventi in Italia, e tanto meno la tarantola (Lycosa tarentula) e la malmignatta o ragno volterrano (Latrodectes tredecimguttatus).
Regioni e provincie.
Regioni augustee. - Augusto, non sappiamo in qual momento precisamente, divise l'Italia (per i confini dell'Italia in epoca augustea, vedi appresso p. 799) in undici regioni, e tale divisione Plinio mise a fondamento della sua corografia dell'Italia (Nat. Hist., III, 5, 46 segg.). Par certo che in questa divisione ogni regione fosse contrassegnata da un numero d'ordine progressivo e non da una speciale denominazione, mentre le località venivano registrate in serie alfabetica, facendosi speciale segnalazione delle colonie.
Le prime otto regioni di Augusto comprendono l'Italia peninsulare fino alla Magra e al Rubicone, che sono i confini antecedenti all'annessione della Gallia Cisalpina, i confini, cioè, dell'Italia preaugustea, e le ultime tre comprendono l'Italia settentrionale con quello che invece fu il confine augusteo. In considerazione di ciò il Mommsen congetturò, forse a ragione, che Augusto non avesse creato di sana pianta la sua divisione, ma avesse preso le mosse da una precedente divisione dell'Italia peninsulare in otto regioni e a queste avesse aggiunto la Gallia Cisalpina, dividendola in tre ulteriori distretti. Le undici regioni sono le seguenti: 1. Campania e Lazio, 2. Apulia e Calabria, 3. Bruzzio e Lucania, 4. Sannio, 5. Piceno, 6. Umbria, 7. Etruria, 8. Emilia, 9. Liguria, 10. Venezia e Istria, 11. Gallia Transpadana.
Popolazione.
Antropologia. - Il primo saggio scientifico sull'antropologia dell'Italia nel suo insieme è dovuto a G. Nicolucci. Nel lavoro di questo autore però, se è bene sviluppata la parte che si riferisce alle tradizioni e ai dati storici relativi ai movimenti delle popolazioni che abitarono la penisola, è poco sviluppata la parte veramente antropologica, relativa ai caratteri fisici descrittivi e metrici degl'Italiani.
Il lavoro fondamentale per l'antropologia dell'Italia e quello che, ancora oggi, rimane quasi unico per il numero delle osservazioni individuali, su cui è fondato, per l'elaborazione statistica di esse, per la cautela delle deduzioni, è quello di R. Livi. Questo lavoro può dirsi non solo il massimo sull'antropologia italiana, ma quello che ancora oggi è il migliore esempio di una ricerca simile estesa a una nazione civile, in guisa che esso può dirsi veramente un vanto della scienza antropologica italiana. Il Livi si valse dei risultati metrici e descrittivi, raccolti dal corpo medico-militare sui militari delle classi '59-'63. I rilievi furono eseguiti in base a uno schema, detto foglio sanitario, immaginato e proposto dal colonnello medico Salvatore Guida. Il numero delle osservazioni individuali fu di circa 300.000.
L'inchiesta che si ebbe in mira aveva anche scopi medici, ma a noi interessano solo i risultati antropologici. Tre caratteri furono considerati in modo particolare: l'indice cefalico, il colorito, la statura; ma furono osservati anche altri caratteri. La scelta di questi ultimi però non può dirsi esente da riserve, che debbono anche estendersi al modo del loro rilievo.
Indice cefalico. - Tanto nella carta per circondarî, quanto in quella per mandamenti (amministrativi) la distribuzione dei valori medî dell'indice cefalico appare assai più regolare di quella degli altri due caratteri. La media generale è di 82,73. Siccome l'indice cefalico nel vivente si calcola abbia un valore superiore a quello del cranio di due unità e siccome lo strumento di misura che fu usato, il cosiddetto quadro a massima, alza alquanto il valore dell'indice, dobbiamo ritenere che la media suddetta corrisponda praticamente, se pure non a un valore più basso, almeno al valore di 80 sul cranio, che è anche la divisione che si suole fare tra forme dolicoidi e brachioidi del cranio, allorquando si fa uso di una divisione binaria.
L'indice cefalico in Italia va, parlando all'ingrosso, decrescendo dal nord al sud: i valori medî andando da 88,7 a 74,2. La sede prevalente della brachicefalia, sita a nord dell'Appennino settentrionale, s' inoltra attenuata, ma continua, nell'Italia centrale con uno sperone la cui punta, situata nell'asse della penisola, arriva presso a poco a Rieti. Ma poco oltre, al sud, essa ricomincia, con l'attuale provincia di Frosinone e con la provincia di Chieti a nord-est. Con gradi iniziali essa occupa tutta la parte meridionale occidentale della Campania e la Lucania centro-orientale. È assai interessante un'area di forme presso a poco al confine fra brachioidi e dolicoidi, ma tutto sommato, più dolicoidi, e che è circoscritta da un semicerchio di forme brachioidi, dato appunto dalle zone sopra riferite: provincia di Chieti, provincia attuale di Frosinone, Campania meridionale-occidentale, Lucania centro-orientale. Questa zona di relativa dolicocefalia corrisponde all'ingrosso a una zona di colorito chiaro che vedremo. Quest'ultima però è più larga, comprendendo la provincia di Chieti. La Sicilia è tutta compresa nella dolicocefalia, ma la sua intensità è molto variabile. La Sardegna invece presenta i gradi più intensi di quella. A questo quadro generale occorre però aggiungere alcuni fatti sempre assai importanti: nella valle del Po è constatabile che la zona debolmente dolicocefalica della Liguria si continua nella parte meridionale e orientale del Piemonte e quindi, dirigendosi verso nord-est, arriva alla provincia di Brescia, con una breve interruzione in corrispondenza del circondario di Lodi. La Liguria presenta una lieve dolicocefalia, ma essa è assai intensificata all'estremo bordo della Toscana, a quella adiacente, cioè nei circondarî di Lucca e Castelnuovo di Garfagnana, come nella parte meridionale di quello di Massa. Questa zona, diciamolo subito, è caratterizzata anche da statura alta e da colorito piuttosto scuro. Un fatto interessante è che la Romagna presenta brachicefalia più sensibile di quella che si riscontra nelle regioni circostanti e soprattutto nella valle del Po e nel Veneto. Riguardo al rapporto fra altimetria e indice cefalico, il Livi credette di poter asserire una differenza fra nord e sud, nel senso che nel nord la zona altimetrica sita sopra i 400 metri sul livello del mare avrebbe maggior frequenza di brachicefali, nel sud invece di dolicocefali. Questa differenza sarebbe, secondo il Livi, determinata semplicemente dal fatto che la montagna, luogo di scarso movimento etnico, conserverebbe meglio la forma caratteristica della regione. Sennonché il Sera obietta che l'esame particolare delle regioni, nel grafico relativo del Livi (p. 84) non permette di trarre con sieurezza la conclusione di fatto assunta dal Livi e, più ancora, fa rimanere dubitosi sulla legittimità della causa da quello supposta. La prevalenza della brachicefalia nella montagna, per il Veneto, brachicefalico, è assai esigua; l'Emilia, brachicefalica, ha la montagna più dolicocefalica della pianura e lo stesso vale per le Marche; per l'Umbria, brachicefalica, la differenza è minima, ma caso mai, contraria alla regola del Livi; il Lazio, dolicocefalico, è più brachicefalico nella montagna e in misura sensibile; la Puglia, dolicocefalica, ha indice più elevato nella montagna. La Sardegna, infine, che ha l'indice più basso, dovrebbe offrire maggiori evidenze, e invece ha una piccola differenza fra montagna e pianura, e ancora in senso contrario. La spiegazione delle differenze fra montagna e pianura per l'indice cefalico è data dal Sera in maniera diversa, come si vedrà.
Colorito. - Per ciò che riguarda il colorito, il suo rilievo fu fatto in base agli occhi e ai capelli e non alla pelle, e i risultati di esso furono tradotti cartograficamente in quattro maniere e cioè per frequenza di tipi puri e di tipi misti. Sono tipi puri il tipo a capelli e occhi scuri o neri (tipo bruno) e quello a capelli biondi e occhi azzurri o grigi (tipo biondo). S'intendono per tipi misti le percentuali che si hanno sommando tutti gli occhi scuri o neri e tutti i capelli neri, ovvero tutti i capelli biondi e gli occhi azzurri o grigi, anche quando non si trovano sullo stesso individuo e riferendo tali somme al numero totale delle osservazioni. Da tutte e quattro le carte del Livi per circondarî, come dalla grande carta per mandamenti del tipo bruno misto, risulta press'a poco la stessa distribuzione geografica del colorito e cioè: le popolazioni più bionde sono tutte aggruppate verso il confine settentrionale d'Italia, formando un tratto di unione con le popolazioni della Savoia, della Svizzera, dell'Austria, notoriamente più bionde assai degl'Italiani. È singolare osservare che tutta la valle del Po è più bruna decisamente di alcune regioni dell'Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche. Nella Valle Padana è decisamente più bruna tutta la parte al sud del Po e una fascia preappenninica. L'Appennino settentrionale è invece piuttosto chiaro. Un'altra zona chiara è data dalle provincie di Chieti, Campobasso, Benevento, Avellino. La Calabria è più bruna della Sicilia, ma la Sardegna supera tutte le altre regioni per brunezza.
È singolare a questo proposito il fatto, rivelato bene dalla carta per mandamenti, che mentre Puglia, Calabria e Sicilia manifestano differenze spesso sensibili per il colorito fra mandamenti prossimi gli uni agli altri, la Sardegna, sita presso a poco alla stessa latitudine dell'Italia meridionale continentale, dimostra assai piccole differenze. Chiaramente tale fatto esclude un fattore climatico e invece indica la presenza d'un fattore etnico nell'Italia continentale e in Sicilia, fattore rimasto in gran parte assente in Sardegna. Riguardo al rapporto fra colorito e abitato montagnoso, il Livi stabilì che nelle montagne (luoghi al disopra di 400 metri) la proporzione dei capelli biondi è sempre maggiore e quella degli occhi bruni è minore. Solo una regione forma eccezione, l'Abruzzo, ma questa è una regione montuosa e la proporzione dei pianigiani in essa è insignificante. Nelle montagne, secondo il Livi, si avrebbe maggiore proporzione di tinte chiare, perché in esse vi è maggior numero d'individui sottoposti a influenze generali o locali che ritardano lo sviluppo corporeo e la normale evoluzione del colore, che, come è noto, si scurisce dalla nascita in poi.
Sembra tuttavia che la spiegazione sia assai più complicata e, pur non escludendo il fattore del Livi, si dovrebbe far ricorso, almeno per l'Italia centrale e la parte più settentrionale della meridionale, a un fattore raziale, come si vedrà poi. A questo proposito è degno di ricordo che ben piccola differenza fra pianura e montagna si verificherebbe per la Lombardia, ove un fattore etnico è appunto più evidente.
Statura. - La statura media generale risulta essere di m. 1,645. Questa statura corrisponde anche alla media generale dell'umanità. Dobbiamo però osservare che questa cifra, come le altre che esporremo, si riferisce a giovani "idonei", cioè a un gruppo selezionato. Il Livi stesso esaminando la statura dei giovani di cinque classi, precedenti a quelle qua considerate, ma per tutti gli "iscritti", trovò una statura di 21 mm. inferiore. D'altra parte occorre anche considerare che i giovani a 20 anni non hanno raggiunto la loro statura definitiva. Siccome però le grandi statistiche della statura si riferiscono per lo più, nelle nazioni civili, ai giovani sui 20 anni, è possibile un giudizio relativo dell'altezza. Dai dati del Livi risultano comporre la popolazione italiana: 18,2% di statura sotto m. 1,60; 35% di stature fra m. 1,60 e m. 1,65, 29,2% di stature fra m. 1,65 e m. 1,70; 17,6% di statura sopra m. 1,70. Dalle carte si distribuzione del Livi, risultano esistere in Italia tre principali centri di alte stature. Uno, il più vasto, comprende la massima parte del Veneto; uno, tosco-emiliano, che occupa la parte settentrionale della Toscana (con una piccola invasione in Liguria) e la porzione orientale dell'Emilia, tramezzato da una chiazza di basse stature, corrispondente ai due circondarî montuosi di Pavullo e di Vergato; e un terzo, lombardo, nella parte orientale e settentrionale della Lombardia. Le popolazioni di più bassa statura formano invece una larga striscia, che, cominciando dalla metà meridionale delle Marche, ristretta dapprima fra Adriatico e Appennino, si estende verso il sud, passando per il Sannio e va a raggiungere la Lucania e la Calabria. Un centro di basse stature è anche ben delineato sulla costa meridionale della Sicilia. Un altro centro di popolazioni bassissime è costituito dall'intera Sardegna, fatta eccezione di una zona a nord-est. Il Livi crede che la spiegazione delle differenze di statura sia da cercare nell'azione combinata della razza e dell'ambiente. L'intervento del primo fattore è, per il Livi, indubitabile e risulta bene nel confronto di certe zone che presentano press' a poco le stesse condizioni economiche e sociali e pur tuttavia statura diversa. Tali, ad es., Veneto e Piemonte, Toscana occidentale e orientale, Abruzzo centrale e orientale. Fra le variazioni determinate dall'ambiente è da considerare in primo luogo quella della montagna, giacché buona parte del suolo italiano, soprattutto nel mezzogiorno, è montagnosa. Il Livi ha asserito l'esistenza di un'influenza deprimente della statura da parte della montagna, nel senso almeno che questa influenza è sensibile fino ai 900 metri. Tale influenza però non sarebbe di natura fisica, ma solo economico-sociale. Ciò risulterebbe, per il Livi, dall'esame della statura media dei tre gruppi sociali da lui stabiliti nei giovani soldati: 1. Studenti, professionisti, impiegati, ecc.; 2. Contadini; 3. Altre attività. Anche nei capoluoghi di provincia siti a maggiore altezza (Cuneo, Perugia, Aquila, Campobasso, Potenza, Caltanissetta) il primo gruppo presenta statura assai più elevata. Tra i fatti generali di distribuzione più cospicui è la presenza di una fascia, abbastanza larga, di stature relativamente basse, in corrispondenza dell'Appennino settentrionale e che dal Piemonte arriva alle Marche, per riattaccarsi alla zona di stature basse che abbiamo già detta. La carta di distribuzione della statura per l'Italia conferma quanto per questo carattere è noto in generale, cioè il suo scarso valore raziale e la sua influenzabilità da fattori peristatici (ambientali), onde, anche per l'Italia, non possiamo dare alla statura in generale un grande valore per stabilire gli elementi raziali che sono intervenuti nella sua composizione etnica.
Altezza del cranio. - Più che dalla variazione dell'indice cefalico orizzontale, ci si potrebbe attendere schiarimenti dalla variazione dell'altezza del cranio (v. cefalici, indici) e meglio ancora dall'esame dei caratteri descrittivi della faccia (v. fisionomia: Fisionomia facciale etnica). Per ciò che riguarda il primo oggetto, valevoli contributi sono stati portati dal Pelizzola, il quale si valse nelle sue estese misurazioni dell'altezza sopra-auricolare, come più squisito mezzo di analisi, in confronto della comune basilo-bregmatica. Le sue conclusioni perciò hanno una grande sicurezza, sotto il riguardo della distribuzione dei tipi di altezza. Ma anche il materiale di dati raccolti da parecchi studiosi su serie craniensi storiche e preistoriche (dati in cui però l'altezza del cranio è misurata con la basilobregmatica) permette utili deduzioni. Le ricerche del Pelizzola si sono limitate purtroppo, finora almeno, all'Italia settentrionale e parte della centrale. Da esse risultano tuttavia alcuni fatti di grande interesse: 1. La brachicefalia dell'Italia settentrionale è da scindere in due unità morfologiche, una brachicefalia di tipo platicefalico, propria della montagna elevata, che possiamo perciò dire propriamente alpina, e una brachicefalia che abbraccia la zona prealpina e la pianura e che è di tipo ortocefalico. La zona romagnola sarebbe persino caratterizzata da una certa frequenza di forme ipsicefaliche che si spingono anche nelle Marche. 2. In alcuni luoghi dell'Appennino settentrionale sono presenti forme platicefaliche, ma a differenza delle alpine, piuttosto lunghe (Liguria, S. Maria del Taro, Ospitale presso il Cimone).
Le ricerche più speciali del Pelizzola sul Tirolo meritano di essere qua ricordate per la loro importanza etnologica, culturale e, sotto certi aspetti, politica. Il Pelizzola infatti poté dimostrare, come l'annessa cartina indica, che nella valle dell'Adige sul versante italiano, l'elemento dolico-basso, identificabile in questa zona con l'elemento etnico germanico, non è affatto prevalente, essendo invece prevalente, nelle più alte valli secondarie, l'elemento platibrachi e nella valle bassa il brachiortocefalo. L'elemento dolico-platicefalo, di provenienza germanica, si trova invece in stato di concentrazione soltanto sul versante opposto, nella valle dell'Inn. Per ritornare però al soggetto principale, dobbiamo dire, riguardo alla seconda delle due conclusioni del Pelizzola, da noi ricordate come più importanti, che dalla rieerca del Pelizzola non risulta se l'elemento basso appartenga al tipo xantocroico ovvero al tipo facciale stesso dei brachioidi.
Indichiamo col nome di xantocroico, come per primo fece Th. H. Huxley, il tipo chiaro a capelli biondi e occhi azzurri, che molti chiamano nordico e anche germanico. Quest'ultima denominazione è affatto da rigettare, non essendo affatto questo tipo prevalente in Germania. Ma anche la denominazione di nordico non è propria, non essendo affatto dimostrato, anzi essendo improbabile, che questo tipo tragga la sua origine dal nord dell'Europa.
Inoltre il Pelizzola riterrebbe che i dolico-ortocefali presentino concentrazioni sull'Appennino, mentre i brachioidi ortocefali sarebbero il risultato di una violenta invasione da regioni finitime all'Italia della Penisola Balcanica, in guisa che essi da un lato avrebbero respinto i brachiplati sulle Alpi e dall'altra i dolicocefali sull'Appennino. Questa conclusione pare al Sera inaccettabile ed è dovuta al fatto che il Pelizzola, come il Livi, non osservarono che i dolicocefali dell'Appennino settentrionale e centrale sono, con ogni probabilità, almeno in parte, del tipo xantocroico e quindi arrivati in Italia in tempi relativamente recenti, al più presto nel Neolitico, con probabilità maggiore nell'età del bronzo e più probabilmente nell'età del ferro, ma soprattutto che essi, contrariamente a quanto ritiene il Pelizzola, hanno ricacciato verso l'occidente dell'Appennino un tipo precedente proprio a questo, come si dirà poi. Allo scopo di avere su questo e altri punti la maggiore chiarezza possibile, il Sera ha studiato il comportamento dell'altezza del cranio, quale risulta dai dati relativi a più serie esistenti nella letteratura e ha potuto fare parecchie constatazioni importanti delle quali faremo qui un breve cenno: 1. La regione veneta (dati del Tedeschi) presenta una piccola altezza del cranio. Questo carattere distacca la detta regione da quella padana e romagnola, con le quali la brachicefalia pareva ravvicinarla e nello stesso tempo è piuttosto sfavorevole all'ipotesi della provenienza balcanica dei brachioidi padani. 2. Nella regione emiliana (dati del Giuffrida-Ruggeri) la massa della popolazione è brachiortocefala. Esistono solo scarsissimi dolico-platicefali. 3. Nelle Marche, mandamento di Camerino (dati di Legge), abbiamo una popolazione assai mescolata per l'altezza, come per l'indice cefalico orizzontale; esiste con frequenza notevole un elemento piuttosto basso e lungo, le cui affinità si tratta di stabilire in base ai caratteri facciali. Questo elemento piuttosto basso sembrerebbe più frequente nei cranî antichi di Camerino, certamente appartenenti agli Umbri (dati di Frassetto). 4. Nell'Umbria, una serie di Todi (dati di Zanolli) dimostra una brachiortocefalia assolutamente predominante, ma anche rivela la presenza indubbia di un tipo platicefalico ma corto, cui perciò il Sera tende a precludere affinità xantocroiche. Un altro gruppo più piccolo e più evidente nella serie femminile, potrebbe essere ad affinità xantocroiche. 5. La serie dei cranî di Pompei antica (illustrata dal Nicolucci) stabilisce nettissimamente la presenza di due componenti, l'una piuttosto lunga (indice 75-80) e platicefalica, l'altra più corta (indice 79-84) e ortocefalica. Lo studio dei caratteri facciali di 20 pezzi di questa serie che si conservano nell'Istituto di Antropologia di Napoli, ha dimostrato al Sera assenza assoluta di un tipo xantocroico. I cranî appartengono tutti al tipo etiopico-caucasiano (v. fisionomia: Fisionomia facciale etnica). Pur non volendo escludere che un numero maggiore di casi possa fare risultare la presenza del tipo xantocroico, il Sera ritiene che questo possa essere stato in ogni caso raro, ciò che del resto le pitture murali di Pompei confermano, sia per i colori degli occhi, della pelle, dei capelli dei soggetti ivi raffigurati, sia per i caratteri facciali. La serie dei cranî pompeiani antichi è molto importante, perché dimostra la presenza di un elemento platicefalico in latitudini assai basse in Italia, dovendosi escludere per la sua frequenza (oltre la metà dei casi) un accesso dal nord, supposizione che si presenterebbe a tutta prima, dato che Pompei era in una zona di notevole attrazione etnica. 6. Una serie di Messina (dati di Mondio) ha in complesso una forma ortocefalica lunga. Pochi sono i brachioidi. Esiste invece un piccolo gruppo platicefalico e assai lungo, che è difficile attribuire a un tipo determinato. Un'altra serie siciliana, ma proveniente da luoghi diversi (dati di Moschen), conferma i dati della serie di Messina. 7. Le serie dei cranî sardi illustrate da Duckworth presentano forme ortocefaliche e lunghe, quasi allo stato di purezza assoluta.
Questi dati sull'altezza del cranio, pur essendo ancora piuttosto scarsi, ci permettono d'interpretare meglio i fatti che pongono in luce le tre grandi carte del Livi, facendoci vedere dei legami ove parrebbe fossero solo differenze e differenze dove sembrerebbe esistessero identità, se ci si limitasse al solo indice cefalico. Purtroppo invece manchiamo ancora di una ricerca diagnostica sistematica sui caratteri descrittivi della faccia, ricerca che sarebbe d'importanza di gran lunga maggiore, per la chiarificazione dei rapporti etnici italiani. Tuttavia il Sera ritiene che il tipo facciale di gran lunga predominante in Italia sia l'etiopico-caucasiano, che è forse nella sua maggiore purezza in Calabria. Per la Sardegna non saprebbe escludere la confluenza con altri tipi facciali, pur essendo comuni con questi indice cefalico orizzontale, altezza del cranio, colorito, ecc. L'unicità di tipo della Sardegna potrebbe esser solo apparente e provenire dalla scelta dei caratteri usati per le misure, caratteri che sarebbero assai meno validi di quelli descritti della faccia, a darci le distinzioni fondamentali raziali. Secondo il Sera, l'unità dei cosiddetti Mediterranei, pur volendosi limitatamente considerare come tali solo i dolicocefali, è affatto illusoria ed è proprio il carattere, secondario e subordinato nel suo valore, della forma lunga del cranio cerebrale, che crea questa unità illusoria. Ma, oltre a ciò, non vi è nessuna ragione positiva per escludere dai Mediterranei i brachioidi, che certamente non hanno niente a che fare con l'Asia, secondo quanto vorrebbe il Sergi.
Il Sera ritiene che, per l'Italia, il colorito si manifesta un carattere discriminativo migliore persino dell'indice cefalico. Ciò per la ragione che esso ci aiuta a distinguere due tipi che l'indice cefalico confonde, e cioè il tipo dolicocefalico bruno, cosiddetto mediterraneo, e il dolicocefalico chiaro, cosiddetto nordico ovvero xantocroico. Si è visto che un colorito assai chiaro è su tutta la cintura alpina, ma qua non si ha più a che fare col tipo xantocroico, bensì col tipo di alta montagna, brachiplaticefalico, il vero tipo alpino, il quale è differente dal tipo brachioide che troviamo diffuso nella valle padana, tipo il quale ha un colorito più scuro. A questo tipo alpino, o meglio a una sua varietà a statura alta, forse, ma non con certezza, si deve ancora attribuire in prevalenza il colorito chiaro del Veneto. In guisa che risulta il fatto apparentemente singolare che in alta Italia il tipo xantocroico sarebbe presente con una certa frequenza solo nella parte settentrionale e occidentale della Lombardia. Qua però si presenterebbe con le tre caratteristiche classiche: dolicocefalia, colorito chiaro, alta statura. La carta di distribuzione per mandamenti dell'indice cefalico è piuttosto favorevole all'ipotesi che la brachicefalia della valle padana sia l'evoluzione della dolicocefalia ligure. In seno a una stratificazione di dolico-ortocefali bruni, su tutta la valle padana, si sarebbero prodotti tre centri brachicefalici, uno per il Piemonte, l'altro per la bassa Lombardia e l'Emilia occidentale, il terzo per la Romagna. Ma il fatto più singolare che le due grandi carte del Livi pongono in luce, secondo il Sera, è la presenza di una forte componente xantocroica in tutta l'Italia centrale e soprattutto orientale: Umbria, Toscana, Abruzzo e parte settentrionale e orientale dell'Italia meridionale; Molise, Beneventano, Puglia settentrionale, parte settentrionale e orientale della Lucania. Da questa zona s'irradierebbero le propaggini disperse del tipo che si riscontrano nelle altre parti della penisola e nella Sicilia. Il tipo xantocroico sarebbe praticamente assente nella Sardegna.
La localizzazione della maggiore massa di questo tipo fa pensare a una provenienza dal nord e dall'oriente, cioè che esso sia disceso in Italia, seguendo la costa adriatica, senza penetrare addentro nella pianura padana, ma, deduzione assai più importante, sembra che a mano a mano che si discende verso il sud, esso abbia sede sui monti. Si può pensare qua a una preferenza originalmente data a questo ambiente, per una minore resistenza del tipo stesso al clima caldo del mezzogiorno italiano o anche perché il tipo, un tempo esteso alla costa, sia ivi scomparso per fatti di selezione eliminativa. A ogni modo, dalla distribuzione dell'indice cefalico che abbiamo visto nella parte settentrionale dell'Italia meridionale, è chiaro che il detto tipo dovette respingere perifericamente una popolazione bruna e brachioide, che si ha ragione di credere fosse autoctona nella regione. La popolazione di Pompei antica dimostra appunto i caratteri di questa gente respinta dall'Appennino, prima che essa subisse larghe contaminazioni. Sul tratto di Appennino in parola, cioè, le più alte zone contenevano platicefali, dolicoidi o brachioidi che fossero; le zone più basse, ma sempre montuose, brachiortocefali. È naturale che gli uni e gli altri fossero rigettati promiscuamente verso occidente. Nell'Italia centrale, secondo il Sera, il respingimento periferico dei brachioidi, alti e bassi, primitivi abitatori, non risulterebbe altrettanto evidente finora, per le differenti caratteristiche orografiche della regione, ove predominano le valli parallele e in direzione nord-sud, mentre abbiamo le opposte condizioni nella regione innanzi detta (valli disposte da est a ovest). I brachioidi là si sarebbero disseminati tra i dolicoidi xantocroici. Ma accurate ricerche per unità territoriali più piccole dei mandamenti dovrebbero render manifesto il fenomeno. A ogni modo sarebbe proprio la sede montuosa di questo tipo xantocroico la ragione del fatto osservato dal Livi dell'indice più basso e del colorito più chiaro dei montanari dell'Italia centrale e meridionale orientale. È probabile che questo tipo xantocroico sia disceso in Italia all'epoca del ferro, se non prima, e che sia stato il portatore del linguaggio ariano. La serie preistorica di Alfedena dovrebbe contenere abbondantemente tale tipo, secondo il Sera. Ma la parte più meridionale della zona relativamente chiara di colorito (Beneventano, Avellinese e, allo stato sporadico, tutto il mezzogiorno calabrese e siculo) deve forse il suo carattere ad afflussi assai più recenti (Longobardi, Normanni). L'assenza dei caratteri facciali xantocroici nella serie di Pompei dimostra la tardività dell'avvento dei caratteri del tipo chiaro nella regione, caratteri che nell'attualità troviamo abbastanza frequenti.
Il Sera ricostruisce provvisoriamente e nelle linee generali gli eventi antropologici della penisola italiana nella guisa seguente: in tempi di antichità geologica ricoprì la penisola un tipo umano a caratteri facciali prevalentemente etiopico-caucasiani (in certe regioni però non sono escluse mescolanze relativamente precoci con i due tipi facciali negritoide e atlanto-indico). Questo tipo era bruno, a piccola statura, a cranio cerebrale lungo e orto-ipsicefalico. Qua e là nella penisola, all'avvento del Glaciale, questo tipo dovette subire influenze climatiche, che lo modificarono alquanto, facendolo localmente deviare più o meno nel senso della morfologia della razza di Neanderthal (v. paleoantropologia). È dubbio che nell'Italia però si sia mai raggiunta una morfologia tipica di questa razza, quale la vediamo in Francia. Solo forse alcuni caratteri, come la platicefalia, si produssero chiaramente, sempre in zone poco estese e isolate. L'appartenenza del cranio fossile di Saccopastore, recentemente trovato, alla razza di Neanderthal pare al Sera, fino a prove migliori, assai dubbia. Col ristabilirsi del clima attuale, i monti furono nuovamente abitati e mentre i platicefali erano sospinti sulle zone più alte, sia sulle Alpi, sia sull'Appennino, gli abitatori delle zone montuose sottostanti si evolvevano verso la brachiortocefalia. Ciò si verificò però solo per le regioni ove le masse montuose hanno grande estensione in superficie, non per quelle dove, come la Calabria, la Sicilia e la Sardegna, hanno estensione piuttosto lineare. Le popolazioni di queste regioni rimasero dolico-ortoipsicefale, come le troviamo attualmente.
L'evoluzione verso la brachicefalia nella pianura padana fu forse più tardiva, se addirittura non fu per lenta immigrazione dei brachioidi montani circostanti, a mano a mano che il golfo pliocenico si colmava e si rendeva abitabile. Nella zona romagnola però il Sera tende a vedere una persistenza, nel nord, del tipo più primitivo che abitò l'Italia, con la sola variazione notevole della brachicefalia, ma del resto meno modificato che in altri luoghi. Un'altra zona di relativa persistenza del tipo nei suoi caratteri è quella della Lucchesia, ove l'evoluzione invece si sarebbe determinata nella statura. Nel sud il tipo primitivo italico si sarebbe conservato meno alterato in Calabria. Questa condizione di cose, relativamente semplice, fu modificata da avventi del tipo xantocroide in epoche assai differenti. L'avvento di gran lunga più importante fu certo quello che si verificò nell'epoca del bronzo o, più sicuramente, del ferro. Il possesso di questo metallo diede alle genti che lo portavano un vantaggio, che, per lungo tempo forse, supplì alla relativa scarsezza del numero e permise loro di stabilirsi largamente nelle parti centrali della penisola, mantenendosi però a preferenza nelle zone montuose e, a poco a poco, fondendosi con la popolazione preesistente. Le invasioni barbariche diverse, avvenute in epoche successive, portarono non così grandi cambiamenti. Il maggiore forse di essi, è quello della zona nord occidentale della Lombardia, che abbiamo vista, determinato forse dai Longobardi.
I varî avventi di genti per via di mare, colonizzazioni greche, albanesi, slave, compresa anche l'etrusca, non possono aver prodotto neppure localmente cambiamenti profondi; a ogni modo tali cambiamenti sono documentabili con estrema difficoltà, per cause diverse.
Censimenti. - Riesce assai difficile il calcolo della popolazione italiana nelle epoche passate, specialmente prima del secolo XIX, perché le basi che si hanno per i computi sono estremamente malsicure. G. Beloch calcolò la popolazione dell'Italia peninsulare (esclusa la Gallia Cisalpina e le isole) prima della guerra annibalica, a 5 milioni di abitanti, ma il computo, fondato sulle notizie tramandateci circa il numero dei maschi atti alle armi, è probabilmente alquanto esagerato. Più vicino al vero è forse il dato di 7 milioni di abitanti (comprese le isole) per il 28 a. C.
Per quasi tutto il Medioevo ci manca qualsiasi dato per calcoli attendibili; è da presumersi tuttavia che la popolazione fosse piuttosto diminuita alla caduta dell'Impero Occidentale e continuasse a diminuire (tranne forse nell'Italia meridionale e in Sicilia) nel periodo delle cosiddette invasioni barbariche, per poi riprendere a crescere, lentamente dapprima, assai più rapidamente dopo il Mille. Varî dati, per vero assai frammentarî, dànno valore alla supposizione che nei primi decennî del sec. XIV l'Italia avesse 10-11 milioni di ab. In quest'epoca si cominciano già ad avere, per alcuni stati italiani, numerazioni di fuochi e col secolo seguente queste numerazioni si fanno più frequenti, più regolari, più esatte; nel sec. XVI, si hanno già in alcuni casi anche censimenti per teste, paragonabili in certo modo agli attuali; i computi divengono pertanto meno incerti, ma restano tuttavia approssimativi anche perché le numerazioni nei varî stati d'Italia si facevano a epoche diverse. La prima metà del sec. XIV sembra rappresentasse un periodo di acme anche dal punto di vista demografico; la seconda metà del secolo vide una stasi e il secolo seguente forse anche una diminuzione; il dato di 10 milioni, che si dà per l'Italia alla fine del Medioevo, starebbe a provarlo. Per contro il secolo XVI rappresenterebbe un altro periodo d'incremento notevole: alla fine di quel secolo l'Italia superò certo i 12 milioni di ab. e toccò i 13 verso la metà del sec. XVII. Questi dati, intesi come largamente approssimativi, si possono ritenere come assai attendibili, al pari dell'altro che fa ascendere a 14 milioni gli ab. alla fine del sec. XVII; dal che si dovrebbe dedurre che l'incremento fu in questo secolo minore che nel precedente. Nel sec. XVIII abbiamo finalmente per tutti gli stati italiani censimenti o numerazioni della popolazione, che, nei loro risultati generali, appaiono degni di fiducia: un calcolo assai accurato fatto in base a essi, dà per il 1770 circa 16.475.000 per l'Italia nei confini prebellici; riferendoci ai confini attuali, si superano i 17 milioni. Per il 1800 si possono calcolare 18.125.000 ab. nei vecchi confini e 18.800.000 nei confini attuali; nel 1825 circa 20,5 milioni e nel 1852 un po' più di 25 milioni (confini attuali). A partire dal 1861 furono eseguiti nel Regno d'Italia regolari censimenti decennali (con la sola eccezione del 1891), dapprima al 31 dicembre, poi a epoche varie. A partire dal censimento 1881, accanto alla popolazione presente fu calcolata quella residente, determinata aggiungendo al numero dei presenti con dimora abituale gli assenti temporaneamente, cioè quelli che si presumeva dovessero far ritorno entro un periodo di tempo inferiore a un anno.
La seguente tabella riassume i dati principali risultati dai varî censimenti dal 1861 al 1931:
Dai dati ora esposti si può dedurre che la popolazione italiana si è all'incirca raddoppiata negli ultimi cento anni; pochi altri paesi d'Europa hanno dimostrato nel periodo corrispondente un ritmo di aumento così rapido. Questo aumento è dato, come è noto, da un lato dall'eccedenza dei nati vivi sui morti, dall'altra dall'eventuale eccedenza degl'immigrati sugli emigrati. Le cifre della penultima colonna della tabella mostrano che tale aumento si è mantenuto, nell'ultimo settantennio, con notevole costanza, poco sopra o poco sotto il 7 per mille.
Ma si deve osservare che, mentre fino al 1881 l'emigrazione era, come vedremo, un fenomeno di entità modesta, in seguito assunse proporzioni rilevantissime, in modo da sottrarre annualmente contingenti molto elevati di popolazione; tale sottrazione fu pertanto bilanciata da un aumento dell'eccendenza dei nati sui morti. In effetto tale eccedenza, che era appena del 7 per mille circa nel periodo 1872-1880, salì nel quinquennio seguente (1881-85) al 10,7 per mille e raggiunse il 12,6 per mille nel periodo 1911-14. La guerra e le epidemie arrestarono bruscamente il ritmo dell'aumento demografico, anzi, come è noto, nel 1918 vi fu una diminuzione di oltre 525.000 ab. pari al 14,8 per mille. Poi il ritmo dell'aumento riprese rapidamente: l'eccedenza dei nati vivi sui morti raggiungeva già il 13 per mille nel 1920, e ancora nel 1923. Negli anni successivi, fino al 1929, questa eccedenza mostrò una costante tendenza a diminuire, fino a ridursi a poco più del 9 per mille; il fenomeno cominciava a destare serie preoccupazioni, ma, in seguito alla campagna energicamente condotta dal governo contro la limitazione delle nascite e a favore delle famiglie numerose, sembra arrestato; infatti nel 1930 l'eccedenza ha di nuovo superato il 12,5 per mille. L'annesso diagramma esprime graficamente i dati per l'ultimo sessantennio.
Se si considera l'eccedenza dei nati sui morti nelle varie parti del regno si nota eh'essa si comporta molto diversamente. Nel 1929, anno nel quale la media fu, come si è detto più sopra, molto bassa (9,1 per mille) si superò il 15 per mille in Lucania e in Calabria, il 14 per mille in Puglia (oltre 19 per mille in provincia di Lecce), mentre la Liguria superò di poco il 3 per mille, il Piemonte restò sotto al 2 per mille (0,26 per mille in provincia di Vercelli). Sotto al 4,5 per mille rimase la Venezia Giulia, e la Toscana superò di poco il 5 per mille; anche alcune provincie della Lombardia mostrarono quozienti molto bassi (Pavia 2,7 per mille). Essi sono indubbiamente dovuti a volontaria limitazione della prole. Nell'Italia settentrionale il più alto quoziente di eccedenza è dato dal Veneto (11,4 per mille); nell'Italia meridionale il più basso quoziente è dato dalla Sicilia (9,1 per mille).
Quanto all'emigrazione, per quanto come si dirà, essa sia molto diminuita rispetto al periodo prebellico (la media annua nel periodo 1901-13 fu di oltre 625.000, mentre nel 1930, che diede la più alta cifra del quinquennio ultimo, fu di 300.000 o poco più), tuttavia in alcune regioni d'Italia sottrae ancora un'aliquota notevole. Per il che, in conclusione, anche attualmente l'aumento della popolazione, considerato per compartimenti e provincie, si manifesta assai disforme. Nell'intervallo corso fra gli ultimi due censimenti vi è una sola regione in lieve diminuzione, la Sicilia (prov. di Agrigento, Catania, Enna, Palermo, Ragusa e Trapani), dove alla natalità piuttosto scarsa si aggiunge una notevole emigrazione. Il Piemonte, considerato nel suo insieme, mostra un lieve aumento, cui concorre soprattutto la provincia di Torino, ma sono in diminuzione le provincie di Alessandria, Aosta, e Cuneo per scarsa natalità e in parte anche per emigrazione interna. Altre provincie con diminuzione sono Pavia, Trento, Belluno, Udine, Vicenza e Pistoia; alcune di esse sono caratterizzate da scarsa eccedenza dei nati sui morti, in altre, a spiccato carattere montano, si verificano esodi di popolazione, che trovano migliori condizioni di vita in regioni più basse, o in zone industriali, o anche si trasferiscono a colonizzare altri lembi italiani conquistati all'agricoltura e al popolamento dalla bonifica integrale, come si accennerà più oltre. Per contro alcune provincie dell'Italia meridionale (Abruzzo e Lucania), che nel penultimo decennio (1911-1921) mostravano una diminuzione della popolazione, accennano ora a riprendere il ritmo normale dell'aumento, per effetto della diminuita emigrazione e anche in genere delle migliorate condizioni sociali ed economiche.
Distribuzione e densità della popolazione. - Secondo il censimento del 21 aprile 1931, la densità della popolazione era, in Italia, in media di circa 133 ab. per kmq. (125 nel 1921); ma le deviazioni da questo valore medio sono fortissime, anche guardando alle sole provincie, come risulta dalla tabella a p. 739. Un quadro generale della distribuzione della densità è offerto dalla carta annessa. Si rileva da essa anzitutto un'evidente influenza del rilievo: normalmente la densità diminuisce col crescere dell'altezza e tanto nelle Alpi quando nell'Appennino oltre i 500 m. scende di solito sotto i 50 ab. per kmq. e al di sopra di 1000 m. normalmente sotto i 10. Ma un esame accurato mostra che il quadro della distribuzione della popolazione in montagna è molto variopinto, poiché, di contro alle aree elevate presso che vuote, si hanno ampî fondi vallivi e conche coltivate anche a notevole altezza, nelle quali la popolazione si addensa sovente fino al sovrapopolamento: basti guardare alla Val di Susa, alle valli confluenti ai laghi Maggiore e di Como, alla Val d'Adige e anche ad alcune valli e conche umbre e abruzzesi (Foligno, Terni, Sulmona; Fucino). Normalmente la popolazione tende anche ad affollarsi verso il mare, il che è ben naturale in un paese di così antica vita marinara come l'Italia, ma questa norma ha pure notevoli eccezioni: sono a questo riguardo indifferenti o negative le coste sarde, quelle della Toscana meridionale e del Lazio, notevoli tratti delle coste ioniche, le coste a lagune dell'Adriatico settentrionale, ecc.
Si osserva inoltre che nell'Italia peninsulare e nelle isole, regioni che hanno ancora un'economia prevalentemente agricola, la densità della popolazione nel maggior numero dei casi misura il grado di produttività del suolo: cosi si spiegano le aree ad alta densità, nelle vallate e colline della Toscana, dell'Emilia, della Campania, della Sicilia. Valori massimi (oltre 250-300 ab. per kmq.) si raggiungono in zone a suolo particolarmente fertile, come le colline vulcaniche dell'Antiappennino, la pianura campana, la regione etnea, mentre sono scarsamente popolate alcune zone collinose costituite da argille sterili, ingrate, franose, del Sannio, della Lucania, della Calabria, della Sicilia, ecc. In alcuni casi un notevole sviluppo industriale si aggiunge a determinare il concentramento della popolazione (Valdarno inferiore, Liguria centrale, dintorni di Napoli).
Questo fattore - la concentrazione dovuta alle industrie - agisce poi in molto più larga misura nell'Italia settentrionale; in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto la densità raggiunge perciò valori molto elevati, non solo in corrispondenza alla floridezza dell'agricoltura nelle regioni pianeggianti e collinose, ma anche in virtù del congestionamento determinato dalla grande industria; la nostra carta mette anzi in vista le aree a economia agricola prevalente, nelle quali la densità si mantiene di regola fra 100 e 200 ab. per kmq., e quelle a economia industriale dove si supera questo ultimo valore.
Le città costituiscono poi di per sé stesse, in generale, dei centri di attrazione della popolazione, e fanno sentire il loro effetto anche nella zona circostante; questo in Italia si verifica non solo per i grandi centri, la cui influenza in questo senso è messa in vista anche dall'annessa carta, ma altresì per numerose cittadine minori, che hanno, per ragioni storiche, un'importanza superiore alla loro entità demografica e che nella loro esistenza molte volte secolare hanno potuto esercitare questa azione di richiamo.
I nostri censimenti distinguono la popolazione raccolta in centri (di qualsiasi entità) da quella sparsa in campagna; ma questa distinzione non è stata sempre fatta con criterî uniformi, per il che i risultati sono da accogliersi come largamente approssimativi.
Nella tabella seguente sono messi a confronto, regione per regione, i dati offerti dal censimento 1931 con quelli di tre censimenti precedenti (1871, 1901, 1921).
Nonostante il valore approssimativo delle rilevazioni, si può segnalare come indice evidente del carattere agricolo di alcune regioni dell'Italia settentrionale e centrale la forte percentuale di popolazione sparsa nelle campagne (Veneto, Emilia, Marche, Umbria, Toscana); tale percentuale è minore là dove lo sviluppo industriale (Lombardia), o l'attività marinara (Liguria) o anche ragioni storiche (Piemonte) hanno favorito l'agglomerazione in centri. Invece nell'Italia meridionale, per un complesso di cause, che sono in parte eredità di epoche passate, anche la popolazione agricola vive agglomerata in centri, spesso assai grossi, ma a carattere rurale, laddove scarsissima è la proporzione della popolazione sparsa (Puglia, Lucania, Calabria, isole). Ma si osserva anche che, nel sessantennio considerato, la popolazione agglomerata tende in complesso nell'Italia settentrionale (compresa la Toscana) ad aumentare, soprattutto a causa della concentrazione dovuta al progresso delle industrie, mentre nel resto d'Italia è invece la popolazione sparsa che tende piuttosto ad aumentare, per quanto lentamente, sia per il graduale venir meno di alcune delle cause che tenevano gli abitanti lontani dalle campagne, sia per il popolamento di zone recentemente conquistate all'agricoltura (Lazio).
Questi medesimi fatti spiegano anche, almeno in parte, la diversa fisionomia dei centri. Nell'Italia meridionale e nelle isole luoghi che per entità di popolazione si dovrebbero chiamar città, hanno talora piuttosto l'aspetto di grossi villaggi, non solo per l'assoluto prevalere della popolazione occupata nell'agricoltura, ma anche per la presenza, nel nucleo urbano, di edifici e locali connessi con le occupazioni rurali o con l'allevamento del bestiame, laddove nell'Italia settentrionale, centri con poche migliaia di abitanti (meno di 5000, talora meno di 2000) hanno, per il carattere degli edifici e delle vie, per la presenza di una cinta murata, per lo sviluppo dell'attività industriale e commerciale, per l'esplicazione della vita intellettuale, ecc., la fisionomia di città.
Del resto vi è un'enorme varietà nel tipo dei centri italiani, così come nella loro situazione e nella configurazione planimetrica. Per molti dei maggiori, i quali ebbero varie fasi di sviluppo, queste fasi si possono riconoscere nella pianta stessa, fino a rimontare al nucleo più antico, non di rado risalente all'età romana, e caratterizzato spesso, in tal caso, dal reticolato ortogonale delle vie. Ma non sempre questo tipo regolare di reticolato a maglie quadrate o rettangolari denota l'origine da centri dell'epoca romana. Nelle città di origine medievale è invece spesso caratteristica l'irregolare e complicata disposizione delle vie, tortuosamente disposte intorno a una chiesa, a un castello o fortezza, ecc. Nella configurazione di molte città di pianura, libere di svilupparsi in ogni senso, è evidente di solito l'influsso esercitato dalla rete delle strade di grande comunicazione, ovvero l'influsso dei fiumi, specie in prossimità di ponti o passaggi. In collina e in montagna il centro ha invece dovuto adattarsi al rilievo e si è sviluppato secondo in possibilità da questo offerte (Cuneo, Siena, Perugia, Potenza sono esempî caratteristici). Ragioni di difesa hanno pure spesso determinato, soprattutto nell'Italia centrale e meridionale, la situazione e anche il tipo dei centri (su cocuzzoli, su dorsali, su sproni, ecc.).
Riguardo all'entità demografica, nel 1931, i comuni con più di 20.000 ab. erano 244 (sul totale di 7310) e di questi 66 soltanto superavano i 50.000 ab. e 22 i 100.000. Questi ultimi raccoglievano tuttavia 7.165.000 ab., cioè circa il 17,5% dell'intera popolazione d'Italia. Ma i centri con più di 20.000 ab. erano in numero minore; la cartina qui annessa ne dà la distribuzione, anche in riguardo all'altezza sul livello del mare.
L'incremento delle grandi città è stato nel sec. XIX molto notevole. Intorno al 1800 infatti non vi erano che 5 città con più di 100.000 ab. (Napoli oltre 400.000; Palermo oltre 200.000; Roma 153.000; Venezia 140.000; Milano 135.000); nel 1871 si aggiunsero Torino, Firenze, Genova, Trieste, Bologna, Venezia e Messina.
Lo sviluppo successivo delle grandi citta è messo in evidenza dalla seguente tabella.
Nel giudicare dell'incremento, molto ineguale, dei centri indicati dalla tabella, bisogna tener conto anche dell'ingrandimento recente di taluni di essi per aggregazione di comuni limitrofi (Genova, Firenze, Milano, Napoli, Reggio, Venezia). Per maggiori particolari vedi alle singole voci.
La tendenza ad affluire dalle campagne verso i grandi centri, per quanto non abbia in Italia assunto le proporzioni dimostrate da stati a più intenso sviluppo industriale (Gran Bretagna, Francia, Germania), tuttavia sembrò procedere, negli ultimi decennî, con un ritmo accelerato, che poteva divenire inquietante; opportuni provvedimenti sono intervenuti a frenare quanto di eccessivo vi era in questa tendenza; di fatto da alcuni anni il ritmo d'incremento delle maggiori città si è attenuato.
Insediamento rurale. - L'Italia presenta grandi contrasti nei modi di localizzazione della sua popolazione rurale, con insediamenti fortemente accentrati in villaggi compatti e grossi borghi, con abitazioni tutte sparse sui fondi e con molteplici forme miste o intermedie. Le regioni meridionali e le isole conservano ancora in molti luoghi le forme di maggiore accentramento, in cui tutta la classe rurale dimora nel "paese" e i contadini compiono due volte al giorno il percorso fra questo e i fondi coltivati, posti talora a distanza notevole: la campagna è priva di abitazioni e presenta soltanto "pagliare" (capanne di paglia) o i più modemi "casini", usati per la custodia di attrezzi o provviste e per un soggiorno temporaneo. Il grande sviluppo demografico nel sec. XIX ha fatto di molti tali borghi (Sicilia, Puglia) vere città rurali. Questo tipo d'insediamento, comune a molte regioni del Mediterraneo, ha cause storiche, etniche e fisiche, come la scarsa sicurezza politica o sociale del passato, l'indole delle genti meridionali incline alla vita urbana, la malaria e la scarsità delle acque d'alimentazione: ma riposa soprattutto su un vecchio tipo di economia agraria basato sulla cerealicoltura estensiva e su colture arboree (olivo, vite), condotta col sussidio di un largo ceto di braccianti e accompagnata da un assai modesto allevamento animale (ovini). L'introduzione di colture specializzate (agrumi, mandorlo, tabacco), o lo sviluppo dell'allevamento, specie dei bovini, o il passaggio alle colture promiscue, ha, dovunque, condotto alla fondazione di masserie, cascinali, case coloniche isolate. In molte regioni meridionali, il vecchio borgo contiene ormai, dei rurali, quasi soltanto i giornalieri: coloni, fittavoli, piccoli proprietarî hanno la casa sui fondi.
Fuori dell'Italia meridionale, l'insediamento accentrato coincide generalmente con la presenza di un ambiente agrario poco favorevole, p. es. la montagna. Le condizioni topografiche e la riduzione e frammentazione della superficie coltivata hanno dato però agl'insediamenti accentrati della montagna caratteri particolari: nell'Appennino, frazionando anche l'abitato, il quale appare perciò formato da una quantità di piccoli nuclei compatti, villaggi e casali: nelle Alpi, integrandosi inoltre con le dimore temporanee poste a diversi livelli per lo sfruttamento dei pascoli e del bosco. Anche questi tipi d' insediamento hanno dato origine a forme miste, soprattutto nelle Prealpi e nelle zone collinari dell'Appennino, dunque nelle più fertilî plaghe marginali, che sono anzi, forse, le forme più diffuse.
La necessità di aziende rurali isolate fu sentita, probabilmente, dapprima nelle regioni in cui l'esistenza di vaste estensioni di terreni pascolativi favorì lo sviluppo dell'allevamento e delle industrie derivate. Si diffuse, così, più di altri tipi (casali dell'agro laziale, vecchie masserie padronali delle pianure meridionali), il tipo della corte rurale, formata da più costruzioni disposte intorno a uno spazio chiuso, adatta alla custodia degli animali, dei foraggi e dei raccolti, facile anche a essere difesa, che oggi ancora s'incontra in larghe zone della Pianura Padano-veneta e nell'agro campano. Ma la corte isolata è, in genere, un'eccezione e, nei riguardi della forma dell'insediamento, appare invece caratteristica la sua tendenza a raggrupparsi in modo da formare piccoli aggregati rurali e, in qualche caso, anche grossi centri composti unicamente di corti rurali. Questo fatto e la facilità con cui la corte si presta a servire da abitazione per più famiglie permette di porla fra le forme d'insediamento intermedie fra l'accentramento e la dispersione.
Le regioni italiane nelle quali si è più nettamente affermato l'insediamento rurale di tipo disperso sono, anzitutto, quelle in cui domina il contratto agrario della mezzadria, con la divisione delle proprietà in poderi di entità proporzionata alla capacità lavorativa di una famiglia di contadini (Toscana): poi, varî distretti di vecchie e nuove bonifiche idrauliche e, qua e là, le plaghe particolarmente favorite nelle quali si è sviluppata la piccola proprietà. L'area della più recente bonifica padana presenta invece un tipo intermedio di insediamento, con le case allineate e talora concentrate lungo le strade e sugli argini. Un tipo da segnalare è anche quello dei villaggi a case disseminate che prevale, fuori delle vallate principali, nella zona a popolazione tedesca dell'Alto Adige.
Migrazioni interne ed emigrazione esterna. - L'aumento della popolazione italiana, verificatosi, come si è visto, in misura molto notevole soprattutto dopo il 1880, non è sempre andato di pari passo con l'aumento dei mezzi di sussistenza: specialmente in alcune regioni di montagna, scarso di suolo agricolo e povere d'industrie, si è pertanto venuto determinando uno squilibrio, consistente in ciò che una parte della popolazione non trovava più nella propria regione le risorse o l'occupazione necessaria a sostentarsi ed era spinta a cercarle altrove. Cooperavano a questa spinta le migliorate comunicazioni, che eliminavano la difficoltà di trasferirsi da luoghi prima chiusi e segregati, e anche l'intensificarsi dei rapporti fra le varie parti d'Italia e fra l'Italia e i paesi stranieri.
La ricerca di occupazione e di guadagno fuori dclla propria regione ha dato luogo al fenomeno delle migrazioni interne e a quello dell'emigrazione vera e propria. Le migrazioni interne sono in parte notevole periodiche, essendo effettuate da persone che si spostano dalla propria sede per impiegarsi solo per alcuni mesi dell'anno in lavori agricoli o industriali, e fanno poi ritorno alla propria residenza per il resto dell'anno. Le migrazioni per lavori agricoli hanno maggiore rilievo e si verificano specialmente alla fine della primavera e al principio dell'estate (maggioluglio) o in settembre; le regioni che a esse dànno maggior contributo sono la Puglia, l'Emilia, l'Abruzzo, il Veneto, la Lombardia. Nel complesso durante gli ultimi anni, nei quali queste migrazioni furono accuratamente sorvegliate, si ebbero circa 300-350.000 individui (per ¾ maschi) interessati annualmente in tali spostamenti. Ma si hanno anche migrazioni interne permanenti, cioè trasferimenti di gruppi di popolazioni da regioni povere di risorse in altre di recente conquistate all'agricoltura con opere di bonifica, ecc.: così durante il sec. XIX la graduale bonifica maremmana diede luogo a stanziamenti di genti provenienti dalle regioni meno produttive dell'Appennino toscano, e altrettanto è avvenuto nelle aree bonificate della Romagna; più di recente scesero dall'Appennino e Subappennino centrale coloni a stabilirsi nell'Agro Romano, e oggi, con provvedimenti opportunamente disciplinati, si favorisce il trapianto di famiglie di agricoltori da zone ove la pressione demografica è più forte in aree redente dalle opere della bonifica integrale e scarse di braccia proprie (come ad es., la Sardegna e oggi la pianura pontina). Una tendenza spontanea ad abbandonare talune regioni di montagna, nelle quali la vita è aspra e poco remunerativa, si è manifestata da tempo e per varie cause, specialmente in più parti delle Alpi piemontesi, e qua e là nelle Alpi lombarde e venete e anche nell'Appennino: vi contribuiscono in parte la naturale spinta verso le vallate e le pianure ove sono le regioni più produttive e le grandi vie di comunicazione, in parte la ricerca di lavoro negli stabilimenti industriali sorti o sviluppatisi di recente, o comunque il desiderio di procacciarsi occupazioni più lucrose, in parte la decadenza di alcune piccole industrie e attività proprie dei paesi di montagna (industrie domestiche, industrie connesse col bosco, ecc.), in parte altre molteplici cause; questo spopolamento montano, che non frequentemente appare in forme gravi ed è del resto fenomeno comune non solo a tutta intera la cerchia alpina, ma anche a molte altre zone montuose, è oggi oggetto di accurati studî.
Maggior importanza ha avuto, specialmente in passato, il fenomeno dell'emigrazione vera e propria, determinata anch'essa dalla crescente pressione demografica e dalla spinta a ricercare fuori dei confini della patria fonti di sussistenza e di lucro.
Il fenomeno cominciò ad assumere importanza rilevante solo nella seconda metà del sec. XIX, e manifestò la tendenza a un rapido incremento nell'ultimo quarto del secolo. Ma ancora nel 1875-80 gl'Italiani che ogni anno emigravano non erano più di centomila, mentre negli anni immediatamente precedenti la guerra mondiale, si raggiunse una cifra sette o otto volte maggiore.
Le correnti emigratorie hanno esse pure in parte carattere temporaneo, in parte carattere permanente. L'emigrazione temporanea è data da coloro che abbandonano l'Italia soltanto per alcuni mesi (di solito i mesi nei quali si attenuano da noi i lavori agricoli) e si dirige di preferenza ai paesi dell'Europa centrale e occidentale o del bacino mediterraneo mentre l'emigrazione permanente è data da coloro che abbandonano la patria col proposito di non più tornarvi, almeno per lungo tempo, e si dirige soprattutto oltre Oceano.
Fino al 1886 prevalse l'emigrazione per i paesi europei e mediterranei: in quell'anno su circa 168.000 emigranti, circa 85.000 erano diretti a questi paesi, 83.000 oltre Oceano (nel 1881 le cifre erano 95.000 e 41.000 rispettivamente). Da quell'epoca l'emigrazione transoceanica sale rapidamente e supera, di solito, e notevolmente, quella per i paesi più vicini: nel 1901 gli emigranti annui sono in complesso già più di mezzo milione (533.000, di cui 253.000 nei paesi europei e mediterranei, 280.000 oltre Oceano). In seguito, mentre l'emigrazione per i paesi europei non superò che raramente la cifra suindicata (massimo nel 1913: 313.000), quella transoceanica continuò ad aumentare fino a raggiungere nel 1913 i 560.000; in quest'anno dunque emigrarono circa 863.000 persone! Durante la guerra mondiale l'emigrazione fu ridotta al minimo (poco più di 28.000 nel 1918, e di questi appena 4000 oltre Oceano), anzi avvennero numerosi rimpatrî (almeno 500.000 persone in tutto il periodo bellico). Ma subito dopo la guerra, si ebbe un nuovo slancio: 253.000 emigranti nel 1919, 615.000 circa nel 1920, dei quali due terzi oltre Oceano. Successivamente i provvedimenti restrittivi adottati in alcuni paesi, soprattutto negli Stati Uniti, hanno indebolito le correnti emigratorie transoceaniche, onde dal 1922 tornò a prevalere l'emigrazione per i paesi europei e mediterranei, più tardi la crisi della disoccupazione, che si allarga sempre più, interviene ad attenuare le correnti migratorie, disciplinate e controllate ormai dall'opera del governo; il flusso annuo diminuisce notevolmente (183.000 emigranti in complesso nel 1928, poco più di 150.000 nel 1929); un rinnovato richiamo verso taluni stati europei (Francia, Svizzera) ha determinato un transitorio aumento nel 1930 (circa 280.000; nel 1931 si è di nuovo discesi a 165.000).
Il maggior contingente all'emigrazione temporanea è dato da talune regioni di confine, la Venezia, l'alta, Lombardia, il Novarese; poi da alcune provincie dell'Emilia, della Toscana, delle Marche. Negli anni precedenti la guerra Francia; Germania e Svizzera assorbivano, con aliquote poco differenti, la parte maggiore di questa emigrazione; ora l'emigrazione verso la Germania si è quasi annullata (1000-1500 individui l'anno e anche meno, in confmnto a 60-80.000 negli ultimi anni prebellici) e quella diretta verso la Svizzera è assai ridotta, per quanto dal 1922 tenda ad aumentare lentamente (7500 individui nel 1922; 26.000 nel 1930 e nel 1931, in confronto a 80-90.000 negli anni prebellici); il flusso maggiore si dirige verso la Francia (oltre 200.000 nel 1924; 167.000 nel 1930; 75.000 circa nel 1931).
All'emigrazione transoceanica davano, prima della guerra mondiale, il maggior contributo la Sicilia, la Calabria, l'Abruzzo (provincie di Chieti e Campobasso), la Lucania, la Campania; tra le regioni dell'Italia centrale le Marche, tra quelle della settentrionale il Piemonte; oggi si aggiungono, con notevoli contingenti, il Veneto e la Venezia Giulia. Fino alla fine del secolo scorso il maggior numero di emigrati veniva assorbito dall'America Meridionale (Brasile, Argentina, Uruguay); dal 1902 passano in prima linea i paesi dell'America Settentrionale (Stati Uniti e secondariamente Canada). Ad es., nel 1895 oltre 141.000 emigranti si diressero nell'America Meridionale, meno di 40.000 negli Stati Uniti e Canada; nel 1913 le cifre relative erano invece 145.000 e 407.000. Dopo la guerra il flusso tendeva a riprendere le medesime direzioni: nel 1920 meno di 50.000 emigranti si volsero al Brasile e agli stati del Plata, invece oltre 350.000 agli Stati Uniti e al Canada. Ma negli ultimi anni, per le limitazioni cui sopra si è fatto cenno, l'emigrazione negli Stati Uniti è tornata ad affievolirsi, e il maggior contributo di emigranti è di nuovo assorbito dall'Argentina; tra gli altri paesi americani hanno importanza anche il Canada e il Brasile.
Sulle condizioni attuali degl'Italiani residenti nei paesi che sono meta alla nostra emigrazione, vedi sotto: il paragrafo Italiani all'estero ed i cenni sotto le voci di ciascun paese.
In conclusione si può asserire che in Italia, per il costante, vivace aumento della popolazione, la pressione demografica si manifesta, ai nostri giorni, assai intensamente. La bonifica integrale mira sostanzialmente a mettere a disposizione della crescente popolazione tutto il territorio nazionale comunque utilizzabile; la disciplina delle migrazioni interne, mediante trasferimento permanente di coloni nelle plaghe nuovamente conquistate alla coltura, mira ad adeguare, fin dove è possibile, la densità della popolazione rurale alle risorse del suolo. Ma con ciò non si provvede che in modesta misura alle necessità di espansione della gente italiana, la quale è spinta naturalmente a traboccare fuori dei confini della patria e, non trovando che spazî limitati negli attuali possedimenti esterni, giustamente reclama più largo posto e più libero respiro nel mondo.
Condizioni economiche.
Prodotti del suolo. - Messa a confronto con le altre due penisole dell'Europa mediterranea, l'Italia appare in condizioni più favorevoli dal punto di vista dell'utilizzazione del suolo, sia per la presenza di una vasta pianura a nord (nella quale le condizioni climatiche sono anche propizie, per lo meno a talune colture erbacee più essenziali) e di altre minori pianure e fasce pianeggianti costiere, sia per lo sviluppo delle regioni collinose, abbastanza bene innaffiate da piogge, sia per il clima, che presenta minori contrasti in confronto all'Iberia e alla Balcania. Molto più sfavorevole è invece il confronto coi paesi dell'Europa centrale. Il suolo montuoso sottrae interamente all'Italia notevoli spazî all'agricoltura e in altri limita le possibilità agricole o richiede dall'uomo grande sforzo di preparazione e adattamento del terreno.
Secondo una statistica ufficiale sono classificati come pianura 63.322 kmq. del territorio nazionale, ossia il 20,4%; come collina 124.132 kmq., cioè il 40%, e come montagna un'area poco inferiore, 122.565 kmq., cioè il 39,6%. L'Italia settentrionale ha più della metà dell'area classificata come montagna, ma circa i due terzi dell'area di pianura. Quanto al clima, è da ricordare che in molte parti dell'Italia peninsulare e nelle isole, la siccità estiva, spesso assai cruda e prolungata, come si è già accennato, può essere molto nociva ai lavori agricoli e non meno nocivo è il regime irregolare, sia come quantità sia come epoca, delle piogge autunnali e primaverili. Il lavoro che l'uomo prodiga sul suolo non è dunque né facile, né di esito sicuro.
Tuttavia l'agricoltura può dirsi la base fondamentale dell'economia nazionale. Esercitandosi da millennî, con strumenti e procedimenti sempre più sviluppati, l'opera di utilizzazione agricola del suolo ha conseguito risultati imponenti, come è attestato anche dalle statistiche. Queste indicano che nell'Italia presa nel suo insieme il 49,4% del suolo è coltivato (44,1% a seminativi; 5,3% a colture legnose specializzate); il 20,3% è a pascoli naturali e a prati; il 18% è occupato da boschi (compresi i castagneti, 2%); solo il 12,3% è incolto e di questo incolto, un terzo circa è pure in qualche maniera produttivo. La percentuale di terreno improduttivo è assai piccola per un paese così montuoso, ed è inferiore a quella di tutti i maggiori stati europei. Tuttavia, come vedremo tra breve, vi sono ancora in Italia aree inutilizzate le quali possono essere conquistate all'agricoltura, e oggi vengono effettivamente a grado a grado risanate secondo un programma sistematico di bonifica.
L'importanza prevalente dell'agricoltura in Italia risulta anche dal fatto che, secondo il censimento agricolo del 19 marzo 1930, ben 8.810.000 persone avevano come loro principale occupazione un'occupazione agricola e altri 4.105.000 erano interessati all'agricoltura e occupazioni connesse, in linea secondaria. Ma è pur da osservare che, della somma totale degli agricoltori, appena il 28% sono proprietarî dei terreni, interessati perciò a curarne con ogni mezzo il massimo rendimento; il 41% sono fittavoli legati da patti agrarî di diverso tipo; il 30% e più sono lavoranti alla giornata. Questi e quelli hanno un interesse meno diretto a un razionale e progressivo miglioramento della produzione nei terreni loro affidati. In particolare, la diffusione delle grandi proprietà (latifondi) con le forme di economia a esse connesse e perpetuanti spesso condizioni di cose non più rispondenti agl'interessi attuali, ostacola l'introduzione e lo sviluppo di sistemi agricoli più idonei e convenienti. A ciò si cerca di porre rimedio con trasformazioni fondiarie promosse per ragioni di pubblico interesse: vi sono oggi 43.255 kmq. di terreni soggetti a tale trasformazione, soprattutto nel Tavoliere di Puglia e nella cosiddetta Fossa Premurgiana, nella Lucania, in Sardegna, nell'Agro Romano e in Maremma, nell'Istria, nella Bassa Bresciana, nell'Emilia, ecc.
Riguardo alla distribuzione delle colture, esiste un contrasto fra l'Italia continentale da un lato e la peninsulare con le isole, dall'altro; in quella, piogge abbastanza ben distribuite, vaste zone pianeggianti, larghe possibilità d'irrigazione e perciò ambiente favorevole alla coltura intensiva e specialmente a quella dei cereali, del riso, dei foraggi; nella penisola e nelle isole clima mediterraneo e perciò ambiente favorevole alle colture arboree: vite, olivo, alberi da frutto. I cereali, specialmente il grano, sono per vero da tempo antico molto diffusi anche qui, anzi proporzionalmente occupano un'area maggiore che nell'Italia continentale e si estendono anche su zone altimetriche poco adatte; ma i raccolti, specialmente in certe regioni del Mezzogiorno e delle isole sono alquanto aleatorî e frustrano talora le fatiche dell'agricoltore.
L'area coltivata a cereali non può andar soggetta a notevoli variazioni in un paese di antico sfruttamento agricolo, come il nostro; essa occupa il 23,6% della totale superficie territoriale (media del quinquennio 1928-32). Il frumento da solo assorbe più di due terzi di quest'area, cioè circa 4.8-4.900.000 ettari, area leggermente superiore alla media prebellica (4.790.000 ettari nel quinquennio 1909-1913) e soggetta a lievi oscillazioni annue. In linea assoluta, la maggiore estensione di terreno coltivato a grano lo ha la Sicilia, dove la granicoltura è tradizione antichissima, mai venuta meno; seguono, a grande distanza, l'Emilia, la Puglia, la Toscana, il Piemonte e l'Abruzzo. Ma l'area coltivata non è affatto in rapporto diretto con la produzione, perché, mentre nell'Italia settentrionale la coltura è intensiva, in tutto il Mezzogiorno - salvo che nelle pianure campane e pugliesi - è estensiva. Per la produzione l'Emilia (che pur dedica alla granicoltura appena i 6/8 del terreno che a essa è destinato in Sicilia) viene al primo posto; seguono la Sicilia, la Lombardia, il Piemonte, il Veneto e la Toscana. Se la superficie coltivata a grano è, rispetto al periodo prebellico, solo lievemente aumentata, il raccolto si è accresciuto in misura di gran lunga maggiore: la media del quinquennio 1909-13 fu di 50,4 milioni di quintali, quella del quinquennio 1927-31 fu di 62,2 milioni (in questo quinquennio il 1929 raggiunse la cifra altissima, senza precedenti, di 70,8 milioni; ma il 1927 diede 53,3 milioni di quintali soltanto). Nel 1932 il raccolto superò i 75 milioni di quintali con un nuovo cospicuo balzo in avanti sulle cifre del 1929.
È noto che, nonostante questi rilevantissimi progressi conseguiti, il grano prodotto in Italia non basta ai bisogni della popolazione, perché il consumo aumenta pure gradualmente; in media si consumano oggi 180 kg. l'anno per abitante, mentre nel 1860 il consumo era calcolato alla metà. Se si tiene conto del grano necessario per le semine, si può valutare a 82 milioni di quintali il fabbisogno annuo dell'Italia; 15-18 milioni di quintali debbono perciò essere importati dall'estero. La cosiddetta battaglia del grano, promossa dal governo con grande energia e con mezzi adeguati all'importanza del fine, mira a liberare l'Italia da questo gravame. Più che l'aumento dell'area dedicata alla granicoltura - che non è vantaggioso se non nei casi in cui i lavori di bonifica in corso mettano a disposizione nuovi terreni particolarmente idonei (Pianura pontina, Maremma, Sardegna, ecc.) - si cerca di aumentare il rendimento migliorando i sistemi di coltura (impiego di varietà di grano adatte alle condizioni varie di suolo e di clima, processi razionali di semina e soprattutto concimazioni idonee). I risultati già ottenuti si possono misurare in base alle cifre del rendimento medio; esso era prima della guerra di q. 10,5 per ettaro in tutta l'Italia, mentre salì a 12,5 nel 1928, a 13,8 nel 1931, a 15,2 nel 1932. Il rendimento di 16-17 q. per ettaro necessario a coprire l'intero fabbisogno nazionale, mantenendo l'area attualmente coltivata, fu nel 1931 superato di gran lunga in tutta l'Italia settentrionale (q. 21 per ha.; Lombardia 25,2; prov. di Cremona 31,6); mentre invece nell'Italia centrale non si raccolsero che 12,2 q. per ettaro e nella meridionale e isole 10,1-10,2 quintali. Le differenze sono dunque ancora molto elevate; ma la possibilità di arrivare in un prossimo avvenire a provvedere all'intero quantitativo necessario al paese non sembra, giudicando dai progressi fatti in pochi anni, da revocarsi in dubbio.
Come si è già accennato, il grano ha un'importanza assolutamente soverchiante sugli altri cereali, che sogliono perciò dirsi minori. Tra questi va ricordato anzitutto il riso, coltura propria di alcune tra le aree più basse della Pianura Padana, dove può essere facilmente praticato il necessario adacquamento. Su circa 140.000 ettari coltivati, 74.000 spettano al Piemonte (Vercellese), quasi 60.000 alla Lombardia (Lomellina, dintorni di Ostiglia), il resto al Polesine e ad alcune zone romagnole. L'area coltivata tende a restringersi, mentre i progressi della tecnica colturale accrescono il rendimento, che da 33 q. per ettaro (media 1909-13) è salito a 45 e più, e potrebbe ancora accrescersi notevolmente. La produzione annua oscilla fra i 6 e i 7 milioni di quintali ed è molto superiore al fabbisogno nazionale; un desiderabile aumento del consumo interno incontra ostacoli nelle abitudini delle popolazioni dell'Italia peninsulare e insulare, che non apprezzano abbastanza il riso come alimento abituale; lo smercio all'estero, nonostante che il prodotto italiano sia apprezzatissimo in confronto ai risi asiatici, incontra oggi qualche difficoltà.
La coltura del mais, che dal sec. XVI si è diffuso largamente nell'Italia settentrionale e specie nel Veneto, è oggi in regresso. L'area coltivata, ormai di poco superiore a 1.300.000 ettari, si è ristretta di 250.000 ettari nell'ultimo ventennio, e, poiché il rendimento medio rimane stazionario anche il raccolto tende a diminuire (18-25 milioni di q. annui; il 1932 ha segnato peraltro un nuovo aumento). Ha nociuto a questa coltura la crescente predilezione per l'alimentazione granaria, mentre non è ancora molto diffusa l'utilizzazione del mais come foraggio. Il Veneto coltiva a mais un'area (250.000 ettari) poco inferiore a quella coltivata a grano; in Lombardia l'impulso a una maggiore produzione di frumento ha determinato una contrazione della coltivazione del mais. Ma per la quantità raccolta, la Lombardia supera il Veneto; seguono il Piemonte, l'Emilia, le Marche, il Lazio, l'Abruzzo.
L'orzo ha ormai perduto l'importanza che ebbe un tempo per l'alimentazione; l'area attualmente coltivata si ragguaglia in media a 230.000 ettari; la produzione tende a elevarsi per l'aumento del rendimento annuo (2,38 milioni di quintali annui nella media 1927-31, in confronto a 2,08 nella media 1909-13). È una coltura dell'Italia meridionale; ¾ dell'area coltivata e 4/5 della produzione sono dati dalla Puglia, Sicilia e Sardegna unite; vengono poi la Lucania, l'Emilia, la Venezia Tridentina e la Giulia; in queste ultime due regioni il prodotto trova impiego anche per la fabbricazione della birra. La segala, cereale di montagna, ha importanza in prima linea in Piemonte, poi in Lombardia, nella Venezia Tridentina e in Calabria; si dedicano a essa in media 120-125.000 ettari e il raccolto è di 1½-1¾ milioni di quintali (per due terzi dal Piemonte e Lombardia). L'avena ha un'importanza maggiore, sia per area messa a coltura (510.000-520.000 ettari), sia come produzione; essa viene impiegata esclusivamente come foraggio. Il raccolto, che pur attraverso grandi oscillazioni tende ad accrescersi per aumento del rendimento annuo, è dato in prima linea dalla Puglia, dalla Lucania, dalla Calabria, regioni dove peraltro, anche a causa del clima, le oscillazioni annue sono molto grandi; nella Lombardia, in Toscana, nel Lazio, che vengono in seconda linea per entità del prodotto, i raccolti sono tuttavia meno oscillanti.
Tra i prodotti del suolo che entrano in assai larga misura nell'alimentazione degl'italiani sono ancora da menzionarsi la patata, i legumi, gli ortaggi. L'area che l'Italia dedica alla coltura della patata (oltre 350.000 ettari, per un quarto consociata ad altre colture) è cospicua, ma la produzione - circa 20 milioni di quintali l'anno - non è adeguata. Nell'Abruzzo e Molise (che da solo assorbe poco meno di un quarto dell'area) si raccolgono circa 20 q. per ettaro, laddove nella Venezia Tridentina e in Lombardia si arriva a 110 quintali. Questo enorme divario è in rapporto con la qualità dei terreni adibiti a tale coltura e coi metodi agricoli, che sono ancora molto arretrati nell'Italia centrale e meridionale. Per la produzione sono alla testa la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, la Toscana; Abruzzo, Campania e Calabria vengono in seconda linea. Nel complesso peraltro la patata non ha da noi l'importanza che, come integratrice dei cereali, essa ha assunto nell'Europa centrale, dove inoltre è largamente utilizzata anche per usi industriali.
Tra le leguminose ha da tempo antico grande diffusione la fava (Sicilia, Sardegna, Italia peninsulare) la cui produzione è in aumento (3,7-4,7 milioni di quintali annui); seguono a grande distanza i fagioli, di uso comune in tutta l'Italia, poi altri legumi di consumo più limitato e localizzato (piselli, ceci, lupini). Mentre le fave dànno luogo a esportazione, gli altri legumi non bastano a coprire il consumo nazionale.
Condizioni propizie di suolo e di clima favoriscono in Italia le colture orticole, ovunque sussidiate dall'adacquamento o dall'irrigazione; esse fioriscono intorno ai grandi centri di consumo, ma hanno assunto carattere intensivo in talune zone del Napoletano, della Sicilia, della Liguria, della Toscana, del litorale veneto (Chioggia) e pugliese, e anche in aree di recente bonifica; i prodotti circolano in tutta l'Italia affluendo verso le maggiori città. La produzione media annua di quelli che si denominano "ortaggi di grande coltura" è di 16-17 milioni di q.; spetta il primo posto ai pomodori (⅓ del prodotto totale; nel 1929 la metà); seguono cavoli, cocomeri e poponi, cipolle e agli, carciofi, cardi, finocchi, sedani. Questi prodotti varcano le nostre frontiere e alimentano una considerevole esportazione; l'incremento delle colture orticole è anzi da riguardarsi come un fattore non trascurabile di ricchezza nazionale.
La principale coltura arborea dell'Italia è la vite, che occupa circa 4 milioni di ettari, dei quali circa 1.030.000 a coltura specializzata, il resto a coltura promiscua (associata ad altre colture, per lo più erbacee); un ragguaglio approssimato permette di computare che il prodotto effettivo è pari a quello che si otterrebbe da 1.920.000 ettari di vigneto esclusivo, il che equivale a più del 6% dell'area totale d'Italia. Nessun paese dedica alla vite un'area così vasta (Francia e Spagna 3% circa); essa si è tuttavia ridotta nell'ultimo ventennio (del 10% circa) e tende ancora a diminuire. La viticoltura è praticata in tutte le regioni d'Italia; il vigneto esclusivo predomina assolutamente nell'Italia meridionale e nelle isole, dove il clima è prettamente mediterraneo; nell'Italia centrale e settentrionale prevale invece, specie in collina, la coltura promiscua. La raccolta dell'uva varia da 60 a 90 milioni di quintali, dei quali circa il 95% è destinato alla vinificazione. La produzione del vino - soggetta, come è noto, a grandi oscillazioni - negli ultimi anni si è mantenuta fra i 33 e i 47 milioni di ettolitri (media del quinquennio 1926-31: circa 40 milioni); è diminuita notevolmente rispetto al periodo prebellico (media del quinquennio 1909-13: 46 milioni), anzi negli anni 1930-32 ha accentuato in modo cospicuo tale diminuzione. Tuttavia questa non colpisce tutte le regioni italiane; è massima in Sicilia e rilevante nella Puglia, nella Campania, nelle Marche, nel Piemonte, nel Veneto; in questa ultima regione si attribuisce in parte alle conseguenze, tuttora vive, delle devastazioni causate dalla guerra; altrove è da ascriversi principalmente alla fillossera; in talune zone è peraltro collegata con trasformazioni agrarie avvenute di recente.
Per la produzione del vino, sono alla testa oggi il Piemonte e l'Emilia; seguono Campania, Toscana, Puglia, Lombardia, Sicilia, Veneto. Il vino viene in massima parte consumato in Italia; circa l'esportazione di alcune qualità di vino si dirà qualche parola più avanti.
Coltura più specificamente mediterranea è quella dell'ulivo, che in Italia si coltiva su 2.120.000 ettari, dei quali soltanto 830.000 esclusivamente a uliveto, il resto a coltura promiscua; in totale l'area si ragguaglia a 1.260.000 ettari di uliveto esclusivo, pari al 4,1% dell'area dell'Italia. La stessa percentuale si ha a un dipresso nella Spagna, con la quale pertanto il nostro paese divide un primato assoluto. La coltura specializzata è propria dell'Italia meridionale e della Sicilia (un po' anche della Liguria), regioni che sono pure alla testa (in primissima linea la Puglia) per area coltivata; seguono la Toscana e le Marche, nelle quali tuttavia prevale la coltura promiscua. La produzione è naturalmente soggetta a fortissime oscillazioni annue (2.278.000 hl. nel 1931; 1.343.000 hl. nel 1930; 3.113.000 nel 1929); nel complesso si può ritenere in aumento rispetto al periodo prebellico, mentre l'area coltivata variò di ben poco. Enorme è la differenza nel rendimento fra regione e regione, differenza che solo in parte può dipendere da condizioni naturali, ma in parte maggiore dipende probabilmente da diversità di tecnica colturale. Sembra che, pur senza accrescere notevolmente l'area, la produzione possa essere notevolmente aumentata. Alla testa per la produzione sono oggi la Puglia, la Calabria, la Sicilia; a distanza seguono la Toscana, l'Abruzzo, il Lazio.
Tra gli alberi da frutto, il primo posto spetta agli agrumi (113.000 ettari circa, dei quali tuttavia solo 48.000 a coltura specializzata), coltivati per tre quarti in Sicilia, poi in Calabria, sul litorale del Lazio meridionale e della Campania, qua e là in Sardegna, in Puglia, ecc. La produzione annua, alquanto caduta nel periodo postbellico, tende ora a riprendere, e si ragguaglia a 7,5-8 milioni di quintali annui, pari presso a poco alla media degli ultimi anni anteguerra. Essa alimenta un'esportazione diretta ora soprattutto nell'Europa centrale, perché gli Stati Uniti consumano ormai precipuamente la produzione propria; una parte del prodotto è peraltro utilizzata per la preparazione dei derivati agrumarî.
Gli altri alberi da frutto, numerosissimi (circa 60 specie diverse se ne annoverano in Italia), sono coltivati in gran parte promiscuamente con altre piante; la coltura specializzata si è andata tuttavia estendendo dal 1920 in poi, particolarmente per talune frutta di alto rendimento industriale. Tra queste si contano il pesco, la cui coltura ha assunto carattere specializzato in alcune zone della Romagna, della provincia di Cuneo, della Riviera di ponente, ecc.; il ciliegio (Campania, Emilia, Venezia Tridentina), il melo (Venezia Tridentina), ecc. Colture proprie di talune regioni sono il fico, albero prettamente mediterraneo, che in Calabria, in Puglia, in Sicilia forma associazioni molto estese, quasi dei piccoli boschi; il mandorlo, che è una coltura tradizionale quanto l'olivo in Sicilia e in Puglia, e conferisce ivi una speciale fisionomia al paesaggio; il noce e il nocciolo (Campania, Sicilia, Piemonte), il pistacchio (Sicilia). Nell'economia italiana hanno peso soprattutto le frutta secche, che meglio si prestano all'esportazione: in prima linea le mandorle, poi noci e nocciole, e anche fichi e susine, che vengono seccati con diversi processi. La produzione della frutta oscilla fra 8 e 11 milioni di quintali annui e tende ad aumentare. In questa cifra non è compresa la produzione delle castagne, che da sola raggiunge i 5,5-6 milioni di quintali con tendenza all'aumento. Per estensione dei castagneti (in complesso oltre 600.000 ettari) e per entità di produzione ha il primato la Toscana; seguono la Liguria, il Piemonte, la Calabria, l'Emilia.
La maggior parte delle colture alimentari che abbiamo fin qui menzionato è di antica introduzione in Italia; il Medioevo ha veduto la diffusione di uno solo fra i cereali, il riso; dall'America sono venuti il mais e la patata; dall'Oriente nel Medioevo gli agrumi e qualche altro albero da frutta di modesto valore; in epoca ancora più recente talune colture orticole. Diverso è invece il caso per le colture di piante che forniscono materie prime all'industria.
Tra le piante tessili, quella di più antico uso in Italia, il lino, ha ormai poca importanza; la coltura del lino per fibra, sparsa in varie parti d'Italia (Sicilia, Calabria, Abruzzo, Lazio, Lombardia, Sardegna), occupa zone ristrette e la produzione tende piuttosto a contrarsi (23-25.000 quintali l'anno); un po' più estesa, ma tuttavia in rapido declino è la coltura del lino da seme, che si fa soprattutto in Sicilia, ma anche in Calabria, nell'Emilia, ecc. (circa 50.000 q. l'anno). La canapa, già nota all'età romana, ha un'importanza molto maggiore; anzi dopo l'U. R. S. S., l'Italia è il primo tra i paesi produttori e concorre, in media per un quinto circa, al prodotto mondiale. La coltura è presso che esclusiva dell'Emilia e della Terra di Lavoro; l'area coltivata varia notevolmente col variare della convenienza di adibire a questa coltura terreni che sono adatti anche per altro. La produzione è alquanto aumentata rispetto al periodo prebellico; il massimo fu toccato nel 1925 con oltre 1.200.000 quintali, poi si ebbe una diminuzione, sensibile soprattutto negli anni 1931-32 (1932: 555.000 quintali). Va ricordato che, mentre nell'U. R. S. S. la canapa viene in gran parte consumata in paese, l'Italia dedica circa i due terzi del suo prodotto all'esportazione ricavandone considerevoli benefici; è perciò il primo stato esportatore del mondo e ha il massimo interesse a conservare tale primato, il che giustifica l'attenzione conferita oggi a questa nostra coltura.
La coltivazione del cotone, che ancora poco più di mezzo secolo fa era discretamente diffusa in Sicilia e dava un prodotto annuo di circa 300.000 quintali (cotone greggio), ora è limitata ad alcune aree molto ristrette della pianura di Gela e regioni vicine, e, nonostante il lieve incremento degli ultimi anni precedenti alla presente crisi cotoniera, contribuisce in misura assolutamente infima al fabbisogno dell'industria nazionale. La cotonicoltura sembra tuttavia suscettibile di qualche maggiore sviluppo, oltre che nella Sicilia meridionale, anche in Sardegna, nel Tarantino, in Calabria, sempre col sussidio dell'irrigazione.
Ma le due piante industriali, cui spetta oggi la maggiore importanza in Italia, la barbabietola e il tabacco, sono d'introduzione recente. Non è più di un terzo di secolo che si è iniziata da noi la bieticoltura per estrazione di zucchero, e già l'Italia dedica a essa ben 110-115.000 ettari, dei quali più che i nove decimi spettano al Veneto (Rovigo) e all'Emilia (provincie di Ferrara e di Bologna); la produzione, in aumento fino al 1930, anno in cui superò i 40 milioni di quintali (media prebellica circa 18 milioni), è poi anch'essa discesa; rimane tuttavia sempre sufficiente ai bisogni nazionali e ci ha perciò svincolato da un pesante gravame verso l'estero.
Per il tabacco, che, sia per la lavorazione sia per la vendita, è monopolio dello stato, l'introduzione e lo sviluppo sono ancor più recenti. Tanto l'area destinata alla coltura, che supera ormai i 40.000 ettari, quanto la produzione, crescono di anno in anno. Poco meno della metà dell'area coltivata è in Puglia (Leccese), dove s'incontrano condizioni favorevoli di clima e anche di suolo ma parecchie varietà si coltivano oggi nel Veneto, in Campania (Terra di Lavoro, agro di Salerno), in Toscana, nell'Emilia, nell'Umbria. La produzione, salita sopra i 500.000 quintali (quasi quintuplicata rispetto agli ultimi anni prebellici), sopperisce ormai per quattro quinti al consumo, pur sempre crescente, del paese, mentre prima della guerra le nostre fabbriche importavano dall'estero oltre il 70% del tabacco in foglie. Della gelsicoltura si farà cenno più avanti parlando dell'industria serica.
Infine, nell'esame delle produzioni agricole d'Italia, non vanno dimenticati i foraggi, prodotti dei prati artificiali, stabili. Questi, secondo i dati ufficiali, occupano un'area di oltre 2¼ milioni di ettari (compresi gli erbai) e dànno un prodotto di fieno pari a 230-270 milioni di quintali annui. Le colture foraggere tendono a estendersi, soprattutto in Lombardia, nell'Emilia, in Piemonte, in Toscana, ma nuove aree vengono conquistate anche altrove. Il loro progresso è in stretto rapporto con lo sviluppo e il miglioramento degli allevamenti, specie di bovini, come tra poco si dirà.
Date le condizioni di clima altrove accennate, molte colture sono in Italia sussidiate dall'irrigazione, necessaria a integrare l'entità del contributo che le precipitazioni apportano all'umidità dei terreni. Gli studî in proposito, per il passato alquanto trascurati, sono stati ora condotti innanzi sistematicamente, sia per quanto riguarda le condizioni pluviometriche delle varie regioni italiane (già precedentemente esaminate), sia per quanto riguarda il regime delle acque superficiali e sotterranee, allo scopo di determinare le disponibilità idriche dei principali corsi d'acqua nel semestre aprile-settembre, che è quello nel quale si effettua quasi esclusivamente la distribuzione di acqua a uso irrigatorio. Il diagramma di pag. 756 mostra il diverso comportamento di alcuni fiumi italiani assunti come tipici. Le pratiche relative all'irrigazione sono diversissime, non solo in regioni discoste, ma anche in località vicine, e le modalità della distribuzione dell'acqua non sono ancora ovunque regolate in modo razionale. In tutta la Pianura Padana, dove la pratica dell'irrigazione è più diffusa, essa viene usata soprattutto nelle risaie (marcite), nei prati da foraggio e in terreni seminativi; nell'Italia peninsulare, oltre che nei prati, largamente nelle colture orticole, e nel Mezzogiorno e isole anche per l'agrumeto e il vigneto. In Lombardia il 33% della superficie agraria è irrigata, in Puglia e in Sardegna appena il 0,3%. Il cartogramma di pag. 755 dimostra la superficie attualmente irrigata nelle varie regioni d'Italia.
I boschi occupano in Italia circa 49.800 kmq. (esclusi i castagneti) dei quali poco più di 1500 appartengono al demanio forestale dello stato; l'Italia, con una percentuale del 16% di foreste sull'area totale, è uno fra i paesi più poveri di boschi di tutta l'Europa, preceduto solo dalla Gran Bretagna (4%), dall'Olanda (8%), dalla Danimarca (9%). Ma mentre in questi paesi, come in altri dell'Europa centrale, il bosco è stato estirpato per far posto alle coltivazioni o ai prati artificiali, in Italia, purtroppo, non sempre è avvenuto così.
Gl'intensi diboscamenti, determinati dallo sfruttamento del legname per costruzioni edilizie e soprattutto navali, per usi industriali, ecc., datano da tempo remoto e hanno siffattamente denudato talune plaghe montane da lasciarle in preda agli agenti atmosferici e alle acque selvagge, che hanno ormai messo allo scoperto la roccia viva, desolata, priva di ogni sorta di mantello protettore. I disboscamenti avvennero invero a varie riprese e non dappertutto nello stesso tempo e con la stessa intensità. Nell'Appennino i primi di grande intensità sembra si avessero nell'età classica, soprattutto dopo lo sviluppo della potenza marinara di Roma, mentre l'alto Medioevo pare abbia rappresentato un periodo di sosta, durante il quale il mantello boscoso poté anzi riguadagnare una parte delle aree perdute. Il bisogno di legname si fece di nuovo sentire vivace a partire dal basso Medioevo e da allora il diboscamento, ripreso intensamente nell'Appennino, si estese anche alle Alpi; e continuò sempre, con diverse alternative, ma in genere in modo oltremodo inconsulto, nonostante i sagaci, ma sporadici interventi di alcuni governi più illuminati.
La situazione è lievemente migliorata dopo l'aggregazione della Venezia Tridentina che è la regione più ricca di boschi; seguono le Alpi Carniche e Giulie settentrionali, l'Appennino toscano, il Gargano, la Sila e gli altri rilievi calabresi. Tra le latifoglie predominano il faggio e la quercia; tra le aghifoglie varie specie di pino, l'abete, il larice. Per i limiti altimetrici nelle Alpi e nell'Appennino molto spesso perturbati dall'uomo vedi alle rispettive voci. Le regioni più povere di boschi sono la Puglia e la Sardegna.
Nelle regioni collinose e anche nelle pianure litoranee dell'Italia centro-meridionale e nelle isole, in luogo del bosco d'alto fusto, era prevalentemente diffusa la macchia, formazione di sempreverdi, tipicamente mediterranea. Ma anch'essa è stata estirpata in larghissima misura; aree un po' estese ne rimangono nel Lazio meridionale, nella Sicilia centrale, in Sardegna. Tra i componenti della macchia vi è la Quercus suber, il cui prodotto, il sughero, largamente raccolto, alimenta un'esportazione in notevole incremento. Invece il legname da costruzione (abete, larice, quercia, faggio) che viene fornito dai boschi italiani, sopperisce ai due quinti appena del fabbisogno nazionale. Mancano poi quasi totalmente in Italia le essenze (pioppo del Canada, abete) che oggi vengono adoperate per la preparazione della pasta da carta. Lo stato italiano promuove attualmente notevoli lavori di rimboschimento; negli ultimi anni si sono rimboschiti in media 4500 ettari di suolo all'anno.
Per concludere quanto riguarda i prodotti del suolo, si ricorderà che nell'Italia, paese a popolazione molto densa e in forte incremento, paese nel quale le aree destinate a uso agrario sono già proporzionalmente estesissime, il problema di utilizzare queste aree nel modo più razionale e di conquistare nuovi spazî per le coltivazioni, in una parola il problema della migliore valorizzazione del territorio nazionale per i bisogni presenti e per l'incremento futuro del paese, è un problema di altissimo interesse sociale. Esso non può perciò essere lasciato all'iniziativa privata, ma deve essere affrontato dallo stato in modo totalitario. A ciò tendono i provvedimenti per la bonifica integrale (per i quali v. bonifica). Qui giova avvertire tuttavia che tali provvedimenti non riguardano soltanto la sistemazione idraulica dei terreni acquitrinosi e il loro risanamento, ma anche l'utilizzazione di terreni aridi, che hanno piogge scarse e irregolari; la preservazione della montagna dalla degradazione per opera delle acque selvagge, delle frane, delle alluvioni; il restauro e la redenzione di aree lacerate da calanchi; la protezione del bosco; il miglioramento dei pascoli montani. I provvedimenti per la bonifica integrale si collegano perciò a tutti quelli che riguardano la regolarizzazione e l'uso delle risorse idriche, e ancora a quelli che concernono le migrazioni interne, mediante le quali si provvede al popolamento dei territorî nuovamente conquistati all'agricoltura. Per dare una idea dei progressi conseguiti in questa opera grandiosa, complessa e molteplice, si dirà che dal 1865 in poi si sono bonificati oltre 15.000 kmq. di territorio nazionale e che il complesso dei territorî ai quali si estendono le diverse opere di bonifica previste dalle leggi attuali abbraccia oltre 37.000 kmq. La distribuzione delle bonifiche attuali o in corso è dimostrata dalla cartina a pagina 757.
Allevamento e Pesca. - Per quanto riguarda il patrimonio zootecnico, l'Italia ha alcuni caratteri comuni con gli altri paesi mediterranei: la prevalenza degli ovini sui bovini e suini, degli asini e muli sui cavalli. Ciò deriva dal fatto che all'allevamento bovino si presta in modo egregio soltanto la grande Pianura Padano-veneta, con le sue vaste superficie di prati artificiali e le estese coltivazioni di piante foraggere ad alto rendimento. Qui solamente l'allevamento bovino può essere esercitato nelle forme più razionali e si associa all'agricoltura; i bovini sono stabulati nelle vaste aziende agricole, che pertanto utilizzano direttamente il concime naturale: una medesima azienda può dedicarsi alla cerealicoltura o ad altre coltivazioni e nello stesso tempo all'industria dei latticinî, che è di fatto fiorentissima. Oltre che nella pianura del Po, l'allevamento si esercita anche in talune pianure litoranee della penisola e si unisce all'agricoltura in Toscana, nelle Marche, ecc., senza tuttavia dar generalmente vita a grandi aziende come nella Pianura Padana. Dei 6.892.000 bovini censiti al 10 marzo 1930 (ultimo censimento agricolo) il 65% erano nelle quattro regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia) che si dividono la Pianura Padano-veneta. Nella zona alpina una parte del bestiame utilizza in estate i pascoli d'alta montagna, dove esistono perciò dimore temporanee e costruzioni adibite all'industria dei latticinî (alpi, casere, malghe, ecc.). I bovini sono in aumento: erano 4¾ milioni nel 1881 (vecchi confini), 6.240.000 nel 1918. La Pianura Padano-veneta ha anche il predominio per i suini (una metà circa del totale, che è di 3.150.000 circa), i quali tuttavia sono discretamente diffusi anche altrove, nell'Italia peninsulare, in Calabria, in Sardegna. L'aumento dei suini è stato maggiore di quello dei bovini; il numero calcolato nel 1881 (1.165.000) era raddoppiato nel 1918 (2.340.000) e poi si è ancora accresciuto notevolmente.
I prati più magri e i pascoli naturali della penisola e delle isole, a clima più secco, sono invece campo all'allevamento degli ovini, che dà luogo a un altro tipo di economia, interamente separato da quella agricola, anzi talora almeno in parte in contrasto con essa. I pastori utilizzano in estate gli alti pascoli appenninici, spesso magrissimi, e d'inverno conducono i greggi nelle pianure litoranee, tirreniche o adriatiche; esercitano perciò una specie di seminomadismo e hanno dimore temporanee tanto nelle sedi estive quanto in quelle invernali, che lunghe vie, riserbate ai periodici spostamenti dei greggi (tratturi, trazzere), congiungono. I greggi dimorano all'aperto, sia d'estate sia d'inverno. Queste abitudini risalgono a tempo remotissimo (se ne ha chiara notizia già nell'età classica), anzi un tempo erano diffuse anche nell'Italia settentrionale, dove del resto non sono del tutto scomparse; nel Mezzogiorno sono regolate da norme governative, che risalgono al Medioevo. Ma l'allevamento ovino è in complesso in forte diminuzione. Verso la fine del Medioevo si vuole che il Tavoliere di Puglia ospitasse d'inverno 4½ milioni di ovini; oggi non vi stanziano più di 600-700.000 capi. Complessivamente in Italia nel 1930 si censirono circa 8.900.000 pecore e 1.800.000 capre. Nel 1881 le cifre rispettive erano 8.600.000 e 2.016.000. Da allora fino al 1918 vi fu un aumento e in quell'anno si contarono 11¾ milioni di pecore e circa 3.100.000 capre; in seguito si è avvertita una nuova diminuzione, forte soprattutto per le capre, che recano gravi danni all'agricoltura. La messa a coltura di vaste zone già adibite a pascolo nel Tavoliere di Puglia, nella Campagna Romana, in Maremma, ecc., sottrae continuamente spazio ai pascoli naturali. Si rimedia a ciò accrescendo il rendimento nelle aree che restano a disposizione, migliorando le pratiche dell'allevamento, procurando anche di sostituire la stabulazione alla dimora all'aperto dei greggi, ecc. Le tradizionali, antichissime forme dell'allevamento ovino vanno dunque, sia pur lentamente, modificandosi. Anche l'industria dei latticinî che deriva dell'allevamento degli ovini dà prodotti cospicui.
I pochi bufali che si trovano nella Campagna Romana, in Terra di Lavoro, nella piana di Pesto, sono in diminuzione (16.000 nel 1930 in confronto a 24.000 nel 1918). I cavalli (975.000) sono numerosi in Lombardia (1/5 circa), nel Veneto, nell'Emilia, ma anche nella Campagna Romana, in Puglia e in Sicilia; gli asini (870.000) e i muli (465.000) si trovano numerosi in Sicilia, in Campania, nel Lazio, ecc.; tutte e tre queste categorie di equini hanno subito una diminuzione rispetto al 1918.
La pesca è, in più o meno larga proporzione, occupazione di tutte le popolazioni litoranee dell'Italia; ma nel Mediterraneo in generale, e nei mari che bagnano l'Italia in specie, si verificano in piccola misura le condizioni fisiche che altrove (p. es., nell'Europa di nord-ovest), determinando una speciale abbondanza della fauna marina, permettono lo sviluppo della grande pesca. La piattaforma continentale, che è l'area più pescosa, ha grande estensione solo nell'Adriatico settentrionale, dove si può effettuare la pesca meccanica d'alto mare; ma quasi ovunque altrove è ristretta a una limitata cornice, nella quale spesso s'incontra anche fondo roccioso, costituente un grave ostacolo all'uso di taluni sistemi di pesca (reti a strascico). Perciò la pesca è rimasta, in gran parte d'Italia, alle condizioni della piccola pesca costiera, esercitata con navi a vela e con pratiche antiquate; la pesca d'alto mare, con battelli a propulsione meccanica, viene esercitata, oltre che nell'alto Adriatico nell'area compresa tra la Sicilia, Malta e la Tunisia, in prossimità delle coste dell'Africa settentrionale, dall'Egitto al Marocco, e da alcuni anni anche fuori dello Stretto di Gibilterra, sulle coste del Rio de Oro, ecc.
Il numero dei pescatori è di 110-120.000; il numero delle barche e battelli è di circa 41.000 (al 1° gennaio 1932) per un tonnellaggio superiore a 105.000 tonn. È assai aumentato il numero dei battelli a propulsione meccanica, che nel 1915 erano appena 10, nel 1925 erano saliti a 208 e nel 1931 a 500 circa. Un terzo e più dei pescatori appartiene ai porti adriatici; segue a breve distanza la Sicilia e al terzo posto vengono i porti tirrenici della Penisola.
Carattere e importanza speciale ha la pesca del tonno, che, come è noto, in determinate epoche dell'anno viaggia in grandi branchi seguendo rotte ben conosciute; su queste rotte sono situate le tonnare, delle quali la cartina a pag. 757 mostra la distribuzione. Le più importanti sono quelle sulle coste della Sicilia e della Sardegna. Pesche speciali sono quella del corallo, che si esercita soprattutto nelle zone di mare poco profondo fra la Sicilia e l'Africa, e anche nelle acque algerine, tunisine e nel Mar Egeo; quella delle spugne presso Lampedusa, Malta, sulle coste libiche e nel Mar di Levante.
La pesca nei fiumi e nei laghi ha poca importanza, ed è assai trascurata, mentre sembrerebbe suscettibile di grande sviluppo. Notevole è l'allevamento delle anguille e di altri pesci nelle valli da pesca e lagune dell'Estuario Veneto e nelle Valli di Comacchio; di recente sviluppo l'ostreicoltura nel Mar Piccolo di Taranto, nel Lago Fusaro presso Napoli e altrove.
Il popolo italiano non è grande consumatore di pesce; ciò nondimeno la produzione italiana, assorbita quasi interamente dal consumo interno, è insufficiente al bisogno; s'importano perciò notevoli quantità di pesce preparato (specialmente merluzzo, salmone, aringa, sgombro) per un valore superiore a mezzo miliardo l'anno. L'esportazione, che consiste soprattutto in tonno preparato, sardine, ecc., si ragguaglia invece a meno di un decimo di quel valore.
Prodotti minerarî. - Nel complesso l'Italia non è molto favorita per le risorse del sottosuolo; un paese minerario non è stato mai, ma oggi le sue condizioni d'inferiorità, rispetto, non solo ai grandi stati extraeuropei meglio dotati, ma anche alla maggior parte di quelli europei, derivano essenzialmente da due cause: da un lato dalla penuria di alcuni prodotti, dei quali il bisogno e il consumo sono cresciuti a dismisura in tempi recenti (combustibili fossili, petrolio, ferro, rame, ecc.), dall'altro dalla esiguità e dalla disseminazione di molti giacimenti minerarî, che ne rendono oggi economicamente poco conveniente l'utilizzazione, praticata invece sovente con profitto in passato, quando tutte le industrie avevano un raggio più limitato.
Le miniere e le cave hanno dato occupazione, in questi ultimi anni, a 110.000 persone appena, e hanno procurato un reddito non superiore a 1,1-1,2 miliardi. Grandi centri minerarî non esistono: nelle Alpi i distretti minerarî sono sparpagliati e di modesta entità; nella penisola il distretto più importante è in una delle parti geologicamente più antiche, la cosiddetta Catena Metallifera toscana con l'Elba; esso ha un riscontro in quello della Sardegna di sud-ovest (Iglesiente). Un posto ragguardevole spetta anche alla Sicilia per lo zolfo, alle Alpi Apuane per i marmi.
Tra i prodotti delle miniere vere e proprie il primo posto per valore spetta allo zolfo, che si rinviene qua e là in tutto il Subappennino, in una caratteristica formazione miocenica, che si dice formazione gessoso-zolfifera, ma, come si è detto or ora, dà luogo a sfruttamento soprattutto in Sicilia (zolfare della provincia di Agrigento e Caltanissetta) e secondariamente in Romagna. La produzione italiana, che culminò nel periodo 1899-1905 ed era allora in prima linea in tutto il globo, decadde di fronte alla concorrenza degli Stati Uniti, che dànno oggi un prodotto all'incirca triplo di quello italiano. Questo si aggira intorno a 2-2,3 milioni di tonnellate di minerale, pari a 325-350.000 tonn. annue di zolfo greggio; da alcuni anni è di nuovo in costante e notevole aumento. Per le condizioni nelle quali si effettua l'estrazione, v. sicilia.
Per la produzione del ferro il centro più importante è tuttora l'isola d'Elba; vengono poi le miniere della Val d'Aosta (Cogne), della Val Camonica e regioni vicine, e della Sardegna (Iglesiente, Nurra); fra queste ultime alcune, attivate durante la guerra mondiale, sono ora inattive; si cerca infatti di risparmiare, fin dove è possibile, le modeste riserve italiane (forse appena 150 milioni di tonnellate di minerale, secondo calcoli di grande approssimazione). La produzione del minerale, che era di circa 560.000 tonn. annue nell'ultimo quinquennio prebellico, si avvicinò a 1 milione durante la guerra (994.000 tonn. nel 1917), poi cadde; dal 1925 è in ripresa e nel 1929-30 raggiunse di nuovo le 700.000 tonn. In questa cifra non sono comprese le piriti di ferro, che si estraggono largamente (per un quantitativo press'a poco eguale) soprattutto nella Catena Metallifera toscana. La produzione è diminuita nel 1931-32. Per i minerali di piombo e zinco, l'Italia viene terza in Europa, ma a grande distanza dopo la Spagna e la Prussia; la produzione raggiunge 200-280.000 tonnellate annue, per tre quarti dall'Iglesiente (inoltre Catena Metallifera toscana; miniera dell'Agordino, ecc.). Associato ai minerali di piombo (soprattutto alla galena) si trova l'argento (circa 15.000 kg. annui estratti). In progresso è l'estrazione della bauxite, che data, si può dire, dal 1920 (90.000 tonn. nel 1926; 192.000 nel 1929 e 161.000 nel 1930; nel 1931 si verificò una forte diminuzione, presumibilmente temporanea) dalla quale si ricava l'alluminio (miniere in Abruzzo e in Istria), ma il prodotto è ben lontano dal bastare al fabbisogno italiano, che va aumentando di anno in anno, come in tutti i paesi civili
L'Italia ha il primato nel mondo per la produzione del mercurio, fornito dalle miniere del M. Amiata (Toscana) e d'Idria (Gorizia) (220-240.000 tonn. annue di minerale pari a 2000 tonn. di mercurio metallico) e ha qualche miniera di ferro manganesifero (Sardegna) e di antimonio (Toscana); produce invece quantità di rame modestissime (circa 15.000 tonn.; in aumento dal 1928: Toscana, Alpi Liguri) in confronto ai bisogni sempre crescenti. Più grave è la mancanza di combustibili fossili, elemento indispensabile alla grande industria moderna. A prescindere dalla piccolissima produzione di antracite e litantrace vera e propria, si estrae, nell'Istria, una certa quantità di combustibile che per tenore di carbonio si avvicina al litantrace e ha la denominazione di carbone liburnico (200-220.000 tonn. annue). Abbonda invece la lignite, che nel periodo bellico fu attivamente estratta, ma oggi, venute meno le più impellenti necessità, si utilizza solo nei giacimenti più ricchi e meglio accessibili (Valdarno superiore, dintorni di Spoleto, Iglesiente, Valdagno nel Vicentino); il quantitativo annuo tende a diminuire (da 600-700.000 a 300-400.000 tonn.). Anche alcune torbiere sono abbandonate, restando in attività le più abbondanti (una decina, che dànno un prodotto di 7-8000 tonn.).
Alla deficienza di carbon fossile da utilizzarsi per usi industriali si è cercato di riparare con lo sfruttamento dell'energia idraulica, della quale l'Italia è assai ben provvista. Numerosi studî recenti hanno accertato il quantitativo disponibile e hanno condotto all'esecuzione d'ingenti lavori per regolarne la distribuzione. Nel 1898 la potenza installata degl'impianti idroelettrici per forza motrice non arrivava a 100.000 kilowatt, mentre oggi supera i 3½ milioni di kilowatt. Concorrono per circa tre quarti gl'impianti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Venezia Tridentina, cioè dell'Italia alpina, che ha fiumi più copiosi d'acque e regime più regolare; l'impianto più grandioso è quello di Cardano sull'Isarco (182.000 kW. di potenza installata); altri otto impianti superano i 50.000 kW. Seguono per importanza il Lazio (impianti sull'Aniene), l'Umbria (Nera e Velino), l'Abruzzo (Pescara), la Calabria (Ampollino e Neto). Altri grandi impianti sono in corso d'esecuzione.
Nonostante le numerose e diligenti ricerche proseguite negli ultimi anni, scarsissima è la produzione del petrolio; le tasche oggi utilizzate si trovano quasi soltanto al piede delle ultime propaggini appenniniche degradanti verso la Pianura Padana, nelle provincie di Parma e Piacenza a diverse profondità; piccole quantità vengono dalla provincia di Frosinone (San Giovanni Incarico); altrove gli assaggi non hanno finora dato l'esito sperato. Il quantitativo, da meno di 5500 tonn. nel 1926, è salito a circa 8000 nel 1930, percentuale minima rispetto al quantitativo totale richiesto dai bisogni nazionali. In misura alquanto superiore si ricavano asfalto, bitume e prodotti affini, utilizzati oggi anche per la preparazione di olî lubrificanti, ecc.; gli scisti bituminosi sono assai diffusi nel Subappennino peninsulare e siculo (dintorni di Ragusa: asfalto), ma non dappertutto appaiono redditizî; anzi negli ultimi anni la produzione (220-320.000 tonnellate) tende a diminuire.
Altri prodotti, che hanno qualche importanza in Italia, sono la grafite (Cuneo, Carrara: 6-7000 tonnellate annue); l'allumite (Tolfa presso Civitavecchia: 825 tonn. nel 1930); il salgemma (quasi solo in Sicilia: 60-70.000 tonnellate annue). Più ricca è la produzione di sale marino (500-650.000 tonn. annue), che si ottiene da sei o sette saline attive (Cagliari, la più importante per produzione; Margherita di Savoia, in Puglia; Pirano; Cervia; Comacchio; Tarquinia; Trapani; Siracusa); ad essa si aggiunge il sale di sorgente (saline di Volterra).
Tra i prodotti delle cave, vengono anzitutto i marmi, i quali anzi, ragguagliati in valore, hanno il primo posto assoluto tra i prodotti del sottosuolo italiano, a causa dell'alto pregio del marmo bianco statuario delle Alpi Apuane, che ha dato luogo a una fiorente industria marmifera; Carrara, che ne è il centro, è anzi la città italiana che ha la maggiore percentuale della popolazione dedita a occupazioni connesse con l'estrazione dei minerali. Marmi bianchi vengono anche dalla Val Venosta (Lasa) e dal Novarese; marmi colorati da molte zone alpine e da qualcuna dell'Appennino e Antiappennino. Le pietre da costruzione o da taglio sono poi numerose e varie: graniti, porfidi, sieniti, dioriti delle Alpi, ardesie a Lavagna (Riviera di Levante), arenarie in Toscana, travertino nel Lazio, tufi vulcanici, peperini, ecc., pure nel Lazio e in Campania, pietre calcaree di notevole valore in Puglia (tufo, pietra leccese); e poi alabastro (Volterra), gesso; inoltre talco, pomici, ecc.
Un'altra ricchezza del sottosuolo, di cui l'Italia è ben provvista, è infine offerta dalle sorgenti minerali, ora a temperature elevate (termali) soprattutto nel dominio di apparati vulcanici attivi o spenti (Abano presso Padova, Agnano, Ischia, ecc.), più spesso a temperatura ordinaria. Tra queste alcune hanno larga fama per qualità terapeutiche e hanno perciò dato vita a fiorenti luoghi di cura (Roncegno, Levico, Recoaro, Peio, S. Pellegrino, Salsomaggiore, Montecatini, Porretta, Tivoli, Telese, Fiuggi, Termini Imerese e tante altre); in talune sorgenti si effettua anche l'estrazione di sali (oltre il sale di sorgente, anche solfati, carbonati, ecc.). Un posto a parte spetta ai soffioni boraciferi della Toscana (bacini della Cecina e della Cornia: Larderello, Serrazzano e Castiglione) che sono emissioni di vapor acqueo costanti ad altissima temperatura (120°-190°) e a forte pressione (fino a 4 atmosfere); essi sono da tempo utilizzati per l'estrazione dell'acido borico, di altri sali borici e anche di carbonato di ammonio, ecc., ma più recentemente hanno permesso un'applicazione ben più importante, in quanto, per la costanza del getto e la costanza della temperatura, vengono convenientemente impiegati per azionare centrali termoelettriche. Si tratta in sostanza delle prime utilizzazioni industriali del calore appartenente a strati interni della Terra.
Industrie. - Come si è già accennato, l'agricoltura è tuttora, in Italia, la base dell'economia nazionale, ma non può più dirsi oggi, come sessant'anni fa, che l'Italia sia un paese esclusivamente agricolo. Il progressivo sviluppo della grande industria moderna è, anzi, uno dei fatti più salienti che caratterizzano la trasformazione dell'Italia dopo la sua unificazione. Intorno al 1870, infatti, l'industria si trovava ancora quasi soltanto allo stadio della piccola manifattura domestica o dell'artigianato, che aveva dato all'Italia un primato glorioso nel Medioevo e al principio dell'età moderna e aveva anche creato nobilissime tradizioni di lavoro e d'arte industriale con maestranze preziose e mano d'opera specializzata ed esperta.
La grande industria moderna, ostacolata dalla penuria del carbon fossile, inceppata anche dalle molteplici eredità della frammentazione politica, ha tardato a svilupparsi, in confronto di altri grandi stati europei meglio favoriti; ma, nell'ultimo quarto del secolo XIX, ha manifestato chiari segni d'un movimento ascendente, che si è andato facendo sempre più vivace nel sec. XX, soprattutto di pari passo col progresso dell'utilizzazione dell'energia idroelettrica. Tale movimento ha determinato non solo la trasformazione delle vecchie industrie domestiche o artigiane, ma anche il sorgere di rami interamente nuovi, i quali oggi non sono certo i meno progrediti e attivi (v. industria: Origini e sviluppo della grande industria in Italia).
Le industrie si sono localizzate in Italia in maniera assai varia, secondo l'influsso di differenti fattori. Alcune, specie tra le più antiche, sono tuttora strettamente connesse ai luoghi di produzione della materia prima, come, ad es., parecchie delle industrie alimentari (industria enologica, casearia; zuccherificio), come l'industria serica, legata da tempo remoto ai centri della coltura del gelso, che sono anche quelli di allevamento del baco; altre sono piuttosto legate ai centri di consumo del prodotto (come il pastificio e talune industrie meccaniche), ovvero ai porti, quando si tratta d'industrie i cui prodotti si esportano largamente. Ma talune industrie, specie tra le più recenti, si sono invece sin dall'origine localizzate presso le grandi centrali idroelettriche; così è accaduto di parecchie industrie chimiche e anche, in più casi, delle metallurgiche; queste ultime si trovavano poi già in gran parte localizzate presso la cerchia alpina, sin da tempo remoto, quando cioè dalle Alpi proveniva principalmente la materia prima. Per altri rami delle industrie chimiche, metallurgiche, meccaniche, infine evidente la localizzazione in prossimità dei grandi nodi delle comunicazioni, i più adatti a favorire in larga misura l'irraggiamento dei prodotti.
Per il complesso di queste cause, piuttosto che per maggiore attitudine della popolazione o per altri fattori d'ordine storico-sociale, le regioni più industriali si trovano oggi nell'Italia settentrionale. Secondo il censimento industriale del 1927, su 1000 abitanti sopra i 10 anni si avevano 129 addetti alle industrie come media globale per tutta l'Italia; ma la percentuale saliva a 253 per la Lombardia, a 202 per la Liguria, a 192 per il Piemonte; prossime alla media del regno, ma un po' al di sopra, erano la Venezia Giulia, il Lazio, la Toscana, poco al di sotto il Veneto (con la Venezia Tridentina) e l'Emilia; tutti gli altri compartimenti venivano molto addietro.
Industrie alimentari. - Le tre principali industrie alimentari, quella vinicola, il caseificio, e lo zuccherificio, sono localizzate in prossimità dei centri di produzione. La prima non è assurta finora a quel grado di progresso che ha raggiunto altrove, soprattutto quanto a preparazione di tipi costanti di vini fini destinati all'esportazione. A questo riguardo, accanto a taluni vini della Toscana (Chianti) e del Piemonte, hanno importanza dei tipi speciali, come il marsala, gli spumanti (Asti, Conegliano), il vermut, ecc. L'esportazione si è tuttavia negli ultimi anni contratta, anche in causa del regime proibizionistico introdotto negli Stati Uniti e altrove. Il caseificio ha per centro la Valle Padana, dalla quale provengono sia il burro sia tipi ben noti di formaggi, in quantità tale da fornirne non solo il resto dell'Italia, ma anche altri paesi europei. Per il formaggio vanno tuttavia ricordati anche il Lazio, la Campania, la Sardegna, la Sicilia, che confezionano tipi con latte di ovini (e anche di bufalo). La produzione totale del formaggio supera i 2 milioni di quintali annui. L'allevamento dei suini, che prospera pure, come si è veduto, nella Pianura Padano-veneta, ma anche nell'Italia centrale, ecc., alimenta la fiorente industria dei salumi. Dello zuccherificio si è già parlato precedentemente.
Altre industrie alimentari sono localizzate presso i centri maggiori di consumo o presso i porti, come il pastificio (Napoli e dintorni, Roma, Genova), l'industria delle conserve alimentari, delle marmellate, della cioccolata. Meritano d'essere ricordate anche l'industria della birra, che ha svincolato quasi interamente l'Italia dall'importazione estera, ma che tuttavia non può avere grande diffusione in un paese così riccamente dotato di vini; la preparazione dell'alcool e degli spiriti (800.000 hl. annui), la preparazione delle acque gassose, quella dei liquori, che ha raggiunto una notevole perfezione, ecc.
Industrie metallugiche. - Sono legate alla necessità d'importare la massima parte della materia prima e perciò non hanno assunto in Italia uno sviluppo paragonabile a quello di altri paesi, il cui sottosuolo è più ricco di minerali metallici. I maggiori centri siderurgici si trovano o presso i luoghi di produzione del ferro (Elba, Piombino; Cogne in Val d'Aosta), o in prossimità dei porti e di centri d'industrie meccaniche (Savona, Voltri, Sestri, ecc. in Liguria; Trieste, Bagnoli presso Napoli), o presso cospicue sorgenti di energia idroelettrica (Terni). La produzione della ghisa e dell'acciaio, portata durante la guerra mondiale a grande sviluppo, declinò in seguito; ma nel 1922 aveva una vivace ripresa superando poi notevolmente la produzione stessa del periodo bellico. Infatti nel 1929 si sono prodotte oltre 670.000 tonnellate di ghisa (media prebellica 370.000; anni di guerra 465-470.000) e oltre 2¼ milioni di ferro e acciaio (media prebellica 970.000; anni di guerra 1.300.000). Dal 1930 la produzione è in diminuzione. Scarsissima importanza hanno la produzione del rame, dello zinco, ecc.; è in aumento quella dell'alluminio (8763 tonn. nel 1930), che oggi si estrae oltre che dalla bauxite, dalla leucite, molto più abbondante in Italia, con processo nazionale (processo Blanc).
Tra le industrie meccaniche un'importanza veramente rilevante hanno soltanto quelle dei veicoli d'ogni categoria: anzitutto le navi, come è ovvio in un paese nel quale l'attività marinara è cosi antica e sviluppata (grandi cantieri della Liguria, di Livorno, Napoli, Palermo, ecc.); poi il materiale ferroviario (locomotive, vagoni, caldaie, rotaie), le biciclette e motociclette, le automobili e gli autocarri, industria recente che ha assunto grande sviluppo a Torino e Milano, infine gli aeroplani. Il progresso di questi più recenti rami dell'industria meccanica ha messo l'Italia in grado di concorrere con altri paesi europei nella conquista di mercati esteri.
Un altro ramo dell'industria meccanica assai sviluppato è quello dei materiali bellici: corazze, cannoni, fucili, proiettili (Terni, Torino, Sampierdarena). Tra i rami meno sviluppati possiamo citare la fabbricazione di macchine agricole, di strumenti di precisione, la coltelleria, la fabbricazione dei caratteri da stampa; per tutti questi e altri rami l'Italia è ancora vincolata all'importazione dall'estero (soprattutto per macchine d'ogni genere e strumenti di precisione).
Industrie tessili. - Per il peso che hanno nell'economia generale dello stato italiano, il primo posto fra le industrie spetta di gran lunga alle industrie tessili: sono quelle che hanno fatto in tempi recenti i maggiori progressi; occupano normalmente circa 650.000 persone, il 16% della popolazione totale addetta alle industrie, e determinano un movimento di denaro che, tra importazioni ed esportazioni, si avvicina a 10 miliardi di lire. Primeggia il setificio, per il quale l'Italia ha un posto assolutamente preminente in Europa. Esso si è localizzato nell'Italia settentrionale, dove il gelso trova condizioni favorevoli di sviluppo nelle regioni collinose subalpine (p. es., sugli anfiteatri morenici) e nell'alta pianura, e dove perciò la bachicoltura ha potuto assumere grande sviluppo come occupazione domestica, cui attende soprattutto l'elemento femminile. Su 52,7 milioni di kg. di bozzoli prodotti nel 1930, l'85% furono dati dalla Lombardia (35% circa), dalla Venezia Euganea (circa altrettanto) e dal Piemonte presi insieme. La bachicoltura ha ancora qualche importanza nell'Emilia, nelle Marche, nella Toscana, in Calabria, nella Venezia Tridentina. La Francia, che dopo l'Italia è la maggiore produttrice di bozzoli in Europa, ne diede nel 1930 meno di 3 milioni di kg. La produzione della seta greggia filata in Italia superò i 5½ milioni di kg. negli anni 1928 e 1929 (secondo i calcoli ufficiali; altri calcoli dànno cifre anche più elevate, intorno a 6½ milioni), poi si è contratta, di poco nel 1930, assai più nel 1931, a causa del ribasso delle sete (forse ⅓ di meno che nel 1930). In media circa il 90% della seta greggia è filata da bozzoli prodotti in Italia, onde questa industria conserva ancor oggi il suo carattere prettamente nazionale. Una parte della seta greggia è esportata (semplice, addoppiata o torta) soprattutto in Francia, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Germania; un'altra parte è tessuta in Italia. Le tessiture seriche sono per la maggior parte in Lombardia e dispongono di circa 25.000 telai meccanici e 3000 telai a mano; dànno lavoro normalmente a 30.000 operai. Ma una gran parte degli stabifimenti lavora oggi anche il rayon (seta artificiale) e nella produzione dei tessuti le due provenienze non sono ben distinte statisticamente. Questa del rayon è un'industria recentissima, che si è sviluppata in Italia con grande rapidità, a causa del buon mercato del prodotto; dal 1926 al 1929 la produzione (esclusi i cascami) è più che triplicata superando i 32 milioni di kg. annui (massimo 34,6 nel 1931); gli stabilimenti di produzione (27) sono localizzati nel Piemonte e in Lombardia. Sulla produzione totale dei manufatti serici (seta naturale e rayon) non si hanno statistiche precise, ma ce ne possiamo fare un'idea, considerando che almeno una metà, e forse più, del prodotto è normalmente inviata all'estero. E le esportazioni, in continuo aumento dal 1922 al 1927, hanno in quest'anno raggiunto 1182 milioni di lire (ragguaglio al valore attuale) mantenendosi sopra al miliardo anche nei due anni successivi; la diminuzione, molto considerevole nel 1930 (737,4 milioni di lire, rappresentata per 244,1 milioni da manufatti di seta e 493,3 da manufatti di rayon) è dovuta non tanto a contrazione nell'entità della merce esportata, quanto alla crescente proporzione dei manufatti di rayon, che valgono assai meno, e al ribasso generale dei prezzi. Le esportazioni hanno due direzioni principali: in prima linea l'Europa centro-occidentale (Gran Bretagna, al primissimo posto; poi Svizzera, Francia, Germania), in seconda linea l'America (Stati Uniti, Argentina; in piccola misura anche il Brasile). Una minore corrente si avvia in Egitto.
Un altro ramo dell'industria tessile, con tradizioni antiche in Italia, è quella laniera, un tempo alimentata in massima parte da materia prima italiana. Oggi peraltro la produzione italiana di lana greggia è relativamente scarsa (180-200.000 q. di lana sudicia; 90-100.000 q. di lana lavata di cui forse la metà impiegata per filatura) perché l'allevamento ovino si volge piuttosto a ricavare latte e carne: la maggior parte delle lane lavorate negli stabilimenti sono importate dall'estero (soprattutto lane naturali, ma anche lane lavate, pettinate e cascami). L'industria laniera era fino al 1930 in notevole incremento; essa dispone di 800 pettinatrici, 520.000 fusi di cardato, 610.000 fusi di pettinato, 21.000 telai meccanici e 2000 a mano; dà lavoro normalmente a 75-80.000 operai. I centri principali sono in Piemonte (Biella, Cossato, Borgosesia, Valle Mosso, Alessandria, Vercelli, ecc.); seguono la Lombardia (Bergamo, Gandino, Desio, Lodi, ecc.); il Veneto (Schio, Arsiero), la Venezia Tridentina (Rovereto), la Toscana (Prato), ecc. La maggiore parte dei manufatti di lana è assorbita dal consumo nazionale; infatti, per i tessuti, su circa 300.000 q. consumati in Italia, negli ultimi anni, circa 280.000 erano tessuti nazionali; il piccolo residuo di tessuti importati è quasi esclusivamente rappresentato da qualità molto fine. Ma l'industria italiana alimenta per contro una notevole esportazione, cresciuta dal 1924 in poi con grande slancio (70-80.000 quintali l'anno) e che non accenna a diminuire (si è contratta invece, negli ultimi due anni, l'esportazione di tessuti misti). Tale esportazione è diretta per più della metà in Asia (India, Cina), poi in Europa (Gran Bretagna); modeste correnti si avviano nell'America Meridionale e in Egitto.
Alimentata in massima parte dal prodotto nazionale è l'industria della canapa la quale lavora in media 300.000 quintali di canapa nazionale, e 40.000 di canapa importata (compresa la canapa di Manila), mentre l'industria del lino, che ha scarsa importanza in Italia, lavora in media appena 70.000 quintali, dei quali 50.000 importati. Le filande di canapa e di lino si trovano in prima linea in Lombardia; inoltre nel Veneto, nell'Emilia, ecc.; dispongono di oltre 120.000 fusi; le tessitorie dispongono di 8000 telai. Gli operai impiegati sono 20-25.000 (oltre 5-6000 occupati nella fabbricazione di cordami di canapa). Filati, tessuti e cordami sono largamente esportati; a partire dal 1930, in conseguenza della depressione economica generale, le esportazioni si sono notevolmente contratte.
Di recente introduzione in Italia è invece l'industria cotoniera, la quale ha tuttavia rapidamente guadagnato il secondo posto fra le industrie tessili, per quanto lavori quasi interamente materia prima importata dall'estero. Nel 1871 il cotone greggio importato per alimentare l'industria italiana era di circa 270.000 quintali; alla fine del secolo era salito a oltre 1¼ milioni, negli ultimi anni si è aggirato intorno a 2-2½ milioni (scendendo solo a 1,7 milioni nel 1931 per effetto della depressione economica attuale). Il progresso era stato dunque assai notevole. Il cotone greggio viene in massima parte dagli Stati Uniti, poi dall'India e dall'Egitto. L'industria cotoniera occupa normalmente ben 250.000 operai e dispone di circa 6 milioni di fusi (di filatura e torcitura) e di 150.000 telai meccanici; di questi circa 100.000 spettano agli stabilimenti lombardi; oltre 30.000 ai piemontesi; 7000 al Veneto; seguono la Liguria, la Toscana, la Campania. Si producono in media 2 milioni di quintali di filati (media 1926-29), che provvedono al consumo nazionale (fortemente contratto nel 1930), lasciando un margine del 10-12% e più per l'esportazione; la produzione dei tessuti raggiunge 1,5 milioni di quintali, dei quali all'incirca un terzo si esporta. L'esportazione si rivolge ai paesi balcanici (Iugoslavia, Romania, Bulgaria, Grecia), alla Turchia, all'Egitto, all'India; al Levante insomma, nel quale lo smercio italiano anzi si irradia sempre più, conquistando mercati assai lontani (i tessuti arrivano ora anche nelle Indie Olandesi). Fra i paesi americani è cliente dell'Italia, in misura assai larga, solo la Repubblica Argentina. Ancora nel 1930, anno in complesso poco lieto per l'industria cotoniera italiana, l'Italia ha esportato per oltre 1,4 miliardi di lire di prodotti derivati dal cotone (materie gregge, semilavorate e finite), valore che supera, sebbene di poco, quello dei prodotti serici.
Da ultimo, fra le industrie tessili che lavorano materiale importato, è da ricordare lo iutificio, che importa per 500-550.000 quintali di fibra (principalmente dall'India) e la trasforma in sacchi, tessuti varî e altri manufatti, in parte notevole esportati. Gli stabilimenti sono concentrati a Terni, Alessandria, Bergamo e dintorni.
Un'idea complessiva dell'importanza che le industrie tessili hanno sulla bilancia economica dell'Italia, può aversi ancora considerando il valore globale delle esportazioni che, secondo i calcoli del Mortara, si può riassumere nella tabella qui sopra riportata.
Industrie chimiche. - Un altro ramo d'industrie di recente diffusione in Italia, e in sempre crescente sviluppo, è quello che viene genericamente designato col nome d'industrie chimiche.
Esse sono localizzate soprattutto o in vicinanza delle grandi centrali elettriche, che forniscono l'energia, o in prossimità dei maggiori centri di consumo. I prodotti sono svariatissimi e trovano gl'impieghi più diversi. Tenendo conto dell'entità del prodotto fabbricato, sono al primo posto la fabbricazione dell'acido solforico, dell'acido nitrico, del cloridrico e del citrico, quella del carburo di calcio, degli estratti tannici, dei perfosfati, dei superfosfati e di altri concimi chimici, della soda caustica, delle sostanze coloranti (sia minerali sia vegetali), dei prodotti farmaceutici; poi la fabbricazione dei fiammiferi, delle candele, dei saponi, ecc.
Altre industrie. - Un'industria molto recente è quella del caucciù, che lavora materia prima importata (in massima parte da Ceylon, dall'Indocina, dalle Isole della Sonda) e la trasforma nei più svariati articoli (rivestimenti per condutture elettriche e per cavi; pneumatici, ecc.) in parte anche esportati. I centri maggiori sono a Milano e a Torino.
Un'industria antica e fiorente è quella della carta; i maggiori stabilimenti (385 in tutto) sono localizzati nelle provincie di Novara (Varallo, Borgosesia, Serravalle e Romagnano), Varese, Vicenza (Arsiero), Ancona (Fabriano), Roma (Tivoli) e Frosinone (Ceprano, Isola del Liri); la materia prima (pasta di legno e cellulosa) è quasi tutta importata; la produzione si avvicina a 3,5 milioni di quintali annui.
Molto sparsa in Italia, con prevalente accentramento in prossimità dei grandi centri urbani, è l'industria dei cementi, delle calci idrauliche e dei laterizî. L'industria, schiettamente nazionale, della porcellana, è invece concentrata in due grandi stabilimenti (Doccia presso Firenze e S. Cristoforo presso Milano), mentre quella delle maioliche e ceramiche, molto antica, è assai sparsa; essa richiede mano d'opera esperta, fornita di senso d'arte, ed è ancora rimasta in alcuni centri minori, ricchi di gloriose tradizioni, allo stato dell'artigianato o della piccola industria (Faenza, Pesaro, Deruta, Gubbio e altri luoghi dell'Umbria; Castelli nel Teramano; Caltagirone in Sicilia, ecc.); pochi i grandi stabilimenti recenti (Laveno).
L'industria vetraria è poco sviluppata, ma si va diffondendo; solo alcuni rami speciali (per esempio i vetri soffiati a Murano e oggi in alcuni piccoli centri toscani, ecc.) hanno larga rinomanza. Ma per molte categorie di prodotti fini l'Italia è ancora cliente dell'estero (Boemia, Francia, Belgio).
Tra le minori industrie, molto florida e diffusa è quella dei mobili; grandi fabbriche si hanno principalmente in Lombardia (Milano, Monza, Varese, Cantù, Brianza); ma le fabbriche piccole, molto attive, sono sparse un po' dappertutto. Infine si ricordano le industrie delle pelli e derivati, alimentate in gran parte da prodotti nazionali (guantificio, calzaturificio), le industrie poligrafiche (Torino, Milano, Roma, ecc.), la lavorazione dei bottoni (valle dell'Oglio) alimentata in parte da prodotti provenienti dalle Colonie (noccioli di palma dum), ecc.
Commercio. - Allorché, nel 1870, l'Italia raggiunse la sua unificazione politica, gravissimi ostacoli si frapponevano ancora agli scambî commerciali e ai traffici fra le varie parti del nuovo stato, tanto esteso in senso meridiano e tanto accidentato: le comunicazioni ferroviarie erano del tutto inadeguate, anche la viabilità ordinaria era insufficiente e non omogenea. Moltissimo si è fatto da allora per agevolare e intensificare le relazioni d'ogni specie fra le diverse regioni d'Italia, come si dirà più avanti, parlando delle comunicazioni; se la fittezza e la distribuzione delle ferrovie e delle grandi strade di comunicazione è ancora assai diseguale, tuttavia il commercio interno si svolge ora liberamente e i prodotti italiani circolano da un capo all'altro della penisola. Così ad esempio, all'approvvigionamento della capitale in derrate alimentari possono oggi concorrere prodotti di ogni regione italiana; i manufatti tessili della Lombardia si distribuiscono in ogni angolo della penisola e delle isole; anche l'amalgamazione, dal punto di vista economico, col resto dell'Italia delle provincie annesse dopo la guerra mondiale, si va compiendo con molta rapidità. Anche per le merci di prima necessità che affluiscono dall'estero ai grandi porti italiani, ciascuno dei quali serve un proprio retroterra, l'inoltro senza difficoltà, sempre all'interno, si compie più speditamente.
Anche il commercio con l'estero si venne a poco a poco sviluppando, sebbene dapprima piuttosto lentamente. Nel 1871 si ragguagliava a poco più di 2 miliardi; alla fine del secolo (1900) salì fino a 3. Ma dal 1872 in poi le importazioni superarono sempre le esportazioni, dapprima di 100-200 milioni di lire annue, poi perfino di 400-500 milioni negli anni 1885-1887 che furono i più critici del secolo passato; in seguito lo squilibrio della bilancia commerciale tornò ad attenuarsi. Tale squilibrio aveva tuttavia le sue contropartite (spese dei forestieri, rimesse degli emigrati, ecc.), cosicché lo stato italiano non aveva bisogno di contrarre debiti all'estero in misura notevole. Più rapidi furono i progressi dal principio del sec. XX, sia per il considerevole slancio delle industrie italiane, sia per lo sviluppo della navigazione e dei porti, cui si accennerà più oltre. Nell'ultimo quinquennio di relazioni normali con l'estero anteriormente alla guerra mondiale, il commercio salì al valore globale di 5,85 miliardi circa, dei quali oltre 3,4 all'importazione e 2,4 all'esportazione. Se ragguagliamo, per comodità di confronto, queste cifre commisurandole al valore attuale della lira, secondo il procedimento dell'Ufficio centrale di statistica e le paragoniamo a quelle prebelliche, a quelle del periodo culminante della guerra mondiale e poi alle attuali, si hanno i dati esposti nella seguente tabella:
Lo squilibrio nella bilancia commerciale, che era dunque di circa 3,6 miliardi di lire attuali nel quinquennio prebellico, salito alla enorme cifra di quasi 30 miliardi nel 1918, è disceso a poco più di 5 miliardi annui nel 1930 e tende a diminuire ancora; dal 1921, anno nel quale, nel periodo postbellico, si ebbe il minimo delle importazioni, queste sono nuovamente cresciute fino al 1928, per poi ancora diminuire; le esportazioni tendevano invece a crescere con confortante slancio, prima che intervenissero i sintomi dell'attuale depressione economica mondiale. Giova peraltro avvertire - come confortante indice del progresso industriale italiano - che il confronto dell'attuale commercio estero con quello del periodo prebellico, dimostra una chiara tendenza verso una riduzione degli acquisti italiani all'estero in prodotti fabbricati e verso una maggiore importazione di merci gregge occorrenti alle industrie italiane; a questa tendenza fa riscontro la minore esportazione di merci gregge e semilavorate e la maggiore esportazione di manufatti e prodotti finiti.
I maggiori gravami con l'estero sono rappresentati per l'Italia dall'importazione del frumento (1930, ancora oltre 1½ miliardi; circa 3 miliardi nel 1928), del mais (400 milioni circa nel 1930; circa 800 nel 1928), del legname (oltre 600 milioni), del carbon fossile (1⅓ miliardi nel 1930), del petrolio e altri carburanti (oltre 600 milioni). Le esportazioni sono rappresentate in prima linea dalla seta greggia, dai tessuti di seta e misti, e dalla seta artificiale (2,3 miliardi nel 1930; oltre 3 nel 1929), dai tessuti di cotone (1-1,3 miliardi), dagli agrumi, frutta, ortaggi, dai latticinî (formaggi, ecc.), dalle automobili. In tutti questi rami è indubbiamente possibile all'Italia di raggiungere, in condizioni normali dell'economia mondiale, un maggiore sviluppo. Un'altra caratteristica del commercio italiano con l'estero è il progressivo estendersi del raggio mondiale dei traffici; sia per le importazioni sia per le esportazioni, si allacciano rapporti con paesi sempre più lontani, come è dimostrato, tra l'altro, dall'espansione delle linee di navigazione, delle quali si dirà più oltre.
Sette stati si trovano tuttavia all'avanguardia delle relazioni commerciali con l'Italia: cinque europei (Germania, Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Austria) e due americani (Stati Uniti e Argentina); essi assommavano nel 1930 il 55% delle importazioni e il 62% delle esportazioni. Per le importazioni sono al primo posto gli Stati Uniti, ma la loro preponderanza tende a diminuire, soprattutto per la diminuita importazione di derrate alimentari; al secondo posto dal 1925 è tornata la Germania; seguono Gran Bretagna e Francia; a notevole distanza gli altri paesi. Per le esportazioni al primo posto è ora la Germania, seguita subito dagli Stati Uniti; vengono poi Francia e Gran Bretagna; a non grande distanza Svizzera e Argentina.
Ma, accanto a questi pochi paesi, che pesano per la massa del traffico, non vanno dimenticati i molti, verso i quali, sia pure con corrente di minore intensità, irraggiano le esportazioni italiane. Ora è sintomatico il fatto che queste correnti minori, ma vivaci, sono quasi interamente rivolte all'Oriente: agli stati balcanici, all'Egitto, alla Turchia, all'India, e oggi anche verso paesi più lontani. E da questi stessi paesi vengono in misura considerevole anche materie prime per le industrie e perfino prodotti alimentari. Modesti sono ancora i traffici italiani con i paesi africani (Egitto escluso), anche con le sue colonie; ma, prima del periodo di depressione economica generale, essi tendevano tuttavia a estendersi e a intensificarsi: anche l'Italia seguiva dunque la tendenza generale dell'Europa a stringere sempre più i rapporti commerciali con quel continente che, per la sua vicinanza, per le sue possibilità economiche e per la sua situazione politica, si configura sempre meglio come il più naturale integratore dei bisogni dell'economia europea.
Come chiusa di questo esame delle condizioni economiche attuali dell'Italia, riferiamo i dati sull'entità numerica degli addetti alle categorie principali di occupazioni, secondo il censimento del 1921 (i dati corrispondenti per il 1931 non sono ancora conosciuti). Si avevano allora oltre 10.275.000 persone occupate nell'agricoltura nelle attività connesse con le foreste e nella pesca (pari al 55,7% della popolazione lavoratrice), oltre 4.220.000 persone occupate nelle industrie e miniere (22,9%), circa 1.860.000 persone occupate nel commercio (10,1%). Il residuo è dato da persone occupate nei servizî pubblici (compreso l'esercito) o in professioni libere (1.247.000, pari a 6,8%), da persone attendenti a servizî domestici (445.600 pari a 2,4%) e da categorie varie di occupazioni (382.000 pari a 2,1%).
Comunicazioni.
Ferrovie. - Come già si è accennato, la natura del paese oppone molto gravi ostacoli alla creazione di una rete organica di comunicazioni rapide, pienamente rispondenti alle moderne esigenze del trasporto di merci e viaggiatori tanto entro i confini del regno, quanto fra il regno e gli stati limitrofi. Alla configurazione allungata nel senso della latitudine, onde fra gli estremi punti settentrionali e meridionali intercorrono distanze maggiori che in altri stati molto più estesi, si aggiungono la presenza del sistema montuoso appenninico, che ostacola le comunicazioni dirette fra i due mari principali, la struttura geologica sfavorevole di molte plaghe, dove la presenza di rocce argillose, instabili e franose, rende difficile la costruzione e costosa la manutenzione delle strade ordinarie e ferrate, il carattere irregolare di molti corsi d'acqua, le cui ampie vallate soggette a inondazioni debbono essere piuttosto sfuggite che ricercate dalle vie di comunicazione, infine la presenza, soprattutto in passato, di zone paludose lungo le coste, evitate anche per l'infierire della malaria. A queste difficoltà naturali si aggiungeva poi in passato anche il frazionamento politico e la divergenza d'interessi economici fra gli antichi stati.
Il primo tronco ferroviario italiano, da Napoli a Portici, fu aperto il 4 ottobre 1839; prima del 1850 non esistevano in Italia più di 600 km. di ferrovie. La lunghezza totale era salita a 6200 km. nel 1870, al momento dell'unificazione, ma si aveva a che fare, in parte almeno, con linee create per servire i singoli stati e non nell'interesse del traffico attraverso il nuovo stato unitario. Dal 1870 in poi grandi progressi sono stati effettuati, mercé l'intervento diretto del governo, e, sebbene l'attuazione del programma ferroviario abbia subito soste e rallentamenti, gli ostacoli naturali sovra accennati sono stati gradualmente sormontati con impiego di mezzi tecnici talora grandiosi (costruzione di lunghe gallerie), e successivamente si è vinto anche l'ostacolo maggiore che si frapponeva al collegamento ferroviario con gli stati finitimi, la catena alpina, valicata ormai da sette grandi linee e da alcune altre minori. L'attuale rete ferroviaria italiana, se anche per fittezza di maglia rimane indietro a quella degli altri maggiori stati europei più favoriti per condizioni naturali, va via via assumendo il carattere di un sistema organico, adattato bensì necessariamente alle condizioni geografiche, ma sempre meglio rispondente ai bisogni delle industrie e delle intensificate relazioni interne ed estere.
La rete, ragguagliata a circa 20.000 km. prima della guerra mondiale, è salita (1° gennaio 1932) a 22.522 km., e a 26.557 se s'includono le ferrovie secondarie e le tramvie extraurbane. Sono a scartamento normale circa 21.700 km. e di questi circa 3000 km. a trazione elettrica. Allo stato appartengono 16.850 km., dei quali oltre 4000 a doppio binario e 1940 a trazione elettrica. Questo sistema di trazione è stato notevolmente sviluppato negli ultimi anni, anche in linee di primaria importanza (come la Modane-Torino-Genova-Livorno, la più lunga linea a trazione elettrica attualmente in esercizio in Italia); alla fine del 1931 si avevano in complesso in Italia oltre 3400 km. di linee elettrificate (comprese le secondarie). Il piano completo dei lavori per i prossimi 10 anni comprende l'elettrificazione delle arterie fondamentali del sistema ferroviario statale per un complesso di oltre 4000 km. di linee.
Come media si hanno in Italia poco più di 8 km. di ferrovie per ogni 100 kmq., mentre nella Gran Bretagna se ne hanno 13, nella Germania 12, nella Francia 10 (nel Belgio 37). In relazione alla popolazione si hanno poco più di 5 km. per ogni 10.000 abitanti (Francia 13, Germania 9, Gran Bretagna 8, Belgio e Svizzera 14). Nessun centro comunale italiano dista più di 50 km. da una stazione ferroviaria. La rete più fitta si ha nella Pianura Padano-veneta, sia perché ivi mancano grandi ostacoli naturali, sia soprattutto perché qui è la sede delle più fiorenti e sviluppate industrie. Due sono le massime arterie di questa regione, una corrente ai piedi delle Alpi (Torino-MilanoVerona-Venezia - Udine-Trieste) e una ai piedi dell'Appennino (Alessandria-Piacenza-Bologna-Rimini); esse sono riunite da numerose trasversali (principali: Torino -Alessandria; Milano-Bologna; Verona-Bologna; Venezia-Ferrara-Bologna, ecc.). Grandi nodi ferroviarî sono Milano, Torino, Verona, Bologna e Venezia-Mestre. Alle anzidette linee si allacciano da un lato quelle che traversano le Alpi, conducendo in Francia (Torino-Nizza e Torino-Modane; inoltre la litoranea Genova-Nizza-Marsiglia), in Svizzera (Milano-Domodossola-Briga e Milano-Chiasso-Lucerna), in Austria (Verona-Bolzano-Innsbruck e Bolzano-Lienz; Venezia-Udine-Villaco), nella Iugoslavia (Trieste - Postumia - Lubiana; e Fiume - Zagabria), dall'altro le linee per l'Italia peninsulare. In questa, due linee longitudinali di grande traffico corrono lungo la costa o a breve distanza da essa, l'una da Genova (anzi dal confine francese a Ventimiglia) per Livorno, Roma e Napoli, fino a Reggio Calabria, l'altra da Rimini, per Ancona, Foggia e Bari a Brindisi, e da Bari, per Taranto, a Reggio Calabria. La più importante linea longitudinale interna è quella da Bologna, per Firenze, a Roma e a Napoli; essa varca l'Appennino toscano a notevole altezza (616 m.). L'Appennino è poi valicato da una decina di linee trasversali (v. appennino). Le ferrovie che fanno capo a Reggio Calabria sono collegate mediante ferry-boats alla rete sicula, che ha per principali arterie la Messina-Palermo e la Messina-Catania-Siracusa. Le comunicazioni tra la penisola e la Sardegna si effettuano invece principalmente da Civitavecchia (e anche da Livorno e Genova) a Terranova, congiunta per ferrovia tanto a Cagliari quanto a Sassari.
Nell'Italia meridionale e nelle isole, dove, per il mediocre sviluppo delle industrie, il traffico è ancora modesto, il collegamento di molti centri minori alle ferrovie principali si effettua mediante linee secondarie a scartamento ridotto, molte delle quali sono notevoli per l'ardimento con cui superano i forti dislivelli mediante ingenti opere d'arte o con applicazioni di sistemi eccezionali di trazione (cremagliera). Invece nelle regioni nelle quali il movimento è maggiore, si tende ad abbreviare i percorsi, sia con l'introduzione di treni rapidi, sia con la creazione di linee direttissime, come la Roma-Napoli (per Formia) e quella, di prossima apertura, da Firenze a Bologna che attraversa l'Appennino in una nuova galleria lunga circa km. 18,5, la più lunga in territorio interamente italiano e la seconda del mondo per lunghezza, dopo la galleria del Sempione.
È da notare che le linee trasversali della Pianura Padano-veneta servono oggi anche al traffico di transito fra l'Europa occidentale e l'orientale (o fra quella di nord-ovest e quella di sud-est): passa infatti sulla linea Domodossola-Milano-Mestre-Trieste una delle massime comunicazioni ferroviarie europee, il Simplon-Orient Express, al quale s'innestano altre linee internazionali provenienti da Nizza e da Modane. È invece diminuita oggi d'importanza, come arteria internazionale di comunicazioni per il Levante, l'Egitto e l'Asia, la linea Modane-Bologna-Ancona-Brindisi, prima utilizzata dalla valigia delle Indie.
Nel complesso circolarono negli ultimi anni (1925-29) sulle ferrovie dello stato circa 108-115 milioni di viaggiatori e 55-65 milioni di tonnellate di merci l'anno (escluso il bestiame); si aggiungono ad essi 60-70 milioni di viaggiatori e 9-10 milioni di tonnellate di merci trasportate nelle ferrovie private (escluse le tramvie). Dal 1930 la depressione economica generale ha prodotto naturalmente una forte restrizione del traffico: tra il 1929 e il 1931 è diminuito del 24% il numero dei viaggiatori e del 27% il peso delle merci trasportate dalle ferrovie statali.
Strade. - La rete delle strade ordinarie accessibili a veicoli a ruote supera i 225.000 km.; oltre 20.000, costituenti la rete delle grandi comunicazioni, sono di pertinenza dello stato, e un'apposita azienda, l'Azienda autonoma della strada, ne cura la manutenzione e il miglioramento, in relazione allo sviluppo del traffico. Anche le strade ordinarie sono diventate, infatti, mezzi di comunicazione rapida, mercé lo sviluppo dell'automobilismo, che si va diffondendo sempre maggiormente: infatti il numero delle automobili, calcolato a circa 57.000 nel 1924, si è da allora più che quadruplicato, quello degli autocarri (25.000 nel 1924) è quasi triplicato. Servizî automobilistici pubblici allacciano fra loro le stazioni di linee ferroviarie diverse o a queste i paesi più lontani, e perciò sono, specialmente nelle regioni di montagna, un utile complemento delle ferrovie. Alla fine del 1931 erano in esercizio oltre 3000 linee automobilistiche per una lunghezza di circa 70.000 km.; la Lombardia, l'Emilia, la Toscana, il Piemonte, la Sicilia ne sono più fornite. Esistono già anche autostrade, destinate all'esclusivo transito delle automobili. Il traffico automobilistico, per servizio viaggiatori e merci, tende a far concorrenza alle ferrovie, specie su percorsi brevi e su linee di non grande movimento. Su alcuni percorsi í servizî ferroviarî sono anzi già stati surrogati, in tutto o in parte, da servizi automobilistici; su altre linee si sperimenta la sostituzione ai treni ordinarî di autovetture e autoconvogli su rotaie. In un paese montuoso come l'Italia il futuro sviluppo delle comunicazioni rapide appare senza dubbio legato alla risoluzione del problema di una sagace combinazione e integrazione dei due sistemi di trasporto, quello ferroviario e quello automobilistico.
Navigazione e porti. - Il traffico marittimo dei porti italiani, considerato in base al quantitativo totale delle merci caricate e scaricate, era di circa 32 milioni di tonn. nel 1913; dopo la depressione seguita alla guerra mondiale, ha raggiunto di nuovo questa cifra nel 1924, poi ha continuato a crescere, pur con interruzioni, toccando nel 1929 il massimo di 39,5 milioni; in seguito si sono fatti sentire gli effetti della crisi economica mondiale, che ha prodotto una sensibile restrizione del traffico nel 1930 e una più considerevole nel 1931 (34,5 milioni). Ma un fatto meritevole d'essere rilevato è la sempre maggiore compartecipazione della bandiera italiana al traffico dei porti nazionali: da poco più del 50% nel 1913, tale compartecipazione è salita al 67% nel quadriennio 1926-29. Il traffico è costituito per la massima parte da scambî con l'estero, e in esso si osserva, come fu accennato, un forte squilibrio tra la mole preponderante delle importazioni e quella delle esportazioni.
Un'altra caratteristica rispetto all'anteguerra, è l'allargato raggio dei traffici, non essendovi ormai più nessun paese del mondo, tra quelli che hanno una qualche importanza commerciale, che non sia in relazione diretta con i porti italiani, e a questi collegato anche da linee di navigazione italiane. La corrente principale dei traffici è quella da e per i porti europei oltre Gibilterra, che assorbe da sola circa la metà del commercio totale con l'estero; segue la corrente mediterranea, che contribuisce (incluso il Mar Nero) con un altro quarto circa; vengono successivamente la corrente dell'America Settentrionale, quella dell'America Meridionale e Centrale, quella oltre Suez (paesi dell'Oceano Indiano e del Pacifico) e ultima, finora molto debole, la corrente da e per i porti dell'Africa occidentale. Nel traffico con l'Europa occidentale e settentrionale prevale la bandiera estera (con predominio della britannica), e questa è in prevalenza anche negli scambi con l'America Centrale e Meridionale e con l'Australia; in tutte le altre correnti ha la prevalenza la bandiera nazionale; al traffico tra i porti italiani e gli altri del Mediterraneo partecipano tuttavia anche la Spagna e la Grecia.
Tra i porti italiani, quelli che hanno un qualche movimento commerciale sono un centinaio, e una ventina hanno oggi un traffico superiore o prossimo a un milione di tonnellate (stazza netta). Per numero di navi entrate e uscite, il primo posto spetta a Trieste, cui seguono Napoli, Fiume, Genova, Venezia, Livorno e Messina. Ma per la mole delle merci sbarcate e imbarcate, Genova supera di gran lunga tutti gli altri; seguono, in ordine decrescente, Venezia, Trieste, Napoli, Savona, Livorno, Civitavecchia, Palermo, Fiume, Ancona, ecc. Per numero di viaggiatori imbarcati e sbarcati, Trieste e Napoli hanno un primato assoluto; il movimento di Napoli è tuttavia diminuito in seguito alla contrazione dell'emigrazione. Questa contrazione ha anzi influito notevolissimamente nel ridurre il traffico globale dei viaggiatori con l'estero (da circa 1.100.000 viaggiatori nel 1913 a meno della metà nel 1929), mutandone anche la fisionomia; oggi infatti, almeno per importanza economica, il movimento turistico supera quello migratorio.
Tra le linee di navigazione nell'interno del regno hanno il primo posto naturalmente quelle che effettuano il collegamento con le due isole maggiori del Tirreno e con Zara sulla sponda orientale dell'Adriatico. Per le comunicazioni con la Sardegna, è al primo posto la linea Civitavecchia-Terranova (giornaliera); seguono le settimanali Civitavecchia-Cagliari e Napoli-Cagliari. Per la Sicilia l'unica linea importante, in concorrenza con la ferrovia, è la giornaliera Napoli-Palermo. Zara è collegata ad Ancona (servizio giornaliero), a Trieste, a Venezia; Venezia è pure collegata a Trieste da una linea giornaliera. Hanno anche un notevole movimento le linee da Genova a Livorno, a Napoli, a Palermo; da Livorno ai porti sardi; da Napoli a Messina, da Bari ad Ancona, da Ancona a Fiume, ecc. Tra le linee mediterranee sono da ricordare anzitutto quelle di collegamento con la Libia, che fanno capo principalmente a Siracusa. Tra le altre linee hanno la prevalenza quelle determinate dalla già segnalata situazione geografica dell'Italia, che appare quasi un molo proteso verso il Levante, onde comunicazioni celerissime con l'Egitto, da Trieste, Venezia, Brindisi, Genova e Napoli (il percorso da Brindisi è oggi il più breve percorso marittimo tra l'Europa e l'Egitto ed è perciò largamente utilizzato dal movimento internazionale dei viaggiatori); comunicazioni frequenti tra i porti adriatici e quelli dell'opposta sponda balcanica (sopra tutto con l'Albania), comunicazioni tra gli stessi porti e quelli dell'Egeo, del Levante asiatico, del Mar di Marmara, del Mar Nero e del Danubio inferiore. La situazione geografica favorisce anche le comunicazioni tra la Sicilia e la Tunisia, tra la Liguria e la Catalogna. Molto meno importanti le comunicazioni con l'Algeria e il Marocco.
Per le linee transoceaniche hanno importanza, come punto di partenza o d'arrivo, quasi soltanto i due porti tirrenici di Genova e Napoli e quelli adriatici di Trieste e Venezia. Le linee più importanti in partenza dai due porti tirrenici (che di solito vengono entrambi toccati sia nell'andata sia nel ritorno) sono quelle dirette ai porti atlantici dell'America Settentrionale e dell'America Meridionale, servite da piroscafi e motonavi moderne e veloci, soprattutto per il trasporto dei passeggeri; seguono le linee dirette, oltre Suez, ai porti dell'Africa orientale, dell'Asia meridionale, dell'Estremo Oriente, delle Indie Olandesi e dell'Australia; una linea è diretta al Canale di Panamá, e oltre questo, ai porti sudamericani del Pacifico; una ai porti atlantici dell'Africa fino a Città del Capo. Ai due porti adriatici fanno capo invece i collegamenti più frequenti e rapidi con l'Asia meridionale e l'Estremo Oriente; inoltre due linee, dirette all'America Centrale, e oltre Panamá ai porti nordamericani del Pacifico; una linea che compie l'intero periplo africano, una diretta ai porti del Plata e altre di minore importanza.
La navigazione interna è pochissimo sviluppata in Italia. Si esercita la navigazione a vapore sui laghi Maggiore, d'Orta, di Como, di Lugano, d'Iseo, di Garda, sul Trasimeno e sulle lagune venete, per un complesso di appena 560 km. di linee (435 se si escludono le lagune); per il trasporto dei viaggiatori hanno il primo posto i laghi Maggiore e di Como, per quello delle merci ha il primato assoluto il lago d'Iseo (4/5 del traffico totale). I corsi d'acqua italiani si prestano poco alla navigazione (in confronto a quelli dell'Europa centrale e orientale) per le già accennate caratteristiche di regime, pendenze, ecc. Il Po è classificato tra le arterie navigabili di prima classe da Casale fino alla foce (540 km.), ma solo fino alla confluenza col Mincio possono risalire natanti di qualche mole (fino a 600 tonn.); inoltre nel delta la navigazione è spesso ostacolata da barre, per il che si utilizza il canale che unisce Cavanella Po a Brondolo nella laguna veneta; l'unico scalo fluviale di qualche importanza è Pontelagoscuro. Sono in corso di sistemazione lavori per rendere possibile l'accesso a natanti di 600 tonnellate fino alla foce dell'Adda. Degli affluenti del Po, sono navigabili il Ticino da Pavia (dove si sta costruendo un porto fluviale) alla foce (47 km.), l'Adda da Pizzighettone alla foce, l'Oglio a valle di Pontevico, il Mincio dal lago inferiore di Mantova (che ha un piccolo porto fluviale) alla foce, oltre ad alcuni tratti minori intermedî degli stessi fiumi. La navigazione sull'Adige, che ebbe in passato considerevole importanza, è ora limitata per natanti di oltre 100 tonnellate ad alcuni tratti. Nei fiumi veneti la navigazione è limitata ai tronchi inferiori (Livenza da Portobuffolè alla foce per 75 km.; Piave da Zenson a Cortellazzo 34 km.; Sile da Treviso alla foce, ecc.). In Lombardia, nel Veneto e nelle Romagne la navigazione è integrata da una rete di canali navigabili (Canale di Vizzola, Naviglio Grande, Naviglio di Paderno, della Martesana, di Volano; Canale di Primaro; Canale dal Po di Levante all'Adige; Naviglio Brenta; Canale Battaglia, Canale Piòvego; Canale Bisatto, Canale Este-Monselice; Naviglio Adigetto; Canale Gorzone, ecc.). Per mezzo di tronchi fluviali e di canali interni e lagunari si sono stabilite negli ultimi anni talune linee notevoli, come quella che unisce l'Isonzo al Po (183 km.), la più lunga, quella da Venezia a Padova, quella da Vicenza a Este e Monselice, ecc. Parecchie di queste vie d'acqua, accompagnate sempre da alzaie, sono a chiuse. Numerose e importanti sono le opere progettate o in corso; di maggior considerazione quelle dirette a collegare all'Adriatico il massimo centro lombardo, Milano, che sarà dotato di un porto fluviale.
Nella penisola ha qualche importanza la navigazione sul Tevere da Roma a Fiumicino e quella sull'Arno a valle di Pisa, sussidiata dal Canale dei navicelli. Nel complesso le vie d'acqua interne variamente utilizzate oggi non raggiungono (esclusi i laghi) i 1500 chilometri.
Industria aeronautica. - È nata, per la massima parte, durante la guerra mondiale. Per quello che riguarda la costruzione dei velivoli ricordiamo: la "Società aeronautica d'Italia" appaitenente al gruppo "Fiat" con officine a Torino; la "Società Caproni" con officina a Taliedo (Milano); la "Società idrovolanti Alta Italia (SIAI)" con officine a Sesto Calende; la "Società Macchi" con officine a Varese; la "Società italiana E. Breda " con officine a Sesto S. Giovanni (Milano); la "Società costruzioni meccaniche aeronautiche", derivata dalla "Dornier" di Friedrichshafen con officine a Marina di Pisa, del gruppo "Fiat"; la "Società officine ferroviarie meridionali", con officina a Napoli; i "Cantieri riuniti dell'Adriatico", controllati dalla "Cosulich", con cantieri a Monfalcone; la "Società Piaggio", con cantieri a Finale Marina; la "Compagnia nazionale aeronautica" (Roma), che si limita solamente alla costruzione d'interessanti prototipi e alla gestione di una scuola di pilotaggio.
Parallelamente all'industria della costruzione degli aeroplani si è sviluppata quella dei motori; basti ricordare: la "Fiat" con officine a Torino, la "Isotta Fraschini" con officine a Milano; la "Alfa Romeo" con officine a Milano; la "Piaggio" con officine a Pontedera (Pisa); le "Officine Colombo" con stabilimento a Milano.
Vi sono poi società che si sono dedicate alla preparazione dei piloti, come la "Scuola Caproni", con officina a Vizzola, che ripara anche apparecchi; la "Compagnia nazionale aeronautica" a Roma; la "Gabardini" a Cameri; la "Breda" a Sesto S. Giovanni (Milano), ecc.
Nel 1931 l'esportazione di apparecchi e motori d'aviazione dall'Italia è salita ad oltre 60 milioni di lire.
Turismo. - L'importanza del turismo per l'Italia risulta evidente solo che si pensi alle svariatissime caratteristiche e manifestazioni che possono attirare verso l'una o l'altra località della penisola e delle grandi isole l'elemento italiano o straniero: i numerosi luoghi di cura e di riposo, le stazioni climatiche e balneari, le fiere e i mercati periodici, le competizioni sportive, i monumenti e gli spettacoli d'arte antica e moderna, le feste tradizionali, le grandi manifestazioni politiche e religiose costituiscono altrettanti motivi per cui il turismo assume in Italia un'importanza affatto caratteristica.
Al complesso delle industrie e delle attività turistiche italiane presiede il Commissariato del turismo (r. deereto-legge 23 marzo 1931, n. 31), cui spetta il compito di dirigerle e coordinarle, promovendone lo sviluppo e vigilando su tutti gli enti e istituti che se ne occupano. Suo organo esecutivo centrale è l'Ente nazionale per le industrie turistiche (E.N.I.T.). Gli organi periferici sono i Comitati provinciali del turismo, che si costituiscono in base ad accordi tra il Ministero delle corporazioni, il Commissariato e i prefetti e che si occupano dei problemi turistici provinciali.
A questa attività multiforme ha risposto, dal 1920 in poi, un continuo aumento di turisti dapprima (1920-26), quindi una costanza di afflusso nonostante la crisi (1927-31). Le statistiche per i singoli anni dànno:
Tali cifre statistiche riguardano il movimento via mare, quello di transito ai varî posti di frontiera e il traffico nelle singole stazioni di cura, soggiorno, ecc.: località riconosciute dalla legge come "turistiche". Per il 1931 le percentuali dei turisti stranieri, distinti per nazionalità, offrono le cifre seguenti: Inglesi 10,5; Francesi 6,4; Belgi 1,5; Tedeschi 26,4; Austriaci 7,8; Ungheresi 3,5; Cecoslovacchi 4; Iugoslavi 1,2; Olandesi, Danesi, Scandinavi 3,6; Spagnoli, Portoghesi 1,3; Svizzeri 4,9; Albanesi, Bulgari, Greci, Turchi, Romeni 2,1; Russi o,6; Polacchi 1,8; Egiziani 0,5; Nordamericani 17; Sudamericani 2,9; varie nazionalità 4.
La bilancia economica italiana, negli anni 1923-32 per la voce "turismo", dà le seguenti cifre:
Poste, telegrafi, telefoni. - Ordinamento amministrativo. - L'amministrazione postale-telegrafica dipende dallo stato che la gestisce attraverso una speciale direzione generale presso il Ministero delle comunicazioni. I servizî postali e telegrafici nell'ambito di ogni provincia dipendono direttamente dalle direzioni provinciali. Il r. decreto 18 giugno 1931, n. 1827, andato in vigore nel marzo 1932, ha istituito delle direzioni compartimentali delle poste e telegrafi con giurisdizioni su più provincie. ll provvedimento ha avuto inizio di applicazione con la costituzione della direzione di Cagliari con giurisdizione sulla Sardegna.
Fino al 31 giugno 1925 i servizî telefonici dipendevano dallo stato. A partire dal 1° luglio 1925 l'Italia è stata divisa in cinque zone (1. Piemonte e Lombardia; 2. Tre Venezie, Fiume e Zara; 3. Emilia, Marche, Umbria, Abruzzo e Molise; 4. Liguria, Toscana, Lazio, Sardegna; 5. Italia meridionale e Sicilia) e i servizî telefonici urbani e interurbani compresi in ciascuna zona sono stati ceduti ad altrettante società private (rispettivamente: 1. "Società telefonica interregionale piemontese e lombarda", STIPEL; 2. "Società telefonica delle Tre Venezie", TELVE; 3. "Società telefonica Italia media-orientale,, TIMO; 4. "Società telefonica tirrena", TETI; 5. "Società esercizî telefonici", SET). Nel giugno 1925 fu creata - alla dipendenza amministrativa del direttore generale delle Poste e telegrafi - l'Azienda di stato per i servizî telefonici, per l'esercizio diretto da parte dello stato delle grandi linee telefoniche regionali e internazionali e per il controllo e la sorveglianza sulle linee concesse in esercizio all'industria privata.
Servizî postali. - Al 30 giugno 1932 esistevano in Italia 11.293 stabilimenti postali. Durante l'esercizio 1931-32 il movimento delle corrispondenze postali ha raggiunto la cifra di 2.309.016.000 unità, delle quali 2.201.195.000 a pagamento e 107.821.000 in esenzione di tassa. Durante lo stesso esercizio il movimento generale dei pacchi fu di 14.415.050 pacchi. I pacchi spediti a tariffa ridotta contenenti libri furono complessivamente 1.197.787. I pacchi soggetti a privativa, trasportati da concessionarî, furono 4.424.330.
Servizî a denaro. - Durante l'esercizio 1931-32 furono emessi in complesso 24.233.587 vaglia postali (3.816.428 di servizio; 201.102 internazionali) per un valore di L. 13.515.134.000 (11.555.640.000 per i vaglia di servizio; 71.468.000 per i vaglia internazionali). Il servizio dei conti correnti postali ha svolto durante l'esercizio 1931-32, 12.745.000 operazioni (3.092.816 durante il 1924-25) per conto di 91.936 correntisti (9312 durante il 1924-1925) che hanno un credito complessivo di lire 477.413.000 (43.435.676 durante il 1924-25). Il credito dei libretti postali di risparmio al 30 giugno 1925 era di L. 10.003.000.000, e al 30 giugno 1932, L. 8.465.000.000. La cifra investita nei buoni postali fruttiferi era di L. 163.000.000 al 30 giugno 1925 ed è salita a 6.956.000.000 al 30 giugno 1932.
Servizî telegrafici ordinarî. - Gli stabilimenti postali con servizio telegrafico ammontavano complessivamente (al 30 giugno 1932) a 10.375. Questi uffici erano dotati alla stessa data di 12.989 apparati Morse, 923 apparati Hughes, 280 apparati Baudot, e numerosi altri apparati. Lo sviluppo delle linee della rete telegrafica ordinaria comprendeva km. 65.308 con un totale di km. 541.711 di fili (288.174 di proprietà dell'amministrazione telegrafica). La lunghezza dei cavi sottomarini con fili telegrafici era di km. 6809 con 7010 km. di fili. Durante l'esercizio 1931-32 sono stati accettati circa 26.684.185 telegrammi privati, mentre il traffico complessivo è stato di 142.793.046 telegrammi.
Servizî della compagnia Italcable. - La compagnia Italcable gestisce il cavo transatlantico Anzio-Malaga-Las Palmas-S. Vincent-Fernando di Noronha-Rio de Janeiro-Montevideo (13.000 km. circa di lunghezza) attivato a sua cura il 12 ottobre 1925. Ha inoltre attivato: 1. il cavo Anzio-Malaga-Azzorre (che si allaccia al cavo Azzorre-New York della compagnia americana associata Western Union); 2. il cavo Anzio-Barcellona e Barcellona-Malaga (posato nel 1927 come raddoppio della preesistente linea cablografica Anzio-Malaga richiesto dalle esigenze del traffico); 3. il cavo Malaga-Lisbona; 4. il cavo Cagliari-Palermo (attivati nel 1929); 5. il cavo Lisbona-La Panne (Belgio) attivato nel 1930. Durante il sesto anno di esercizio (1930-1931) del cavo sudamericano il traffico telegrafico è stato di 2.291.515 parole unitarie.
Radiocomunicazioni. - L'Italia è stata una delle prime nazioni che abbia creato delle stazioni per radiocomunicazioni: fin dal 1910 infatti la Somalia e l'Eritrea erano radiocollegate mediante le stazioni di Massaua e Mogadiscio mentre le comunicazioni delle colonie con l'Italia erano assicurate dalla stazione ultrapotente di Coltano. In seguito, col graduale perfezionamento degl'impianti radioelettrici, la radiotelegrafia è entrata in decisa concorrenza con i collegamenti a filo fra punti fissi e in particolare con i cavi sottomarini. Presentemente (1933) esistono in Italia tre grandi stazioni radio: 1. centro di radiocomunicazioni della R. Marina di Roma-S. Paolo, creato durante la guerra e adibito oggi soprattutto ai collegamenti con le colonie; 2. il centro di Roma-Torrenova, gestito dalla "Società Italo Radio" (costituita nel 1923-24), adibito ai collegamenti europei e transcontinentali e fornita (dal 1932) d'impianti per il servizio radiofonico transoceanico che permettono di parlare da ogni città d'Italia con qualsivoglia corrispondente della rete telefonica argentina o brasiliana, 3. centro di Coltano-Radio, gestito dalla "Società Italo Radio", costituito di due stazioni (cioè della trasmittente di Coltano e della ricevente duplex di Nodica) ed esclusivamente adibito (dal 1929-30) alle comunicazioni radiomarittime con le navi in navigazione in ogni mare; il centro di Coltano è anche fornito di apparecchiature radiotelefoniche che permettono ai passeggeri di alcuni dei più grandi transatlantici (fra i quali quelli nazionali Conte Rosso, Conte Verde, Rex e Conte di Savoia) di scambiare durante la navigazione conversazioni con gli abbonati delle reti telefoniche italiane e dei varî stati europei.
Oltre a queste tre grandi stazioni esistono numerose stazioni costiere (Genova, La Maddalena, Cagliari, Napoli, Messina, Trapani, Vittoria, Brindisi, Ancona, Venezia, Fiume e Zara) con servizio limitato alle sole comunicazioni di carattere ravvicinato o d'interesse portuale e alla vigilanza per segnali di soccorso. Ad analogo servizio sono destinate nelle colonie le stazioni costiere di Tripoli, Bengasi, Derna, Tobruch, Rodi, Lero, Massaua, Assab, Alula, Obbia, Mogadiscio, Brava, Merca, Chisimaio.
In Italia esiste altresì una completa organizzazione radioelettrica a zervizio dell'aeronautica (servizî di radiocomunicazione, servizî radiogonometrici e di radiofaro interessanti la sicurezza del volo). Generalmente le stazioni radioelettriche adibite ai servizî aerei sorgono nei principali aeroporti commerciali o in prossimità di essi. Attualmente esistono nel regno e nelle isole 45 stazioni aeronautiche terrestri e varie di esse anche nelle colonie.
Durante l'esercizio 1931-32 il servizio radiotelegrafico fra punti fissi ha trasmesso 981.811 telegrammi con 17.901.984 parole. Il totale generale delle parole trasmesse a bordo delle navi in navigazione dalle stazioni costiere (comprese quelle delle società concessionarie) e ricevute da bordo è stato di circa un milione e mezzo.
Servizî telefonici. - L'ordinamento dei servizî telefonici in Italia consta di una rete interregionale e internazionale riservata alla gestione di stato; di reti urbane e di una rete interurbana e internazionale di secondaria imponanza gestita dall'industria privata. La rete telefonica interurbana gestita dall'amministrazione di stato era costituita quasi esclusivamente, prima del 1922, di linee aeree che non davano garanzia sufficiente sia di stabilità delle comunicazioni, sia anche di buona audizione. Fra il 1922 e il 1932 fu studiato e attuato un vasto programma di comunicazioni sotterranee a mezzo di cavi convoglianti gran numero di linee: fu così realizzata una completa rete di comunicazioni dirette fra i centri più lontani: 18 fra Roma e Napoli, 8 fra Roma e Firenze, 17 fra Roma e Milano, 8 fra Genova e Roma, 8 fra Bologna e Roma, 4 fra Torino e Napoli, 4 fra Milano e Napoli, 4 fra Venezia e Milano, 3 fra Venezia e Roma, 5 fra Bologna e Milano. Si provvedeva contemporaneamente ad attivare il servizio telefonico con la Sardegna prima a mezzo di un ponte-radio costituito da onde corte a fascio di 9 metri di lunghezza, quindi a mezzo di un cavo sottomarino (la più lunga comunicazione telefonica sottomarina esistente) attivato il 28 ottobre 1931 e che permette di effettuare, oltre alla comunicazione telefonica, anche due comunicazioni telegrafiche in duplice. Prossimamente verrà messa in esercizio la tratta di cavo fra Napoli e Bari, mentre proseguono i lavori per la posa e la messa in opera del tratto Napoli-Reggio-Messina-Catania-Palermo.
Allo sviluppo e al perfezionamento delle comunicazioni interurbane hanno concorso anche le società concessionarie di zona: la STIPEL, con l'attivazione di un cavo sotterraneo fra Torino-Milano e la zona dei laghi; la TIMO, col cavo fra Bologna e Ancona; la TETI con il collegamento a mezzo cavo di Savona, Genova, La Spezia, Lucca, Pisa, Pistoia, Livorno, Firenze.
Nel 1922 la rete telefonica italiana comprendeva 20 circuiti internaxionali e 1470 interurbani, con uno sviluppo complessivo di 74.500 chilometri di circuito. Nel 1932 (30 giugno) si avevano 115 circuiti internazionali e 5.535 circuiti interurbani con uno sviluppo complessivo di 275.734 km. di circuito. Gli uffici collegati alla rete interurbana italiana al 30 giugno 1932 erano 2235. Le conversazioni interurbane statali e sociali da circa 12.000.000 effettuate nel 1922 raggiunsero circa i 29.000.000 nel 1932 (con una percentuale, nelle linee dello stato, dell'1,65% per conversazioni di stato; 11,94% di borsa; 14,26% di stampa; 72,15% del pubblico). Le conversazioni internazionali nello stesso periodo sono salite da 280.000 a 1.430.000.
Il servizio telefonico urbano, che nel 1922 era costituito da 439 reti urbane e da 132.372 abbonati, dei quali soltanto 7000 erano automatici, al 30 giugno 1932 comprendeva 957 reti con 339.364 abbonati collegati direttamente, dei quali 268.100 automatici, pari al 79% del totale. Alla stessa data i telefoni in servizio raggiungevano i 467.066 apparecchi. La percentuale degli abbomati automatici è superiore di molto a quelle raggiunte anche dalle nazioni telefonicamente più progredite. Le reti urbane predette comprendono collegamenti fino a un massimo di 10 km. dal centro di rete. I posti telefonici in estensione di reti urbane che nel 1922 erano 3410, hanno raggiunto nel 1932 la cifra di 14.101. L'incremento degli abbonati e lo sviluppo in genere del servizio telefonico urbano sono principalmente dovuti alla automatizzazione del servizio che, iniziato prima nelle grandi città come Torino, Milano, Genova, Roma, è oggi esteso a 387 reti. Nelle principali città d'ltalia le società concessionarie hanno organizzato una serie di servizî telefonici accessorî a vantaggio degli abbonati (ora esatta; orario ferroviario; notizie sportive; orario dei musei; teatri e cinema; notizie varie; sveglia; sorveglianza abbonati assenti, ecc.).
Radiodiffusione circolare. - Il servizio di radiodiffusione telefonica ha cominciato a svilupparsi in Italia dal 1925, ma ha ricevuto notevole incremento solo nel quinquennio 1928-1933.
Attualmente sono in funzione le seguenti stazioni per il servizio di radiodiffusione: Roma (2 stazioni: onde medie e onde corte), Milano, Milano Vigentino, Genova, Torino, Trieste, Firenze, Napoli, Bari, Palermo, Bolzano. Il servizio è affidato all'Ente italiano audizioni radiofoniche (EIAR).
Trasmissione telegrafica d'immagini. - Il servizio fototelegrafico è eseguito in Italia, con l'apparato Siemens-Karolus ed è ammesso fra l'Italia e Austria, Cecoslovacchia, Danimarca, Francia, Germania, Inghilterra, Svezia, Ungheria, Stati Uniti d'America. Le stazioni fototelegrafiche dei predetti stati corrispondono per mezzo della rete internazionale dei cavi telefonici con la stazione fototelegrafica di Roma, la sola in Italia aperta al servizio pubblico. Tutti gli uffici telegrafici di capoluogo di provincia accettano, peraltro, fototelegrammi che inoltrano all'ufficio di Roma per mezzo di raccomandata espresso.
Bibl: A partire dal 1894 una bibliografia geografica dell'Italia è stata curata per il Geographischen Jahrbuch (pubblicato a Gotha), prima da T. Fischer, poi da R. Alagià. L'ultima puntata (nel vol. XLVI, 1931, pp. 137-202) riguarda gli anni 1925-30. Dal 1890 è pubblicata regolarmente anche la Bibliographie géographique annuelle (vol. XLI, 1931), alla quale collaborano studiosi italiani. Dal 1925 una Bibliografia geografica dell'Italia è stata edita prima a cura del Comitato nazionale per la geografia (1925-1928), poi nel numero di dicembre d'ogni anno del Bollettino della R. Società geografica. Copiose indicazioni nel IV volume della Terra di G. Marinelli; in F. Cardon, Saggio di catalogo di pubblicazioni geografiche stampate in Italia fra il 1800 e il 1890, Roma 1892, e in Catalogo metodico della Biblioteca sociale (1868-1901) della Società geografica italiana, Roma 1903, pp. 207-301. Una bibliografia metodicamente ordinata è annessa alla guida bibliografica di R. Almagià, La geografia, 2ª ed., Roma 1922.
Circa il nome d'Italia: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, I, 2ª ed., Lipsia 1881, p. 217; E. Pais, Storia della Sicilia e della Magna Grecia, I, Torino 1894, p. 387 segg.; E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, Stoccarda 1893, p. 496; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 110 segg.; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I, Milano 1924, p. 42 segg.; B. Heisterbergk, Über den Namen Italien, Friburgo in B. 1881; M. Orlando, Il nome Italia nella prosodia, nella fonetica, nella semantica, Torino 1928 (cfr. G. Pasquali, in Studi it. di fil. clas., VII, 1929, p. 312 segg.); M. Schipa, Le "Italie" del Medioevo (per la storia del nome d'Italia), in Archivio storico per le provincie napoletane, XX (1895); id., Per i nomi Calabria, Sicilia, Italia nel Medioevo, in Atti Accademia Pontaniana, XXVI (1896); G. Scaramella, Dove sia sorto per la prima volta il nome Italia, in Studi storici, IV (1896); O. De Grazia, in Bollettino della R. Società geografica (1919).
Principali opere geografiche sull'Italia: a) fino al 1900: Strabone, La descrizione d'Italia (trad. di L. O. Zuretti del libro IV dei Geographica), Milano 1923; Plinio il Vecchio, La descrizione d'Italia (trad. di L. Domeneghi della parte relativa all'Italia della Naturalis Historia), Milano 1920; M. Amari e C. Schiapparelli, L'Italia descritta nel "Libro del re Ruggero" compilato da Edrisi, Roma 1883; Flavio Biondo, Italiae illustratae, Verona 1482; Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Bologna 1550; J.-B. D'Anville, Analyse géographique de l'Italie, Parigi, 1744: A. F. Büsching, L'Italia geografico-storico-politica, Venezia 1780 (in 2 voll., che fanno parte della Geografia universale, tradotta in italiano, con aggiunte di G. Jagemann); A. Zuccagni Orlandini, Corografia storica e statistica dell'Italia e delle sue isole, Firenze 1835-45, voll. 12 in 19 tomi e atlante; C. F. Marmocchi, Prodromo della storia naturale d'Italia, Firenze 1844; A. Stoppani, Il Bel Paese, Milano 1876; E. Reclus, Nouvelle géographie universelle, I, Parigi 1876, pp. 299-630; A. Amati, Dizionario corografico dell'Italia, Milano 1878, voll. 8; L. Gatta, L'Italia. Sua formazione, suoi vulcani e terremoti, Milano 1882; H. Nissen, Italische Landeskunde, Berlino 1883; W. Deecke, Italien, Berlino 1898. - Per la descrizione dell'Italia in opere di viaggiatori e studiosi stranieri fino al 1815 è da vedere A. D'Ancona, L'Italia alla fine del secolo XVI, giornale del viaggio di Michele Montaigne in Italia nel 1580 e 1581, Città di Castello 1889 (con bibliografia riguardante 500 opere di viaggiatori stranieri). - b) Dopo il 1900: G. Marinelli, La terra: IV (in 2 tomi), L'Italia, Milano 1902 (capitoli sul clima di L. De Marchi, sulla flora di G. Paoletti e A. Fiori, sulla fauna di E. H. Giglioli, sulle lingue e genti di F. L. Pullè); T. Fischer, La Penisola italiana. Saggio di corografia scientifica, Torino 1902 (traduzione a cura di V. Novarese, F. M. Pasanisi, F. Rodizza); G. De Lorenzo, Geologia e geografia fisica dell'Italia Meridionale, Bari 1904; G. Jaja, L'Italia, Geografia economica, Roma 1912; G. Greim, Italien, Breslavia 1925; K. Hielscher, Italien, Milano 1925 (raccolta di vedute); G. Pullè, Italia continentale. Italia peninsulare e insulare, Firenze 1925-26; H. W. Ahlmann, Études de géographie humaine sur l'Italie subtropicale, in Geografiska Annaler, Stoccolma 1925, pp. 257-322, e 1926, pp. 74-124; N. Krebs, Italien, in Geographie des Welthandels, I, Vienna 1926, pp. 815-68; O. Maull, Italien, in Länderkunde von Südeuropa, Vienna 1929, pp. 133-298; H. Kanter, Italien, in Handbuch der geogr. Wissenschaft, Wildpark-Potsdam 1933. Sono poi da vedere i volumi della coll. Italia Artistica dell'Istitituto d'arti grafiche di Bergamo, le monografie regionali della coll. La Patria, geografia dell'Italia, dell'Unione tipografica editrice torinese e soprattutto la Guida d'Italia del Touring Club Italiano, compilata da L. V. Bertarelli.
Per quanto riguarda lo sviluppo della rappresentazione cartografica dell'Italia del del sec. XIV al XVII si veda l'opera di R. Almagià, Monumenta Italiae chartographica, Firenze 1930, e per i lavori eseguiti prima dai diversi stati e poi dal regno d'Italia quella di Att. Mori, La cartografia ufficiale in Italia e l'Istituto geografico militare, Roma 1922. Un'ampia bibliografia di carte sull'Italia e nel volume di P. Arrigoni ed A. Bertarelli, Le carte geografiche sull'Italia conservate nella raccolta delle stampe e dei disegni del comune di Milano, Milano 1930. La carta fondamentale che serve di base per ogni altra costruzione cartografica è la Grande carta topografica del Regno d'Italia, alla scala di 1 : 100 mila, costruita sotto la direzione del corpo di Stato maggiore, per cura dell'Istituto geografico militare di Firenze, tra il 1862 e il 1900. Essa constava in un primo tempo di 277 fogli (o meglio di 271 perché 6 non contengono disegno), per formare i quali concorsero 1666 minute di campagna, 661 (dette quadranti) fatte al 50 mila e 1005 (tavolette) al 25 mila. A ogni foglio al 100 mila corrispondono 16 originali di campagna se eseguiti alla scala di 1 : 25 mila e 4 se alla scala di 1 : 50 mila. L'origine delle longitudini della carta è il meridiano di Monte Mario, le cui coordinate sono state fissate il 41°55′26″ per la latitudine e 12°27′06″ E. da Greenwich per la longitudine; la proiezione adottata e è quella policentrica. Con l'annessione delle nuove provincie furono aggiunti altri 26 fogli, che sono contrassegnati con numeri romani per distinguerli dagli altri numerati con cifre arabiche. D'altra parte i rilievi al 25 mila, che erano limitati alle zone pianeggianti e di minore importanza demografica, sono stati ripresi nelle zone precedentemente rilevate al 50 mila e proseguono tuttora allo scopo di dotare tutto il suolo nazionale di una carta topografica sufficientemente dettagliata. Una raccolta di stralci di queste levate, ordinati secondo argomenti geografici, opportunamente raccostati per le diverse regioni d'Italia e con accompagnamento di opportune spiegazioni, costituisce l'Atlante dei tipi geografici di O. Marinelli (Firenze 1922). La prima edizione della carta alla scala di 1 : 100 mila è in nero (incisione su rame e, nelle edizioni successive, su zinco e su pietra) con orografia a curve e a tratteggio. Successivamente sono state eseguite tre edizioni policrome, con l'orografia a sole curve di livello, con l'orografia a curve e sfumo e con l'orografia a curve e tratteggio (quest'ultima in corso avanzato di edizione). Esiste anche un'edizione in bistro con i limiti amministrativi dei comuni e una in calco pallido. L'Istituto geografico militare ha pubblicato anche una Carta corografica del Regno d'Italia e delle regioni adiacenti alla scala di 1 : 500 mila, che consta di 35 fogli (proiezione conica di Bonne); esistono quattro edizioni, a due colori e senza orografia, a quattro colori con l'orografia a sfumo, a due colori senza orografia, in calco pallido con i limiti amministrativi. L'istituto ha pubblicato anche 5 fogli della carta del mondo al milionesino, in cui è rappresentata quasi tutta l'Italia (manca solo la Sardegna meridionale, che è compresa nel foglio di Tunisi edito dalla Francia). Tra le carte non ufficiali è da ricordare quella del Touring Club Italiano alla scala di 1 : 250 mila (61 fogli). Di essa esiste l'indice generale (Milano 1916), che è il massimo repertorio toponomastico italiano. Carattere turistico ha l'Atlante stradale del Touring Club Italiano in scala 1 : 250 mila, dell'Istituto d'arti grafiche di Bergamo (35 fogli).
Per i confini: V. Adami, Storia documentata dei confini del Regno d'Italia: I, Confine italo-francese; II, Confine italo-svizzero (in due parti); III, Confine italo-austriaco; IV, Confine italo-jugoslavo, Roma 1920-1931.
Per l'area: Istituto geografico militare, Superficie del Regno d'Italia calcolata nel 1884, Firenze 1884 (3ª appendice, 1901); O. Marinelli, Area dell'Italia naturale, in Atti del II Congresso geografico italiano, Roma 1895; id., L'area e la popolazione dei territori assegnati all'Italia col trattato di Rapallo, in Rivista geografica italiana, 1920.
Per la situazione: P. Silva, Il Mediterraneo dall'unità di Roma all'unità d'Italia, Milano 1927; H. Hassinger, Die geopolitischen Probleme Italiens, in Italien. Moderne Entwicklungen und Probleme, Stoccarda 1932, pp. 39-54.
Geologia, vulcanismo: Bibliographie géologique et paléontologique de l'Italie, Bologna 1881 (continuata ora da M. Gortani); C. F. Parona, Trattato di geologia, Milano 1924; F. Sacco, Les Alpes occidentales, 1913; id., L'Appennino settentrionale e centrale, Torino 1904; id., L'Appennino meridionale, 1912; L. Baldacci, La carta geologica d'Italia (Cinquant'anni di vita italiana, I), Roma 1911; R. Ufficio geologico, fogli al 100.000 della Carta geologica d'Italia; Carta geologica d'Italia alla scala di un milionesino (1931); G. Mercalli, Vulcani e fenomeni vulcanici, Milano 1883; H. J. Johnston-Lavis, Bibliogr. of the geol. and erupt. phenom. of the more important volcanoes of Southern Italy, Londra 1918. - Per i terremoti è da vedere: M. Baratta, I terremoti d'Italia. Saggio di storia, geografia e bibliografia sismica italiana, Torino 1901; A. Sieberg, Einführung in die Erdbeben und Vulkankunde Süditaliens, Jena 1913. La maggior parte degli scritti sui terremoti italiani è raccolta nei 30 volumi del Bollettino della Società sismologica italiana. L'elenco dettagliato dei macrosismi e microsismi viene pubblicato annualmente nel Bollettino sismico del R. Ufficio centrale di meteorologia e geofisica. - Per la tettonica e genesi si veda l'ultima edizione del citato Trattato di C. F. Parona, nel quale si troveranno anche copiose indicazioni sugli scritti più importanti (specie nel paragrafo: Origine e struttura delle Alpi e degli Appennini, pp. 566-74).
Per le forme del terreno e i tipi di paesaggio: oltre al già ricordato Atlante dei tipi di O. Marinelli, il Trattato di geologia morfologica di G. Rovereto (voll. 2, Milano 1923-24), la Relazione sui terrazzi fluviali e marini d'Italia di M. Gortani (in Rapport de la Commission des terrasses pliocènes et postpliocènes, Firenze 1928; cfr. anche dello stesso: Bibliografia dei terrazzi marini e fluviali d'Italia, Imola 1931). Per il fenomeno carsico: L. V. Bertarelli e E. Boegan, Duemila grotte, Milano 1926, e la bibliografia sull'idrografia sotterranea di M. Gortani, in Giornale di geologia pratica, XIX (1924), pp. 29-84. - Per le frane: R. Almagià, Studi geografici sulle frane in Italia, Roma 1907-10 (voll. 2). - Per i ghiacciai quaternarî e attuali: T. Taramelli, L'epoca glaciale in Italia, in Atti della Società italiana progresso scienze, IV (1910), pp. 235-75; C. Porro, Elenco dei ghiacciai italiani. Monografia statistica, Roma 1925; id., Atlante dei ghiacciai italiani, Firenze 1927. Dal 1913 viene pubblicato regolarmente il Bollettino del Comitato glaciologico, che contiene anche una completa bibliografia di tutti gli scritti glaciologici italiani. - Per le coste: Portolano delle coste d'Italia, Genova 1923-32, Istituto idrografico della R. Marina (voll. 5). - Per il clima manca un'opera recente che aggiorni quella di G. Roster, Climatologia dell'Italia nelle sue attinenze con l'igiene e con l'agricoltura, Torino 1909. Si hanno tuttavia alcuni lavori di F. Eredia, Le precipitazioni atmosferiche in Italia dal 1880 al 1905, Roma 1908; I venti in Italia, Roma 1909; La temperatura in Italia, Roma 1911; lo stesso autore ha pubblicato anche tutti i dati sulle piogge anteriori al 1920. A partire da questa data ha cominciato a funzionare la rete delle stazioni climatiche e idrologiche impiantate per conto del Ministero dei lavori pubblici, del Servizio idrografico. L'attività di quest'ultimo è riassunta nel volume Il servizio idrografico italiano, pubblicato (Roma 1931) in occasione del XV Congresso internazionale di navigazione tenuto a Venezia nel settembre 1931; ivi sono pure raccolti alcuni importanti articoli sul clima e l'idrografia dell'Italia. I dati delle numerosi stazioni, a cura delle sezioni del Servizio idrografico, vengono pubblicati negli Annali idrologici (ogni anno una ventina di fascicoli). Per le acque interne, oltre alla vecchia opera di L. De Bartolomeis, Idrografia del Regno d'Italia, Torino 1864, e ai dati raccolti nei già ricordati Annali idrologici, si hanno 38 volumi di Memorie illustrative della Carta idrografica d'Italia, Roma 1888-1916. - Per i laghi: G. De Agostini, Atlante dei laghi italiani, Novara 1917, e R. Riccardi, I laghi d'Italia, in Bollettino della R. Società geografica italiana, 1925, pp. 506-87.
Per la flora: F. Parlatore, Études sur la géographie botanique de l'Italie, Parigi 1878; Adr. Fiori, Prodromo di una geografia botanica dell'Italia, ecc., Padova 1908; id. Nuova flora analitica d'Italia, Firenze 1923-29; C. J. Forsyth Mayror, Die Thyrrhenis, in Kosmos, XIII (1883); R. Pampanini, Essai sur la géographie botanique des Alpes et en particulier des Alpes sud-orientales, Friburgo 1903; A Trotter, Gli elementi balcanico-orientali della flora italiana e l'ipotesi dell'"Adriatide", in Atti R. Ist. d'Incoraggiamento di Napoli, s. 6ª, IX (1912); L. Nicotra, Adria e rispettiva flora adriatica, in Atti R. Accademia Peloritana, XXVI (1915) e XXVIII (1916); id., I superstiti della paleoflora mediterranea, in Malpighia, XXVI (1913) e XXVII (1914-15); H. Bessel Hagen, Geographische Studien über die floristischen Beziehungen des mediterran. und orientalischen Gebietes zu Afrika, Asien u. Amerika, I, in Mitt. d. Geogr. Gesellsch. in München, IX, 1 (1914); L. Buscalioni e G. Moscatello, Endemismi ed esodemismi nella flora italiana, in Malpighia, XXV (1912) e XXVI (1913); A. Béguinot, Gli aspetti e le origini della vegetazione d'Italia, in Ann. R. Università di Modena, 1927-1928; id. e Traverso, Ricerche intorno alle "arboricole" della flora italiana, in Nuovo giornale botanico italiano, n. s., XII (1905); id. e Mazza, Le avventizie esotiche della flora italiana, ecc., in Nuovo giorn. bot. ital., XVIII (1916); id. e M. Landi, L'endemismo nelle minori isole italiane ed il suo significato biogeografico, I, in Archivio botanico, VI (1930) e VII (1931); A. Béguinot, Considerazioni intorno al "Monotipismo" e sui generi monotipici della flora italiana, I in Archivio botanico, V (1929); L. Emberger, La végétation de la région méditerranéenne, ecc., in Rev. de Botanique, XLII (1930), nn. 503-04; P. Keller, Die postglaziale Entwicklungsgeschichte der Wälder von Norditalien, Berna-Berlino 1931.
Fauna: G. Colosi, La fauna d'Italia, Torino 1933.
Per la suddivisione amministrativa e regionale: O. Marinelli, La divisione dell'Italia in regioni con particolare riguardo alle Venezie, in L'Universo, IV (1923); S. Fabbri, La circoscrizione politico-amministrativa delle Provincie del Regno d'Italia, Milano 1930; Dizionario dei comuni secondo le circoscrizioni amministrative vigenti al 15 ottobre 1930, Roma 1932.
Per il movimento della popolazione esiste dal 1862 la pubblicazione annuale Movimento della popolazione secondo gli atti dello stato civile, edita a cura dell'Istituto centrale di statistica.
Antropologia: G. Nicolucci, Antropologia dell'Italia nell'evo antico e nel moderno, in Atti R. Acc. sc. fis. mat. Napoli, s. 2ª, II (1888); R. Livi, Antropometria militare, I, Roma 1896; W. Z. Ripley, The races of Europe, New York 1899; V. Giuffrida-Ruggeri, A sketch of anthropology of Italy, in Journ. R. Anthrop. Institute, XLVIII (1918); C. Pelizzola, Linee generali della distribuzione dell'altezza del cranio nella penisola italiana, in Atti Soc. ital. sc. natur., LVII (1918); G. Sergi, Italia. Le origini, Torino 1915; J. Deniker, Races et peuples de la terre, 2ª ed., Parigi 1926.
Opere sull'economia italiana: P. Maestri, Italia economica, Firenze-Roma 1867-73, voll. 5; G. Sensini, Le variazioni dello stato economico d'Italia nell'ultimo trentennio del sec. XIX, Roma 1904; B. King e T. Okey, L'Italia d'oggi, 2ª ed., Bari 1904; Movimento economico dell'Italia, a cura della Banca Commerciale Italiana (a partire dal 1909, annuale); R. Bachi, L'Italia economica (annuale, dal 1909 al 1920); P. Lanino, La nuova Italia industriale, Roma 1916-17; L'economia italiana nel suo divenire durante l'ultimo venticinquennio e nelle sue condizioni attuali, voll. 2 Milano 1921; G. Mortara, Prospettive economiche, Milano, pubblicazione annuale (dal 1921); V. Porri, L'evoluzione economica italiana nell'ultimo ciquantennio, Roma 1926; C. E. Ferri, Aspetti economici della vita italiana, Milano 1927; Atlante della produzione e dei commerci, Novara 1930; E. Corbino, Annali dell'economia italiana, Napoli 1931-33 (tre volumi finora pubblicati per il periodo 1861-1890). Principali pubblicazioni statistiche: Annuario statistico italiano (iniziato nel 1878), annuale; Bollettino mensile di statistica, mensile (dal novembre 1926).
Per i prodotti del suolo, allevamento e pesca, miniere: G. De Angelis d'Ossat, La carta dei terreni agrari d'Italia, in Boll. Soc. geol., 1928, pp. 275-90; Superficie territoriale e superficie agraria e forestale dei comuni del Regno d'Italia al 1° gennaio 1913, Roma 1913; Catasto agrario del Regno d'Italia, Roma 1911-1915 (5 fascicoli); è in corso la pubblicazione del nuovo Catasto, con i dati relativi al 1929; Bollettino mensile di statistica agraria e forestale (dal 1928); per il periodo anteriore: Annali di agricoltura (1870-79) e Notizie periodiche di statistica agraria. Annuario dell'agricoltura italiana, Roma 1930; T. Virgilii, L'Italia agricola odierna, Milano 1930; L'Italia agricola (rivista mensile; settanta annate fino al 1933); A. Buongiorno, Le bonifiche in Italia nei riguardi geofisici, storici, tecnici ed economici, Roma 1927; H. Bernhard, Die landbauliche Wasserwirtschaft, Berna 1919; Le irrigazioni in Italia, Roma 1931; Italia forestale, Firenze 1926; C. Manetti, Geografia zootecnica italiana, Catania 1928; La pesca in Italia, Roma 1931, voll. 3; Rivista del servizio minerario (annuale).
Per le industrie: Censimento commerciale e industriale al 15 ottobre 1927, Roma 1929-32, voll. 8; L'industria italiana, Roma 1929; E. Corbino, serie di articoli sulle varie industrie nella rivista L'Ingegnere (1930); R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Bari 1931.
Per il commercio: Movimento commerciale del Regno d'Italia (annuale); Statistica del commercio speciale di importazione e di esportazione (mensile); Le esportazioni italiane negli anni 1911-13 e 1923-27, Roma 1928.
Per la distribuzione e densità della popolazione: G. Beloch, La popolazione d'Italia nei secoli XVI, XVII e XVIII, Firenze 1888; Censimenti generali della popolazione del regno per gli anni 1861, 1871, 1881, 1901, 1911, 1921, 1931; E. Raseri, Atlante di demografia e geografia medica d'Italia, Roma 1906; G. Mortara, La popolazione delle grandi città italiane, Torino 1908; Annuario statistico delle città italiane, Roma, anno VII, 1929; F. Coletti, La popolazione rurale in Italia e i suoi caratteri demografici, psicologici e sociali, Piacenza 1925; M. Haberlandt, Die Bevölkerung der italienischen Halbinsel, in G. Buschan, Illustrierte Völkerkunde, vol. II, 1925; P. Biasutti e altri, Ricerche sui tipi degli insediamenti rurali in Italia, in Mem. della R. Soc. Geografica italiana, XVII, Roma 1932.
Per l'emigrazione e le migrazioni interne: Statistica dell'emigrazione italiana per l'estero (biennale; cessa col 1920); L'emigrazione italiana dal 1910 al 1923, Roma 1926; Annuario statistico dell'emigrazione italiana dal 1876 al 1925 con notizie sull'emigrazione negli anni 1869-75, Roma 1926; Bollettino dell'emigrazione (mensile, cessa col 1928); Le migrazioni interne in Italia. Dati statistici (annuale, dal 1928).
Per le ferrovie: Sviluppo delle ferrovie italiane dal 1839 al 31 dicembre 1927, Roma 1928, e la Relazione annuale del Ministero delle comunicazioni. L'intera rete stradale, le ferrovie in servizio, le linee di navigazione sono segnate nella Carta itineraria del Regno d'Italia alla scala 1 : 300 mila (in 29 fogli) dell'Istituto geografico militare. Per le strade si veda pure la Guida itineraria delle strade di grande comunicazione, Milano, Touring Club Italiano, 1927-30, voll. 4. Per la navigazione e porti: Movimento della navigazione del Regno d'Italia (annuale); Monografia storica dei porti dell'antichità nella Penisola italiana e nell'Italia insulare, Roma 1905; G. Ricci, I grandi porti marittimi d'Italia, Roma 1931. E per la navigazione interna: La navigazione interna dell'Alta Italia, Roma 1931. - Per la marina mercantile v.: Inchiesta parlamentare sulla marina mercantile 1881-1882, voll. 7, Roma 1881-83; G. Roncagli, L'industria nei trasporti marittimi, in Cinquant'anni di storia italiana, Milano 1911; C. Supino, La marina mercantile italiana, Bologna 1919; Sulle condizioni della marina mercantile italiana. Relazione del Direttore generale della marina mercantile a S. E. il Ministro delle Comunicazioni, Roma 1926; G. Ingianni, Navigazione e traffici, in Mussolini e il fascismo, Roma 1929; L. Fea, La marina mercantile moderna, in Rivista marittima, settembre 1931; N. Albini, Il problema dei cantieri navali, in Riforma sociale, luglio agosto 1932; M. W. Van de Velde, La marina mercantile italiana, Milano e Roma 1933. - Per le poste, telegrafi, telefoni, v. le Relazioni annuali pubblicate dal Ministero delle comunicazioni.
ORDINAMENTO.
Ordinamento politico (p. 774); Il Re (p. 775); Il governo (p. 775); Il Gran Consiglio del fascismo (p. 775); Il parlamento (p. 775); Il Partito nazionale fascista (p. 776); Potere giudiziario (p. 776); Ordinamento corporativo (p. 776); Amministrazioni locali (p. 777). - Forze armate: Esercito (p. 777); Marina militare (p. 779); Aviazione militare (p. 781). - Finanze: Le finanze dell'Italia dal 1914 (p. 782); Bilanci e debito pubblico (p. 784); Moneta e credito (p. 785). - Educazione: Ordinamento scolastico (p. 785); Istituti scientifici e culturali (p. 789). - Dominî coloniali (p. 790).
Ordinamento politico.
Lo stato italiano ha assunto il nome di Regno d'Italia per la legge 17 marzo 1861, n. 4671, che ha conferito al re Vittorio Emanuele II e ai suoi successori il titolo di re d'Italia. Tuttavia, secondo l'opinione prevalente fra i giuristi, esso non si deve ritenere come uno stato nuovo, formatosi in seguito alla fusione dei varî stati prima esistenti nella penisola, ma come la continuazione del Regno di Sardegna, che di mano in mano ha allargato i proprî confini con successive annessioni.
Questo spiega perché la costituzione fondamentale dell'Italia sia tuttora lo statuto elargito dal re Carlo Alberto ai popoli del Regno Sardo il 4 marzo 1848, che si è venuto estendendo successivamente ai territorî annessi senza bisogno di leggi apposite, ma con una semplice pubblicazione, che in qualche provincia, ad esempio l'Umbria, non è nemmeno avvenuta. Redatto sulla carta francese del 1830, a sua volta informata agli ordinamenti inglesi, lo statuto, pure essendo una costituzione elargita dal monarca, è, per il suo contenuto, una vera legge. Anzi, nel suo preambolo, esso è qualificato "legge fondamentale, perpetua e irrevocabile della monarchia".
Tuttavia, nonostante queste due ultime qualifiche, lo statuto non è da ritenere affatto immutabile. Invero non solo le norme dello statuto possono venir meno o modificarsi in forza di consuetudini, come è di fatto avvenuto per talune di esse, ma possono anche essere, e sono state in più punti modificate dal parlamento, non essendosi mai ritenuto necessario, per far questo, creare un apposito potere costituente o una procedura speciale per la riforma della costituzione o per le cosiddette leggi costituzionali (salvo ora l'obbligo per il governo, sancito dalla legge sul Gran Consiglio del fascismo, di chiedere il parere del Gran Consiglio stesso sui progetti di legge relativi a parecchie materie che toccano lo statuto). L'italiana non è dunque una costituzione rigida, ma elastica.
Non tutto, quindi, il diritto pubblico italiano è compreso nello statuto: molte leggi importantissime e fondamentali, che hanno dato nuovo assetto a istituti costituzionali o altri ne hanno creati, si sono aggiunte: basti citare quelle sul capo del governo, sul Gran Consiglio del fascismo, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, sull'ordinamento corporativo, ecc. La trasformazione più profonda nelle istituzioni costituzionali è stata portata, dopo lo statuto, dall'avvento del fascismo al potere. Se la forma non ne è stata sostanzialmente modificata, grandissima è invece stata la trasformazione intima, poiché sono mutate la concezione e la struttura sociale su cui si basava in passato la costituzione italiana.
Anzitutto, ripudiando i principî fondamentali del liberalismo democratico, il fascismo ha sostituito allo stato astrazione lo stato come concreta manifestazione di volontà, di potenza e di autorità, di fuori del quale non possono esistere né individui, né gruppi ed ha rafforzato il prestigio e i poteri del governo e del primo ministro. Ancora, il fascismo ha portato nella vita pubblica un elemento originale e potentissimo, quello corporativo, in quanto alle concezioni liberale e socialista del diritto degl'individui e delle classi isolate nello stato (che rendevano possibile una loro attività antistatale o almeno extrastatale), ha sostituito quella tipicamente fascista del diritto degl'individui e delle classi solo in quanto parti della nazione organizzata sulla base corporativa e ha creato un sindacalismo nazionale, dando agli enti sindacali facoltà normative e tributarie, nonché la rappresentanza dei rispettivi gruppi sociali, che si manifesta e opera anche nella formazione di organi amministrativi e politici e raggiunge la sua più significativa espressione nel concorso alla formazione della Camera dei deputati. Così, con la Carta del lavoro, il fascismo ha posto un nuovo fondzmento alla nazione concepita come un solido fascio di forze produttive, e, con il Consiglio nazionale delle corporazioni, ha creato un organo centrale di controllo e di direzione della vita economica e sociale dello stato.
Il re. - Il primo organo costituzionale del vigente ordinamento politico italiano è la corona, costituito da una sola persona fisica, il re, che ripete il suo ufficio direttamente dalla costituzione ed esercita poteri dello stato in nome e per conto dello stato. Il trono è ereditario secondo la legge salica, interpretata nel senso che sono escluse le donne e si dà la preferenza alla linea discendente sulla collaterale e nella stessa linea al primogenito. Sono ammessi alla successione solo i discendenti legittimi e sempre che appartengano alla dinastia regnante, cioè alla famiglia reale. Il passaggio della corona si opera ipso iure al momento della morte. Il re, salendo al trono, presta, in presenza delle camere riunite, il giuramento di osservare lealmente lo statuto. La persona del re è rivestita di alcuni diritti speciali, costituenti speciali prerogative (v. re; lista civile). Quando il re si trovi nell'impossibilità fisica o giuridica di esercitare i poteri della corona, si fa luogo all'istituto della reggenza (v.). La consuetudine ha ammesso l'istituto della luogotenenza (v.), consistente in una delega provvisoria, fatta dal re stesso a una persona, di tutti o parte dei poteri regi, di solito quelli relativi ad affari correnti.
Il re è l'organo supremo dello stato italiano: è "il capo supremo dello stato" (art. 5 dello statuto), di cui rappresenta l'unità. Nell'attività legislativa, al re spetta l'iniziativa delle leggi, la loro sanzione e la promulgazione; nell'amministrativa, egli è l'organo costituzionale essenziale del potere esecutivo; nella giurisdizionale, la giustizia emana dal re ed è amministrata in suo nome dai giudici ch'egli istituisce (art. 68 dello statuto). Al re inoltre compete il diritto di grazia.
Il re nomina i senatori, convoca il collegio elettorale nazionale, apre e chiude o proroga le sessioni parlamentari e nomina a tutte le alte cariche dello stato. Al re spetta il comando di tutte le forze militari e quindi il potere di chiamare alle armi i cittadini sia per leva sia per mobilitazione e di provvedere all'organizzazione delle forze militari, per quanto di fatto l'effettiva organizzazione delle forze stesse rientri nelle attribuzioni del governo e il capo di Stato maggiore generale sia alla diretta dipendenza del capo del governo. Il re rappresenta lo stato nei rapporti internazionali, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio (art. 5 dello statuto). Il re è quindi il sovrano: questa posizione, però, del re non pone gli altri organi costituzionali dello stato in una condizione di subordinazione di fronte a lui. Ciò sarebbe incompatibile col carattere costituzionale di quegli organi: ma egli ha una competenza più larga degli altri organi, perché partecipa a tutti i poteri fondamentali dello stato e ha una preminenza, che però sugli organi costituzionali è solo di forma. Inoltre nessuna attribuzione può essere esercitata dalla corona senza il concorso di un altro organo dello stato, normalmente di un ministro.
Il governo. - L'art. 1 della legge 24 dicembre 1925, n. 2263, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, dispone: "Il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo. Il governo del re è costituito dal primo ministro segretario di stato e dai ministri segretarî di stato. Il primo ministro è capo del governo". La legge citata ha mutato fondamentalmente sia la forma del governo, sia la posizione del primo ministro. Secondo l'applicazione che fin dal 1848 si era sempre data agli articoli dello statuto relativi ai ministri (non vi si parlava né di ministero come ente collegiale, né del presidente del Consiglio), il governo aveva senz'altro assunto in Italia la forma tipicamente parlamentare perché il ministero, per quanto nominato dal re, era considerato quasi un comitato della maggioranza parlamentare e non poteva restare al potere se gli veniva meno la fiducia del parlamento. Il presidente del Consiglio aveva una posizione di preminenza sugli altri componenti del ministero, in quanto egli rappresentava il governo e ne manteneva l'unità d'indirizzo politico e amministrativo, e in genere aveva compiti di direzione e coordinamento, ma era anch'esso subordinato al parlamento. Per la citata legge del 1925 il capo del governo, presidente di diritto del Gran Consiglio del fascismo, è il solo responsabile dell'indirizzo generale politico del governo. Il capo del governo è responsabile direttamente e personalmente verso il re e i ministri lo sono verso il re e verso il capo del governo per tutti gli atti e provvedimenti dei loro ministeri (art. 2). Ogni responsabilità politica del capo del governo e dei ministri verso il parlamento è quindi venuta meno. La preminenza del governo sulle camere risulta pure da altre disposizioni della legge sul primo ministro, dirette a rafforzare la posizione del governo e a difenderlo contro l'abuso di discussioni o mezzi procedurali, come quella per cui nessun oggetto può ora essere posto all'ordine del giorno di una delle due camere, senza l'adesione del capo del governo.
Quanto alle attribuzioni del governo, la legge del 31 gennaio 1926 gli ha riconosciuto la facoltà di "emanare norme giuridiche aventi valore di legge, con decreto reale nei casi straordinarî, nei quali ragioni di urgente e assoluta necessità lo richiedano". Il primo ministro capo del governo in tale sua specifica qualità controfirma la propria nomina, propone al re la nomina e la revoca degli altri ministri e dei sottosegretarî di stato, dirige e sorveglia l'opera dei ministri, decide delle controversie che possano sorgere tra loro. Da lui dipendono direttamente alcuni organi o corpi amministrativi. È presidente del Consiglio nazionale delle corporazioni. Ad altre attribuzioni partecipano collegialmente tutti i membri del governo, che costituiscono così il Consiglio dei ministri, che è però sempre convocato e presieduto dal primo ministro: ad esso può essere chiamato ad assistere, con decreto reale, su proposta del capo del governo, il segretario del Partito nazionale fascista. Le materie di competenza del Consiglio dei ministri sono quelle relative ai disegni di legge, ai regolamenti generali, ai rapporti internazionali, alla nomina e revoca dei funzionarî più elevati, ecc. La presidenza del consiglio non ha un proprio ministero, ma ha un sottosegretario di stato e un gabinetto. Ogni ministro poi ha le sue competenze speciali, come capo di una parte dell'amministrazione, cioè di un ministero, il cui numero, costituzione e attribuzioni sono stabilite con decreto reale su proposta del primo ministro. Attualmente i ministeri sono tredici: Affari esteri, Interno, Colonie, Grazia e giustizia, Finanze, Guerra, Marina, Aeronautica, Educazione nazionale, Lavori pubblici, Agricoltura e foreste, Comunicazioni, Corporazioni. Di regola, ogni ministro ha la direzione di un solo ministero e, solo eccezionalmente e temporaneamente, di più d'uno di essi. Al primo ministro può invece essere affidata la direzione stabile di più ministeri. A fianco d'ogni ministro si hanno uno o più sottosegretarî di stato, che lo coadiuvano: essi non hanno attribuzioni proprie, ma solo quelle loro delegate dal ministro rispettivo.
Il Gran Consiglio del fascismo. - Accanto al governo del re e subito dopo di esso, ha preso posto, fra gli organi costituzionali dello stato italiano, il Gran Consiglio del fascismo che "coordina ed integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell'ottobre 1922" (art. 1 della legge 9 dicembre 1928, n. 2693, modificato da quella 14 dicembre 1929, n. 2099). Esso è organo di collegamento fra partito e stato, e dei diversi organi costituzionali statali fra loro. Il Gran Consiglio s'inserisce nel potere esecutivo, accanto al governo del re, sebbene abbia attribuzioni che interessano anche il potere legislativo, pur non facendone parte integrante. Grandissima è l'autorità del Gran Consiglio, che gli viene dal fatto di essere presieduto dal capo del governo e dal modo della sua formazione: esso rappresenta tipicamente la fusione del partito nello stato, ed è lo strumento maggiore per armonizzare i bisogni della nuova società nazionale, plasmata dal fascismo, con le istituzioni politiche: esso è il supremo organo consultivo politico della corona e del governo. Il Gran Consiglio del fascismo è presieduto dal capo del governo: suo segretario è il segretario del Partito nazionale fascista. Per la composizione del Gran Consiglio e altri particolari v. consiglio, XI, pp. 196-197.
Il parlamento. - Accanto alla Corona e agli altri organi costituzionali, l'ordinamento politico italiano ha posto il Senato e la Camera dei deputati: ha adottato, cioè, come la maggior parte degli stati moderni, il sistema bicamerale, perché le due camere possano equilibrarsi e integrare meglio la rappresentanza politica e, nello stesso tempo, perché l'opera legislativa sia più ponderata e perfetta. Ciò naturalmente importa che le due camere, che, nonostante siano designate spesso con la parola comprensiva "parlamento", sono organi separati, indipendenti l'uno dall'altro e non subordinati, siano formate in modo diverso. Rinviando per maggiori particolari alle voci rispettive (camera; senato), è bene chiarire qui questi punti: il Senato, di nomina regia, è rimasto immutato nella sua forma, nelle sue linee essenziali e nel suo funzionamento, quale fu creato dallo statuto; la Camera dei deputati, elettiva, ha invece subito una profonda trasformazione; la posizione costituzionale del parlamento poi, nei suoi rapporti con il governo, si è essenzialmente modificata, come si è detto parlando del governo.
Le camere sono organi dello stato, ma non sono persone giuridiche: sono organi essenzialmente legislativi, in quanto la loro competenza ordinaria è di cooperare alla funzione legislativa; hanno però anche funzioni di carattere amministrativo (specialmente per la propria organizzazione interna, ma anche in altre materie, ad esempio nell'emanare le leggi relative alla dotazione della Corona e agli appannaggi dei principi reali, alle mutazioni nelle circoscrizioni amministrative, all'approvazione dei bilanci, atti tutti che sono sostanzialmente atti amministrativi), e il Senato ha anche attribuzioni di carattere giudiziario. Godono d'autonomia per la quale hanno facoltà di determinare per mezzo di regolamenti interni il modo d'esercizio delle loro attribuzioni. Però tale autonomia ha limiti costituzionali: anzitutto nei poteri della Corona, che deve mantenere il coordinamento tra i varî organi dello stato e dalla quale solo dipende il determinare i periodi di effettivo lavoro parlamentare, cioè di aprire e chiudere le sessioni (che ormai, in pratica, coincidono con le legislature): quindi, tranne in caso di semplice aggiornamento dei lavori per determinate ricorrenze o per l'esaurimento dell'ordine del giorno, il funzionamento di entrambe le camere è subordinato alle disposizioni della Corona; inoltre i lavori delle due camere debbono compiersi entro la stessa sessione e ogni riunione di una camera fuori di questo periodo è illegale e gli atti ne sono interamente nulli. Con la chiusura della sessione o legislatura, la Corona determina il decadere di tutto il lavoro parlamentare che sia ancora pendente innanzi alle camere. Un limite di fatto è costituito, poi, dall'obbligo che le camere hanno, per assicurare la vita stessa dello stato, di approvare ogni anno i bilanci. Inoltre l'autonomia delle camere trova dei limiti nei poteri del capo del governo, come si è visto a suo luogo. L'autonomia quindi va intesa piuttosto nel senso dell'amministrazione e del reggimento interiore delle assemblee che non in quello costituzionale e politico.
La potestà legislativa, secondo l'art. 3 dello statuto, è esercitata collettivamente dal re e dalle due camere. Per l'art. 10, l'iniziativa delle leggi spetta al re, che la esercita per mezzo del governo, e a ciascuna camera, ed essa può esercitarsi da qualsiasi senatore o deputato. Vi sono a tale diritto d'iniziativa due limiti: per disegni e proposte di legge di carattere costituzionale occorre il preventivo parere del Gran Consiglio del fascismo, e, come si è detto, nessuna proposta di legge può essere messa all'ordine del giorno di una camera senza la preventiva adesione del capo del governo. Un disegno di legge può essere dal governo presentato indifferentemente all'una o all'altra camera, ma, per l'art. 10 dello statuto, le leggi che riguardano imposizione di tributi (e quindi anche emissioni di prestiti) e approvazioni di bilanci e di conti (v. bilancio) debbono essere prima presentati alla Camera dei deputati. Il re partecipa al potere legislativo anche e principalmente con la sanzione, cioè con l'approvazione del disegno di legge, la quale si verifica con la apposizione della firma del sovrano. Essa è un atto giuridicamente libero, in quanto il re potrebbe anche negarla. Divenuta perfetta la legge con la sanzione, il re, come organo supremo del potere esecutivo, provvede a promulgarla, a renderla cioè esecutiva e obbligatoria, ordinandone la pubblicazione, che è compiuta dal ministro della Giustizia. Nel promulgare le leggi costituzionali, è prescritta l'esplicita indicazione che il Gran Consiglio del fascismo ha espresso il suo parere.
Accanto alla funzione legislativa, le camere hanno anche quella che alcuni chiamano funzione ispettiva politica, per mezzo della quale esercitano un controllo sull'azione di governo; essa si estrinseca nelle interrogazioni verbali e scritte, nelle interpellanze, nelle mozioni e nel diritto d'inchiesta. Sembra però più consono ai rapporti attuali tra i poteri in Italia il ritenere tali istituti, piuttosto che estrinsecazione di una funzione ispettiva, mezzi che le camere hanno per ottenere notizie e comunicazioni. Una vera forma di controllo politico e finanziario in relazione con il bilancio è piuttosto quella che il parlamento esercita sulle registrazioni con riserva effettuate dalla Corte dei conti (v. corte, XI, p. 543 segg.).
Il Partito nazionale fascista. - In connessione con il Gran Consiglio del fascismo, va rilevata la posizione che nel diritto pubblico italiano è andato assumendo il Partito nazionale fascista. Prima della rivoluzione del 1922, esso rappresentava un'organizzazione politica fuori dello stato, che mirava a conquistare il governo dello stato per attuarvi il proprio programma. Ma, assunto il fascismo al potere, il partito si è inserito nello stato è entrato a far parte dell'organizzazione statale come forza propulsiva delle fondamentali manifestazioni della vita nazionale. Esso oramai, conservando il nome di partito, si è trasformato in un'istituzione sussidiaria dello stato, a questo subordinata: cioè, come è stato qualificato, in un "ausiliario dello stato".
Di questo riconoscimento giuridico del partito molte sono le prove. Lo statuto del partito è approvato con decreto reale (lo statuto vigente è stato approvato con r. decreto 17 novembre 1932, n. 1456); il segretario del partito è nominato per decreto reale e i membri del direttorio con decreto del capo del govemo; il segretario del partito può essere chiamato a partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri; è, fra l'altro, membro di diritto della Commissione suprema di difesa, del Consiglio superiore dell'educazione nazionale, del Consiglio nazionale delle corporazioni e del Comitato centrale corporativo; egli, e i suoi vice-segretarî, fanno parte del Gran Consiglio. Egli ne è il segretario; designa alcuni membri della giunta provinciale amministrativa e di altri enti pubblici; nelle precedenze a corte sono assegnati posti di rango a cariche del partito; a tutti gli enti, associazioni e istituti promossi dal partito può essere riconosciuta la capacità giuridica, che, fra l'altro, è stata riconosciuta alla direzione del partito; il fascio littorio è considerato, a tutti gli effetti, emblema dello stato ed è stato incluso nello stemma dello stato.
Ecco dunque che, se il partito nel suo complesso non può considerarsi persona giuridica, né pubblica, né privata, né organo vero e proprio dello stato, è indubbiamente un'istituzione pubblica riconosciuta dallo stato e integrativa dell'azione di questo.
Potere giudiziario. - Quanto al potere giudiziario, rinviando alla voce giudiziario, ordinamento, basterà qui n0tare che l'art. 68 dello statuto dispone che "la giustizia emana dal re ed è esercitata in suo nome dai giudici che egli istituisce". Però ciò va inteso solo nel senso formale: in sostanza i giudici esercitano le loro funzioni indipendentemente da ogni delegazione regia: il potere giudicante è un potere costituzionale, che trae la sua origine direttamente dalla legge. Non solo per lo statuto, ma anche, per la legge citata 31 gennaio 1926, n. 100, solo la legge può disciplinare l'ordinamento giudiziario e la competenza dei giudici. Per quel che riguarda i rapporti fra i varî poteri, nel nostro diritto il magistrato non può sindacare la costituzionalità delle leggi e dei decreti legislativi o dei decreti legge: può invece esaminare la legalità dei regolamenti. Il potere governativo non può turbare l'ordine costituzionale delle giurisdizioni, né dare ordini ai giudici sul modo come risolvere le questioni loro sottoposte. Alla funzione giurisdizionale il re partecipa direttamente, con il potere di grazia spettantegli (v. estinzione: Diritto penale) non come organo del potere giudiziario, ma come organo costituzionale del governo: si tratta cioè di un potere politico.
Ordinamento corporativo. - La nuova concezione dello statonazione, la concezione corporativa, ha il suo documento nella Carta del lavoro (v. carta, IX, pag. 206 segg.), atto fondamentale del regime riconosciuta dal parlamento quale norma di diritto pubblico. La sua proposizione prima, dice: "La nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui, divisi o raggruppati, che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello stato fascisia". La Carta del lavoro, pur riferendosi precipuamente ai rapporti del lavoro, proclama i seguenti principî fondamentali dello stato fascista sotto l'aspetto economico e sociale: gl'interessi e le attività individuali sono subordinate all'interesse della nazione organizzata a stato; il lavoro è elevato a dovere sociale, a funzione civica; l'organizzazione sindacale o professionale è libera, ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e controllato dallo stato ha il diritto di rappresentare legalmente la sua categoria; la solidarietà fra i varî fattori della produzione si concreta nel contratto collettivo di lavoro; le corporazioni costituiscono l'organizzazione unitaria delle forze produttive; lo stato corporativo considera l'iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace ed utile all'interesse della nazione: ma essendo l'organizzazione privata della produzione una funzione d'interesse nazionale, l'organizzatore è responsabile di fronte allo stato: l'intervento dello stato nella produzione ha luogo solo quando manchi o sia insufficiente l'iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello stato. Questi concetti sono a base di quello che si chiama, con espressione sintetica ormai molto diffusa, lo stato corporativo, non nel senso che tutti i cittadini solo in tanto partecipino alla vita pubblica in quanto siano membri di corporazioni o nel senso che tutti i poteri pubblici si esplichino attraverso le corporazioni, ma nel senso che lo stato ha accolto come principio fondamentale d'organizzazione sociale il riconoscimento anche come istituzioni pubbliche delle categorie economiche e la loro partecipazione alla vita politica e amministrativa dello stato, ordinando su basi sindacali nazionali i rapporti di lavoro sotto il proprio controllo. Inoltre lo stato nell'esplicazione della propria funzione sociale ritiene di dovere esercitare il controllo della direzione della industria nazionale: e tipica importantissima e profondamente originale manifestazione di questo suo diritto è la nuova legge 12 gennaio 1933, n. 141, che ha delegato al governo i poteri per sottoporre ad autorizzazione i nuovi impianti industriali. E tale è l'importanza riconosciuta nel nuovo diritto pubblico italiano all'ordinamento sindacale e corporativo, che esso è dichiarato espressamente nella legge sul Gran Consiglio materia costituzionale (v. corporazione, XI, pp. 463-465).
Al vertice dell'ordinamento corporativo è il Consiglio nazionale delle corporazioni, il quale è alle dirette dipendenze del capo del governo, che lo presiede di diritto, come presiede del pari tutti gli organi del consiglio, ma che può delegarne la presidenza al ministro delle Corporazioni. Esso fu istituito con regio decreto 2 luglio 1926, n. 1131, come organo di pura consultazione interna presso il Ministero delle corporazioni, ma è stato radicalmente riformato nella composizione, nelle attribuzioni e nel funzionamento dalla legge costituzionale 20 marzo 1930, n. 206, e dal decreto reale 12 maggio 1930, n. 908. A quanto è detto nel citato articolo corporazione occorre aggiungere che, per l'art. 32 del decreto 12 maggio 1930, n. 908, in merito al potere normativo del consiglio è stato stabilito non potere il consiglio emanare norme su materie già disciplinate da leggi o regolamenti. Vivissima è la disputa tra i giuristi sulla natura giuridica del Consiglio nazionale delle corporazioni, specialmente sul quesito se sia o meno organo costituzionale, o puramente amministrativo, e quali siano i suoi rapporti col parlamento e col governo. Quello che si può sicuramente affermare è questo: il Consiglio nazionale delle corporazioni ha preso posto nell'ordinamento politico italiano, quale organo statale di diritto pubblico, con funzioni non solo consultive ma anche creative di norme giuridiche e con funzioni di coordinamento e di controllo su tutto l'ordinamento corporativo, alle dirette dipendenze del capo del governo che gli dà impulso e ne presiede l'attività: esso non rappresenta quindi una terza camera legislativa, né si sostituisce in modo alcuno al parlamento, poiché la sua facoltà regolamentare è subordinata alle leggi e perfino agli altri regolamenti statali, che non può modificare. Esso è una creazione originale, che non può essere paragonata agli altri consigli economici istituiti presso parecchi stati, essendo assai più ampie le sue facoltà e diversi i principî su cui si basa.
Amministrazioni locali. - Il quadro delle istituzioni che possiamo chiamare di governo si completa con l'ordinamento delle amministrazioni locali, considerato sotto i due punti di vista dell'amministrazione governativa e di quella degli enti autarchici territoriali. Si tratta, è vero, di istituti rientranti nell'organizzazione amministrativa, ma che hanno un contenuto politico di grandissimo rilievo, in quanto gl'interessi generali dello stato nell'organizzazione amministrativa vengono perseguiti non solo al centro della vita statale, ma in tutto il territorio. Lo stato è diviso in circoscrizioni territoriali, le provincie e i comuni. Nelle provincie l'organo più elevato che rappresenta il governo, è il prefetto, il quale, alle dirette dipendenze del ministro dell'Interno, assicura l'unità d'indirizzo politico nello svolgimento dei diversi servizî spettanti allo stato e agli enti locali, e coordina l'azione di tutti i pubblici uffici, amministrativi, corporativi, finanziarî, ecc. La legge 3 aprile 1926, n. 660, per l'estensione delle attribuzioni dei prefetti, ha avuto importanza fondamentale, attuando il principio organico dell'unità etica e politica dello stato, anche nelle provincie, in conformità dell'ordinamento statale del fascismo. Tuttavia il coordinamento politico affidato ai prefetti non implica invasione delle singole sfere di competenza tecnica dei varî rappresentanti delle altre amministrazioni dello stato nella provincia. Accanto al prefetto e da lui presieduti, sono, come organi consultivi o di controllo, il Consiglio di prefettura, il Consiglio provinciale di sanità, la Giunta provinciale amministrativa e il Consiglio provinciale dell'economia corporativa, istituito, in sostituzione delle antiche camere di commercio, dalla legge 18 aprile 1926, n. 731, e meglio coordinato all'ordinamento corporativo dello stato dalla legge 18 giugno 1931, n. 875. Esso, composto principalmente di rappresentanti sindacali, è l'organo unico che nella provincia rappresenta, armonizza e coordina gl'interessi economici e le forze sociali rivolte all'incremento dell'economia corporativa, dell'attività assistenziale e del progresso sociale, e che al tempo stesso esplica opera di consulenza nelle materie relative all'economia pubblica e al lavoro.
Organo statale nell'amministrazione locale è poi, nell'ambito del comune, il podestà, quale ufficiale del governo. Quanto all'amministrazione degli enti autarchici territoriali, comuni e provincie, essa nell'ordinamento politico vigente in Italia, si basa sugli stessi principî che reggono l'ordinamento statale: abolizione dell'elettorato e accentramento dei poteri nelle mani di autorità di nomina regia che siano al disopra delle passioni e degl'interessi di parte. Questo concetto è alla base della riforma degli ordinamenti comunali e provinciali. La riforma (v. comune; consulta; podestà; per il governatorato di Roma, v. roma), attuata con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, e coi decreti-legge 9 maggio 1926, n. 818, e 3 settembre 1926, n. 1910, ha mirato anche a combattere le difficili condizioni in cui versano specialmente i piccoli comuni, anche per la loro incapacità a darsi amministratori adatti. La riforma dell'amministrazione provinciale, effettuata con la legge 27 dicembre 1928, n. 2962, ha sostituito alla deputazione provinciale e al suo presidente, tutti sorgenti da elezione, un preside e un rettorato tutti di nomina regia (v. preside; provincia; rettorato).
L'ordinamento politico vigente in Italia, frutto di un'evoluzione d'istituti costituzionali accelerata dalla guerra e dal nuovo sviluppo, con l'avvento del fascismo al potere, dei rapporti politici e sociali, può riassumersi così: l'Italia è uno stato monarchico rappresentativo, con forma di governo costituzionale avente caratteristiche sue proprie, cioè governo fascista, con parlamento bicamerale, ma con la camera dei deputati che richiama le sue origini prevalentemente da organizzazioni corporative. La nazione è concepita come un blocco avente unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello stato fascista; quindi l'autorità statale è stata potentemente rafforzata: il potere esecutivo o, meglio, di governo ha una funzione preminente ed è, con la collaborazione del Gran Consiglio del fascismo, l'espressione delle forze nazionali organizzate nel partito fascista.
Bibl.: Oltre i Discorsi di B. Mussolini, cfr.: Commissione presidenziale per lo studio delle riforme costituzionali, presieduta da G. Gentile, Relazioni e proposte, Roma 1925 (2ª ed., Firenze 1932); C. Costamagna, Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, Firenze 1929; O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico: Il nuovo diritto pubblico italiano, 2ª ed., Padova 1931; A. Ferracciu, Norme e riforme costituzionali in Italia, in Studi di diritto pubblico in onore di O. Ranelletti, I, Padova 1931; L. Raggi, Ordinamento corporativo e stato italiano, in Studi di diritto pubblico in onore di O. Ranelletti, II, Padova 1931; G. Bortolotto, Lo stato e la dottrina corporativa, 2ª ed., Bologna 1931; S. Panunzio, Leggi costituzionali del regime. Relazione al I Congresso giuridico italiano, 1932; P. Chimienti, Manuale di diritto costituzionale fascista, Torino 1933; R. Purpura, Il Consiglio nazionale delle corporazioni, Bologna 1932; S. Romano, Corso di diritto costituzionale, 3ª ed., Padova 1932; Partito nazionale fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma 1933.
Forze armate.
Esercito. - Cenno storico. - Sino dall'inizio dell'unificazione d'Italia e poi, sempre più, col procedere e col completarsi di essa, si manifestò la necessità di costituire un forte esercito "italiano". Erano disponibili per tale costituzione elementi numerosi, ma disparati e di varia efficienza; esisteva peraltro un nucleo saldo, fidato, ottimo, attorno al quale era possibile raggruppare gli altri elementi: l'esercito sardo, il quale possedeva tradizioni, ordini moderni, sistemi amministrativi sani, devozione provata alla causa italiana. Fu perciò adottato il sistema di fondere successivamente nell'esercito sardo le forze armate dei singoli stati o parti di stato che divenivano provincie del nuovo regno: contingenti cioè lombardo, toscano, emiliano, borbonico, ai quali si aggiunsero gli elementi garibaldini.
Il nucleo sardo era stato completamente riorganizzato tra il 1849 ed il 1859. Alla vigilia della campagna del 1859, il reclutamento era nazionale, tranne per la brigata Savoia. Le ferme erano due: una d'ordinanza per alcune categorie di militari di carriera, della durata di 8 anni, da passare interamente sotto le armi; una provinciale, per tutti gli altri (due categorie, determinate dall'estrazione a sorte: 1ª categoria, 5 anni alle armi e 6 in congedo illimitato, 2ª categoria, 5 anni a disposizione e istruzione di 6 settimane). L'esercito comprendeva: 91 battaglioni di fanteria, 9 reggimenti di cavalleria, 3 reggimenti d'artiglieria, 1 reggimento del genio. Lo stato era diviso in 5 divisioni territoriali (Torino, Alessandria, Liguria, Savoia, Sardegna) e 2 sottodivisioni (Novara e Nizza). Le due campagne del 1848 e 1849 avevano permesso una larga selezione di ufficiali generali e superiori, la quale, nel complesso, aveva dato buoni risultati; gli ufficiali provenivano, per due terzi, dall'Accademia militare di Torino, per il rimanente terzo dai sottufficiali; la loro carriera era ben regolata da apposite leggi. Nella campagna del 1859 l'esercito era stato costituito su 5 divisioni; all'esercito regolare si erano aggiunti molti volontarî, parte dei quali era stata incorporata nei reggimenti sardi e parte aveva formato 4 reggimenti cacciatori; con disertori e volontarî ungheresi si era formata 1 legione ungherese.
Il contingente lombardo (in parte volontario, in parte proveniente dall'esercito austriaco) fu il primo che venne ad accrescere l'esercito sardo subito dopo la campagna del 1859. Era prevalentemente costituito da elementi disciplinati e accuratamente istruiti, ma scarsamente provvisto di ufficiali. La sua ammissione consentì la nuova formazione di 6 brigate di fanteria, 6 battaglioni bersaglieri, 3 reggimenti di cavalleria, 12 batterie da campagna. Alla fine del 1859 l'esercito italiano fu così portato ad 8 divisioni.
L'esercito toscano era stato riordinato sul tipo austriaco nel 1853, quanto a reclutamento, a sistemi disciplinari e amministrativi e persino alla foggia dell'uniforme. Doveva formare, in caso di guerra contro il Piemonte, l'ala sinistra dell'esercito austriaco. La ferma era di 8 anni; il rimpiazzo era obbligatorio per gli acattolici. Comprendeva: 1 battaglione veliti (guardie), 1 battaglione cacciatori, 10 battaglioni fanteria di linea; 2 squadroni cacciatori a cavallo; 2 batterie da campagna; 1 compagnia artiglieria da piazza; 5 compagnie cannonieri guardacoste (doganieri). Per l'eventualità di guerra era previsto uno sdoppiamento delle unità (ciò che in parte avvenne durante la campagna del 1859). Dopo la campagna del 1859 il colonnello Raffaele Cadorna, piemontese, divenuto ministro della Guerra in Toscana, ebbe l'incarico di preparare la fusione dell'esercito toscano con quello dell'Italia settentrionale. Egli organizzò le truppe toscane in 4 brigate di fanteria, 2 battaglioni bersaglieri, 2 reggimenti di cavalleria, 1 reggimento artiglieria da campagna, 6 compagnie artiglieria da piazza. Le maggiori deficienze qualitative esistevano nei quadri degli ufficiali, i quali erano molto giovani anche nei gradi più elevati, in conseguenza di promozioni affrettate, più che per riconoscimento di speciali benemerenze. Immessi nell'esercito nazionale, essi costituirono perciò un elemento poco omogeneo.
Le truppe modenesi, dopo la campagna del 1859, avevano seguito il loro duca a Mantova. L'esercito emiliano fu perciò costituito con le sole truppe parmensi (1 reggimento di fanteria, 2 squadroni di cavalleria, 1 compagnia d'artiglieria), oltreché con reparti pontifici che avevano aderito alla rivoluzione di Romagna e con corpi di volontarî di varie regioni. Di tale costituzione fu incaricato il generale dell'esercito sardo Manfredo Fanti, modenese, il quale formò 7 brigate di fanteria, 9 battaglioni bersaglieri, 2 reggimenti di cavalleria, 9 batterie artiglieria da campagna, 9 compagnie artiglieria da piazza. L'ufficialità emiliana era di piovenienza diversissima; focosa, dotata di buone attitudini militari, ma non molto malleabile. Così riordinati i due eserciti centrali, la fusione tra gli stessi e l'esercito sardo fu operata dal generale Fanti, che fuse i primi nel secondo, formando, in complesso, 13 divisioni omogenee, raggruppate in 5 corpi d'armata.
L'esercito borbonico, durante la campagna del 1860, comprendeva: fanteria, 18 reggimenti, più 19 battaglioni; cavalleria, 9 reggimenti; artiglieria, 2 reggimenti a piedi, 1 battaglione operai e pontieri, 1 batteria a cavallo; genio, 2 battaglioni; guardie del corpo; fanteria marina; compagnie provinciali di veterani; numerosa gendarmeria. L'esercito era reclutato con la coscrizione sul continente, con arruolamenti volontarî in Sicilia. L'obbligo di servizio era di 10 anni, dei quali 5 di ferma; ma, in pratica, il governo, valendosi di una propria facoltà, teneva i soldati 8 anni alle armi, indi li congedava definitivamente. Gli ufficiali provenivano, in massima parte, dai sottuffciali; pochi - e questi erano ottimi - delle armi d'artiglieria e del genio, uscivano dal collegio militare della Nunziatella; il sovrano aveva inoltre facoltà di conferire il grado di ufficiale a guardie del corpo e paggi. Dopo la campagna del 1860 l'esercito borbonico, in parte accettò il nuovo stato di fatto, in parte si rifugiò in territorio pontificio; la rimanente parte capitolò all'atto dell'annessione. Tutte le classi; meno le 4 più giovani, vennero congedate. Degli ufficiali, i più preferirono ritirarsi, i rimanenti furono ammessi nell'esercito nazionale col grado che coprivano nell'esercito borbonico prima del settembre 1860.
L'esercito garibaldino, dopo la campagna del 1860, comprendeva, nominalmente, 7000 ufficiali e una forza a ruolo di circa 50.000 uomini; forza però soltanto nominale e, in realtà, inferiore. Dopo qualche tentennamento, l'esercito garibaldino fu sciolto. Alla truppa fu fatta facoltà di scegliere tra l'invio in congedo con 6 mesi di paga e la ferma di 2 anni in un corpo speciale di volontarî. I più chiesero di essere congedati; i corpi speciali di volontarî ebbero un'esistenza effimera. Degli ufficiali, circa 1500 furono ammessi nell'esercito nazionale, previo giudizio di una commissione mista di generali e volontarî. Dal concorso dei contingenti borbonici e garibaldini derivò all'esercito italiano un nuovo aumento di 3 divisioni e di 1 corpo d'armata.
Il rapido processo di questa fusione non fu scevro d'inconvenienti: specie il corpo degli ufficiali fu e rimase a lungo eterogeneo. Comunque, l'aver formato in breve un forte esercito atto a entrare in campagna, fu opera notevole, della cui riuscita va fatto onore alla solidità del nucleo fondamentale sardo e al patriottismo degl'Italiani.
Evoluzione organica sino alla guerra mondiale. - Nella campagna del 1866 l'esercito raggiunse una notevole forza (20 divisioni di fanteria, riunite in 4 corpi d'armata, 1 divisione di cavalleria). Dal 1866 al 1870 difficili condizioni finanziarie indussero a ridurre al minimo le spese per l'esercito, lasciandone in sospeso le necessarie riforme. Dal 1870 all'agosto 1914 l'esercito venne profondamente trasformato e accresciuto con successivi ordinamenti, principali quelli Ricotti 1872-1873; Mezzacapo 1877; Ferrero 1882-83; Bertolè-Viale 1887, Mocenni 1894; Pelloux 1897; Ottolenghi 1902; Spingardi 1909-1910. Dall'agosto 1914 al maggio 1915 si provvide a un' intensiva preparazione, colmando le principali lacune ancora esistenti rispetto all'ordinamento Spingardi e attuando successivi provvedimenti di mobilitazione occulta. L'esercito italiano entrò così in campagna forte di circa 23.000 ufficiali e 852.000 uomini nella composizione indicata sotto guerra mondiale, XVIII, p. 144. Durante la guerra furono complessivamente mobilitati: nell'esercito operante circa 4.200.000 uomini; nel territorio circa 840.000, per le industrie circa 860.000; in totale, circa 5.900.000 uomini.
Evoluzione organica dopo la guerra mondiale. - In attesa della definitiva sistemazione dell'esercito, veniva approvato, nel novembre 1919, un ordinamento provvisorio (Albricci) ispirato al concetto di effettuare le trasformazioni suggerite dall'esperienza bellica e tutte le riduzioni possibili in quel momento, ripartendo l'esercito in un numero di grandi unità territoriali alquanto superiore a quello prebellico (15 corpi d'armata, 30 divisioni di fanteria e 2 di cavalleria); forza bilanciata 210.000 uomini (inferiore a quella dell'anteguerra). Ulteriori riduzioni vennero attuate nell'aprile 1920 con un nuovo "ordinamento provvisorio" (Bonomi), inteso a ricondurre l'esercito a proporzioni e a forme pressoché eguali a quelle del periodo prebellico (10 corpi d'armata, 27 divisioni di fanteria, 3 divisioni alpine, 1 divisione di cavalleria; forza bilanciata 175.000 uomini). Seguì l'ordinamento 1923 (Diaz), inteso a dare all'esercito un assetto definitivo e una salda intelaiatura. Con questo ordinamento le grandi unità territoriali venivano di poco variate (10 corpi d'armata, 30 divisioni di fanteria), ma ispettorati, comandi, truppe e servizî subivano notevoli modificazioni nel numero e nella composizione organica, in relazione soprattutto alle prevedibili esigenze della mobilitazione. Nel 1926, essendo titolare del Ministero della guerra Benito Mussolini, veniva approvato un completo progetto di ordinamento (legge n. 396 dell'11 marzo) che, non sostanzialmente variato, è attualmente in vigore.
Organizzazione 1930. - Comandante supremo è il re che delega, in pace, il comando dell'esercito al ministro della Guerra. Il ministro della Guerra è membro del governo e suprema autorità gerarchica dell'esercito. Egli ha alle sue dipendenze il sottosegretario di stato alla Guerra, al quale conferisce le attribuzioni che ritiene opportune. Per l'esercizio dei suoi alti compiti, il ministro della Guerra si serve del Ministero della guerra, complesso organo centrale, composto di: 1 gabinetto del ministro, 1 ufficio coordinamento, 1 ufficio dei generali, 11 servizî (direzioni generali, ispettorati, ecc.).
Alto consulente tecnico del ministro della Guerra è il capo di Stato maggiore dell'esercito, che, alle dipendenze del ministro stesso, dirige gli studî e le predisposizioni per la preparazione alla guerra. Egli è a capo del comando del corpo di Stato maggiore, composto di varî uffici, presso il quale è coadiuvato dal comandante in 2ª del corpo di Stato maggiore e da un generale addetto. Quale organo consultivo, ai fini delle più importanti questioni relative all'organizzazione, al funzionamento, alla mobilitazione dell'esercito e alla difesa nazionale, il ministro della Guerra dispone del Consiglio dell'esercito. Dipendono infine direttamente dal ministro della Guerra e, per suo incarico, ricevono direttive dal capo di Stato maggiore dell'esercito, gl'ispettori d'arma (delle truppe celeri, delle truppe alpine, dell'artiglieria, del genio), i quali sovraintendono all'istruzione, agli studî, alle esperienze relative all'arma o alle specialità rispettive; i comandanti designati d'armata che eseguono gli studî e dirigono le predisposizioni per l'organizzazione della zona di territorio loro assegnata e per la preparazione alla guerra di un'armata.
Ordinamento. - L'esercito comprende: una parte metropolitana e una parte coloniale. La prima è alle dipendenze del Ministero della guerra, che provvede alla spesa relativa; la seconda è alle dipendenze, per l'impiego, del Ministero delle colonie, che vi provvede col proprio bilancio. L'ordinamento della parte metropolitana è stabilito dalla legge 11 marzo 1926, n. 396 e successive aggiunte e varianti; l'ordinamento della parte coloniale è mutevole a seconda delle esigenze delle singole colonie.
La forza bilanciata in cifre arrotondate, per la parte metropolitana, è la seguente (esclusi i carabinieri reali): ufficiali in servizio permanente effettivo 15.000; sottotenenti di complemento di prima nomina 3000; sottufficiali 13.500; truppa 220.000, di cui 162.000 a ferma ordinaria e 78.000 a ferma riducibile. Per i carabinieri la forza bilanciata è di ufficiali 1100, sottufficiali e truppa 50.000. Il bilancio del Ministero della guerra 1930-31 prevede spese effettive per 2853 milioni di lire (2652 per la parte ordinaria e 201 per la parte straordinaria), di cui 455 milioni per i carabinieri reali.
Il personale militare dell'esercito è costituito di ufficiali, sottufficiali, truppa, la cui gradazione gerarchica è la seguente:
Generali: Maresciallo d'Italia (grado conferito esclusivamente per azioni di guerra). Generale d'armata (grado conferito esclusivamente in guerra o in caso di mobilitazione parziale o totale). Generale di corpo d'armata comandante designato d'armata. Generale di corpo d'armata. Generale di divisione, tenente generale d'artiglieria, del genio, medico, commissario, del servizio tecnico automobilistico. Generale di brigata; maggior generale d'artiglieria, del genio, medico, commissario del servizio tecnico automobilistico.
Superiori: Colonnello. Tenente colonnello. Maggiore.
Inferiori: Capitano. Tenente. Sottotenente; sottotenente maestro direttore di banda; sottotenente maestro di scherma. Aspirante (grado conferito durante la guerra mondiale e mantenuto per alcune categorie di militari che non hanno potuto conseguire la nomina a sottotenente).
Aiutante di battaglia (grado conferibile per merito di guerra a sottufficiali e militari di truppa delle armi combattenti). Maresciallo maggiore; maresciallo d'alloggio maggiore dei carabinieri reali. Maresciallo capo; maresciallo d'alloggio capo dei carabinieri reali. Maresciallo ordinario; maresciallo d'alloggio ordinario dei carabinieri reali. Sergente maggiore; brigadiere dei carabinieri reali. Sergente; vice-brigadiere dei carabinieri reali.
Caporale maggiore; appuntato dei carabinieri reali. Caporale; carabiniere. Appuntato; soldato; allievo carabiniere.
La parte metropolitana dell'esercito consta dei seguenti elementi:
1. Corpo di Stato maggiore: è costituito degli ufficiali di Stato maggiore (350 dei varî gradi, da colonnello a capitano). 2. Arma dei carabinieri reali (v. carabiniere). 3. Scuole militari: preparatorie (2 collegi militari); di reclutamento per ufficiali (R. Accademia di fanteria e cavalleria; R. Accademia d'artiglieria e genio; 10 scuole allievi ufficiali di complemento); di reclutamento per sottufficiali (3 scuole allievi sottufficiali); di applicazione (scuola d'applicazione di fanteria, scuola d'applicazione di cavalleria, scuola d'applicazione di artiglieria e genio, scuola d'applicazione di sanità militare); di perfezionamento (scuola centrale di fanteria, scuola centrale d'artiglieria, scuola centrale del genio, scuola centrale di educazione fisica, scuola di guerra). 4. Armi di fanteria, di cavalleria, d'artiglieria, del genio, carri armati. 5. Servizio chimico militare, retto da un generale con organi di studio e di esperienza. 6. Distretti militari (105, più una sezione di distretto), i quali provvedono essenzialmente alla chiamata e all'assegnazione ai corpi delle reclute, a tenere a ruolo la forza in congedo (ufficiali inferiori, sottufficiali e truppa). 7. Corpo sanitario militare: consta di ufficiali medici (866) e chimici farmacisti (117) e provvede, col concorso delle truppe di sanità, al servizio sanitario (v. sanità militare). 8. Corpo di commissariato militare: comprende ufficiali commissarî (262) e di sussistenza (152), e provvede, col concorso delle compagnie di sussistenza, al servizio di commissariato (v. commissariato militare). 9. Corpo di amministrazione militare: è formato da ufficiali di amministrazione (939) e provvede al servizio amministrativo. 10. Corpo veterinario militare: consta di ufficiali veterinarî (176); provvede al servizio veterinario. 11. Servizio automobilistico militare (v. carreggio). 12. Istituto geografico militare, il quale provvede, essenzialmente, al servizio cartografico per le forze amiate dello stato (v. firenze: Istituti di cultura). 13. Tribunale supremo militare e tribunali militari (v. tribunale militare). 14. Reparti di correzione e stabilimenti militari di pena: hanno lo scopo di educare e riabilitare gl'individui in essi incorporati e comprendono 1 comando, 2 compagnie di disciplina, 12 carceri militari preventive, 3 reclusorî militari, 3 carceri militari.
L'esercito è ordinato in: 1 comando del corpo di Stato maggiore, retto dal capo di Stato maggiore dell'esercito; 4 comandi, designati d'armata; 11 corpi d'armata territoriali; truppe della Sicilia; truppe della Sardegna; 29 divisioni militari territoriali; 2 divisioni celeri. Presso i comandi di divisione militare territoriale e delle truppe della Sardegna sono istituiti 30 ispettorati di mobilitazione. Le grandi unità territoriali comprendono: 1 comando, truppe e servizî in misura variabile.
Per la parte coloniale v. colonia: Le truppe coloniali.
Reclutamento. - Si basa sul principio fondamentale dell'obbligo generale e personale di servizio militare. In applicazione di tale principio, ai cittadini sono fatti i seguenti obblighi militari: a tutti l'obbligo di leva; ai cittadini arruolati e chiamati: obblighi di servizio militare, ch'essi adempiono alle armi e in congedo illimitato. Le operazioni di leva avvengono tra l'anno in cui il giovane compie il 18° anno e quello in cui egli compie il 20° anno.
Le fasi di adempimento dell'obbligo di servizio militare sono le seguenti: anno in cui il giovane compie il 21° anno e successivi: prestazione del servizio alle armi; dal termine del servizio alle armi al 31 dicembre dell'anno in cui il militare compie il 55° anno d'età congedo illimitato, durante il quale è assunto in forza e tenuto a ruolo dal distretto militare di residenza stabile. In tale periodo esso ha l'obbligo di tenere costantemente al corrente l'autorità militare circa la sua residenza, di rispondere a chiamate di controllo, nonché a richiami alle armi per istruzioni o per altre eventuali esigenze. Dopo il compimento del 55° anno di età, i militari sono collocati in congedo assoluto, e vengono prosciolti da ogni obbligo militare.
Il principio dell'obbligo generale e personale non è applicato in modo rigidamente assoluto; ciò nell'interesse dell'esercito, della società, della famiglia, del bilancio. Il testo unico delle leggi sul reclutamento prevede: esclusione degl'indegni (condannati all'ergastolo e alla reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici); esenzioni per inabilità fisica e intellettuale; dispense provvisorie e definitive, a vantaggio degli arruolati residenti all'estero e nelle colonie, di ministri della religione cattolica di individui limitatamente idonei al servizio militare, ecc., temperamenti, consistenti in: riduzioni (ferme più brevi di quelle ordinarie, congedamenti anticipati), rinvii a chiamate successive, ritardi sino al compimento del 26° anno (studenti in determinate condizioni).
La ferma è di due specie: di leva, quando il cittadino è chiamato alle armi d'autorità; speciale quando il cittadino si sottopone al servizio per propria elezione. Le ferme di leva sono: la ferma ordinaria, di mesi 18; la ferma riducibile, non inferiore a 6 mesi; la ferma minima di 3 mesi. La legge di reclutamento dispone tassativamente quali iscritti di leva debbono essere ascritti alle singole ferme predette. Le ferme speciali sono di durata varia, da mesi 6 a 3 anni, per categorie di volontari determinate dalla legge.
Provvedono alla chiamata i distretti militari, mediante invio di cartoline-precetto alle singole reclute e pubblicazione di apposito manifesto. Le reclute dichiarate fisicamente idonee dai consigli di leva, si presentano ai distretti militari che le sottopongono a una nuova visita medica, le assegnano (in base a "tabelle numeriche di assegnazione" compilate dal Ministero della guerra) definitivamente ai corpi presso i quali debbono prestare servizio e le avviano ai corpi stessi. Presso i corpi le reclute subiscono un'ultima visita medica e, se incondizionatamente riconosciute idonee, vengono incorporate.
Il reclutamento dei militari per la "parte coloniale" dell'esercito avviene come segue:
a) Militari nazionali. Sono tratti dalla parte metropolitana e posti a disposizione del Ministero delle colonie; possono essere destinati in colonia a domanda o d'autorità. L'ufficiale comunque destinato in colonia deve permanervi per almeno due anni (4 anni se destinato a domanda in Eritrea e Somalia) e per non più di sei anni successivi. Il sottufficiale, se destinato di autorità, deve rimanere in colonia sino al compimento degli obblighi di servizio in corso; se destinato a domanda, non meno di due anni; egli può far parte dei corpi coloniali sino al compimento del 41° anno d'età, se di grado inferiore a quello di maresciallo ordinario, senza limiti di età, se maresciallo dei varî gradi. Il militare di truppa, se destinato d'autorità, compie in colonia la fermaa alla quale è vincolato, se a domanda, contrae la ferma coloniale di anni due e può poi raffermarsi fino al 35° anno di età.
b) Militari di colore. Il reclutamento è esclusivamente volontario. La ferma è annuale in Eritrea e Somalia, biennale in Tripolitania e Cirenaica. Al termine della ferma gl'indigeni possono raffermarsi (rafferme annuali o biennali) rimanendo in servizio sino a quando siano giudicati moralmente e fisicamente idonei al servizio stesso. Le loro famiglie sono alloggiate a carico dell'amministrazione militare e normalmente possono seguire i capi famiglia in occasione di trasferimenti. Nel R. Corpo truppe coloniali dell'Eritrea e in quello della Somalia esistono militari di colore indigeni, o reclutati nelle regioni finitime; nei R. Corpi della Libia esistono, oltre militari indigeni, unità composte di Eritrei appositamente reclutati in Eritrea e regioni finitime per conto delle colonie libiche stesse.
Marina militare. - Alla costituzione del regno d'Italia esistevano due marine da guerra nazionali: la napoletana e la sarda.
La prima, fondata da Carlo III, sviluppata da Ferdinando IV (ammiraglio J. F. E. Acton), era andata grandemente decadendo nel sec. XIX, specie sotto Ferdinando II. Essa nel 1860 aderì alla causa italiana. La marina piemontese, chiamata poi sarda, fondata da Emanuele Filiberto e decaduta col volgere degli anni, riprese vigore quando agli stati sabaudi venne aggiunta la Sardegna, ma la sua vera organizzazione avvenne dopo il ritorno di Vittorio Emanuele I a Torino. Essa era stata aumentata gradualmente durante il regno di Carlo Felice e aveva partecipato con onore alla guerra del 1848-49. Dopo Novara, Cavour sentì l'importanza di una forte marina da guerra e vi dedicò assidue cure: creò la base navale de La Spezia, fece costruire navi, diede nuovo spirito a ufficiali ed equipaggi.
Nel 1861, con la fusione delle marine sarda e napoletana, nacque la marina italiana, la cui funzione si dimostrava fondamentale nell'esistenza della nazione, che possiede oltre 6000 km. di coste con due grandi isole e un imponente naviglio mercantile, che riceve dal mare i due terzi delle materie prime necessarie alla sua vita, e che ha bisogno di colonie oltremare. I problemi organici della nuova marina furono vasti e ardui: si dovevano fondere in un solo organismo uomini che avevano abitudini, tradizioni, cultura del tutto diverse; si doveva superare la critica situazione del naviglio, allora in profonda trasformazione.
Il giovane regno affrontò gli ostacoli che si opponevano al rapido sviluppo della sua marina da guerra: il personale fu riorganizzato, il naviglio venne rinnovato, anche mediante ordinazioni all'estero. Ma la breve guerra del 1866, che colse la marina nel delicatissimo periodo della trasformazione, e le polemiche che la seguirono, apportarono un momento di depressione: intorno al 1870 si arrivò a discutere se convenisse conservarla o provvedere invece alla difesa del litorale con batterie costiere. A. Riboty, S. di Saint-Bon, C. A. Racchia, G. Acton, A. Albini, B. Brin combatterono strenuamente l'ingiustificata sfiducia, e la marina risorse.
Il ministro Riboty poté far approvare dal parlamento il suo "Piano organico per la marina" (1871) che, insieme con la legge del Saint-Bon sull'alienazione e il rinnovamento del naviglio (1875), costituisce l'atto di nascita della marina italiana da guerra. Il rinnovamento riguardò tutte le parti dell'organizzazione: personale, armi e naviglio, impianti a terra. Si fondò l'Accademia navale a Livorno (legge Brin, 1882), e la Scuola superiore d'ingegneria navale a Genova; si procedette a una rigorosa selezione, adattando meglio gli uomini alle nuove armi e ai nuovi mezzi meccanici; sì favorirono gli studî e le ricerche. I grandissimi calibri, la loro manovra meccanica, la balistite, i siluri, le corazze d'acciaio furono introdotti in Italia quasi prima che in ogni altra marina, e per produrre i nuovi materiali bellici s'impiantarono grandiosi stabilimenti a Terni (acciaierie), a Pozzuoli (artiglierie), a Venezia (siluri). Il Brin fu il degno costruttore della nuova marina: svincolandosi da tutte le tradizioni, egli progettò le grandi corazzate di linea Duilio e Dandolo, vere rivelazioni per la loro epoca, le più potenti unità che allora solcassero i mari e che portarono la marina italiana quasi al secondo posto nel mondo. Accanto a queste corazzate si costruirono navi meno protette, ma anche più armate e più veloci, che potessero seguire e sostenere il naviglio minore esplorante: l'Italia e la Lepanto, che furono il prototipo degli attuali incrociatori da battaglia. Numerosi incrociatori leggieri e torpediniere costruite in Italia e all'estero completarono allora la nostra flotta. Questo sforzo fu mirabile perché in Italia nel 1870 la costruzione in ferro era appena all'inizio e l'industria meccanica quasi non esisteva; ambedue vennero energicamente sviluppate. Si trasformarono gli arsenali esistenti (La Spezia, Napoli e Castellammare di Stabia, Venezia), si fondò il nuovo arsenale di Taranto, si diede grande impulso ai principali cantieri e fabbriche di macchine (Ansaldo e Odero, Genova; Orlando, Livorno; Guppy e Pattison, Napoli, ecc.), ricorrendo anche a sperimentate organizzazioni estere.
L'impianto a terra, così completato nella sua funzione industriale venne integrato con adeguate piazze militari, rese necessarie dalla situazione geografica e da quella politica della nazione italiana, che, cessata la tensione con l'Austria-Ungheria, si era decisamente orientata verso le potenze centrali (Triplice alleanza, accordo con la Gran Bretagna). A occidente, per la delicatezza della situazione delle coste, per la sicurezza delle isole, per la presenza della Corsica e delle basi nordafricane, si diede sviluppo alla base principale de La Spezia e a quelle secondarie della Maddalena e di Messina. A sud si creò la grande piazzaforte di Taranto. A oriente, dove pure la situazione delle coste italiane è difficile rispetto a quelle prospicienti, si sviluppò la base principale di Venezia accanto alle secondarie di Ancona e Brindisi. Il bilancio della marina dal 1870 al 1895 passò da 38,5 milioni a 102,2 milioni.
In tutto questo periodo la marina rispose sempre degnamente ai compiti affidatile. La guerra d'Africa del 1895-96, e l'ondata di sfiducia che a essa seguì, ebbero una ripercussione anche sulla marina da guerra. Si continuarono a costruire buone navi, ma con ritmo assai lento, e l'approntamento dell'impianto terrestre fu ritardato, mentre anzi questo preponderava passivamente sul naviglio, mentre si addensavano aspre e non sempre giustificate critiche all'amministrazione (inchiesta sulla marina, 1903). Solo dopo il 1900 si ebbe una lieve ripresa nelle costruzioni, che ricevettero nuovo deciso impulso per opera dell'ammiraglio Carlo Mirabello. Questi ebbe a collaboratori l'amm. Bettolo, e gl'ingegneri V. E. Cuniberti, che concepì genialmente la grande nave armata con 12 cannoni da 12 pollici (305 mm.), grande innovazione nel campo delle costruzioni navali, ed E. Masdea, che realizzò tali idee (corazzate Dante Alighieri e Conte di Cavour).
Al Mirabello l'Italia deve la bella ed efficiente flotta che tanto si segnalò durante la guerra italo-turca. La conquista della Libia e del Dodecaneso influì sulla situazione marittima nazionale, ponendo il problema delle comunicazioni della nuova grande colonia con la metropoli, e quello dei punti d'appoggio del Mediterraneo orientale (Tobruch e Leros). Il bilancio della Marina dal 1895 al 1905 passò da milioni 102,2 a 136,1, e nel 1914 era di 313,5.
Lo scoppio del conflitto mondiale trovò la marina italiana forte di spiriti e pronta di navi, pur nelle difficili condizioni in cui la guerra navale dovette svolgersi. Le differentissime caratteristiche della costa orientale adriatica (austro-ungarica) e di quella occidentale (italiana) e la distanza delle basi navali italiane resero necessario il blocco a distanza della flotta di superficie nemica, cui occorreva poi aggiungere il compito di sbarrare ai sommergibili austrotedeschi il canale d'Otranto, e di proteggere il traffico nazionale contro le offese subacquee. Le perdite subite dal naviglio furono solo in parte compensate dall'incorporazione di poche unità leggiere ex-tedesche ed ex-austro-ungariche, ma le mutazioni portate nella situazione marittima nazionale dalla guerra e dalla sistemazione politica del dopoguerra furono di gran lunga più notevoli. In Adriatico la posizione dell'Italia venne migliorata con la liberazione dell'Istria e della piazzaforte di Pola, e con la scomparsa della flotta austro-ungarica. Nel Mediterraneo invece l'equilibrio preesistente fra le varie potenze marittime fu profondamente modificato, quindi i compiti della difesa marittima italiana si accrebbero, mentre la guerra aveva dimostrato l'importanza essenziale del fatto che il paese dipende dalle importazioni marittime via Gibilterra e Suez.
Purtroppo nell'immediato dopoguerra la marina militare italiana fu trascurata, le costruzioni navali furono abbandonate o rallentate, gli arsenali vennero adibiti a produzioni industriali, i lavori delle basi navali sospesi. La maggior forza navale armata si ridusse ben presto a quattro grandi navi, e a una squadriglia di cacciatorpediniere. Alla conferenza di Washington (1921) il coefficiente assegnato all'Italia, calcolato sulla base del tonnellaggio globale delle navi di linea, fu assai basso. Tuttavia si ottenne l'esplicito riconoscimento della parità dell'Italia con la Francia (Stati Uniti e Gran Bretagna 5, Giappone 3, Francia e Italia 1,5).
Il regime fascista, cosciente dell'importanza fondamentale della marina per la potenza della nazione, affrontò in pieno anche questo problema: Benito Mussolini si scelse a collaboratore il grande ammiraglio Thaon di Revel, duca del Mare. Gli elementi essenziali per la ricostruzione erano di tre ordini: amministrativo-finanziario, organico, tecnico-costruttivo, e su ciascuno di essi il governo fascista portò la sua azione. Il bilancio venne successivamente accresciuto, passando sino alla cifra di 725 milioni annui destinati alle nuove costruzioni. Nello stesso tempo tutte le spese vennero sottoposte a un accurato controllo, perché divenissero massimamente redditizie. A tale scopo venne radiato tutto il naviglio non completamente efficiente, anche se i corrispondenti tipi erano conservati in altre marine; e fu radicalmente ridotto l'impianto a terra, che gravava soprattutto come spesa di mano d'opera. Quindi i cinque arsenali (La Spezia, Napoli, Taranto, Venezia e Pola) furono ridotti a due (La Spezia e Taranto), conservando due stabilimenti di lavoro (Castellammare di Stabia e Venezia). Il bilancio nel decennio 1922-1932 passò da milioni 1460,4 a 1633,2. Nel campo organico si provvide al completamento dei quadri; fusione del corpo del genio navale e dei macchinisti; creazione del corpo delle armi navali; riforma dell'Accademia navale e dei corsi di specializzazione, creazione dell'Istituto di guerra marittima, della scuola di comando, di istituti e di gabinetti scientifici per esperienze. Si diede inoltre vita al volontariato a premio, si accrebbe la forza bilanciata, si procedette alla riorganizzazione delle scuole per gli specialisti del corpo R. Equipaggi, ecc. La soluzione dei problemi amministrativo-finanziarî e organici costituiva l'appoggio indispensabile su cui fondare solidamente la ricostruzione della flotta; compiuta in armonia con le disposizioni dei trattati internazionali, che limitavano le possibilità di rinnovamento di naviglio leggiero, costituendo un tutto armonico. La maggioranza della flotta attuale, a parte le grandi navi, è stata costruita nel decennio 1922-32.
La marina ha provato la sua rinnovata efficienza dall'incidente di Corfù (1923) all'azione in Cina (1932). Il capo del governo, come ne ha curato lo sviluppo, così ne ha difeso la potenza nelle nuove discussioni internazionali (Londra 1930, Parigi-Roma 1931, Ginevra 1932), sostenendo il principio della parità con le altre potenze europee continentali, rivendicando anzi il diritto teorico dell'Italia a sviluppare anche più largamente la sua marina. per evidenti ragioni geografiche, economiche e storiche.
Oggi la marina militare italiana comprende il seguente naviglio, per complessive tonn. 397.642:
4 corazzate: A. Doria e C. Duilio (1913), 21.900 tonn., 21 nodi, 13/305, 16/152, 6/76 antiaerei, 2 lanciasiluri; G. Cesare e Cavour (1911), 21.950 t., 20,5 nodi, 13/305, 20/120, 6/776 antiaerei, 2 lanciasiluri;
1 incrociatore corazzato: S. Giorgio (1908), 9350 t., 22 nodi, 4/254, 8/190, 18/76, 6/76 antiaerei, 2 lanciasiluri;
22 incrociatori leggieri: Trieste, Trento e Bolzano (1926-32), 10.160 t., 36 nodi, 8/203, 16/100 antiaerei, 8 lanciasiluri da 533; Zara, Fiume, Gorizia e Pola (1930-31), 10.160 t., 32 nodi, c. s.; Giussano, Barbiano, Bande Nere e Colleoni (1930), 5150 t., 37 nodi, 8/152, 6/100 antiaerei, 4 lanciasiluri da 533; Diaz, Cadorna (1931-32), 5089 t., 37 nodi, c. s.; Montecuccoli e M. Attendolo, in costruzione, 5950 t 37 nodi, e. s.; E. F. di Savoia e Principe Eugenio, in costruzione, 6850 t., 37 nodi, c. s.; Bari (ex-tedesco, 1914), 3248 tonn., 27 nodi, 8/152, 6/76, 2 lanciasiluri; Ancona (ex-tedesco, 1913), 3838 t., 27 nodi, 7/152, 4/76, 2 lanciasiluri; Taranto (ex-tedesco, 1911), 3184 t., 26 nodi, c. s.; Quarto (1911), 2900 t., 28 nodi, 6/120, 7/76, 2 lanciasiluri; Libia (1912), 3700 t., 21 nodi, 8/120 e 3/76 antiaerei;
i nave portaerei: Miraglia, piroscafo trasformato (1923), 5400 tonn., 21 nodi, 4/102 antiaerei, 20 velivoli;
20 esploratori: 12 tipo Vivaldi (1929-30), 1564 t., 38 nodi, 6/120 e 6 lanciasiluri da 533; 3 tipo Leone (1923-24), 1550 tonn., 33,5 nodi, 8/120, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 450; 2 tipo Aquila (1914-16), 1306-1430 t., 33,5 nodi, 4/120, 2/76, 4 lanciasiluri da 450; Premuda (ex-tedesco, 1918), 1550 t., 33 nodi, 4/149, 4 lanciasiluri da 500; 2 tipo Mirabello (1915-16), 1405 t., 33,5 nodi, 8/102, 4 lanciasiluri da 450;
40 cacciatorpediniere: 4 tipo Maestrale, in costruz., 1472 tonn., 38 nodi, 4/120 e 6 lanciasiluri 533; 4 tipo Folgore (1931), 1240 t., 38 nodi, armati c. s.; 4 tipo Freccia (1930), 1225 t., 38 nodi, armati c. s.; 4 tipo Zeffiro (1926-27), 1090 t., 36 nodi, armati c. s.; 4 tipo Nembo (1926-27), 1100 t., 36 nodi, armati c. s.; 4 tipo Sauro (1926-27), 1075 t., 36 nodi, armati c. s.; 4 tipo Sella (1925), 950 t., 35 nodi, armati c. s.; 4 tipo Monzambano (1923-24), 982 t., 33 nodi, 4/102, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri 450; 4 tipo S. Martino (1920-22), 875 t., 32 nodi, armati c. s.; Rossarol (ex-tedesco, 1916), 756 t., 36 nodi, 3/120, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 500; Ardimentoso (ex-tedesco, 1915), 816 t., 25 nodi, 3/102, 4 lanciasiluri 500; 2 tipo Poerio (1915), 858 t., 32 nodi, 5/102, 4 lanciasiluri da 450;
38 torpediniere: 2 in costruzione da 625 tonn.; 6 tipo Generali (1921-22), 645 t., 32 nodi, 3/102, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 450; 7 tipo La Masa (1917-19), 645 t., 32 nodi, 4/102, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 450; 4 tipo Sirtori (1916-17), 680 t., 32 nodi, 6/102, 4 lanciasiluri da 450; Audace (1915), 638 t., 34 nodi, 7/102, 4 lanciasiluri da 450; 8 tipo Pilo (1915-16), 625 t., 32 nodi, 5/102, 4 lanciasiluri da 450; 6 tipo Ardente e Indomito, antiquate, 600 t., 5/102, 4 lanciasiluri da 450; 4 ex-austro-ungariche, tipo Grado, antiquate, 800 t., 2/100, 4/66, 4 lanciasiluri da 550.
Sommergibili: a) da grande crociera: 3 tipo Balilla, in costruzione, 1354/1997 tonn., 17 nodi, 1/120, 8 lanciasiluri da 533; 4 tipo Balilla (1927-1928), 1390/1904 tonn., 18 nodi, 1/120, 6 lanciasiluri da 533; Fieramosca (1929), 1361/1788 tonn., 19 nodi, 1/120, 1/100, 8 lanciasiluri da 533; b) posamine: 1 Pietro Micca, in costruzione, 1393/1913 tonn., 16 nodi, 1/120, 6 da 533; 2 tipo Bragadino (1929-30), 815/1608 tonn., 14 nodi, 1/102, 4 lanciasiluri da 533; 2 tipo X, antiquati, 394/460 tonnellate, 10 nodi, 1/76 antiaerei, 2 lanciasiluri; c) media crociera: 4 tipo Settembrini, in costruzione, 894/1251 t., 17 nodi, 1/100, 8 lanciasiluri da 533; 2 tipo Squalo, in costruzione, 876/1186 t., 17 nodi, c. s.; 2 tipo Settembrini (1929-30), 810/1152 t., 17 nodi, 1/102, 8 lanciasiluri da 533, 4 tipo Squalo (1929-30), 823/1094 t., 16,5 nodi, c. s.; 4 tipo Manara (1929-30), 828/1096 t., 16,5 nodi, c. s.; 4 tipo Colonna (1927), 804/1057 t., 17 nodi, 1/102, 6 lanciasiluri da 533; 4 tipo Mameli (1926-27), 782/1010 t., 17 nodi, armati c. s.; 4 tipo Galvani, antiquati; d) piccola crociera: 12 tipo Rubino e Sirena, in allestimento, 600/800 t., 14 nodi, 1/100, 8 lanciasiluri; 7 tipo Argonauta (1930-31), 609-791 t., 14 nodi, 1/102 e 6 tubi di lancio; 3 tipo N, 7 tipo H, 5 tipo F, antiquati.
Inoltre: 6 posamine tipo Azio (1925-27), 700 tonn., 15 nodi, 1/102 e 200 mine; 4 posamine tipo Buccari (1925-26), 600 t., 10 nodi, 1/76 e 200 mine; una trentina di dragamine di vario tipo; 16 cannoniere tra cui Carlotto e Caboto per servizî fluviali in Cina; 18 MAS di vario tipo; 1 nave reale, Savoia (1925), 4980 tonn., 21 nodi; 1 yacht del capo del governo, Aurora (1904-1928), 1430 tonn. e 13 nodi; 2 navi-scuola, A. Vespucci, C. Colombo (1930-31), 4000 tonn.; 1 nave-officina, Quarnaro (1926), 8200 tonn. e 14 nodi; 2 navi-appoggio sommergibili, Volta e Pacinotti (1921-22), 2400 tonn. e 19 nodi; infine navi-cisterna, acqua e nafta; trasporti varî; rimorchiatori, navi idrografiche (v. anche organica).
Aviazione militare. - All'inizio della guerra mondiale le forze aeronautiche facevano parte dell'esercito e della marina ed erano alle dipendenze del Ministero della guerra (direzione generale di aeronautica) e di quello della Marina (ufficio del capo di Stato maggiore, 5° reparto).
Le supreme necessità della guerra mondiale superarono ogni ostacolo derivante da visioni particolari dell'efficacia della nuova arma, e gli organismi aeronautici rapidamente si modificarono e aumentarono di numero e di efficienza. Nell'immediato dopoguerra il programma d'un nuovo ordinamento delle forze aeree, già in corso di attuazione, fu subitamente interrotto. Una smobilitazione precipitosa condusse al disgregamento delle forze aeronautiche, proprio quando già si preconizzava la fusione degli organismi aeronautici in un solo ministero e si parlava dell'aeronautica come di una nuova temibile forza armata per le guerre future.
Col decreto del 24 maggio 1923 i resti delle smobilitate aeronautiche dell'esercito e della marina furono riuniti in un solo organismo denominato Commissariato per l'aeronautica, con bilancio proprio e organizzazione indipendente. Facevano parte del commissariato un comando generale di aeronautica e una intendenza generale. Dal comando generale dipendevano tutte le forze aeronautiche d'impiego, mentre l'intendenza abbracciava tutti i servizî tecnici e civili. Nello stesso anno 1923 furono costituiti il corpo di Stato maggiore dell'aeronautica, il corpo del Genio aeronautico e il corpo di Commissariato aeronautico, formando così la R. Aeronautica, cioè la terza forza armata dello stato. Tale organizzazione puramente transitoria si consolidò nell'agosto del 1925 con la trasformazione del commissariato in ministero.
Questa legge creava, a sua volta, il primo ordinamento del nuovo grande organismo militare. Fissato il principio informatore nella formula "unità organica e professionale dell'arma e specializzazione d'impiego", l'ordinamento stabiliva la proporzione delle varie specialità dell'aeronautica, sulla base delle prevedibili necessità di guerra e delle caratteristiche di mobilitazione, e definiva la composizione organica della nuova forza armata.
Successivamente, con la legge 6 gennaio 1931, fermo restando il concetto militare dell'unica entità tecnico-professionale, si dava alla forza aerea l'assetto definitivo, valorizzando sempre più l'armata aerea, che riunisce attualmente tutte le forze disponibili.
L'armata aerea è il complesso delle forze aeree destinate ad assolvere i compiti della guerra aerea, compresa la difesa aerea del territorio. Essa è composta dalla squadriglia, che ne è l'unità organica fondamentale; dal gruppo, che è costituito da un comando e da un numero variabile di squadriglie; dallo stormo, costituito da un comando e da un numero variabile di gruppi; dalla brigata, costituita da un comando e da un numero variabile di stormi; dalla divisione aerea, costituita da un comando e da un numero variabile di brigate; dalla squadra aerea, costituita da un comando e da un numero variabile di divisioni. La squadra, la divisione e la brigata costituiscono le grandi unità aeree. L'armata aerea è costituita da 42 gruppi di squadriglie, raggruppabili in un numero variabile di unità aeree di ordine superiore.
L'aviazione per l'esercito comprende le forze aeree destinate ad assolvere i compiti che in pace e in guerra ad essa verranno assegnati dai comandi dell'esercito. Essa si compone di 15 gruppi di squadriglie da osservazione aerea, costituiti ciascuno da un comando e da un numero variabile di squadriglie; la squadriglia è l'unità organica fondamentale dell'aviazione per l'esercito. I gruppi di squadriglie saranno ordinati in cinque stormi, aventi costituzione analoga a quella degli stormi dell'armata aerea.
L'aviazione per la marina è costituita dalle forze aeree destinate ad assolvere i compiti in pace e in guerra ad essa assegnati dai comandi della marina. Essa si compone di quattro comandi di aviazione, di un numero variabile di squadriglie da ricognizione marittima e dagli aerei imbarcati sulle navi.
L'armata aerea, l'aviazione per l'esercito e quella per la marina costituiscono l'aviazione metropolitana. Vi è poi l'aviazione coloniale, costituita da tutte le forze aeree dislocate nelle colonie e destinata ad agire alle dipendenze dei comandi delle truppe coloniali. L'aviazione coloniale comprende quattro comandi d'aviazione: Tripolitania, Cirenaica, Eritrea e Somalia.
A seconda dei compiti di guerra per i quali vengono organizzate, le unità dell'aeronautica si suddividono in: a) specialità da caccia, che raggruppa i mezzi destinati all'offesa e alla difesa contro obiettivi aerei; b) specialità da ricognizione, che raggruppa i mezzi adatti all'esplorazione lontana o strategica e a quella vicina, tattica; c) specialità da bombardamento, che raggruppa i mezzi adatti all'offesa su obiettivi terrestri o navali. L'aviazione da bombardamento, già distinto in diurno e notturno, leggiero o pesante, va unificandosi verso una sola specializzazione.
Per il corpo del genio aeronautico, v. genio (XVI, p. 533). ll corpo di Commissariato militare aeronautico è costituito dagli ufficiali del Commissariato aeronautico ed esercita funzioni logistiche, tecnico-amministrative e contabili per quanto concerne i servizî di cassa, sussistenza, vestiario, equipaggiamento e casermaggio. Le scuole militari dell'aeronautiea comprendono: a) la scuola di guerra aerea con corsi di alti studî militari (in corso di istituzione); b) la R. Accademia aeronautica, con sede a Caserta, dalla quale si reclutano gli ufficiali naviganti dell'arma aerea in servizio permanente effettivo; c) la scuola di osservazione aerea, con sede a Cerveteri, nella quale si preparano gli ufficiali dell'esercito e della marina allo speciale servizio aereo di cooperazione aeroterrestre e navale: d) le scuole di specialità caccia e bombardamento, con sedi a Lonate e Castiglione del Lago; e) la scuola specialisti, con sede a Capua, per il reclutamento e il perfezionamento di tutte le categorie di specializzati dell'aeronautica; f) la scuola di alta velocità (superiore ai 500 km. orarî) di Desenzano; g) la scuola di navigazione d'alto mare di Orbetello (v. anche organica).
Accanto alle forze armate che hanno esclusivamente scopi bellici, v'è in Italia la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, caratteristica espressione della rivoluzione fascista (v. fascismo, XIV, p. 878), di cui è trattato ampiamente in apposito articolo.
Sono inoltre comprese nella qualifica generale di forze armate dello stato, la R. Guardia di finanza (v. finanza, regia guardia di), e il corpo di agenti di polizia (v. polizia).
Finanze.
Le finanze dell'italia dal 1914. - L'inizio della guerra mondiale colse l'Italia in una situazione d'indubbia inferiorità nei confronti delle altre nazioni. Essa non si era infatti ancora del tutto rimessa dalle perdite subite in conseguenza del terremoto calabro-siculo e della guerra libica (6 miliardi circa) e le era mancato inoltre quel periodo di prosperità economica di cui quasi tutti gli altri stati avevano goduto nel 1909-12 dopo la rapida soluzione della crisi generale del 1907, che in Italia, verificatasi con un certo ritardo, si era tradotta invece in una prolungata fase di marasma e di depressione degli affari. E per quanto questo graduale processo d'infiacchimento che l'economia italiana subiva da oltre un quadriennio abbia potuto in un certo modo attutire la violenza della scossa iniziale, tuttavia fortissima, è certo che la non florida finanza e lo scarso reddito privato (oltre alla povertà di materie prime, all'esiguità dei mezzi di trasporto e alla debole attrezzatura industriale) dovevano aggravare lo sforzo necessario per far fronte alle nuove esigenze belliche. Il contribuente italiano era infatti assai più onerato di quello di altri stati (basti pensare che 1/5 del reddito nazionale era assorbito dai tributi mentre, per es., in Inghilterra la quota riservata allo stato era di appena 1/16) e molto gravoso era già il carico del debito pubblico; il livello dei consumi era d'altra parte assai basso, benché col miglioramento economico verificatosi dopo il 1900 si fosse iniziata anche in Italia una graduale ascesa del tenore di vita (l'Italia era quasi sola infatti ad avere ancora una bilancia fisiologica passiva). Le aliquote dei tributi esistenti furono ciò nonostante inasprite e s'introdussero nuovi tributi straordinarî (imposta sopra i profitti di guerra, sul patrimonio, ecc.) riuscendo con tali provvedimenti, oltre che con l'allargamento del regime dei monopolî, ad aumentare le entrate del bilancio da 2,5 miliardi nel 1913-14 a 9,7 nel 1918-19. L'enorme aumento dei compiti dello stato causò però un ben più forte incremento delle uscite, passate negli stessi esercizî da 2,7 a 32,5 miliardi; e i varî esercizî si chiusero con sempre maggiori disavanzi (complessivamente dal 1913-14 al 1918-19, 62,7 miliardi; si noti però che l'ammontare delle sole spese di guerra e dipendenti dalla guerra fino al 30 giugno 1919 fu di oltre 70 miliardi). Lo stato fu quindi costretto a contrarre prestiti all'estero (al 30 giugno 1919, 19,2 miliardi, contratti quasi esclusivamente con l'Inghilterra e con gli Stati Uniti per l'approvvigionamento dell'esercito e del paese), ad emettere sul mercato interno prestiti consolidati e redimibili e buoni poliennali del tesoro (i primi, superando notevolmente il risparmio disponibile ed essendo quindi in gran parte sottoscritti dalle banche, assunsero la tipica figura dei prestiti espansionisti che si traducono in una subdola inflazione; i secondi offrirono alle banche un comodo investimento per l'enorme quantità di danaro che riaffluiva alle loro casse in conseguenza dell'inflazione stessa), ad emettere allo scoperto biglietti di stato e ad autorizzare l'emissione di biglietti di banca per conto dello stato. Al 30 giugno 1919 il debito pubblico estero e interno, patrimoniale e fluttuante (comprese le anticipazioni in biglietti bancarî e la circolazione di biglietti di stato) aveva raggiunto così 79,4 miliardi, da 14,8 che era al 30 giugno 1914, e la circolazìone complessiva di banca e di stato era salita, nello stesso periodo, da 2,7 a 14,5 miliardi, senza che si fosse verificato un corrispettivo aumento delle riserve.
Né tale stato di cose poteva immediatamente cessare col cessare delle ostilità, ché troppo grande era stato lo sconvolgimento causato dalla guerra nella vita economica del paese e troppi elementi d'incertezza pemmanevano nei rapporti internazionali per permettere un rapido ritorno alla normalità (nel far finire al 30 giugno 1919 il periodo bellico precedentemente considerato si è tenuto conto appunto della inopportunità di scindere in due fasi l'esercizio finanziario 1918-1919, data la stretta analogia che corre sotto molti punti di vista tra gli ultimi mesi di guerra e i primi dopo l'armistizio). Ingenti oneri gravavano ancora il bilancio dello stato e altri se ne aggiunsero, sia per la liquidazione di alcune gestioni di guerra (principalmente di quelle per il traffico marittimo e per gli approvvigionamenti e consumi alimentari), sia per la necessità di provvedere alla soddisfazione dei bisogni pubblici trascurati negli ultimi anni; oneri che le entrate ordinarie, per quanto in sensibile aumento, non potevano certo fronteggiare. Un'intensa domanda di consumi risorgeva frattanto ovunque come reazione alla lunga astinenza, errata previsione e inadeguata percezione della situazione monetaria alimentavano un generale senso d'illusione e, non frenato da una politica restrittiva dello sconto, s'iniziava dopo una breve fase di riservatezza un periodo di effervescenza degli affari. Non si arrestò quindi il ricorso al eredito né l'emissione di biglietti, sia per conto dello stato sia del commercio. L'inflazione toccò anzi il suo massimo (22 miliardi di biglietti in circolazione alla fine del 1920) in questo immediato dopoguerra, i cui caratteri fondamentali sono appunto il declinare del potere d'acquisto della moneta (si ricordi anche che nel marzo 1919 erano venuti meno gli accordi interalleati con cui i cambî erano stati artificialmente sostenuti negli ultimi tempi della guerra) e la conseguente progressiva dissoluzione dell'organismo economico, mascherata da un'apparente prosperità. L'ingiusta redistribuzione della ricchezza e l'instabilità dei redditi, che sempre si accompagnano all'inflazione, fomentavano frattanto i perturbamenti sociali e in particolare le agitazioni operaie, cui forniva motivo la crescente disoccupazione (in parte dovuta alla smobilitazione) e tutto ciò doveva necessariamente aggravare la difficile situazione dell'industria che già risentiva il disagio dell'esagerata imprudente dilatazione degli impianti e i primi sintomi della prossima crisi. Crisi che si manifestò in Italia con un certo ritardo sull'estero, raggiungendo il suo punto culminante soltanto nell'anno 1921, e il cui processo di liquidazione non fu brusco e risanatore, come avvenne in paesi a struttura economica più forte e a politica creditizia più severa, ma diede luogo invece a un marasma negli affari a lento decorso.
Bilancio in forte disavanzo (7,9, 17,4 e 15,8 miliardi rispettivamente negli esercizî 1919-20, 1920-21 e 1921-22), sia per il graduale esaurirsi dei tributi di guerra, per l'inadeguato aumento del gettito dei tributi ordinarî e per le molte evasioni fiscali, sia per la difficoltà di contenere le pubbliche spese e per gl'ingenti deficit delle aziende industriali dello stato, specie delle ferrovie; debito pubblico in progressivo aumento (da 79,4 al 30 giugno 1919 a 114,5 al 30 giugno 1922); circolazione viziata dall'inflazione (20,5 miliardi di biglietti alla fine di ottobre 1922) e moneta ridotta a ¼ del suo valore di fronte alla sterlina e a meno di ¼ di fronte al dollaro e all'oro (cambî, al 31 ottobre 1922, rispettivamente a 100,95, 445,36 e 445,18): questa era la situazione delle finanze italiane allorché assunse il potere il governo fascista.
La situazione fu subito decisamente affrontata dal ministro A. de' Stefani. S'imponeva anzitutto un riordinamento dei tributi, sia allo scopo di ristorare le finanze dello stato, sia per facilitare lo sviluppo economico della nazione, ostacolato soprattutto da un pesante e mal distribuito carico fiscale. Ottenuti i pieni poteri, il governo provvide quindi ad emanare una numerosa serie di decreti al duplice scopo di creare un nuovo e razionale sistema tributario che, con l'elasticità del suo provento, assicurasse la possibilità di fronteggiare il graduale decrescere delle imposte straordinarie e di colmare parte del disavanzo; e di raggiungere nello stesso tempo un'equa distribuzione degli oneri tra le varie categorie di contribuenti, senza ridurre la capacità produttiva del paese e aumentandone anzi l'efficacia col liberare da vincoli i congegni della produzione e degli scambî e con l'agevolare la formazione del risparmio e l'afflusso dei capitali esteri ed emigrati. L'eliminazione delle soprastrutture tributarie belliche e postbelliche, il riordinamento delle tre imposte dirette fondamentali a carattere reale (sui redditi dei terreni, dei fabbricati e di ricchezza mobile) e la loro integrazione con una nuova imposta complementare progressiva di carattere personale, la quasi generale riduzione delle aliquote, la sostituzione di una nuova tassa ad aliquota unica alle molteplici che intralciavano lo scambio della ricchezza, l'abrogazione della nominatività obbligatoria dei titoli, l'esenzione dall'imposta di ricchezza mobile dei capitali stranieri, l'abolizione dell'imposta successoria nel nucleo familiare, le molte riduzioni dei dazî doganali e le severe misure adottate per evitare e reprimere le evasioni fiscali, sono gli elementi essenziali di questa riforma che diede all'Italia un sistema tributario mite a larghissima base, elasticissimo, e che, nonostante l'abolizione dei tributi straordinarî e la riduzione delle aliquote, si tradusse in un notevole incremento delle entrate fiscali (il gettito delle imposte dirette, delle tasse e delle imposte indirette sui consumi aumentò infatti da 10,5 miliardi nel 1921-22 a 13,3 nel 1924-25). Condotta contemporaneamente una rigorosa revisione delle spese, unificati e rinsaldati i controlli, riordinata e snellita l'amministrazione finanziaria, liberato lo stato dalla gestione di alcuni servizî industriali con la creazione di aziende autonome, alla fine del 1923-24 l'equilibrio del bilancio era già quasi completamente raggiunto e l'esercizio successivo poteva chiudersi con un avanzo effettivo di 417 milioni.
Perché il riassetto della finanza italiana fosse compiuto era necessario però restituire il valore stabile alla moneta, che, indebolita dalla progressiva svalutazione, era in balia delle circostanze (pur presentando in complesso tra le monete deprezzate le meno accentuate fluttuazioni), e che nel febbraio 1925 era stata scossa da una pericolosa crisi interna di sfiducia, nonostante che il popolo italiano avesse saputo fin dal marzo 1924 che le entrate ordinarie sarebbero state d'allora in poi sufficienti a fronteggiare le spese e che il governo si proponeva di utilizzare i previsti avanzi di bilancio per regolarizzare la circolazione e rimborsare gradualmente il debito fluttuante (al 30 novembre 1924 il debito pubblico era stato già ridotto infatti di 2,5 miliardi con un miglioramento patrimoniale, al netto della diminuzione della cassa, di 1,9 miliardi ed era stata riscattata inoltre una gran parte dell'onere derivante dalle polizze d'assicurazione per gli ex-combattenti). Il rapido deciso intervento del governo e la severa disciplina imposta ai contratti a termine, valsero allora a mantenere il panico e la speculazione, ma a pochi mesi di distanza una nuova violenta crisi comprometteva le sorti della lira e il 2 luglio il cambio con il dollaro saliva a 29,88 (mentre il massimo toccato nella crisi precedente era stato 25,13). La crisi era dovuta però questa volta soprattutto al giuoco della speculazione internazionale; il raggiunto risanamento del bilancio, la graduale diminuzione del debito fluttuante, l'aumento delle disponibilità in oro per la difesa del cambio e il freno opposto dal rialzo del tasso dello sconto all'aumento della circolazione non potevano interpretarsi infatti che come indizî di una situazione interna in progressivo miglioramento.
Analogo e ancor più accentuato carattere ebbe la seconda crisi del cambio, che si scatenò nel luglio 1926 (massimo raggiunto dal cambio col dollaro il 28 luglio: 31,60) e che non trova anch'essa giustificazione alcuna nella situazione economica e finanziaria dell'Italia; anche l'esercizio 1925-26 si era chiuso infatti con un avanzo effettivo di circa ½ miliardo e il governo aveva nel frattempo provveduto a regolare i debiti di guerra, proporzionandoli ai crediti in conto riparazioni, ad aumentare ancora le sue disponibilità in oro per la difesa del cambio mediante la conclusione del prestito Morgan e di altri prestiti industriali, a unificare la circolazione bancaria concentrando il privilegio dell'emissione nella sola Banca d'Italia e a controllare severamente le operazioni di cambio e gl'investimenti sul mercato interno.
Bisognava quindi sottrarre definitivamente la moneta italiana alla pericolosa influenza della speculazione internazionale, che, orientata in senso pessimistico, minacciava di compromettere i risultati già conseguiti nella faticosa opera di rivalutazione della lira, e creare anzitutto in Italia e all'estero un'ondata di fiducia capace di rovesciare la tendenza del movimento speculativo. Il 18 agosto 1926 a Pesaro il Capo del governo italiano proclamò allora che lo stato e la nazione tutta avrebbero da quel giorno in perfetto accordo per un tempo indefinito e con tutte le loro forze giocato al rialzo della lira. Giuoco che aveva tutte le probabilità di riuscire, dato che era intrapreso dalla grande maggioranza dei possessori di lire, e che doveva quindi orientare in senso favorevole anche le previsioni degli speculatori esteri. Da quel giorno infatti fino al 25 giugno 1927, in connessione con lo svolgimento di un efficace piano di deflazione cartacea (riduzione dell'ammontare del debito dello stato verso l'istituto di emissione, accrescimento delle riserve metalliche, limitazione della circolazione bancaria per conto del commercio, contrazione della quantità di biglietti di stato, e trasformazione della circolazione minuta propria dello stato da cartacea in metallica) e di consolidamento del debito fluttuante, il corso del dollaro in rapporto alla lira non fece che ribassare, passando da 31,60 a 17,24. Né deve stupire che il movimento di rivaluzione abbia avuto inizio ancor prima che potesse prodursi l'effetto dei nuovi provvedimenti finanziarî (il 6 novembre, giorno in cui fu autorizzata la emissione del prestito del Littorio che servì a consolidare 15 miliardi di buoni del Tesoro, il cambio con il dollaro era già sceso infatti a 23,44), ché il discorso di Pesaro aveva inciso con avveduta energia su un preordinato piano in pieno sviluppo e le condizioni necessarie e sufficienti per la ripresa della moneta italiana erano già sostanzialmente in atto quando l'espressione della ferma volontà del governo seppe infondere nella nazione quell'elemento di morale certezza che fu decisivo per la riuscita. Il 21 dicembre 1927, dopo 6 mesi di stabilità di fatto, ottenuta dalla Banca d'Italia l'apertura di due crediti di garanzia per la durata di 1 anno (uno di 75 milioni di dollari da parte dei principali istituti di emissione esteri e uno di 50 milioni da parte della ditta Morgan e di alcune banche inglesi) la lira carta fu dichiarata convertibile in oro o in valute equivalenti all'oro, al tasso fisso di 3,66 in rapporto alla lira oro, di 92,46 in rapporto alla sterlina e di 19 in rapporto al dollaro, salve le differenze nascenti dai cosiddetti punti dell'oro. Il regime del gold exchange standard, ormai generalmente applicato nei varî stati usciti dalla crisi monetaria postbellica, sostituì così anche in Italia il corso forzoso, dando ai biglietti in circolazione la fissità del pregio e sottraendoli agli ondeggiamenti del cambio con l'estero. In conseguenza dell'accreditamento allo stato delle plusvalenze emergenti dalla rivalutazione delle riserve della Banca d'Italia, sulla base della nuova parità aurea, il Tesoro fu liberato inoltre definitivamente dal debito contratto con la banca stessa, e i biglietti emessi per conto dello stato rimasero, previa l'occorrente copertura, a carico della banca: unificazione della circolazione bancaria che era condizione indispensabile per la stabilizzazione del cambio. La riforma monetaria, meta ultima di tutta la concatenata serie di provvedimenti adottati dal governo fascista a cominciare dalla riforma fiscale, era così raggiunta e poteva dirsi anche solidamente assicurata.
Il movimento di rivalutazione della lira sottomise però a dura prova l'economia nazionale e le impose severe compressioni (di cui risentirono anzitutto gli stipendî e i salarî) per il necessario adattamento dei costi alla discesa dei prezzi. Quando fu promulgata la legge di stabilizzazione, la fase più violenta della crisi di deflazione si poteva dire tuttavia superata e grandi e decisivi passi si fecero durante il 1928 sull'ardua via del riassestamento della vita economica italiana in conformità della nuova posizione monetaria, tanto che alla fine dello stesso anno la Banca d'Italia e il Tesoro ritennero che l'avallo concesso dalle banche centrali e dalle grandi ditte bancarie all'atto della stabilizzazione non fosse più necessario e rinunciarono alla prosecuzione dei prestiti di garanzia. Fu invece solo nel 1928 che si manifestarono in pieno gli effetti della deflazione sulla bilancia commerciale (aumento delle importazioni e riduzione delle esportazioni), sia per la tardività con cui si propagano sempre i fenomeni economici, sia in conseguenza della crisi di molte attività produttive che aveva contratto negli ultimi mesi del 1926 e nel 1927 gli acquisti di materie prime; e lo squilibrio della bilancia commerciale (e quindi anche, per la diminuita portata di alcune partite compensative, della bilancia dei pagamenti) che ne risultò influì sulla scorta di divise estere possedute dalla Banca d'Italia, accentuando quel movimento di diminuzione che già si andava verificando in seguito all'autorizzazione concessa alla banca stessa, nel giugno 1928, di trasformare in oro una parte delle sue riserve equiparate.
Più che nel 1926-27 anche le ripercussioni sulle finanze dello stato furono sensibili negli esercizî successivi e per fronteggiare la conseguente contrazione delle entrate fu necessaria una rigorosa revisione degli stanziamenti di bilancio e una severa economia, tanto più che si delineava l'urgente necessità di alcune spese indilazionabili, non solo per reintegrare le scorte di materiali militari fino allora non ricostituite, ma anche per l'indispensabile esecuzione di opere pubbliche e per agevolare lo sviluppo economico della nazione con un complesso d'iniziative culminanti nella battaglia del grano e nelle opere di bonifica. Progressivi aumenti di tariffa sui consumi voluttuarî e una sempre più rigorosa applicazione delle imposte furono attuati per quel che riguarda l'entrata, mentre la semplificazione degli organismi amministrativi, la costituzione di alcuni servizî dello stato in aziende autonome e il trasferimento all'industria primta di taluni esercizî pubblici a carattere industriale, avevano utili effetti sulla gestione delle spese. L'equilibrio del bilancio non ne risultò quindi scosso ma grazie all'adattamento delle spese all'andamento delle entrate effettive anche gli esercizî 1927-28 e 1928-29 si chiusero con un'eccedenza attiva di 497 e di 555 milioni, che affluì, come quella degli esercizî precedenti, alla Cassa per l'ammortamento del debito pubblico, istituita nell'agosto 1927.
La crisi economica mondiale era però alle porte e già nel 1929-30 la situazione, del resto ancora estremamente sensibile, della produzione e del commercio cominciò ad essere turbata e se ne ebbero le prime ripercussioni anche sull'andamento del bilancio (avanzo effettivo di soli 170 milioni). Manifestatasi poi in tutta la sua violenza e complicatasi nel primi mesi del 1931 con gravi perturbamenti nel campo monetario e creditizio, tutto l'organismo economico ne soffrì penosamente e tuttora ne soffre, nonostante la complessa serie di provvedimenti adottati dal governo per accrescerne il potere di resistenza.
Per fronteggiare la crisi economica bisognava anzitutto impedire che la lira potesse venire travolta dagli sconvolgimenti monetarî internazionali e si cercò per questo di rafforzare sempre più le riserve auree in modo da costituire solo con esse la normale copertura della circolazione; politica invero già seguita dalla Banca d'Italia fino dalla fine del 1927 e tendente ad evolvere dal regime di gold exchange standard verso l'adozione di un sistema monetario più vicino ai regimi monometallistici aurei d'anteguerra, in modo da assicurare ai biglietti e agli altri impegni a vista la garanzia massima della riserva aurea e da poter nello stesso tempo destinare tutti i crediti sull'estero e i buoni di tesoreria stranieri alla funzione esclusiva di massa di manovra. Dal 31 dicembre 1927 al 30 giugno 1933 il rapporto dell'oro in cassa al totale dei debiti a vista è salito infatti da 20,80 a 46,98% e quello dell'oro in cassa all'ammontare dei biglietti in circolazione da 25,27 a 51,94%. Il rapporto della riserva totale al totale degl'impegni è diminuito invece nello stesso periodo da 55,47 a 49,2%, in seguito alla notevole contrazione verificatasi nelle riserve equiparate sia per soddisfare alle esigenze dei rapporti mercantili e finanziarî con l'estero, sia soprattutto per ritirare dalla circolazione i biglietti esuberanti. Si ricordi a questo proposito che la maglior parte delle divise possedute dalla Banca d'Italia all'atto della stabilizzazione era stata formata con spendita di biglietti, che la successiva estinzione del debito dello stato rappresentato da biglietti di banca aveva caricato l'istituto di emissione anche del peso di questi ultimi, e che, dato anche il diminuito bisogno di medio circolante in conseguenza della depressione economica, la banca doveva necessariamente provvedere a proporzionare la circolazione al suo giro normale d'affari e al livello dei prezzi; la riduzione di 5 miliardi circa non va quindi attribuita a un'energica politica di deflazione ma a un necessario adattamento alla nuova situazione monetaria. Sempre per difendere la valuta, un'assidua vigilanza è stata esercitata sul mercato dei cambî e dei titoli e allo stesso scopo, oltre che negl'interessi del commercio di esportazione e della produzione, si è fatto il possibile, con concreti risultati, per migliorare la bilancia commerciale. In conseguenza di tutto ciò la lira ha risentito molto limitatamente l'influsso dell'irregolarità del corso che precedette e seguì la crisi della sterlina e si è dimostrata una delle valute più resistenti anche in occasione della recente caduta del dollaro.
Era necessario d'altra parte sostenere i varî rami della produzione e del commercio e accrescere le liquidità degl'istituti di credito per metterli in grado di ammortizzare le conseguenze della crisi senza detrimento del risparmio e delle aziende sane; e vastissima fu anche in questo campo l'attività svolta dal governo sia attraverso l'Istituto di liquidazione, sia, ancora, con la creazione dell'Istituto mobiliare italiano, destinato ad attuare una più completa separazione dell'attività finanziaria da quella bancaria, in modo da alleggerire le banche ordinarie del compito di finanziare l'industria e da evitare quindi le dannose interferenze tra gli organismi della produzione e del credito, e, da ultimo, con quella dell'Istituto per la ricostruzione industriale, cui è riservato il duplice compito di provvedere a un più rapido smobilizzo delle attività antieconomiche (e ha perciò riassorbito l'Istituto di liquidazione) e di accordare finanziamenti industriali d'interesse pubblico, facilitando e controllando l'afflusso del risparmio dell'industria.
Per attenuare poi l'inevitabile peggioramento della situazione del bilancio, il governo ha cercato di limitare, per quanto era possibile, la flessione del gettito delle imposte dirette senza creare una pressione non adeguata alle reali condizioni dei contribuenti, e di neutralizzarla in parte con l'inasprimento di alcune tasse e soprattutto di alcuni dazî doganali; e ha contemporaneamente affiancato alle nuove indispensabili spese per favorire le attività produttive e ridurre la disoccupazione una rigorosa economia in tutti gli altri capitoli. Ciò nonostante lo squilibrio del bilancio, che dopo 6 anni di avanzo era tornato a manifestarsi nel 1930-31, si è accentuato nel 1931-32 e nel 1932-33 che si sono chiusi con un disavanzo effettivo rispettivamente di 3,9 e di 4,0 miliardi contro 504 milioni nell'esercizio precedente; inevitabile è stato quindi l'aumento del debito pubblico interno salito dal 30 giugno 1930 al 30 giugno 1933 da 87,9 a 97,0. Notevole soprattutto l'emissione di buoni novennali del Tesoro avvenuta nel maggio 1932, che oltre a permettere il rinnovamento di un miliardo circa di buoni pure novennali d'imminente scadenza, ha fruttato anche 3 miliardi in contanti che sono stati destinati in parti eguali a opere pubbliche e forniture industriali, a diminuire il disavanzo del bilancio e a diminuire il debito dell'Istituto di liquidazione verso la Banca d'Italia per aumentare la liquidità delle partite attive della banca stessa. L'aver fatto fronte alla diminuzione delle entrate effettive e alle maggiori spese con accensione di prestiti non deve però indurre ad apprezzamenti pessimistici sulla condotta delle finanze pubbliche italiane nell'ultimo biennio. Il governo infatti che, anche a costo di gravi sacrifici della nazione, ha conservato per anni il raggiunto equilibrio del bilancio, non poteva d'altra parte non tener conto dell'eccezionale depressione in cui il paese si trova attualmente per effetto della crisi e dell'aggravamento della situazione che deriverebbe dal voler giungere ad ogni costo al pareggio con ulteriori riduzioni di spese o inasprimenti fiscali. È naturale quindi che sulla rigida applicazione dei sani principî di politica finanziaria finora seguiti abbia creduto opportuno far prevalere transitoriamente un'azione rivolta soprattutto alla conservazione e al rinvigorimento delle attività produttrici, sicuro che la ripresa dell'organismo economico, sia spontaneamente, sia permettendo un ritorno a una politica più severa, potrebbe in breve tempo assicurare anche il risanamento del bilancio dello stato.
Bilanci e debito pubblico. - Il bilancio dello stato italiano, eliminate a partire dal 1926 le due categorie accessorie delle costruzioni ferrate e delle partite di giro, risulta composto di due parti: entrate e spese effettive e entrate e spese per movimento di capitali. È la prima parte però quella di gran lunga più importante e che rispecchia la vera situazione delle finanze dello stato, mentre la seconda in cui figurano le accensioni di debiti e i rimborsi, indica la situazione patrimoniale. Nell'esaminare l'andamento del bilancio dal 1913-14 al 1932-33 è opportuno quindi tener conto esclusivamente dei dati relativi alle entrate e spese effettive (come pure sempre ad essi ci si è riferiti durante il corso dell'articolo) e considerare a parte l'andamento del debito pubblico (in miliardi di lire).
I numerosi provvedimenti fiscali adottati durante la guerra spiegano l'aumento progressivo delle entrate, che il crescente gettito delle imposte straordinarie e la svalutazione della moneta accentuarono ancor più nell'immediato dopoguerra. La flessione verificatasi nel 1922-23 è dovuta all'esaurirsi dei tributi transitorî oltre che alla ripercussione immediata del riordinamento tributario (in quanto abolì alcune imposte e concesse numerosi sgravî): mentre l'incremento determinatosi negli esercizi successivi è da attribuirsi soprattutto all'allargamento della base tributaria e alle severe sanzioni contro le evasioni fiscali che costituiscono il pernio del riordinamento stesso. Con ritmo assai più accelerato delle entrate crebbero le spese negli anni di guerra e, sia per gli oneri derivanti dalla liquidazione di talune gestioni belliche, sia per l'ascesa dei prezzi connessa all'inflazione, toccarono il loro massimo nel 1920-21. Per il necessario ridursi delle spese straordinarie e per il severo riordinamento finanziario si contrassero poi nel 1922-23 di oltre ⅓ nei confronti dell'esercizio precedente e continuarono a diminuire fino al raggiungimento del pareggio del bilancio per riaumentare poi leggermente in connessione con l'incremento delle entrate. Dopo tutto quel che si è già detto circa le ripercussioni della crisi di deflazione e quindi della crisi mondiale sulle entrate e sulle spese dello stato si possono facilmente comprendere anche le cifre relative agli ultimi esercizî.
L'ossatura del bilancio italiano è costituita dalle entrate fiscali, sia per il loro carattere di stabilità, sia perché in regime normale dànno un gettito che raggiunge gli 8/10 dell'entrata complessiva. Sono di regola le imposte dirette (e fra queste principalmente le imposte sui redditi di ricchezza mobile) che assicurano allo stato il massimo contributo; esse sono però seguite a breve distanza e sono anche state superate negli ultimi esercizî dalle imposte indirette sui consumi (tra cui hanno particolare importanza i dazî doganali e le imposte di fabbricazione sullo zucchero). La metà circa delle entrate effettive, e in qualche esercizio più della metà, deriva da questi due cespiti fondamentali, mentre le tasse sullo scambio della ricchezza (tasse di registro, bollo e bollo sugli scambî, oltre molte altre di minore entità), i monopolî di stato (specie le entrate attribuite allo stato a titolo d'imposta sul consumo del tabacco) e in piccola parte il giuoco del lotto dànno complessivamente il 30% circa delle entrate stesse. Fra le altre entrate figurano i proventi dei servizî pubblici, i redditi demaniali e gli utili netti delle aziende autonome e cioè dell'amministrazione delle ferrovie costituita nel 1905 (in attivo nel dopoguerra solo dal 1924-25 al 1930-31), dell'azienda postale e telegrafica, di quella per i servizî telefonici e di quella dei monopolî (le entrate a carattere fiscale di quest'ultima sono pure, come si è già detto, devolute allo stato, di modo che l'utile di cui qui si tratta si riferisce alle sole entrate di carattere industriale, riservate alla azienda), istituite rispettivamente nell'aprile 1925, giugno 1925 e dicembre 1927. Gli avanzi di gestione dell'azienda delle foreste demaniali e di quella della strada, istituite nel maggio 1926 e nel febbraio 1930, sono invece particolamente destinati a contribuire alla spesa per la Milizia nazionale forestale e all'esecuzione di opere straordinarie. Le spese che più gravano attualmente il bilancio dello stato sono quelle per il servizio del debito pubblico, per la difesa militare, per i servizî dell'amministrazione finanziaria, per le opere pubbliche e per l'educazione pubblica. Le spese dipendenti dalla guerra che nel 1918-19 raggiunsero la cifra massima di 26 miliardi sono ora ridotte a circa un miliardo.
Il progressivo aumento dell'indebitamento dello stato nell'immediato dopoguerra, la successiva politica di riduzione e di consolidamento, e il nuovo ricorso al credito negli ultimi anni sono già stati sufficientemente illustrati nel corso dell'articolo e ci limitiamo quindi a dare le cifre del debito pubblico interno alla chiusura dei singoli esercizî postbellici (in miliardi di lire).
È opportuno ricordare inoltre la recente riforma della Cassa per l'ammortamento del debito pubblico interno (decr. 26 aprile 1930 n. 424) che, assicurando alla Cassa stessa la più completa autonomia e dotandola di mezzi finanziarî proprî (fondamentale un provento diretto di 500 milioni derivante da un aumento del prezzo di vendita sui tabacchi), le ha dato modo d'intensificare e di svolgere con ritmo costante la sua importante funzione e ha d'altra parte alleggerito lo stato dall'obbligo di devolvere alla Cassa gli avanzi di bilancio e gl'interessi sui titoli ammortizzati. Il compito della Cassa è stato limitato ai soli debiti consolidati che costituiscono la parte assolutamente prevalente dei debiti patrimoniali.
Del totale dei debiti contratti dall'Italia con l'estero in dipendenza della guerra (24,22 miliardi), estinti quelli di minore entità (228 milioni) alla fine del 1925 restavano il debito con gli Stati Uniti e quello con l'Inghilterra il cui ammontare, compresi gl'interessi, mediante gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra (27 gennaio 1926) fu rispettivamente consolidato in 2408 milioni di dollari e in 276,7 milioni di sterline. Il pagamento fu ripartito in sessantadue annualità progressive, e il 3 marzo 1926 fu istituita la Cassa per l'ammortamento del debito di guerra per provvedere al pagamento delle suddette annualità con introiti provenienti dalle annualità di riparazioni della Germania. Nel luglio 1931 erano già stati pagati 39,6 milioni di dollari e 26,6 milioni di sterline, quando il pagamento fu sospeso per effetto della moratoria Hoover. Per il mancato prolungamento di questa, nonostante la continuata carenza della Germania, è stata versata agli Stati Uniti la rata del 13 dicembre 1932 e parte di quella del 15 giugno 1933 (totale 22,2 milioni di dollari), in attesa che un accordo internazionale provveda a sistemare definitivamente la questione dei debiti e delle riparazioni (v. riparazioni).
Il capitale del debito estero postbellico ammontava al 30 giugno 1933 a 1653 milioni di lire.
Moneta e credito. - Unificata l'emissione bancaria col r. decr. 6 maggio 1926 n. 812, che attribuì alla Banca d'Italia (la cui costituzione rimonta al 1893) le riserve auree ed equiparate dei Banchi di Napoli e di Sicilia, i loro crediti stessi verso il Tesoro e il Consorzio per sovvenzioni industriali, nonché l'ammontare dei loro biglietti in circolazione al 30 giugno 1926, e unificata anche, in seguito alla legge di stabilizzazione del dicembre 1927, la circolazione bancaria per conto del commercio e quella per conto dello stato, la circolazione bancaria del regno dipende ora esclusivamente dalla Banca d'Italia. Per il r. decr. legge 22 dicembre 1927 n. 2325 questa ha l'obbligo di convertire, contro presentazione presso la sede centrale e in base alla nuova parità aurea (fissata in ragione di gr. 7,919 di oro fino per ogni 100 lire), i proprî biglietti in oro o, a sua scelta, in divise di paesi esteri nei quali sia vigente la convertibilità in oro; e di tenere una riserva in oro o in divise corrispondenti non inferiore al 40% dell'ammontare dei suoi biglietti in circolazione e di ogni altro suo impegno a vista (limite che in seguito agli accordi col Tesoro del giugno 1928 può discendere anche al 30%). Alla Banca d'Italia spetta inoltre l'esercizio di tutte le Stanze di compensazione del regno nonché una funzione di vigilanza su tutte le aziende bancarie che raccolgono depositi (decr. legge 7 dicembre 1926 n. 1511).
Le quattro maggiori banche di credito ordinario sono: la Banca commerciale italiana, il Credito italiano, il Banco di Roma e l'Istituto italiano di credito marittimo (istituite rispettivamente nel 1894, 1895, 1880 e 1916), che insieme raggruppano il 25% circa del patrimonio complessivo degl'istituti di credito e assorbono il 23% circa dei depositi. Hanno notevole importanza inoltre nel nostro sistema bancario alcuni istituti parastatali e principalmente tra essi il Banco di Napoli (1863) e il Banco di Sicilia (1860).
Per ulteriori notizie sulle finanze italiane v. gli articoli sotto i singoli esponenti, per es., banca; bilancio; debito pubblico; emissione; imposte e tasse, ecc.
Bibl.: B. Stringher, Sulle condizioni della circolazione e del mercato monetario durante e dopo la guerra, Roma 1920; id., Unificazione dell'emissione bancaria, Roma 1927; id., Il nostro risanamento monetario, Roma 1928; A. de' Stefani, Documenti sulla condizione finanziaria e economica dell'Italia, Roma 1923; id., La restaurazione finanziaria, Bologna 1926; id., La legislazione economica della guerra, Bari 1926; id., La politique monétaire d'Italie, in La Politique monétaire de divers pays d'Europe, Parigi 1928; e articoli varî in Corriere della Sera, raccolti in volumi annuali, Milano 1927 segg.; E. Rosboch, La politica finanziaria fascista, Roma 1924; id., La riforma monetaria italiana, Milano 1927; G. Volpi di Misurata, Il consolidamento dei debiti con i governi degli Stati Uniti e della Gran Brettagna, Roma 1926; id., Finanza fascista, Roma 1929; Ministero delle finanze (Ragioneria generale delle stato), Il bilancio dello stato dal 1913-14 al 1929-30, ecc., Roma 1931; si possono utilmente confrontare inoltre le varie esposizioni finanziarie al parlamento, le relazioni annuali della Banca d'Italia, il Bollettino parlamentare, le Prospettive economiche di G. Mortara (Città di Castello, I-V, 1921-25; Milano, VI segg., 1926 segg.) e l'Italia economica di R. Bachi (Città di Castello 1915-1922).
Educazione.
Ordinamento scolastico. - I compiti dell'istruzione e quelli dell'educazione pubblica sono affidati al Ministero dell'educazione nazionale che soprintende a tutte le scuole. Le superiori, le artistiche e le musicali ne dipendono direttamente; le altre, attraverso i 19 regi provveditori agli studî (uno per regione) assistiti da una giunta, per l'istruzione media e professionale, e da un consiglio scolastico, per l'istruzione elementare. Ogni provveditorato agli studî, poi, è diviso, solo per ciò che riguarda le scuole elementari, in circoscrizioni rette da un ispettore scolastico. Il ministro, inoltre, a vigilare le scuole non superiori ha un corpo d'ispettori tecnici, ma per le medie e le professionali si vale anche, come ispettori, di professori universitarî o di presidi e professori di scuole medie e professionali. Accanto a questi, sono presso il ministero 18 ispettori amministrativi. ll Consiglio superiore dell'educazione nazionale (in origine "della pubblica istruzione") è un collegio consultivo la cui competenza, limitata in origine all'istruzione superiore, si è allargata ora a ogni grado e ordine di scuole; esso è costituito di 5 sezioni. Attinenti all'ordinamento scolastico sono anche le due commissioni chiamate a dar parere l'una sui ricorsi dei maestri elementari, e l'altra sui ricorsi e i procedimenti disciplinari del personale direttivo e insegnante delle scuole medie e professionali.
Avendo riguardo al loro grado e all'età degli alunni che esse accolgono, le scuole si dovrebbero dividere in elementari, medie, superiori; ma dalle medie si tengono distinte le professionali (agrarie, commerciali, nautiche, industriali), le artistiche, le musicali.
Dalla costituzione del regno d'Italia legge fondamentale dell'istruzione pubblica d'ogni grado fu la legge Casati (promulgata il 13 novembre 1859) fino al 1923 quando la scuola italiana fu riordinata dal ministro G. Gentile, i cui provvedimenti costituiscono quella che fu chiamata la più fascista delle riforme; la quale, peraltro, toccò solo indirettamente le scuole professionali che allora non dipendevano dal Ministero della pubblica istruzione. Di qui quelle discrepanze nell'ordinamento generale che la legislazione successiva al 1928 non ha ancora del tutto eliminato.
Le scuole italiane si può dire che siano tutte o dello stato o di enti pubblici; le private sono un'esigua minoranza, che la riforma del 1923 cercò di favorire mediante il nuovo ordinamento degli esami (cosiddetti esami di stato) e l'adozione del numerus clausus nell'ammissione alle regie scuole medie. Questo principio fu abbandonato nel 1932, ma l'esame di stato è rimasto sempre in vigore e anzi è stato esteso a talune scuole professionali. Esso ha queste caratteristiche: 1. è dato su di un programma che non è quello d'insegnamento ché questo è formato dall'insegnante secondo il suo criterio; 2. è dato dinnanzi a una commissione composta, nella quasi totalità, di professori statali che non sono i professori della classe donde proviene il candidato; 3. gli esaminatori sono tratti, in parte, da quel superiore grado scolastico cui il candidato aspira: quindi non più esame di licenza, ma esame di ammissione (alla 1ª classe di scuola media inferiore, alla 4ª classe ginnasiale, alla 1ª del corso superiore d'istituto tecnico o magistrale; alla 1ª classe di liceo scientifico o classico) ed esame di maturità (classica o scientifica o artistica per coloro che intendono darsi agli studî superiori) o di abilitazione (tecnica o magistrale per coloro che intendono dedicarsi subito a una professione: di ragioniere, di geometra, di maestro). Peraltro anche gli esami di abilitazione aprono la via a taluni degli studî superiori. La spesa dell'istruzione è sostenuta per le scuole elementari e medie integralmente dallo stato; per alcune scuole superiori dallo stato, per altre dallo stato in concorso con enti locali; per quelle professionali da consorzî di enti locali, ma il contributo di gran lunga maggiore è quello statale. Gratuita per l'alunno è soltanto la scuola elementare; l'alunno di scuola secondaria d'avviamento professionale è obbligato a un contributo annuo di L. 25, tutti gli altri alunni sono soggetti a tasse d'immatricolazione, d'iscrizione annua, di esame e di diploma varie secondo il grado e il tipo di scuola; ma gli alunni bisognosi e meritevoli possono ottenerne l'esonero o parziale o totale. Per l'assistenza agli alunni di scuole medie e professionali, v. cassa: Cassa scolastica. Per gli studenti universitarî valgono disposizioni speciali; per gli stranieri le tasse sono ridotte della metà.
L'educazione fisica degli studenti ha avuto negli ultimi anni ordinamento moderno, larghezza di mezzi e notevole sviluppo per merito dell'Opera Nazionale Balilla (v.) cui dal 1927-28 è affidata.
L'insegnamento religioso, già impartito dal 1923-24 nelle scuole elementari, fu introdotto come obbligatorio (per tutti gli alunni i cui genitori non ne chiedano la dispensa) anche nelle scuole medie, professionali e artistiche con la legge 5 giugno 1930, n. 824, in esecuzione dell'art. 36 del concordato dell'11 febbraio 1929. L'insegnamento è affidato per incarico a persona (un sacerdote e solo in via sussidiaria un laico riconosciuto idoneo) scelta dal capo dell'istituto, inteso l'ordinario diocesano. La scelta del libro di testo deve esser fatta fra quelli approvati dagli ordinari diocesani previa revisione della Sacra Congregazione del Concilio. Non vi sono voti né esami in questa materia.
Maestri e professori, anche quelli di grado universitario, sono astretti al loro dovere da un giuramento di fedeltà al regime.
Istruzione elementare. - L'istruzione elementare dalla costituzione del regno d'Italia al 1911 fu compito attribuito per legge ai comuni, che l'assolvevano con i mezzi del loro bilancio - salvo i casi eccezionali e rarissimi in cui altri enti morali vi fossero tenuti per disposizioni statutarie - e sotto la vigilanza delle autorità scolastiche statali: regio provveditore agli studî (uno per provincia assistito da un consiglio per le scuole) e regi ispettori scolastici, pure dislocati nella provincia. Di questo precedente ordinamento due leggi meritano di essere ricordate come più importanti: la legge Coppino del 1877 che stabilì l'obbligo dell'istruzione elementare - affermazione di principio che ebbe solo una parziale applicazione - e la legge Orlando del 1904 che, mediante la concessione di sussidî ai comuni e lo sdoppiamento di classi, migliorò sensibilmente le condizioni dell'istruzione elementare e agevolò l'istituzione della 4ª classe in molte località che avevano soltanto le prime 3. Nel 1911 la legge Daneo-Credaro modificò radicalmente l'ordinamento scolastico, avocando a un organo, quasi statale, creato in ogni provincia alla dipendenza del regio provveditore agli studî (amministrazione provinciale scolastica) le scuole elementari di tutti i comuni che non fossero capoluogo né di provincia né di circondario amministrativo o che per riguardo alla bassa percentuale di analfabeti avessero ottenuto di conservare l'amministrazione delle scuole. A questo nuovo organo i comuni amministrati dovevano un contributo annuo e il ministero concedeva un sussidio. Ai comuni che conservavano l'amministrazione delle scuole elementari rimase l'obbligo di soddisfare con i proprî mezzi anche i bisogni avvenire. Questa legge del 1911 creò con abbondanza di personale i nuovi uffici provinciali scolastici, allargò il ruolo degl'ispettori e istituì quello dei vice-ispettori, accrebbe di componenti il consiglio scolastico cui pose accanto un nuovo organo collegiale, la deputazione scolastica, e nello stesso tempo - merito maggiore - promosse e facilitò l'istituzione d'un gran numero di nuove classi, e portò il corso elementare da 5 a 6 anni creando una 6ª classe che assieme alla 5ª costituì il cosiddetto corso popolare. Va aggiunto che la legge del 1911 organizzò l'assistenza rendendo obbligatoria l'istituzione dei patronati scolastici.
Il presente ordinamento si deve soprattutto alla riforma Gentile del 1923, alla legge del 1929 sui libri di testo e al t. u. 14 settembre 1931 sulla finanza locale per effetto del quale alle amministrazioni scolastiche - che da provinciali s'erano fatte regionali - sono state devolute anche le scuole elementari dei comuni che avevano conservato l'autonomia scolastica e ogni spesa per l'istruzione elementare (eccetto quelle per l'edilizia e per l'arredamento) fu assunta esclusivamente dallo stato. Con r. decr. 1 luglio 1933, n. 786, sono state dettate le norme per il passaggio allo stato di tali scuole. Inoltre il numero dei provveditori agli studî fu ridotto (per effetto della trasformazione delle circoscrizioni scolastiche da provinciali in regionali) da 69 a 19, furono soppresse le deputazioni scolastiche, si ridusse a 7 il numero dei membri del consiglio scolastico, si elevarono notevolmente gli stipendî dei maestri, si adeguò il numero delle scuole ai bisogni della popolazione, si sclassificarono le scuole rurali con meno di 40 alunni, affidando a enti di cultura, sotto la guida dell'autorità scolastica, il compito d'istruire questi piccoli e sparsi nuclei di popolazione. Inoltre si concessero sussidî a scuole sorte per libera iniziativa locale dove gli obbligati non superavano il numero di 15. E infine si organizzò ex-novo l'istruzione dei ciechi e quindi (nel 1925) quella dei sordomuti.
Ma la riforma Gentile ha, soprattutto, rinnovato l'anima della scuola. Vi ha ricollocato l'insegnamenio della religione cattolica, vi ha ristabilito il culto della patria, vi ha reso obbligatorio ed esclusivo l'insegnamento in lingua italiana anche nei pochi comuni ove erano in uso la lingua francese o la lingua tedesca, ha elevato il tono e la cultura del maestro (con la riforma dell'istituto magistrale), ha istituito una settima e ottava classe che insieme con la 6ª andarono a formare i corsi integrativi, ha reso più efficace l'adempimento dell'obbligo scolastico; infine ha tolto ai programmi quanto avevano di meccanico, ha favorito le attitudini artistiche del fanciullo, ha permesso, in una parola, un più libero sviluppo delle sue facoltà. Quanto al libro di scuola (libro di testo), gl'inconvenienti dei sistemi precedenti (decr. luog. 17 giugno 1915, n. 897 e r. decr. 11 marzo 1923, n. 737) e anche la considerazione della maggiore convenienza economica per l'alunno, consigliarono il ministro Fedele ad adottare il libro unico di stato in conformità dei programmi Gentile; libro da rivedersi e aggiornarsi ogni 3 anni (legge 7 gennaio 1929, n. 5).
Oggi la scuola elementare è così ordinata. L'obbligo dell'istruzione s'inizia per il fanciullo al 6° anno d'età, e ha termine quando il fanciullo abbia frequentato l'ultima classe elementare esistente nel luogo (normalmente la 5ª, ma nei centri minori anche la 4ª o soltanto la 3ª elementare) e ne abbia superato l'esame finale. Se però esistano nel luogo le scuole di avviamento professionale (che sono costituite di 3 classi) e il fanciullo non si sia iscritto a una scuola media o ad altra scuola professionale l'obbligo dell'istruzione ha termine con il 14° anno di età. Di regola, le classi maschili sono affidate a maestri, le femminili a maestre, le miste indifferentemente a maestre o a maestri, nominati in seguito a concorso per titoli e per esame. L'insegnamento religioso è impartito dallo stesso insegnante se riconosciuto idoneo dall'ordinario della diocesi.
I fanciulli ciechi sono assoggettati all'obbligo dell'istruzione che si adempie in 10 istituti i quali, nel diverso loro ordinamento, permettono al cieco di dedicarsi al lavoro più rispondente alle sue attitudini (v. ciechi, X, p. 225). L'obbligo dell'istruzione dei sordomuti ha fine non al 14° ma al 16° anno, e si assolve in circa 40 opere pie (v. sordomuti).
Accanto alle statali o pubbliche sano numerose scuole private, specie nei centri maggiori, tenute in grandissima parte da ordini e congregazioni religiose e in piccolo numero da altri enti morali. Anche in queste scuole private soggette alla vigilanza governativa è obbligatorio il libro di stato. Per i giardini d'infanzia v. asilo, IV, p. 942.
Istruzione professionale. - L'ordinamento delle scuole professionali manca di tradizione perché queste scuole sono di data recente; manca d'uniformità perché debbono adattarsi alle variabilissime condizioni ed esigenze dei singoli luoghi, e manca di stabilità a causa degl'incessanti progressi tecnici specie nel campo dell'industria e dell'agricoltura. Così è che a queste scuole, per assicurar loro elasticità e adattabilità di ordinamento, la legge ha dato autonomia amministrativa e, dentro certi confini, didattica, con il creare per ognuna di esse un apposito consorzio di cui fanno parte rappresentanti locali degl'interessi commerciali, industriali e agricoli messi in grado, per tal modo, di concorrere con il consiglio e con il denaro all'incremento della scuola. Tali consorzî funzionano per ora solo in poche provincie.
Sul limitare dell'istruzione professionale si trovano le scuole secondarie d'avviamento professionale, istituite nel 1928, per trasformazione delle scuole d'avviamento al lavoro, dei corsi integrativi (6ª, 7ª e 8ª classe elementare) e della scuola complementare in cui nel 1923 s'era trasformata la vecchia scuola tecnica. Le scuole d'avviamento professionale - triennali - sono 486. Hanno indirizzo diverso: agrario (69), commerciale (238), industriale (162), professionale femminile (17). Vi s'impartiscono da professori laureati e da maestri elementari insegnamenti di materie letterarie e scientifiche, del disegno, della calligrafia e della computisteria, oltre elementari insegnamenti di alcune delle materie tecniche proprie di ciascun indirizzo.
Istruzione agraria. - La prima scuola media agraria è del 1876 (Conegliano); la prima legge organica del 1885 (6 giugno, n. 3141), ma il riordinamento generale è del 1923 (r. decr. 30 dicembre, n. 3214), anno in cui si ridussero le scuole già esistenti, trasformandole in base a questi criterî: 1. assegnare alle scuole medie agrarie il compito di preparare i dirigenti di medie aziende rurali o industriali-agrarie, i subalterni delle grandi aziende e infine gli esperti e i tecnici degl'istituti di propaganda e d'istruzione agraria; 2. dare a ogni scuola una sfera d'azione corrispondente alla circoscrizione agraria; 3. dotare ogni scuola di un'azienda agraria; 4. fare della specializzazione il complemento dell'istruzione agraria. Ora l'insegnamento agrario medio è impartito: a) da scuole agrarie medie (regie e pareggiate); b) da scuole pratiche di agricoltura, consorziali; c) da istituti varî aventi, per lo più, natura di fondazioni.
a) A ogni scuola agraria media è annesso un convitto; il corso di studî è triennale. Le scuole regie sono 23, di cui 9 specializzate (in viticoltura ed enologia; pomologia, orticoltura e giardinaggio; olivicoltura e oleificio; zootecnica e caseificio; economia montana); le pareggiate sono 2. Rilasciano il diploma di perito agrario, che vale per la professione libera e per l'ammissione agl'istituti superiori d'agraria previo esame di cultura generale. Si accede a dette scuole o senza esame di ammissione da chi abbia compiuto 4 anni di scuola media inferiore (corso inferiore dell'istituto tecnico o magistrale, 4ª ginnasiale) o con esame da chi abbia la licenza sia da scuola pratica d'agricoltura, sia da scuola secondaria d'avviamento professionale. Insegnamenti di cultura generale e di cultura tecnica sono comuni a tutte le scuole.
b) Il corso di studî delle scuole pratiche di agricoltura è triennale; alla scuola è annesso il convitto. Queste scuole sono 11 in tutta Italia. Rilasciano una licenza. Vi si accede senz'esame dal fanciullo dell'età di almeno 13 anni che abbia compiuto la scuola elementare o conseguito l'ammissione a scuola media inferiore. Le materie d'insegnamento variano da scuola a scuola, ma il gruppo di materie di cultura generale è comune a tutte. Grande importanza è data alle esercitazioni.
c) Degl'istituti varî, 16 sono assimilati alle scuole pratiche, 14 sono di varia natura; 5 accolgono soltanto alunne.
Istruzione commerciale. - Per molti anni l'istruzione commerciale fu impartita in Italia dall'istituto tecnico. Il primo istituto medio commerciale è del 1902 (Roma), ma ben presto sullo stesso tipo sorsero altre scuole, alle quali un primo ordinamento fu dato dalla legge 30 luglio 1907, n. 414. Riordinate nel 1912 (legge 14 luglio, n. 854) ebbero assetto organico dal r. decr.-legge 7 maggio 1924, n. 749 che subì modificazioni nel 1929 (legge 7 gennaio, n. 8). Ora l'istruzione commerciale s'impartisce in scuole e in istituti.
Le scuole commerciali sono biennali; hanno per fine di preparare gli alunni a esercitare il commercio per conto proprio o a diventare agenti e impiegati di case commerciali. Rilasciano il titolo di computista commerciale. Vi si accede senza esame con la licenza dalla scuola di avviamento professionale o, mediante esame, da chi 3 anni innanzi abbia ottenuto l'ammissione a scuola media inferiore. Vi s'insegnano materie di cultura generale e specifica, oltre 2 lingue straniere. Le scuole regie sono 13, di cui 2 con programmi speciali; le pareggiate sono 10; altre 5 scuole né regie né pareggiate sono sedi d'esame.
Gl'istituti commerciali sono quinquennali (compreso un anno preparatorio) e hanno per fine d'impartire una cultura teorica e pratica sufficiente per coprire uffici direttivi e di controllo nelle aziende commerciali. Rilasciano il titolo di ragioniere e perito commerciale, che vale per l'esercizio della professione e per l'ammissione agl'istituti superiori di commercio. All'anno preparatorio si è ammessi con gli stessi titoli o esami che alla scuola commerciale e inoltre con la promozione dalla 3ª alla 4ª classe sia del ginnasio sia del corso inferiore tecnico o magistrale; al 1° anno normale, con la promozione dall'anno preparatorio, con la licenza da scuola commerciale o mediante esame d'ammissione da chi abbia ottenuto 4 anni prima l'ammissione a scuola media inferiore. Vi s'impartisce l'insegnamento di materie di cultura generale e di materie professionali. Gl'istituti regi sono 24; vi sono inoltre 6 istituti pareggiati e 3 dichiarati sede d'esami.
Istruzione nautica. - La prima organizzazione uniforme delle scuole nautiche ereditate dagli antichi stati è del 1865 (r. decr. 16 ottobre, n. 1712); nel 1866 l'insegnamento fu diviso in due gradi (scuole nautiche e istituti reali); nel 1873 si stabilì una differenziazione di studî per il conseguimento dei diversi titoli (capitano di gran cabotaggio e di lungo corso, macchinista in 2ª e in 1ª, costruttore in 2ª e in 1ª). Nel 1891 si elevò il titolo d'ammissione che non fu più la licenza elementare ma la licenza da un corso preparatorio triennale, cui fu presto sostituita la licenza tecnica. Nel 1917 gl'istituti nautici passati dal Ministero dell'istruzione pubblica a quello della marina divennero da triennali, quadriennali. Nel 1923 (r. decr. 21 ottobre, n. 2557) gli studî furono coordinati per quanto fu possibile a quelli delle scuole medie: fu ridotto il numero degl'istituti (e in questi quello degli allievi), si resero obbligatorî gli esami di licenza, si prescrisse come titolo d'ammissione l'ammissione al corso superiore dell'istituto tecnico o magistrale o al liceo; si provvide a formar gl'insegnanti delle materie speciali dando nuovo idoneo assetto al regio istituto navale superiore di Napoli. Nel 1928 gl'istituti nautici furono nuovamente posti alla dipendenza del Ministero dell'educazione nazionale; nello stesso anno per il tirocinio pratico dei licenziati dalla sezione capitani, fu creata una società di navigazione (Nazario Sauro) alla quale è affidata la gestione d'una nave-scuola (Patria). Il corso dura da 12 a 18 mesi. I regi istituti nautici sono 17 (quadriennali); 3 di essi hanno tutt'e tre le sezioni: capitani, macchinisti, costruttori; 4 hanno soltanto la sezione capitani; gli altri, le sezioni capitani e macchinisti. La licenza vale anche per l'ammissione all'istituto superiore navale di Napoli.
Istruzione industriale. - Le scuole d'arte e mestieri che nel 1861 erano 10, nel 1869 erano salite a 154, vanamente ordinate. Un primo ordinamento fu tentato nel 1877, poi si ebbero provvedimenti singoli e infine la legge organica del 1907 (30 giugno n. 44), e quella, più importante, del 1912 (14 luglio, n. 854) che dotò le scuole di maggiori fondi e le distinse in scuole di 1°, di 2° e di 3° grado. Nuovo impulso a questo ramo d'istruzione fu dato nel maggio 1917 e nell'immediato dopoguerra, ma la legge fondamentale in vigore è il r. decr. 31 ottobre 1923, n. 2523. Per essa l'istruzione industriale è impartita oltre che dalle scuole secondarie d'avviamento professionale (v. sopra), dalle scuole seguenti: corsi per maestranze (corsi complementari) a frequenza obbligatoria annessi alle scuole di tirocinio; laboratorî-scuola per la preparazione di mano d'opera per cui sia richiesta minor cultura; sono 26 oltre quelli annessi alle scuole d'avviamento professionale; scuole industriali e istituti industriali che hanno entrambi lo scopo di fornire quel tirocinio che l'apprendista faceva un tempo nelle botteghe e nelle officine e di preparare all'esercizio d'una professione o come operaio qualificato o come capo d'arte. Le scuole industriale sono triennali o quadriennali e si compongono d'una o più sezioni, volta ciascuna a una diversa arte o mestiere. Vi sono iscritti fanciulli di 13 anni, senz'esame se forniti della licenza da scuola complementare o di avviamento professionale, con esame se abbiano compiuto 3 anni di scuola media. Alla fine del corso, esame di licenza; i licenziati sono ammessi a sostenere un esame d'abilitazione per operaio qualificato. Delle scuole industriali 41 sono regie e 10 libere, riconosciute come sede d'esame; vi sono inoltre 10 scuole di tirocinio a orario ridotto (serali). Gl'istituti industriali sono quinquennali e si compongono di una o più sezioni a seconda delle diverse specialità. Valgono per l'ammissione le stesse norme che per le scuole di tirocinio; i licenziati sono ammessi a sostenere l'esame di abilitazione a perito industriale. Di questi istituti 21 sono regi, 6 liberi (riconosciuti come sedi d'esame).
Si contano, inoltre, 8 scuole professionali femminili regie e 4 libere con fini diversi e molto variamente ordinate. Fanno parte inoltre di questa branca d'istruzione le 4 regie scuole minerarie (riordinate con r. decr. 15 dicembre 1927, n. 2800), quadriennali, per l'abilitazione all'esercizio della professione di capo minatore e di perito minerario.
Istruzione artistica. - Prima del 1923 l'insegnamento dell'arte applicata all'industria veniva considerato come una branca dell'istruzione industriale, epperò le relative scuole dipendevano dal Ministero dell'agricoltura, industria e commercio (poi, dell'Economia nazionale), mentre erano poste alla dipendenza del Ministero dell'istruzione pubblica le scuole d'arte non applicata (istituto o accademia di belle arti). Ma col r. decr. 31 dicembre 1923, n. 3123 anche le scuole d'arte applicata all'industria furono trasferite al Ministero dell'istruzione pubblica. Oggi l'istruzione artistica viene impartita in tre ordini di scuole:
Scuole ed istituti d'arte. - Quelle formano gli artieri, questi, i capi d'arte. La scuola d'arte è il primo grado o corso inferiore dell'istituto d'arte ma può stare anche a sé. Questo nome e questo ordinamento è di poche scuole; la maggior parte ha nome e ordinamento diversi; ma in tutte l'alunno è tenuto, oltre che al lavoro in officina, a seguire insegnamenti artistici e di cultura generale. Oggi si contano in Italia 6 istituti d'arte, 10 istituti d'arte industriale e scuole artistico-industriali, 15 scuole d'arte applicata, 25 scuole professionali, 2 scuole speciali (per l'alabastro a Volterra, per l'incisione del corallo a Torre del Greco).
Licei artistici. - Sono quadriennali; se ne contano 8. Vi si accede mediante esame di ammissione da chi abbia la licenza da scuola complementare o l'ammissione o promozione alla 4ª classe di una scuola media. Accanto alle materie artistiche vi s'insegnano materie di cultura generale. Alla fine del corso si consegue il diploma di maturità artistica. Queste scuole comprendono due sezioni, con il fine di preparare l'una agli studî dell'accademia di belle arti, l'altra agl'istituti superiori d'architettura e agli esami di abilitazione per l'insegnamento del disegno nelle scuole medie e professionali.
Accademie di belle arti. - Sono 9 e hanno il compito di preparare all'esercizio dell'arte mediante la frequenza e il lavoro nello studio d'un maestro. Comprendono corsi di pittura, scultura e decorazione (alcune anche di scenografia) della durata di 4 anni. L'insegnamento di queste materie può essere impartito da professori di ruolo o anche, a titolo privato, da maestri d'arte (riconosciuti dal Ministero) ai quali viene concesso all'uopo l'uso gratuito d'uno studio.
Istruzione musicale. - S'impartisce nei regi conservatorî di musica di Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Parma e Roma (presso quest'ultimo è anche una scuola di recitazione) secondo l'ordinamento stabilito nel 1923 (r. decr. 31 dicembre, n. 3123) e completato nel 1930 (r. decr. 11 dicembre, n. 1845). In ogni conservatorio vi sono di regola oltre le scuole di composizione e di canto, scuole per i singoli strumenti musicali. Il corso di solfeggio è comune a tutte le scuole. L'insegnamento è, nelle singole scuole, diviso in 2 o 3 periodi. Per l'ammissione al primo anno del primo periodo occorre la promozione alla 5ª classe elementare; per l'ammissione a qualsiasi altro anno d'una singola scuola occorre superare un esame d'idoneità. Vi sono inoltre 10 licei musicali pareggiati. V. anche conservatorio.
Istruzione media. - La scuola media dalla legge Casati al 1923 non subì modificazioni nelle sue linee sostanziali: la scuola classica costituita del ginnasio e del liceo; l'uno di 5 e l'altro di 3 anni; l'istituto tecnico originariamente di 3, poi di 4 anni, diviso in sezioni (fisico-matematica, commercio e ragioneria, agrimensura, agronomia, industriale), la scuola tecnica, di tre anni, con la sua duplice finalità di scuola per sé stante e di scuola preparatoria sì all'istituto tecnico come alla scuola normale (questa ultima pure di tre anni, per la formazione dei maestri elementari), restarono, salvo particolari di minor conto, nel loro aspetto originario, o quasi, sino all'avvento del governo fascista. Solo si aggiunsero, a quelle, due altre scuole: la sezione moderna del liceo ginnasio, voluta dai fautori di una scuola media per i giovani desiderosi di seguire gli studi scientifici superiori, ai quali studî sembrava che la sezione fisico-matematica degl'istituti tecnici fornisse inadeguata preparazione; e il corso magistrale, annesso ai ginnasî isolati, che permetteva agli alunni del ginnasio di conseguire il diploma di maestro elementare. Tormentatissimo sempre l'argomento degli esami e delle classificazioni, ché si volevano - e tale contraddizione non è mai cessata - programmi estesi, studî serî, esaminatori coscienziosi e una bassa percentuale di riprovati. I professori, poi, lasciati prima per lungo tempo in balia dell'amministrazione centrale, furono poi (1906 e 1914) dotati d'uno stato giuridico ispirato al sospetto e alla diffidenza verso le autorità, ossia di garanzie tali e tante che volendole tutte rispettare, dovevano rinunziare di fatto al governo della scuola il preside sul luogo e il ministero dall'alto. E poiché la popolazione scolastica cresceva in relazione non tanto all'aumento della popolazione del regno quanto alla crescente facilità degli studî e per ragioni di economia non si poteva creare un adeguato numero di nuovi istituti, si permetteva che quelli esistenti si affollassero oltre misura e a ciò si formavano annualmente, secondo l'occorrenza, nuove classi, e non interi corsi, le quali e per la loro instabilità e per ciò che l'obbligo d'insegnamento di un professore non si restringe normalmente a una classe soltanto, non potevano esser tenute da professori di ruolo. Erano queste le cosiddette classi aggiunte affidate frammentariamente a insegnanti titolari di altre classi e talora di altre materie sia dello stesso sia di altro istituto del luogo, cosicché gli alunni di queste classi restavano senza una guida e i loro professori non si sentivano soggetti al capo di quell'istituto ove solo per poche ore settimanali si recavano a esercitare il proprio ministero. La scuola media si andava così meccanizzando e abbassando.
Urgeva dunque riformare la scuola media e la riforma doveva operare così sulla quantità come sulla qualità degl'istituti. E questo fece. Infatti: 1. soppresse le classi aggiunte facendo ogni scuola capace d'un determinato insuperabile numero d'alunni (sistema dei corsi paralleli); 2. soppresse le sezioni moderne dei licei ginnasî; 3. ridusse a 95 i ginnasî isolati; 4. soppresse i corsi magistrali (44) e diminuì da 153 a 87 le scuole normali che furono trasformate nei nuovi istituti magistrali; 5. soppresse negl'istituti tecnici tanto le sezioni di agronomia (doppioni delle scuole agrarie medie) quanto le sezioni fisico-matematiche e riunì agli istituti industriali, ossia a scuole meramente professionali, le sezioni industriali; 6. creò al posto delle sezioni fisico-matematiche e delle sezioni moderne dei licei ginnasî un istituto a sé stante, il liceo scientifico, di 4 anni, 7. diede un apposito corso inferiore quadriennale così all'istituto tecnico come all'istituto magistrale; 8. creò il liceo femminile che però dopo stentata vita cessò dovunque alla fine del 1927-28; 9. trasformò la scuola tecnica in scuola complementare con schietto carattere popolare, alleviando l'orario dell'alunno, dando a questo unità di guida e unità d'indirizzo alla scuola. Ma questa scuola, come si disse, fu mutata (1928 e 1929) in scuola secondaria d'avviamento professionale.
A migliorare, poi, la costituzione interna e il funzionamento della scuola il ministro Gentile usò questi mezzi: 1. miglioramento della classe dei professori, prescrivendo per la nomina a titolare il concorso per esami, elevando le condizioni economiche di essi, creando, premio ai migliori, il ruolo d'onore; 2. la riforma dei programmi (1923) indirizzati a restituire agl'insegnanti individualmente e collegialmente tutta la responsabilità dei metodi d'insegnamento, a dare un contenuto serio alla cultura, a richiamare l'attenzione dalla forma sulla sostanza, dalla grammatica e dalla retorica sull'arte, sul pensiero e sugl'interessi reali, umani e profondi dello spirito. Questi programmi furono modificati nel 1924, nel 1925, nel 1927, nel 1929 e nel 1930; 3. la concentrazione degl'insegnamenti, affidando materie affini allo stesso professore; 4. l'esame di stato, ossia l'esame d'ammissione e di licenza sostenuto dinnanzi a giudici che non fossero gl'insegnanti del candidato.
Quanto s'è detto spiega il presente ordinamento dell'istruzione media, che così si compendia. Poste alla dipendenza del regio provveditore agli studî che è assistito da una giunta per l'istruzione media sono le seguenti scuole:
1. Liceo e ginnasio, istituti naturalmente riuniti (i regi sono 180). Esistono tuttavia un r. liceo isolato e 111 regi ginnasî isolati. Quinquennale il ginnasio, triennale il liceo. Fra le varie materie d'insegnamento vi lanno largo posto il latino e il greco, la filosofia e la storia. Alla 1ª ginnasiale si accede dal fanciullo, che sia nel 10° anno di età, mediante un esame d'ammissione (che vale per la 1ª classe inferiore d'ogni altra scuola media); alla 1ª liceale, pure mediante esame d'ammissione da chi 5 anni prima sia stato ammesso a una scuola media di grado inferiore. Alla fine della 3ª liceale, esame di maturità classica, che è titolo d'iscrizione a ogni facoltà universitaria e istituto superiore.
2. Liceo scientifico, quadriennale. I regi sono 52. Mancando questa scuola di un proprio corso inferiore vi è iscritto, mediante esame d'ammissione, chi, 4 anni prima, sia stato ammesso a una scuola media inferiore. Non vi s'impartisce l'insegnamento del greco; vi s'insegnano una lingua moderna e il disegno, e più intenso che nel liceo classico è il programma delle scienze, segnatamente della matematica. Alla fine della 4ª classe, esame di maturità scientifica che dà titolo all'iscrizione a tutti gl'istituti superiori e a tutte le facoltà universitarie eccetto quelle di giurisprudenza e di filosofia e lettere.
3. Istituto tecnico: corso inferiore e corso superiore entrambi quadriennali e fino a tutto il 1930-31 necessariamente congiunti. Sono 103 (regi); esistono inoltre 30 regi corsi inferiori isolati. Vi è l'insegnamento del latino nel solo quadriennio inferiore. Quello superiore, cui si accede da chi 4 anni innanzi abbia ottenuto l'ammissione a una scuola media di 1° grado, è diviso in sezione di ragioneria e commercio e sezione di agrimensura; da quella mediante esame d'abilitazione si esce con il diploma di ragioniere, da questa con il diploma di geometra.
4. Istituto magistrale; corso inferiore quadriennale, corso superiore triennale, necessariamente congiunti. Vi è l'insegnamento del latino in tutto l'istituto. Alla fine, esame di abilitazione magistrale, ossia di abilitazione all'insegnamento elementare. I regi istituti magistrali sono 106.
Oltre alle scuole regie, di cui s'è detto, il compito dell'istruzione media è assolto da scuole pareggiate e private. Le prime perfettamente modellate, per legge, sul tipo della scuola media sono tenute da comuni, da provincie e da altri enti morali, le seconde invece sono, nella quasi totalità, di ordini e congregazioni religiose. Si pensava che per effetto dell'esame di stato, trovandosi l'alunno di scuola privata dinnanzi agli esaminatori nelle stesse condizioni che quello di scuola pubblica, le scuole private si sviluppassero ossia crescessero di numero e si rinvigorissero. Ma la previsione si è scarsamente avverata.
In ultimo resta a dire degli educatorî governativi, conservatorî (della Toscana), collegi di Muria (di Sicilia) e di altre istituzioni femminili con o senza convitto, volte all'istruzione delle giovinette. Ma l'istruzione che oggi vi s'impartisce, oltre l'elementare, è pura istruzione magistrale perché una scuola di diverso tipo ossia di pura cultura, che non conduca, perciò, a un titolo professionale, non è desiderata per le stesse ragioni per le quali non ebbe fortuna alcuna il liceo femminile creato nel 1923. Per i convitti nazionali, v. collegio.
Istruzione superiore. - La libertà d'insegnamento cui la legge Casati aveva informato l'ordinamento universitario invece che rafforzarsi nella pratica e nel costume andò man mano scomparendo e non per effetto soltanto d'improvvide leggi. E poiché con il tramonto di quella libertà si avvertì il decadimento dell'università italiana, parlamento e governo si adoperarono attorno a varî disegni di legge aventi per oggetto l'autonomia didattica e amministrativa dell'università. Nessuno di quei disegni si tradusse in provvedimento e gl'inconvenienti lamentati si aggravarono. Troppi studenti, troppe università, troppa facilità di accedervi. Ridurre il numero delle università o quanto meno, ove non si volesse o potesse contrastare a città gelose delle antiche e spesso gloriose tradizioni dei proprî istituti superiori, concentrare le cure e i mezzi del governo sulle università più importanti; accertare con maggior rigore che per il passato la maturità di chi vi vuole essere ammesso; rendere più efficace, più vivo l'insegnamento; obbligare lo studente a uno studio più intenso e nel tempo stesso riconoscergli il diritto di vedere con i proprî occhi e di pensare con la propria mente; dargli i mezzi materiali se povero, concedergli la possibilità di perfezionarsi negli studî se dotato di singolari qualità; e infine, togliendo alla laurea il valore di titolo professionale, allontanare dall'insegnamento del professore e dalla preparazione dello studente la perniciosa influenza delle esigenze di carriera. Tutto ciò fu realizzato nel 1923 dal ministro Gentile (r. decr. 30 settembre 1923, n. 2102) nei limiti entro i quali tali concetti possono tradursi in legge. I provvedimenti emessi poi in grande numero per ritoccare, attenuare, coordinare le disposizioni di quella riforma, non ne hanno alterato l'intima essenza e le principali sue linee esteriori.
Il numero delle università regie fu portato a 21 (essendosi regificata l'università libera di Perugia, trasformati in università l'istituto di studî superiori di Firenze e gl'istituti clinici di perfezionamento di Milano, e fondata l'università di Bari) delle quali, peraltro, 10 soltanto (Bologna, Cagliari, Genova, Napoli, Padova, Palermo, Pavia, Pisa, Roma e Torino) furono poste a completo carico del bilancio dello stato. Si riordinarono gl'istituti superiori d'ingegneria (costituendoli di un corso triennale di studî di applicazione che fanno seguito a un corso biennale di studî propedeutici ordinati presso le facoltà di scienze matematiche) e si crearono, in un secondo tempo, gl'istituti superiori di architettura, dei quali uno soltanto (quello di Roma) a carico dello stato; infine si coordinarono alle università gl'istituti superiori di scienze economiche e commerciali. Minori modificazioni furono introdotte nell'ordinamento degli istituti superiori agrarî e di quelli di medicina veterinaria.
Complessivamente sono a carico dello stato, oltre le 10 università, i seguenti istituti superiori: 6 d'ingegneria, 1 di architettura, 6 di agraria e 8 di medicina veterinaria. Sono invece mantenute, mediante convenzioni fra stato e altri enti, 11 università e i seguenti istituti superiori: 3 d'ingegneria, 1 di chimica industriale, 4 di architettura, 1 di medicina veterinaria e 9 di scienze economiche e commerciali.
Hanno inoltre grado universitario e personalità giuridica gl'istituti superiori di magistero (3 regi e 3 pareggiati) ove coloro che sono provvisti di abilitazione magistrale possono conseguire il diploma o di materie letterarie, o di filosofia e pedagogia (aventi esclusivo valore di qualifiche accademiche) o di abilitazione alla vigilanza nelle scuole elementari. E inoltre vanno qui ricordati 5 istituti superiori con ordinamento speciale: l'istituto orientale di Napoli (v. napoli), per l'insegnamento delle lingue dei popoli dell'Asia e dell'Africa e delle discipline coloniali; l'istituto superiore navale di Napoli, che prepara all'esercizio della professione e degli uffici attinenti all'industria e al commercio marittimi; la scuola normale superiore di Pisa, che prepara all'insegnamento nelle scuole medie accogliendo 100 alunni convittori a posto gratuito; l'accademia fascista di educazione fisica e giovanile di Roma (v. balilla); e l'università per stranieri in Perugia che organizza speciali corsi di letterature e di cultura per stranieri.
Il governo delle università e degl'istituti superiori appartiene al rettore nelle università, e al direttore negl'istituti superiori, al senato accademico, al consiglio d'amministrazione, ai presidi e ai consigli delle facoltà e scuole. Rettori, direttori e presidi sono nominati dal ministro; il senato accademico (che è solo delle università) è composto del rettore e dei presidi, il consiglio di amministrazione (delle università e istituti superiori a carico dello stato) è composto del rettore o direttore, di 2 professori designati dalle facoltà e scuole, di due rappresentanti del governo; i consigli di facoltà di tutti i professori, di ruolo, della medesima.
Non tutte le università comprendono lo stesso numero di facoltà: le maggiori, come Roma, ne hanno 5: giurisprudenza; medicina e chirurgia; filosofia e lettere; scienze matematiche, fisiche e naturali; scienze politiche, oltre un certo numero di scuole determinato, università per università, dal rispettivo statuto che è l'ordinamento interno e didattico che ciascuna università ha potestà di darsi. Chi abbia superato il numero di esami prescritto dallo statuto consegue la laurea o diploma.
Ma per cogliere la vera essenza del presente ordinamento degli studî superiori occorre soffermarsi sui varî caratteristici aspetti di quello che fu il vero principio informatore del decreto legislativo del 1923:
1. Università libere. - È resa possibile l'apertura di qualunque università o scuola privata con diritti uguali a quelle di stato per ciò che concerne i gradi accademici e il valore legale di questi. Inoltre è concesso ai professori di queste di essere trasferiti alle università regie. Per effetto di tali disposizioni accanto alle vecchie università libere di Camerino, Ferrara, Urbino e all'istituto di magistero di Napoli sono sorti in Milano: l'università del S. Cuore e l'istituto superiore di magistero "Maria Immacolata", e in Torino l'istituto superiore di magistero del Piemonte.
2. Autonomia amministrativa. - Ogni università o istituto superiore (salva la facoltà d'ispezione da parte del Ministero) eroga come meglio crede le entrate del proprio bilancio che sono costituite dalle rendite patrimoniali, dai contributi dello stato (o dello stato e degli enti locali) e dalle tasse scolastiche e soprattasse.
3. Libertà didattica, che ha l'espressione massima nel diritto riconosciuto a ogni università o istituto superiore di dettarsi uno statuto. Questa libertà didattica non è soltanto la libertà d'insegnare, ciascun professore a modo proprio secondo le sue dottrine e i suoi convincimenti scientifici, "ma facoltà in ciascun istituto di organizzare tutti insieme i proprî insegnamenti. Libertà non solo di combinare variamente ai fini diversi le varie materie d'insegnamento ma, prima di tutto, di stabilire e definire quali conviene che siano queste materie e quale il miglior modo d'impartirne l'insegnamento e di accertare il profitto dei giovani, e inoltre libertà di scelta dei professori".
4. Libera docenza. - A proposito di questo istituto, è stato stabilito: a) che l'abilitazione alla libera docenza si acquisti normalmente solo per concorso per titoli integrato da una conferenza sui titoli stessi e, eventualmente, da prove sperimentali e sia sottoposta alla conferma della facoltà o scuola, e si perda se dopo cinque anni di effettivo esercizio non sia confermata ovvero se per cinque anni consecutivi non sia stata esercitata, b) che a liberi docenti della materia o di materia affine siano preferibilmente affidati gl'incarichi degl'insegnamenti ufficiali quando a questi non si voglia o possa preporre un titolare.
5. Esami di stato. - Poiché la laurea e il diploma conferito dall'università o istituto superiore ha esclusivo valore di qualifica accademica, il laureato che voglia esercitare una qualunque professione deve assoggettarsi a uno speciale esame di stato. Per ogni professione gli esami di stato vengono indetti annualmente su programma ufficiale dal Ministero dell'educazione nazionale; quelli per le professioni legali dal Ministero di grazia e giustizia. Per l'abilitazione all'esercizio della professione di insegnante di scuole medie vale l'idoneità conseguita negli esami di concorso indetti periodicamente dal Ministero dell'educazione nazionale al fine di coprire le cattedre vacanti nelle regie scuole medie.
L'assistenza agli studenti si esercita a mezzo di due istituzioni esistenti presso ciascuna università o istituto superiore: la cassa scolastica e l'opera, quest'ultima con personalità giuridica. La cassa scolastica cui è devoluto (oltre le elargizioni degli enti e dei privati) il 10% delle tasse pagate dagli studenti, provvede con questi fondi a fornire i giovani di disagiate condizioni economiche e più meritevoli, dei mezzi per far fronte in tutto o in parte al pagamento delle tasse, soprattasse e contributi. L'opera, invece, ha il compito più largo di promuovere, attuare e coordinare le varie forme di assistenza materiale, morale e scolastica (casa dello studente, mensa universitaria, ecc.) e organizzare anzitutto un ufficio sanitario. All'opera è dovuta una tassa (di L. 250) che ciascun laureato o diplomato deve pagare nel presentarsi all'esame di abilitazione all'esercizio della professione. Il coordinamento delle varie forme di assistenza spetta a un comitato centrale per le opere universitarie che ha sede presso il Ministero dell'educazione nazionale.
Infine, sul bilancio del Ministero, agli studenti italiani e stranieri si possono concedere assegni annui per seguire corsi o compiere studî presso università, istituti superiori o istituti d'istruzione artistica rispettivamente dell'estero o del regno; e in favore di laureati e diplomati, sono aperti annualmente concorsi a borse di perfezionamento presso università o istituti superiori italiani o stranieri.
Per la storia delle università, v. università.
Istituti scientifici e culturali. - Sotto le voci archivio; biblioteca; galleria; museo; accademia è svolta la trattazione storica e tecnica dei varî istituti scientifici e culturali italiani e sotto le voci dedicate alle singole città d'Italia l'enumerazione attuale e descrittiva di essi: è data qui una rapida rassegna generale dei principali enti italiani di cultura che, direttamente o indirettamente, dipendono dagli organi centrali dello stato, i ministeri (in particolare quello dell'Educazione nazionale), i quali contribuiscono anch'essi con i loro organi consultivi e tecnici - consigli superiori, comitati e commissioni permanenti, laboratorî, gabinetti, stazioni sperimentali, ecc. - alla conoscenza in tutti i suoi aspetti e interessi, e in genere al progresso della scienza e della cultura. Tutti sono coordinati e indirizzati dagli alti consessi scientifici dello stato, quali il Consiglio nazionale delle ricerche, l'Unione accademica nazionale, l'Istituto centrale di statistica, ecc.
Gli archivî italiani pubblici dipendono dal Ministero dell'interno, e si dividono in: regi archivî di stato (quello di Bologna istituito nel 1874; di Cagliari, 1763; di Firenze, 1852; di Genova, 1817; di Lucca, 1859; di Massa, 1857; di Milano, 1785; di Modena, 1461; di Napoli, 1808; di Palermo, 1814; di Parma, 1592; di Reggio Emilia, 1892; di Roma, 1871; di Siena, 1858; di Torino, sec. XIV; di Trento, 1919; di Trieste, 1926; di Venezia, 1819; di Zara, 1624); archivî provinciali di stato (in alcuni capoluoghi di provincia del Napoletano e della Sicilia); archivî provinciali, comunali, ecclesiastici, familiari ecc.
Le biblioteche dipendono dall'apposita direzione generale del Ministero dell'educazione nazionale, e si possono distinguere in: governative o statali, delle provincie e dei comuni, di enti culturali, e private. Le statali si raggtuppano in: a) nazionali o centrali (quella di Firenze, fondata nel 1714; la Braidense di Milano, 1770; la Vittorio Emanuele III di Napoli, 1734; quella di Palermo, 1782; la Vittorio Emanuele II di Roma, 1875; la Marciana di Venezia, 1468); b) governative semplicemente dette, con o senza appellazione propria (quella di Cremona, 1774; la Marucelliana, 1702, la Mediceo-Laurenziana, 1571 e la Riccardiana, fine sec. XVI, di Firenze; quella di Gorizia, 1822; la Palatina di Parma, 1769; quella di Lucca, del sec. XVII; l'Angelica, 1614, la Casanatense, 1700, la Medica, 1925, quella del Risorgimento, 1917 e la Vallicelliana, 1581, di Roma); c) biblioteche universitarie (fra cui l'Estense di Modena e l'Alessandrina di Roma, 1667); d) biblioteche annesse a enti statali (della Camera dei deputati, del Senato, dei ministeri, delle accademie e degl'istituti accademici); e) delle provincie e dei comuni: fra le più ragguardevoli, dell'Archiginnasio di Bologna, 1801; la Queriniana di Brescia, 1743; la Federiciana di Fano, 1681; la Comunale di Ferrara, 1746; la Berio di Genova, 1775; la Labronica di Livorno, 1817; le Comunali di Mantova, 1780; di Padova, sec. XII; di Palermo, 1760; di Perugia, sec. XVII; di Siena, 1750; di Trento, sec. XVIII; di Udine, 1827; di Verona, 1792, ecc.; f) le civiche o municipali (di Milano, 1890; di Reggio Emilia, 1796; di Rovereto, 1764; di Torino, 1869; di Trieste, 1796; la Oliveriana di Pesaro, 1793; la Forteguerriana di Pistoia, 1450; la Classense di Ravenna, 1710; la Gambalunghiana di Rimini, 1619; la Bertoliana di Vicenza, 1696); h) di enti regionali di cultura, di fondazioni o corporazioni religiose: la Zelantea di Acireale, circa 1670; della Fraternità dei laici in Arezzo, 1603; della Badia della SS. Trinità di Cava; la Malatestiana di Cesena, 1452; l'Ambrosiana, 1609; quella di Montecassino; l'Antoniana, sec. XIII, di Padova; del Seminario di Padova, 1671; de Concordi di Rovigo, 1580; di Santa Scolastica a Subiaco; la Querini-Stampalia, 1870 a Venezia; la Capitolare a Verona; i) o finalmente di famiglie principesche (come la Trivulziana di Milano, secolo XVIII) o di privati. Abbiamo enumerate fra le penultime alcune biblioteche ecclesiastiche che, secondo il Concordato, dipendono direttamente dalla Santa Sede, la quale ha per sua biblioteca centrale l'Apostolica Vaticana (v. vaticano).
Tra i musei, che, se hanno in prevalenza o esclusivamente quadri, prendono nome di gallerie, pinacoteche, quadrerie secondo la loro importanza e collocazione, si distinguono rispetto alla qualità delle raccolte: gli archeologici o d'antichità, quelli spiccatamente artistici o medievali e moderni, i numismatici, i lapidarî o epigrafici, le collezioni egiziane di Torino, ecc.; etrusche di Firenze, di Cortona, ecc.; orientali di Genova, di Venezia, ecc. dei gessi o gipsoteche, ecc.; rispetto alla loro quantità e varietà, i nazionali, i regionali, provinciali, comunali o civici, dei duomi, delle fabbricerie, ecc.; rispetto alla loro dipendenza e amministrazione, i governativi o regi, quelli appartenenti a provincie, a comuni, a capitoli, abbazie, santuarî, ecc. Sono regi: l'Archeologico d'Ancona, la Pinacoteca di Bologna, l'Archeologico di Cividale, in Firenze il R. Museo archeologico, le Gallerie degli Uffizî, e Palatina, il Museo Nazionale e quello di S. Marco, il Museo Nazionale di Messina, il R. Gabinetto numismatico di Brera a Milano, Pinacoteca, Museo e Medagliere Estense a Modena, il Museo Nazionale di Napoli e quello di Palermo, Museo di antichità e Pinacoteca di Parma, i Musei e Gallerie Nazionali di Roma, il Nazionale di Taranto, RR. Museo e Pinacoteca di Torino, RR. Gallerie di Venezia ecc. Più di 300 sono complessivamente i musei d'Italia, alcuni famosissimi, parecchi abbastanza noti, molti piccoli e poco o punto conosciuti, quantunque non manchino neppur questi di cimelî, singolarmente importanti per la storia o per le arti locali, come il Museo internazionale delle ceramiche in Faenza. Occorre appena menzionare i grandiosi celeberrimi Musei Vaticani, le collezioni missionarie ed etnografiche cristiane di Roma, i tesori delle basiliche e dei duomi, ecc.
La vigilanza e tutela sulle biblioteche e musei, sulle collezioni custodite dallo stato o comunque entro i limiti dello stato, di proprietà pubblica e anche privata, l'inventariamento degli oggetti d'arte di carattere o d'importanza nazionale, sono esercitati dal governo mediante apposite soprintendenze dipendenti dal Ministero dell'educazione nazionale; mediante i direttori degl'istituti governativi locali, e anche mediante una rete d'ispettorati onorarî, bibliografici, archeologici e di belle arti.
La funzione di elaborare e illustrare gli elementi culturali, le memorie e i documenti del passato, per promuovere e diffonderne la conoscenza, alla costruzione della scienza della natura e dello spirito, spetta per un verso agl'istituti d'insegnamento e per un altro a quelli d'attività ricercatrice e costruttiva del sapere umano, alla scuola cioè e all'accademia o consociazione del lavoro scientifico propriamente detto. Dell'ordinamento didattico statale si fa parola a p. 787; qui si tratta delle associazioni scientifiche.
Sono accademie di riconosciuto carattere nazionale e cosiddette di nomina regia: la Reale Accademia d'Italia in Roma, la R. Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna; la R. Accademia della Crusca per la lingua d'Italia in Firenze; il R. Istituto Lombardo di scienze e lettere di Milano; la Società Reale di Napoli; la R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; la Società Italiana delle scienze, detta dei XL, in Roma; la Reale Accademia Nazionale dei Lincei; la R. Accademia delle scienze di Torino; l'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia. A queste s'aggiungono nei centri maggiori e nei minori: le associazioni con scopi scientifici, quelle con scopi tecnici ed economici, gli enti e associazioni per l'igiene e la pubblica assistenza, con intento fra teorico e pratico, le associazioni professionali e di categoria, enti e associazioni per la diffusione della cultura in genere, in particolare per la ricerca storica, cioè enti e società speciali per la storia, l'archeologia e le belle arti. Undici Deputazioni di storia patria (v. XII, p. 637) attendono alla ricerca e pubblicazione delle fonti storiche, regionali e nazionali, afffiancate da istituti, associazioni, comitati e direzioni di periodici di storia, ecc., nelle minori sedi. Il lavoro è per quanto è possibile coordinato o integrato dal R. Istituto storico italiano con sede in Roma.
Accanto agl'istituti d'insegnamento propriamente detti, e spesso annessi a essi, sono inoltre particolari istituti e laboratorî, senza funzione didattica, stazioni sperimentali, orti botanici, ecc., che, forniti di propria biblioteca e spesso di proprî gabinetti, attendono e collaborano, con scopi teorici o teorico-pratici, alla ricerca, incremento e diffusione della scienza. Tutti questi istituti e laboratorî scientifici (che oggi in Italia assommano a più che 800) si possono raggruppare in tre categorie: 1. di scienze fisico-matematiche e geografiche (osservatorî astronomici, geodetici, geofisici, istituti di fisica, di chimica, d'ingegneria, e laboratorî sperimentali per determinate industrie); 2. istituti di biologia (antropologia, fisiologia, zoologia, botanica, ecc.), d'igiene e batteriologia, di agraria (patologia vegetale, bachicoltura, zootecnica, ecc.); 3. istituti per le scienze mediche Per l'enumerazione ed illustrazione di essi si rimanda alle fonti citate nella bibliografia.
Si ricordano da ultimo gl'istituti culturali internazionali che sono in Italia in gran numero: ad esempio l'Istituto internazionale di agricoltura a Roma; gl'istituti esteri fondati in Italia, con particolare carattere e scopo, archeologico, artistico, ecc. nei principali più ricchi centri di cultura (Roma, Firenze, Napoli, Bologna, ecc.), da numerose nazioni d'Europa e d'America; gl'istituti italiani all'estero; le missioni scientifiche, ecc.
Bibl.: A intendere il nuovo spirito informatore della scuola v. soprattutto le opere di G. Gentile, di G. Lombardo-Radice, E. Codignola, ecc. Delle numerosissime pubblicazioni ufficiali v. sull'istruzione superiore la relazione Ceci della Commissione reale per il riordinamento degli studî superiori, I, Roma 1914. Fra le più recenti v. Annali dell'istruzione elementare, rassegna bimestrale, annate I a V, Roma, VI e segg., Firenze; Annali della pubblica istruzione, II, Istituti medi e superiori, anno 1°, Roma 1924-26; poi, Annali dell'istruzione media, anno 2° a 9°, Firenze 1926-32; L'istruzione nautica in Italia, Roma 1931; Notizie sull'istruzione agraria media in Italia, Roma 1930; L'insegnamento commerciale medio in Italia, Roma 1930; L'istruzione industriale in Italia, Roma 1930. V. inoltre: D. Lupi, La riforma Gentile e la nuova anima della scuola, Milano 1924; L. Severi e G. Sangiorgio, Manuale di legislazione sull'istruzione media, Torino s. a.
Per gl'istituti culturali e scientifici: oltre agli organi d'informazione bibliografica forestieri e generali (quali Minerva e Index generalis), oggi si hanno anche in Italia varî repertorî enumerativi e descrittivi; ad es. S. Pivano, Annuario degl'istituti scientifici italiani, Bologna-Roma 1919-20, I e II. Allo scopo di preparare e svolgere la bibliografia nazionale italiana il Consiglio nazionale delle ricerche ha già dato una serie di pubblicazioni descrittive, statistiche e bibliografiche, che attraverso varie edizioni, vanno diventando sempre meglio informate e complete; sono: Enti culturali italiani, 1ª ed. in un vol., Bologna 1929; 2ª ed., in 3 voll., Roma 1931-32; Istituti e laboratori scientifici italiani, 1ª ed. in un vol., Bologna 1928; 2ª ed., in 3 voll., Roma 1931-32; Periodici italiani scientifici e tecnici e di cultura generale, 3ª ed., Roma 1931, ecc. Per gli enti culturali delle due categorie particolarmente qui contemplate, utili contributi storici e bibliografici sono raccolti nella rivista Accademie e biblioteche del Ministero dell'educazione nazionale. - Per le collezioni artistiche, archeologiche ecc., v. Le gallerie nazionali italiane, Roma 1894-1902, voll. 5; e Fr. Pellati, I musei e le gallerie d'Italia, Roma 1922. - Per gl'istituti stranieri in Roma, cfr. i ricchi Annales institutorum quae provehendis humanioribus disciplinis artibusque colendis a variis in urbe erecta sunt nationibus, Roma 1928-31, voll. 3.
Dominî coloniali.
I dominî esterni dell'Italia sommano complessivamente a circa 2.471.535 kmq. di territorio, con circa 2.430.000 ab., e sono quasi per intero costituiti dalle tre colonie africane dell'Eritrea, della Somalia e della Libia; all'infuori di esse comprendono le Isole italiane dell'Egeo e l'isoletta di Saseno nell'Adriatico meridionale. Di fronte ai 34 milioni di kmq. con 450 milioni di ab., costituenti l'Impero Britannico e ai 12.700.000 kmq. e 65 milioni di ab. del dominio coloniale francese, la disparità appare enorme; e tale essa è anche rispetto ai dominî esterni di alcuni stati minori, quali l'Olanda (2.000.000 kmq. e 62 milioni di ab.) e il Belgio (2.385.000 kmq. e 13 milioni di ab.). Tale disparità ha la sua prima radice in cause d'ordine storico ben note: assorbita interamente, fino al 1870, dal problema, sopra ogni altro preponderante, della ricostituzione della sua unità, non poteva l'Italia - o per essa i governi degli stati più vitali - partecipare al movimento coloniale che caratterizza il secolo XIX; né ciò fu possibile al nuovo regno dopo la sua proclamazione e neppur dopo la presa di Roma, perché, per quanto uomini di stato avveduti sostenessero sin d'allora la necessità di un'espansione politica oltremare e avviassero anche qualche timido tentativo, le preoccupazioni inerenti alla riorganizzazione interna sembrarono assorbire esclusivamente l'attenzione dei dirigenti la politica italiana. Quando, dopo il 1880, si entrò, pur attraverso dubbî e incertezze, nella fase di un'attuazione concreta, la partizione dei possedimenti coloniali era già nella massima parte avvenuta e l'Italia si trovava esclusa dalle regioni più ricche o più promettenti in tutti i continenti.
Per le vicende dell'occupazione dei territorî africani si vegga il paragrafo: Storia, alle singole voci.
Qui si osserverà che i rapporti commerciali fra madrepatria e colonie sono ancora, nonostante il vigoroso impulso dato all'attività coloniale nell'ultimo decennio, assai modesti. Nessuna delle colonie ha per ora grande valore come paese minerario o come integratrice, su larga scala, di materie prime mancanti nella madrepatria. Sotto quest'ultimo riguardo può entrare in qualche considerazione solo la Somalia (cotone, ecc.). Come sbocco alla popolazione esuberante può valere, ma certo in misura limitata rispetto alle necessità dell'Italia, la colonia libica la quale tuttavia, per la larga parte di territorio desertico o subdesertico che comprende, ha un valore di gran lunga minore di qualsiasi delle colonie di analoga estensione che altri stati posseggono in Africa. Maggior importanza ha la Libia come "quarta sponda" dell'Italia, contribuendo a rafforzarne la situazione nel Mediterraneo. Importanza notevole hanno le due colonie orientali in relazione alle vie verso l'Oceano Indiano che rimangono largamente aperte, per l'avvenire, a una feconda espansione commerciale italiana; ma tra quelle due colonie s'incuneano territorî appartenenti ad altre potenze. Le isole dell'Egeo hanno veramente la funzione di avamposto verso i paesi del Levante nei quali l'Italia ha da gran tempo tanti interessi.
Ma nel complesso le condizioni d'inferiorità dell'Italia rispetto alle altre grandi potenze risultano evidenti, nonostante i grandi progressi fatti nell'attività coloniale e il crescente bisogno di espandersi della stirpe.
PREISTORIA E STORIA.
Sommario. Preistoria (p. 791); L'Italia fino alla caduta dell'Impero romano (p. 797); Regni barbarici in Italia (p. 800); La rinnovazione dell'Impero (p. 805); Regno di Germania, Regno d'Italia, Impero (p. 810); Nuove forze rivoluzionarie e costruttive fra il X e il XII secolo (p. 814); L'inizio dell'età comunale (p. 820); L'età sveva: papi e comuni contro l'unità regia (p. 825); Vita e cultura di borghesia italiana: secoli XIII e XIV (p. 832); Luci e crepuscolo del papato e dell'impero nel Medioevo (p. 835); Signorie e principati (p. 840); L'Italia e l'Europa nella seconda metà del '400 (p. 845); L'Europa alla conquista dell'Italia (p. 851); Primato intellettuale e servitù politica (p. 857); Ricostruzione cattolica e ricostruzione statale (p. 862); La dominazione spagnola (p. 867); Decadenza e progresso della vita italiana nel '600 (p. 872); L'Italia dal 1713 al 1789 (p. 880); l'Italia durante la Rivoluzione e l'Impero (p. 881); L'Italia dal 1815 al 1849 (p. 883); La formazione del Regno d'Italia (p. 886); Il Regno d'Italia (p. 888); Fonti (p. 897); Bibliografia (p. 898).
Preistoria.
Le trattazioni generali svolte sotto le voci riguardanti le varie civiltà preistoriche (paleolitica, chelléana, acheuleana, moustériana, aurignaciana, grimaldiana, miolitica, campignana, neolitica, eneolitica, villanoviana, del bronzo, del ferro, ecc.), in cui non mancano mai notizie più o meno ampie sulle vicende culturali dell'Italia, ma soprattutto le trattazioni particolari dedicate alle singole regioni italiane impongono che qui sia tracciato un quadro assolutamente sintetico, quasi sommario delle più particolareggiate trattazioni regionali. Sarà dato giusto rilievo soltanto ai problemi che, allo stato presente degli studî, si debbono ritenere più essenziali.
Paleolitico. - Contrariamente alla negazione di T. Mommsen, secondo cui l'esistenza dell'uomo in Italia non era da ritenersi più antica della coltivazione dei campi e della lavorazione dei metalli, le prove positive dell'umana presenza sulla nostra penisola fino dai primi tempi pleistocenici si ebbero ben presto a cominciare dalle selci raccolte nell'Imolese da G. Scarabelli, alla metà del secolo scorso; esse prove si accrebbero sempre più arrivando alle metodiche esplorazioni dei primi decennî del nostro secolo, con il possesso del prezioso sussidio dei dati stratigrafici e paleontologici.
Le caratteristiche industrie del Paleolitico inferiore e medio, cioè quella degli amigdaloidi (chelléana-acheuleana) e quella delle schegge ritoccate (moustériana), non solo ci sono note per mezzo di moltissimi ritrovamenti alla superficie o sporadici, ma soprattutto per scavi regolari in strati intatti e sicuri (Agro Venosino, Capri, Valle del Liri per la prima; strati inferiori delle Grotte Grimaldi, Caverna Pocala nel Triestino, ecc., per la seconda).
Ultimamente poi, le indagini in Lucania hanno arricchito ancor più il quadro della vita pleistocenica italiana, con la scoperta nella Grotta di Loretello (Venosa) di uno strato con rozze selci scheggiate comparabili a quelle dell'industria detta da A. Commont prechelléana (seconda e terza terrazza a Saint-Acheul): la posizione dello strato a quota inferiore a quello di Terranera di Venosa, con cui pure si coordina, e l'associazione con fauna fossile caratteristica del Quaternario più antico, provano che il deposito umano di Loretello, secondo Rellini e D'Erasmo, è il più antico finora della penisola, attestando un orizzonte pre-amigdaliano (v. bibl.).
Le due grandi industrie del Paleolitico inferiore e medio si trovano variamente distribuite. Quella degli amigdaloidi manca finora nell'Italia settentrionale, eccettuate le colline dell'Imolese (terrazze del Santerno, legate geograficamente al centro appenninico); è largamente rappresentata nell'Italia media appenninica e adriatica e in Lucania (a cominciare dal Forlivese, soprattutto nell'Umbria, nelle Marche, nell'Abruzzo), è presente nella Valle del Liri, a Capri, nel Beneventano, sul Gargano, nella Puglia. Finora è assente dalla Calabria, e manca nelle isole, tranne un unico e discusso manufatto raccolto presso Alcamo in Sicilia.
Ma questa industria amigdalare, che sembra patrimonio più particolare delle regioni montane e più diffusa sul versante adriatico, (non contando la posizione avanzata di Capri, il solo esemplare, di diaspro, più occidentale, raccolto a Montepulciano, si può ritenere di provenienza umbra, come un'amigdala fluitata raccolta a Ponte Molle in Roma), si trova quasi dappertutto associata o mescolata con le schegge di tipo moustériano. Quest'associazione appare quasi regolare nell'Imolese, nell'Umbria e nelle Marche, nella valle della Vibrata, sul Gargano, e anche nell'Agro Materano (dove peraltro è stata osservata diversa la quota di giacimento); ma si hanno anche strati con puro e solo materiale amigdaloide, a Capri e a Terranera di Venosa e Sansanello (Lucania). Il bacino di Venosa dapprima, con gli scavi del 1914, e recentemente anche la valle del Liri con nuovi reperti a Pignataro Interamna, hanno dimostrato positivamente la coesistenza dei nostri manufatti chelléani-acheuleani con la grande fauna estinta di clima caldo (elefante antico, ippopotamo, bue primigenio, cervo, ecc.), confermando l'appartenenza dei depositi, e quindi dell'umanità da essi documentata, alla fase interglaciale riss-wurmiana.
L'industria delle schegge ritoccate, o moustériana, è ancor più diffusa: oltre alle zone già indicate, dove si mescola con l'amigdalare, è presente nel Carso Triestino (Grotta Pocala) e nel Veneto (Asolo), nell'Emilia occidentale (Traversetolo e Lesignano de' Bagni, nel Parmense; Val d'Enza), in Liguria (strati inferiori della 1ª-4ª, 6ª, 9ª caverna di Grimaldi; grotte del Finalese-Loanese come la Tana del Colombo), nelle Alpi Apuane, in Toscana (Valdarno superiore, Val di Chiana), nel Lazio (specialmente bassa Valle del Tevere e Aniene), e in una grotta a Torre di Scalea (Cosenza). Controversa è la questione della presenza di autentici manufatti moustériani in qualche grotta siciliana (es., Carburànceli presso Palermo, S. Teodoro in provincia di Messina) dove abbondante si sovrappone la successiva industria miolitica.
Meno uniforme della precedente, questa industria moustériana si presenta con varietà di aspetti. I manufatti delle Grotte Grimaldi (es., Caverna del Principe) sono tipici e comparabili col classico moustériano francese (secondo alcuni il superiore); e per forma e per la tecnica di lavorazione a essi si collegano più o meno anche i reperti di molte grotte peninsulari (Liguria, Alpi Apuane, Valle del Liri, Pocala, ecc.). Ma assai diverso, invece, è l'aspetto delle selci provenienti dalle terrazze emiliane, notevoli per le più grandi dimensioni, tanto da legittimare la denominazione di Moustériano "macrolitico" (Parma, Reggio E.), e inoltre per la rozza fattura (Imolese). Così pure, qualche forma speciale, a es. peduncolata, offre l'abbondante materiale del Materano.
Anche qui si hanno strati puri, ove senza mescolanza con amigdaloidi, le schegge appaiono esclusive (Liguria, Emilia occidentale, Lazio, Sicilia). Ma fatto più importante è l'associazione dei manufatti moustériani, nelle Grotte Grimaldi e nei depositi meridionali, con fauna di clima caldo, la stessa che accompagna gli amigdaloidi: è un argomento per sostenere la contemporaneità, almeno parziale, delle due industrie che, variamente distribuite, pur se mescolate nella maggior parte della penisola, specie nelle zone montuose, si presentano anche esclusive in taluni strati, si da indurre il Pigorini a supporle produzioni di due distinte correnti etniche.
I tentativi fatti per stabilire un'esatta posizione stratigrafica e cronologica non hanno avuto risultato; e anche impossibile è determinare la via d'ingresso nella penisola delle due culture.
Nessun resto umano relativo alla prima; ma per la moustériana si hanno i primi fossili umani, col cranio scoperto da I. Cocchi, nel 1867, nelle argille plioceniche dell'Olmo (Arezzo), oggetto peraltro di discussione, e soprattutto col cranio "neanderthaloide" recentemente raccolto alle porte di Roma, sulla sinistra dell'Aniene.
Lungamente e vivacemente discussa è stata la questione dell'esistenza in Italia di un Paleolitico superiore, soprattutto sostenuta da A. Mochi, che pur tentò di inquadrare rigidamente nel classico sistema del De Mortillet le industrie pleistoceniche italiane, eccedendo; ma la documentazione della terza fondamentale industria, quella delle lame (o lame strette e svelte, la Klingenkultur dei Tedeschi), associata con fauna fossile mutata, di clima freddo, è ormai imponente. Gli strati superiori delle celebri Grotte Grimaldi, la Grotta Romanelli sul Canale d'Otranto, intensamente esplorata da G.A. Blanc e che offre una serie stratigrafica fondamentale, le cavernette dell'Agro Falisco scavate da U. Rellini, alcune grotte siciliane del Trapanese illustrate da R. Vaufrey, offrono i dati più sicuri; ma numerosi sono altri giacimenti consimili, sparsi per la penisola, soprattutto sul versante tirrenico, in Liguria e in Toscana, nell'Umbria e nelle Marche, nel Lazio e in Sicilia. Anche da questo quadro rimangono assenti la Sardegna e, tranne l'Elba, le altre isole.
Ma, in Italia, non si verifica la successione Aurignaciano-Solutréano-Magdaléniano, così sicura nell'occidente europeo; né vi compare l'animale più caratteristico, la renna, che si presenta soltanto nelle Grotte Grimaldi senza superarle. Scarsissime sono le manifestazioni artistiche (statuette femminili delle Grotte Grimaldi, veneretta steatopigica di Savignano sul Panaro, rozzi graffiti animaleschi a Grotta Romanelli), manifestazioni che invece costituiscono la nota dominante della cultura franco-cantabrica, dall'Aurignaciano al Magdaléniano; finalmente povera e senza significato è l'industria ossea.
Nell'armamentario siliceo nulla richiama al Solutréano e al Magdaléniano, da ritenersi quindi del tutto assenti, mentre moltissime sono le forme analoghe a quelle dell'Aurignaciano francese, specie il medio. Ma le affinità stringenti si constatano anche con la particolare cultura willendorfiana dei paesi danubiani e ancor più con la capsiana dell'Africa che sale nell'Iberia; così che, dati i particolari aspetti, è conveniente distinguere questo Paleolitico superiore, o finale, dell'Italia col nome più proprio di Grimaldiano, secondo le conclusioni di U. Rellini che vi distingue due facies, l'una settentrionale più affine al vero Aurignaciano, l'altra meridionale più impregnata di elementi capsiani. Con siffatta industria, chiaramente sovrapposta nelle Grotte Grimaldi al Moustériano, diffusa per tutta la penisola e in Sicilia, si chiude l'era pleistocenica e s'inizia l'attuale, in cui essa sfuma (v. miolitica, civiltà).
Più numerosi sono i resti scheletrici umani di questo lungo periodo: sedici inumati nelle Grotte Grimaldi, appartenenti a due razze ben distinte (Negroide e di Cro-Magnon), documentano non solo la presenza di uomini con civiltà superiore a quella dei neanderthaloidi, ma anche per l'Italia il primo rito funebre, compiuto nelle stesse grotte abitate; a essi si aggiunge lo scheletro ritrovato a Lama dei Peligni (v. abruzzo) sotto uno strato neolitico antico e presentante i caratteri della razza detta mediterranea.
Neolitico. - Con il clima mitigato, con la scomparsa della fauna pleistocenica, estinta o trasmigrata per dar posto alle specie attuali, si afferma in tutta Italia la civiltà neolitica, caratterizzata dalla fissità della dimora, anche costruita appositamente, dalla levigatura delle pietre, verdi soprattutto (giadeite, nefrite, cloromelanite, diorite, serpentino, porfirite, ecc.), dalla regolare pratica del rito funebre inumatorio, dal largo impiego dell'osso lavorato, dallo sviluppo dell'arte ceramica, dell'agricoltura accanto alla caccia e alla pastorizia, della prima industria tessile. Contro le supposizioni del passato, ora non si crede più che questa civiltà sia il prodotto di una grande immigrazione di famiglie venute dall'Oriente, ma il risultato di una lenta e graduale evoluzione. Nell'Europa occidentale-centrale lo iato che prima si ammetteva tra Paleolitico e Neolitico, è riempito dalle culture di transizione (aziliana, tardenoisiana, campignana, ecc.): queste successioni mancano in Italia, ma i primi germi della nuova civiltà possono scorgersi nell'ambiente stesso grimaldiano. Ad es., i primi tentativi di ceramica (Caverna di Equi, nelle Alpi Apuane), riscontrati da altre prove raccolte nel Paleolitico superiore europeo (Belgio, Francia), si armonizzano con la presenza di capanne figurate nell'arte franco-cantabrica del Solutréano-Magdaléniano, con la prima levigatura di pietre nell'ambiente willendorfiano, con la stessa costituzione paleolitica del rito funebre accompagnato da corredo e col cadavere in posizione rannicchiata; infine con la constatazione dei giacimenti di pietre verdi nelle nostre Alpi occidentali e nell'Appennino, per cui si dovette ripudiare l'idea dell'importazione assoluta degli strumenti levigati. Oltre a ciò, altri legami con la cultura pleistocenica sono: la continuazione dell'uso di selci scheggiate, con il largo impiego di punte e di lamelle e di nuclei negli ambienti neolitici, e oltre, tanto da rendere talvolta incerta la distinzione dai veri tipi moustériani e grimaldiani, e soprattutto il fenomeno delle persistenze culturali paleolitiche, quali si verificano ampiamente negli strati neolitici di Sicilia, e in particolar modo sui Monti Lessini, sul Gargano, in talune località delle Marche (Arceviese) e dell'Umbria, e nella Valle della Vibrata. In questi luoghi si raccolsero strumenti scheggiati analoghi a quelli dei køkkenmødding danesi e del Campignien francese (picchi, tranchets), sì da indurre nella definizione di una speciale civiltà campignana. che R. Battaglia ha cercato d'individuare nel tempo e nello spazio, mentre, secondo la vecchia idea del Pigorini, essa sarebbe la trasformazione dell'industria amigdalare, prodotta dalle più primitive tribù viventi, appartate, accantonate, a contatto con le nuove civiltà.
Seriamente avversata, specie per la mancanza di appoggi stratigrafici, l'idea della continuazione, non solo industriale, innegabile, ma etnica, è tutt'altro che ripudiabile, pur se grave è il problema dimostrativo.
Anzitutto, gli ambienti naturali, geografici, favoriscono l'idea, che trova conferma nelle vicende di tempi storici (basti ricordare i Liguri cavernicoli combattuti da Roma); nelle stazioni dei Lessini, mantenutesi conservatrici fino agli ultimi tempi repubblicani di Roma, gli strumenti di tipo campignano sono associati con rozze fogge amigdalari e solutréane, e con le pietre levigate e la ceramica. Similmente si verifica nell'Arceviese, nella Valle della Vibrata, e sul Gargano, dove le recentissime esplorazioni di U. Rellini, F. Baumgaertel, R. Battaglia, confermano l'appartenenza dei manufatti in questione (per i quali il Vaufrey proponeva una indefinibile facies "garganiana") perfino alla piena età dei metalli, così come era stato provato nell'Arceviese. Indagini future potranno dimostrare se questa industria campignana (o questo "Garganiano"), sia stata o no preceduta da prodotti più direttamente collegati con gli amigdaloidi, ovvero, se riempiendosi una lacuna, debba considerarsi in parte quasi uno strato di transizione, nostrano.
La civiltà neolitica, con le sue molteplici industrie, con i suoi modi d'abitazione (in capanne, in grotte naturali, sotto ripari rocciosi), con i suoi sepolcri terragni, nei quali anche spicca la posizione rannicchiata del cadavere, è diffusa dalla cerchia alpina per tutta la penisola e nelle isole: in essa si vedono già affluire elementi estranei, prova dei primi commerci terrestri e marittimi, e anche primo attestato della funzione attrattiva che l'Italia eserciterà soprattutto nelle età seguenti. Ma, pur così diffusa, il suo aspetto non è uniforme, e difficoltosa riesce la distinzione della sua fase più antica da quella più recente, soprattutto per l'abbondante sovrapposizione degli strati appartenenti alla prima età dei metalli, cioè gli eneolitici. Un Neolitico antico, o fu di breve durata o sfugge alle ricerche; un criterio distintivo dalla fase finale, più riccamente rappresentata, fu adottato da G. Chierici, L. Pigorini e P. Orsi, tratto dalla mancanza o dalla scarsezza di manufatti litici fini o perfezionati, quali le accette levigate tipiche, le pietre perforate, le punte di freccia silicee. A un gruppo abbastanza omogeneo di giacimenti piuttosto arcaici sì possono assegnare: i cosiddetti fondi di capanna del Reggiano (Albinea, Rivaltella, Calerno, Campeggine) scavati dal Chierici, altri consimili del Modenese e del Bresciano e del Mantovano, quelli di S. Biagio presso Fano, di Camerata sul Lago di Lèsina, alcuni della Valle della Vibrata (v. abruzzo) e della Puglia, qualche stazione del Trentino e qualche deposito delle grotte liguri, la Grotta Cicchetti nel Materano e la Grotta del Diavolo all'estremo della penisola salentina. A una fase più recente, forse finale, appartengono gli abitati sulla roccia di Rumiano a Vayes (Val di Susa) e di Dos Trento (Trentino), la stazione all'aperto di Alba (Piemonte), fornitrice di una ricca serie di pietre levigate, le caverne liguri del Finalese (Arene Candide, Pollera, ecc.) e quelle del Carso, gli abitati delle Isole Tremiti e forse di Pantelleria, la maggior parte dei villaggi capannicoli della Valle della Vibrata, dove per la prima volta si scoprirono i fondi di capanna per opera di Concezio Rosa, e dove il sistema d'abitazione perdurò a lungo. Il Neolitico della Sicilia, rappresentato da un gruppo omogeneo di stazioni, fra cui primeggia Stentinello nel Siracusano (si aggiungano: Matrensa, Tre Fontane, Poggio Rosso, Fontana di Pepe nel Catanese, Piano Notaro e S. Cono di Licodia Eubea), appare più recente del peninsulare, specie dell'Adriatico, ma va distinto dal gruppo successivo sicuramente eneolitico (cultura occidentale di Isnello, a sé; e nell'orientale il tipo Castelluccio) in cui l'Orsi riconobbe il primo periodo "siculo" (v. sicilia).
Eneolitico. - L'introduzione dei primi oggetti metallici (asce piatte e pugnali triangolari di rame, e qualche ornamento d'argento) non turba l'aspetto sostanziale della civiltà, nel cui seno grandemente si perfezionano l'industria ceramica e quella litica, e che anzitutto mantiene immutato il rito funebre inumatorio e il sistema di abitazione. Continuano le grotte naturali, come a S. Canziano (Trieste) e nel Veneto, in Liguria e in Toscana; e le capanne straminee, circolari o ellittiche, talvolta rettangolari come in Sicilia (Sette Farine a Terranova), e anche rinforzate da muretti a secco (Veronese, Sicilia), per lo più si raggruppano in folti villaggi. Alle fosse terragne col cadavere per lo più rannicchiato, costituenti vere necropoli come la più celebre di Remedello Sotto nel Bresciano (altre tombe importanti a Ripoli nel Teramano, a Villafranca Veronese, nel Bresciano, Mantovano, Cremonese, in Toscana e nell'Umbria, nel Viterbese, nel Beneventano, ecc.), si accompagnano rare le sepolture in ciste (Val d'Aosta, Liguria), e più diffusamente quelle in grotte naturali (Trentino, Liguria, Toscana, ecc.). Ma un nuovo tipo si presenta, quello della cameretta artificialmente scavata nella roccia (tomba a forno, a calatoia), caratteristico soprattutto della Sicilia in vere necropoli (Castelluccio nel Siracusano, Monte Sara presso Agrigento, Capaci presso Palermo); esso si ritrova anche in una importante necropoli di Sardegna (Anghelu Ruju presso Alghero), e, isolatamente, nell'isola di Pianosa, nel Lazio (Cantalupo-Mandela, Sgurgola), nel Materano, dove il tipo perdura nell'età enea. Si hanno poi sicuri esempî di capanne mutate in sepolcro (nel Beneventano, a Ripoli, a Serra d'Alto nel Materano), e prove irrefutabili della scarnitura del cadavere con colorimento delle ossa in rosso (Sgurgola), nonché della trapanazione cranica (Casamari presso Frosinone).
Quanto all'abitazione in capanne, i cui più grandi e complessi esemplari sono forniti dai villaggi di Ripoli e di Serra d'Alto, importante è il sistema di recinzione difensiva con grandi trincee, ben studiate nel Materano (Serra d'Alto, Murgecchia, Tirlecchia) e presenti anche in Sicilia (Stentinello), dove anche appare la cinta con muro di pietre (Branco Grande presso Camarina). In questi tempi eneolitici, dunque, si ha il vero principio dell'architettura soprattutto funeraria.
Il perfezionamento dell'industria litica raggiunge gradi elevati nella perforazione (martelli, teste di mazza, anelli) e nella scheggiatura minuziosa della selce (pugnali, cuspidi di lancia, frecce); quello dell'arte ceramica non solo nella migliore cottura e nelle forme dei vasi, ma specialmente nell'ornamentazione (incisioni a cotto, ben congegnate, come nelle stazioni di Molfetta e del Siracusano), e infine nella produzione della prima ceramica dipinta su superficie lustrata, che, pur se di origine straniera, orientale, raggiunge nell'Italia meridionale (Molfetta, Matera, Capri) e in Sicilia (Megara Iblea) notevoli effetti (v. eneolitica, civiltà). E in questo periodo ebbe anche inizio l'attività mineraria (es., le miniere di selce a Monte Tabuto nel Siracusano); s'intensificò quella commerciale, sia fra le stesse regioni italiane per lo scambio del rame, del cinabro, delle pietre verdi, dell'ossidiana specialmente, che ebbe come centro primario l'isola di Lipari, sia con paesi stranieri. Dalla Penisola Iberica, grande focolare di cultura eneolitica, si diffuse forse il "bicchiere a campana" raccolto in tombe del nord (Cremonese) come del sud (Villafrati in Sicilia), s'importarono gli oggetti d'argento (spillone di Remedello, pettorale di Villafranca Veronese) e la cosiddetta alabarda; dall'Oriente egeo pervennero in Sicilia i celebri ossi lavorati di Castelluccio, simili a quelli di Troia, e in Sardegna gl'idoletti di marmo di tipo cicladico, trovati ad Anghelu Ruju, e imitati. Altri saggi di plastica infantile sono state raccolte in Liguria (Arene Candide, Pollera) e nella Puglia; mentre a Malta si sviluppò una vera attività scultoria: vi si scolpirono strane figure accosciate destinate al culto, praticato in templi sotterranei (vedi malta: Preistoria).
Ma, fatto singolare, nell'Italia settentrionale, è l'impianto e il primo sviluppo delle abitazioni lacustri su palafitta, che diverranno più caratteristiche nell'età successiva. Nella Lombardia centrale-occidentale le palafitte più antiche risalgono a questo periodo, se non già alla fine dello stesso neolitico puro; e benché lo studio dei materiali palafitticoli, dato l'inevitabile naturale rimescolamento, sia difficile, alcune stazioni di breve durata meglio servono alla determinazione di arcaicità (Polada presso Desenzano, Ca' de Cioss e Lagazzi nel Cremonese, Cataragna nel Bresciano, ecc.).
Anche più antiche, rispetto a quelle dell'età enea, devono considerarsi le palafitte venete (Arquà, Fimon), che L. Pigorini includeva nel suo gruppo "orientale" non oltrepassante la linea del Mella-Oglio, considerandolo più legato alle terramare; oggi la distinzione dei due gruppi sotto il punto di vista cronologico, non è più ammessa dagli studiosi.
In sostanza uniforme, la civiltà eneolitica presenta anche notevoli differenze regionali, che saranno il fondamento di quelle più sensibili delle successive età. La Sicilia ha caratteri proprî, e così la Sardegna, e diversi dalla cultura peninsulare, già variata, pur se debolmente. G. A. Colini riconobbe tre aspetti o gruppi: 1. delle palafitte più antiche di Lombardia; 2. delle sepolture in fossa terragna o in grotta dell'Italia settentrionale e centrale; 3. del litorale toscano e del Lazio (cui può aggiungersi il mezzogiorno), avente per caratteristica più saliente l'uso delle grotticelle artificiali funerarie. Prematuro forse è ogni sforzo per stabilire una successione cronologica sicura, all'infuori del riconoscimento di depositi iniziali, che si collegano ai villaggi siciliani tipo Stentinello (prima attribuiti all'Eneolitico, poi nuovamente giudicati del Neolitico puro), e di qualche strato che, come la tomba di Battifolle (Cortona), segna il passaggio all'età enea.
Se nelle prime palafitte si può supporre, con il Pigorini, la discesa di genti dalla Svizzera, paese "classico" al riguardo, in generale gli archeologi, per tutto il complesso delle stazioni peninsulari, non pensano a mutamento di razza (a differenza di qualche storico che già vede l'ingresso di elementi italici); la qual razza, che secondo alcuni sarebbe da chiamare ibero-ligure, è in sostanza la mediterranea.
Età del bronzo. - Non ugualmente può dirsi per la successiva età enea, in cui realmente si avverte un fatto nuovo, con la conseguenza dell'impostazione di gravi e discussi problemi da parte dei paleoetnologi, e nella quale si deve riconoscere la base formativa di quella civiltà che poi sarà l'italica dell'alba storica.
Il fatto nuovo è rappresentato dall'impianto e dallo sviluppo delle cosiddette terramare lombardo-emiliane, palafitte in terra asciutta, rigidamente organizzate nel loro tipo più evoluto (Castellazzo di Fontanellato, Castione de' Marchesi, ecc.) con norme attestanti un grado superiore di convivenza sociale, sulla base di un principio di collettivismo, che è in assoluto contrasto con la sostanzialità della precedente civiltà neo-eneolitica. Il contrasto è aumentato dalla prima presenza del rito funebre a incinerazione, praticato con fitte necropoli caratterizzate da una straordinaria semplicità, o rudezza, e dalla mancanza di personali distinzioni. Così l'Italia settentrionale viene in certo modo a corrispondere al quadro offerto dall'Europa centrale-danubiana con i suoi "campi di urne" (v. inumazione e incinerazione).
La civiltà delle terramare, giustamente attribuita a un popolo di agricoltori e di combattenti (accanto alle falci di bronzo, spiccano le lance e le spade), per quanto sia collegabile a quella delle palafitte lacustri dal punto di vista del generico sistema d'abitazione, presenta un aspetto intimo e complessivo del tutto particolare. Limitata nello spazio e nel tempo, essa si distende nella Lombardia bassa-orientale (Mantovano, Cremonese, Bresciano) e nell'Emilia, dal Piacentino al Bolognese: ci è nota per un seguito di accurate e intense esplorazioni, e con un numero di più sicure stazioni sommante a settanta o poco più. Presenta due fasi di vita, come le palafitte del Garda (Peschiera) più affini: una più antica, in cui ancora abbondano gli oggetti di pietra (stazioni sulla sinistra del Po), l'altra più recente, in cui la sostituzione con armi e strumenti di bronzo è quasi completa (stazioni emiliane soprattutto). Questa seconda fase rappresenta il pieno dell'età e la fine; e però le terramare emiliane, realmente produttrici di bronzi con intensa attività e con forme tipiche, come nessun'altra regione d'Italia del tempo, vennero considerate l'epicentro della civiltà enea peninsulare. Circa sull'inizio del primo millennio a. C., la vita delle terramare quasi d'improvviso cessa; e mentre più tardi a est del Panàro si sviluppa la civiltà villanoviana, a ovest di quella linea scarsi documenti si hanno di una cultura terramaricola attardantesi (necropoli di Bismantova nel Reggiano, e di Fontanella Mantovana), e sugli strati archeologici veramente terramaricoli si sovrappongono solo tracce dell'epoca detta etrusca. Della scomparsa dei terramaricoli, attribuita alla loro migrazione oltre Appennino dalla classica teoria pigoriniana, non si spiegavano se non vagamente le vere cause determinanti; oggi si vogliono pensare dovute a mutamenti climatici, in armonia con i fenomeni studiati nella Germania meridionale dal Gams e dal Nordhagen, e con i quali anche sarebbe in relazione l'innalzamento del livello nei laghi svizzeri.
L'uniformità della civiltà del bronzo in Italia, affermata da qualche studioso, è solo apparente; può limitarsi ai soli oggetti metallici. Ma, la produzione ceramica, in primo luogo, e il sistema di vita risultante dalle forme d'abitazione e anche dal rito funebre, impongono alla riflessione una sostanziale differenza.
Anzitutto, staccata dalle terramare resta la cultura delle palafitte occidentali, o lombarde, non ricca e meno variata, la quale alla fine dell'età si distende fino in Piemonte (torbiere d' Ivrea, di Trana, ecc); completamente diversa è poi la sostanza della civiltà, non solo della Sicilia e della Sardegna, ma di tutto un foltissimo gruppo di stazioni peninsulari in cui si continua il vecchio sistema (villaggi di capanne semisotterranee, grotte naturali).
Si distendono esse dal Veneto alla Lucania, soprattutto affollandosi nella regione montuosa digradante verso l'Adriatico; e, un poco diverse, sono presenti anche nella Lombardia centrale e occidentale attorno alla concentrazione terramaricola (Cella Dati, S. Pietro in Mendicate, Vho di Piadena, Calvatone, Gottolengo bresciano, ecc.). Distinte in piccolo numero dallo stesso Pigorini, e spiegate come sedi delle famiglie neoeneolitiche persistenti, furono poi messe in rilievo da G. A. Colini (le più importanti: Marendole nel Padovano, Toscanella Imolese, Monte Castellaccio Imolese, Bertarina di Vecchiazzano forlivese, Villa Bosi e Cassarini a Bologna) che le collego alle stazioni allora note delle Marche (Arceviese, Grotta di Frasassi) e alle persistenze neo-eneolitiche della Valle della Vibrata, e ai depositi più meridionali (Grotta delle Felci a Capri, Grotta Nicolucci presso Sorrento, Grotta Pertosa nel Salernitano): i quali ultimi sono stati oggetto di studio più proficuo da parte di G. Patroni e di U. Rellini, specie dopo l'esplorazione della Grotta di Latronico (Potenza). Ma il numero di queste stazioni è andato sempre aumentando, specie per merito delle indagini del Rellini, il quale per meglio individuarle ha proposto il nome comprensivo di extra-terramaricole. Purtroppo, scarsi sono i sepolcri che a esse o si riferiscono o si possono collegare; ma i pochi (es., Povegliano Veronese, Toscanella Imolese, Parco de' Monaci nel Materano) confermano il contrasto con le terramare, per il rito inumatorio praticatovi.
Anche per le stazioni extra-terramaricole (v. bibl.) si devono riconoscere due fasi: l'una più antica, in cui quasi del tutto assente è il bronzo (tipiche le stazioni dell'Arceviese, Le Conelle, e altre marchigiane), mentre impressionante è l'abbondanza e la varietà della litotecnica; l'altra più recente e meglio documentata nell'Emilia, nelle Marche (Filottrano, Spineto, Pievetorina, ecc.), nello Abruzzo, nella Puglia e in Lucania, in Campania e più recentemente nel Senese (Montagna di Cetona). In questa fase seriore non tanto valgono gli oggetti di bronzo, sempre scarsissimi, o non mai abbondanti come nelle terramare, ma è la produzione ceramica che assume uno speciale valore significativo. Accanto allo sviluppo dell'impasto nero-lucido, o pseudo-bucchero, accanto alle forme più ricche e variate, la nota dominante consiste nella decorazione incisa con motivi meandriformi e spiralici, non dissimili dagli schemi della ceramica eneolitica di Butmir (Bosnia), apparentata nella manifestazione più semplice con riempitura biancastra ai cocci neo-eneolitici siciliani (Stentinello, ecc.), e in limitata parte anche analoga alla cosiddetta Bandkeramik germanica. Straordinario è anche lo sviluppo delle anse, compresa quella cornuta o lunata, finora ritenuta peculiarmente caratteristica delle terramare, ma che il Patroni per le stazioni lombarde e il Battaglia per le palafitte venete, e ora anche il Rellini per le Marche, vedono sorgere ed evolversi negli ambienti extra-terramaricoli.
Altro fatto importante è il culto professato alle acque, sorgive come nella Grotta Pertosa, medicamentose come a La Panighina (Forlì), o culto vago come nella Grotta di Frasassi, e forse anche in quella di S. Michele a Monte Sant'Angelo (Gargano).
Nonostante la scoperta di Cetona (Belverde), quasi nel cuore d'Italia, non contando la Liguria dove permane conservatrice l'antica vita trogloditica, sul versante tirrenico tosco-laziale la civiltà del bronzo rimane sempre singolare, attestata da un buon numero di ripostigli e da scarsi ritrovamenti sporadici di oggetti metallici. E, in realtà, mentre nei villaggi emiliani, più a contatto delle terramare, si sono trovate anche le matrici per fusione, al contrario le stazioni adriatiche, marchigiane e abruzzesi spiccano per la loro povertà di bronzi; i quali infine, se presenti a Belverde di Cetona, ma non abbondantemente, appartengono alla fine dell'età e all'alba della civiltà del ferro.
Al confronto, la Sicilia, che certo influisce sull'Italia meridionale, sviluppa la sua propria civiltà del 2° periodo siculo (tipo Matrensa-TapsoCassibile-Pantalica, per le necropoli, e tipo Caldare-Cannatello, per gli abitati) più fornita di bronzi; inoltre più ricca di contenuto metallico è la Sardegna dove fiorisce la particolare civiltà dei nuraghi, con la singolare produzione dei bronzetti figurati votivi (v. bronzo: Civiltà del bronzo; nuraghi; sardegna; sicilia).
Riassumendo, per l'età del bronzo, l'Italia presenta questi distinti gruppi culturali: 1. palafitte del settentrione (Veneto, Lombardia orientale: queste più confrontabili con le svizzere); 2. terramare lombardo-emiliane, costituenti un gruppo omogeneo con caratteri tipici; 3. stazioni extra-terramaricole della Val Padana, con maggiori contatti con la cultura terramaricola; 4. stazioni extra-terramaricole appenniniche (da Toscanella Imolese, attraverso le Marche e Cetona, alla Campania-Lucania) caratterizzate dallo stile ceramico "Pertosa-Latronico"; 5. territorio pugliese, dove si innalzano dolmen e menhir, ancora non chiaro nel suo preciso significato; 6. Sicilia, più aperta, specie nella parte orientale, agli influssi egei; 7. Sardegna nuragica, dove convergono influssi orientali, egei, e occidentali, balearico-iberici.
Per i gruppi extra-terramaricoli non si sollevano problemi; la fondamentale unità può essere addotta come prima prova della persistenza etnica neo-eneolitica; oltre agl'influssi provenienti dal nord, dalla civiltà terramaricola che propaga fino allo Ionio i suoi prodotti metallici, si deve tener conto di quelli siciliani più appariscenti nel mezzogiorno (in primo luogo il sistema funerario delle grotticelle nel Materano); non definibili ancora sono i supposti influssi d'oltre-Adriatico.
Discussa invece è l'origine e la vita delle terramare. Contro la prevalente teoria formulata da G. Chierici, W. Helbig, L. Pigorini, che le ritiene fondate da una potente immigrazione di genti arie, i primi Italici, sta l'opposizione del Brizio che le attribuiva alle medesime genti neolitiche, da lui chiamate liguri. Ma la civiltà terramaricola, con la sua rigida organizzazione sociale, con la più sviluppata capacità metallurgica, non accompagnata da vero spirito d'arte, e infine col rito funebre dell'incinerazione, assoluta novità, è troppo discordante dall'essenza culturale delle genti neoeneolitiche, più atte fra l'altro all'esercizio di virtù plastiche e decorative, estetiche. Si deve pertanto riconoscere la sua prepotente individualità, e quindi la sua origine estranea. Oscuri invece rimangono il luogo originario e la via d'accesso: se ancora qualche paleoetnologo guarda all'oriente danubiano, come D. Randall MacIver, peraltro la via d'accesso non può ritenersi più la Val d'Adige, dove la cultura terramaricola sale, ma non discende. Restano, la grande via di tutte le invasioni storiche, attraverso le Alpi Giulie, o, come ha accennato il Leopold, dimostrando l'infondatezza delle analogie finora addotte col materiale ungherese, quella stessa tenuta dai primi palafitticoli, attraverso l'Alpe lacustre.
Prima età del ferro. - Con la scomparsa della vita terramaricola e con le prime necropoli a incinerazione dell'Italia centrale, si entra in tempi ormai protostorici.
La ragione fondamentale della varietà che la ricca civiltà del ferro italiana presenta (per le dettagliate notizie si rimanda a: ferro, civiltà del) sta negli aspetti differenziati della precedente cultura enea. I rapporti molteplici, commerciali e culturali in genere, attivi nell'interno fra gruppo e gruppo, e vigenti con l'estero per vie terrestri e per mare, dànno all'insieme un superficiale aspetto di uniformità, tanto più appariscente nelle regioni dove il rito incineratore si afferma nelle necropoli con generale prevalenza sul principio. Così si spiegano le analogie formali del materiale specie ceramico deposto nelle tombe a inumazione calabresi di Torre Galli e di Canale-Janchina (v. calabria: Preistoria: ferro, civiltà del) con le stoviglie villanoviane dei gruppi incineratori emiliano-tosco-laziali.
Dei nove gruppi in cui si distingue la nostra prima civiltà del ferro peninsulare in base ai materiali dei sepolcreti (1°: di Golasecca o Ticinese; 2°: Veneto-Istriano; 3°: Villanoviano bolognese; 4°: Villanoviano tosco-umbro; 5°: Laziale; 6°: Piceno; 7°: Sannita-Campano; 8°: Bruzio-Lucano; 9°: Apulo-Messapico), gli ultimi quattro, adriatico-meridionali, spiccano singolarmente per la costante praticazione del rito inumante, eccettuato l'isolato fenomeno di Monte Timmari in Lucania.
Così l'Italia peninsulare adriatica e meridionale, come già nell'età enea, ancora mantiene un'indistruttibile indipendenza.
Il rito incineratore, che si afferma, preponderando, nel Villanoviano arcaico del Bolognese, si diffonde nel centro d'Italia soprattutto sul versante tirrenico; preponderante anche qui nelle più arcaiche necropoli della bassa Etruria, quasi esclusivo sui Monti Albani (ma mescolato e in minoranza sul suolo romano, alle origini della città) e non sorpassa le Paludi Pontine, come non varca la catena appenninica verso l'Adriatico. Man mano che si propaga e si mescola, perde il suo carattere primitivo di rude semplicità, arricchendosi le tombe di corredo; e nel corso dell'età, sempre più mescolandosi alle fosse inumatorie (salvo pochi casi isolati di tenace persistenza), finisce per esser debellato, allorché tra il sec. VIII e il VII a. C., con i potenti influssi d'oltremare, orientali, la primitiva civiltà del ferro si trasforma.
Purtroppo, alle vicende studiate nelle numerosissime necropoli non possono accompagnarsi quelle degli abitati, data la straordinaria penuria delle reliquie rintracciate: tanto che legittimo può sorgere il dubbio se qualche stazione attribuita all'età enea finale non debba passarsi addirittura alla fase successiva. Al contrario, nel nord, nella Venezia Giulia, e anche nella Tridentina, abbondanti sono le vestigia degli abitati preistorici (castellieri). La complicata e avvicendata storia delle necropoli, oltre ai caratteri intrinseci del materiale, servì di base agli archeologi per la risoluzione del problema etnologico, cioè la formazione della nazionalità italica, risolto altrimenti e con altri mezzi da antropologi, storici e glottologi.
La teoria pigoriniana, non senza opposizioni parziali e totali, ammetteva la reale discesa delle genti terramaricole per quasi tutta la penisola, dal Villanoviano arcaico bolognese, direttamente provenuto, alle antichità prisco-laziali, più affini alla rude semplicità terramaricola, e fino allo Ionio; in virtù di questa concreta propagazione si sarebbe intonata in un tutto più armonico la varietà culturale della penisola. A conforto della tesi si citava: la serie delle necropoli dette di transizione (Bismantova, Fontanella, Pianello, Timmari) collegate alle più arcaiche del periodo successivo (Boschetto di Grottaferrata, Allumiere, Palombara Sabina, S. Vitale bolognese, ecc.), e specialmente la cosiddetta terramara della Punta del Tonno a Taranto. Ma questa, non definitivamente divulgata, è stata sempre causa di serî dubbî, sì da persuadere che il carattere terramaricolo poggi su pure esteriorità del materiale; infine scavi recentissimi al Pianello di Genga e nella gola del Sentino, con i loro risultati, se non spiegano altrimenti la presenza del rito funebre incineratore, per lo meno distruggono il valore di caposaldo che questa necropoli, ora giudicata più tarda, finora aveva. Gli stessi seguaci della teoria pigoriniana hanno riconosciuto che la funzione dominatrice della civiltà terramaricola debba contenersi in più giusti limiti; mentre altri studiosi ingiustamente la negano senz'altro.
Con la preoccupazione di accordare i risultati archeologici di scavo, non solo con le tradizioni storiografiche, ma soprattutto con le definizioni nominali delle varie popolazioni italiche, quali si desumono dalla storia, si sono proposte molteplici soluzioni, escogitando successive immigrazioni (proto-italiche e italiche), per spiegare etnologicamente le varietà della prima civiltà del ferro, in relazione al più dibattuto problema delle origini etrusche (vedi etruschi).
Di qui le varie vedute di E. Brizio, G. Ghirardini, G. De Sanctis, B. Modestov, L. A. Milani, A. Grenier, D. Randall MacIver, F. von Duhn, L. Pareti, G. Patroni, G. Devoto, ecc.
Più generalmente l'italicità viene riconosciuta nelle genti incineranti, né si può disconoscere la giustezza del riconoscimento; ma d'altra parte, se diamo al termine italico il suo più giusto e puro significato e valore, quale la glottologia e anche la storia consigliano, non può non recare disagio il constatare che la vera italicità, storicamente concreta con le stirpi osco-umbre e sabelliche, si basa archeologicamente su quei gruppi adriatico-meridionali caratterizzati dalla persistente cultura neo-eneolitica e dalla costante pratica del rito inumante: razza antropologicamente mediterranea.
Quasi a togliere il disagio, ma partendo dalle arcaiche inumazioni di Terni, F. von Duhn ha suddiviso gl'Italici in incineratori e inumanti, ritenendo questi ultimi discesi nella penisola circa un millennio dopo i primi (terramaricoli e proto-villanoviani); ma giustamente si è osservato da molti l'impossibilità di siffatta tardiva discesa nel cuore d'italia, discesa che non lascia tracce del passaggio. Da ultimo, nel campo archeologico, U. Rellini ha assegnato senz'altro il nome di Italici ai gruppi appenninici e meridionali della cultura enea, in realtà anacronisticamente rispetto alle definizioni finora adottate dai varî paleoetnologi. Ma la difficile risoluzione, anzitutto, non può farsi senza inquadrare nell'esame totalitario la civiltà terramaricola, nonché quelle successive più affini a essa; secondariamente, alla risoluzione stessa nuoce ogni criterio di rigidezza fondata sulle definizioni nominali, formazioni di tempi maturi e non originarî, alla pari dei linguaggi italici stessi che servono di base a storici e glottologi. Dal puro punto di vista archeologico può dirsi: non si può disconoscere l'esistenza di un grande fondo sostanziale, culturale ed etnico, quale l'Italia dell'età enea mostra già ricco di vitalità che posteriormente si rivela; ma è anche evidente la penetrazione nel nord di gente diversa, quale la terramaricola. I rapporti reciproci e molteplici, commerciali e culturali, innegabili, e anche la propagazione di elementi umani, non catastrofica e limitata, almeno nelle regioni dove il rito incineratore dapprincipio predomina, pongono in felice contatto le civiltà e le vite umane diverse; ne consegue una complicata vicenda di commistioni e di assorbimenti, che la storia dei riti funebri è la prima a illuminare, ponendo fors'anche in evidenza, con la vittoria finale dell'inumazione, qual'è l'elemento spiritualmente più forte. È dal risultato della fusione, avvenuta non semplicemente ma variamente, secondo la prevalenza di numero e di cultura, secondo la natura fisica dei luoghi e le speciali condizioni di vita, che si forma quella compagine etnica, non uniforme in senso assoluto, ma in gran parte cementata da tradizioni originarie, lingua, costumi, idee religiose, ecc., alla quale soltanto Roma, dopo aspra lotta quasi fratricida, è destinata a dare una vittoriosa unità.
Bibl.: La vasta bibliografia relativa alla preistoria italiana è stata raccolta con ordine esemplare, fino al 1927, nell'opera di A. Della Seta, Italia Antica, 2ª ed., Bergamo 1928 (pp. 439-447). A essa si rimanda; solo qui si aggiungono alcune pubblicazioni posteriori non citate, più utili alla consultazione.
Per la storia della paleoetnologia: U. Antonielli, Il posto dell'Italia negli studi di preist., in Historia, II (1928), pp. 196-216.
In generale: U. Rellini, Le origini della civ. italica, Roma 1929; id., Rapporto prelim., in Bullett. di Paletnol. ital., L-LI (1930-1931), pp. 43-133 (ricerche sul Gargano).
Per il Paleolitico: G. A. Blanc, Grotta Romanelli, in Archivio per l'antrop. e l'etnol., LVIII (1928), pp. 365-411; R. Vaufrey, Le Paléolithique italien, Parigi 1928; Archivio p. l'Antrop. e l'Etnol., LVIII (1928), pp. 77, 88, 276, 341 (per il Paleolitico superiore e le continuazioni); R. Battaglia, Il Paleol. sup. in Italia, in Bullett. di Paletnol. ital., XLVII (1927), pp. 11-34; S. Sergi, Il primo cranio del tipo di Neanderthal, ecc., in Atti Soc. Progresso Scienze, XIX riun. (1930), p. 471 (cfr. L'Anthropologie, XLI, 1931, p. 241, ecc.); U. Rellini, in Bullett. di Paletnol. ital., L-LI (1930-31), pp. 1-11, e ibid., LII (1932), pp. 1-4 (Loretello); G. De Lorenzo e G. D'Erasmo, L'uomo paleolit. e l'Elephas antiq. nell'Italia merid., in Atti R. Accad. Scienze fis. matem. Napoli, XIX, s. 2ª, n. 5 (1932), e cfr. in Bullett. di Paletnol. it., LII (1932), pp. 5-8.
Per l'età dei metalli: U. Antonielli, Due gravi problemi paletnol., in Studi Etruschi, I (1927), pp. 11-61; G. E. Genna, La trapan. del cranio, ecc., in Riv. di Antropol., XXIX (1929-1930), pp. 139-161 (cranio di Casamari); D. Randall-MacIver, The Iron age in Italy, ecc., Oxford 1927; H. M. R. Leopold, La sede originaria dei terramaricoli, in Bullett. di Paletn. ital., XLIX (1929), pp. 19-31 e ibid., L-LI (1930-31), pp. 168-174; LII (1932), pp. 22-37 (età del bronzo in Italia); N. Åberg, Bronzezeitliche u. Früheisenzeitl. Chronologie, I: Italien, Stoccolma 1930; G. Devoto, Gli antichi Italici, Firenze [1931]; U. Rellini, Le stazioni enee delle Marche di fase seriore e la civ. italica, in Monum. Lincei XXXIV (1932).
L'Italia fino alla caduta dell'Impero romano.
Etnografia antica. - I popoli sui quali si estese la dominazione romana in Italia furono principalmente i seguenti: a) i Latini, dimoranti nel Lazio, al cui novero appartenevano i Romani medesimi, e i Falisci nell'Etruria meridionale intorno a Civita Castellana, b) a est e a sud-est del Lazio: gli Equi, lungo il corso superiore dell'Aniene, i Volsci in parte delle valli del Sacco e del Liri, e su un tratto della costa Tirrena a nord di Terracina; gli Ernici, tra gli Equi e i Volsci; c) i Sabini nel territorio di Terni e di Rieti, gli Umbri lungo il corso superiore del Tevere e sul prossimo Appennino sino alla valle del Nera: i Marsi, i Peligni, nelle alte valli del cuore dell'Appennino, i primi nel bacino del lago di Fucino, e i secondi a O. di questo lago, i Picenti e i Pretuzi sulla costa Adriatica tra Ancona e Adria, i Vestini e i Marrucini a mezzogiorno dei Picenti, divisi tra loro dal Pescara; d) i Campani nella Terra di Lavoro; i Sanniti nel paese montuoso fiancheggiante il Lazio e la Campania, dalle alte valli del Sangro e del Volturno fino al Silaro dall'una parte, a Lucera e Venosa dall'altra, divisi in Caraceni e Pentri al nord, Irpini e Caudini al sud: i Frentani sul versante Adriatico del Molise sino al Fortore; i Lucani, a sud della Campania fra il Tirreno e il golfo di Taranto; i Bruzî nell'odierna Calabria; e) gli Iapigi nelle regioni costiere adriatiche e ionie dell'odierna Puglia, distinti in Apuli, Dauni e Peucezî al nord; Messapî, Sallentini e Calabri al sud; f) gli Etruschi, tra l'Appennino e il Tirreno, stretti dal corso del Tevere, dalle sorgenti alla foce; g) i Greci della Magna Grecia e della Sicilia; h) i Liguri nella parte occidentale dell'Italia settentrionale, e precisamente in tutta la regione costiera a nord della foce dell'Arno, e nell'interno sino al Po, verso la confluenza del Ticino; i) i Veneti nel versante orientale dell'Italia settentrionale, tra l'Adige, o meglio il Tagliamento, le Alpi, il Po e l'Adriatico; l) i Galli, incuneati tra i Liguri e i Veneti, distinti in molte tribù, di cui le principali erano gli Insubri, a sud del lago Maggiore e del lago di Como, i Cenomani tra i laghi d'Iseo e di Garda e il Po; i Lingoni, lungo il corso inferiore del Po, i Boi fra questi e gli Appennini, i Senoni a sud di Rimini; m) i Siculi e i Sicani nella Sicilia, a prescindere dall'estrema punta occidentale, occupata dagli Elimi; n) i Corsi nella Corsica e nella parte settentrionale della Sardegna: o) i Sardi nel resto della Sardegna.
Di queste popolazioni quelle raggruppate sotto le lettere a-d appartenevano alla stirpe degl'Italici propriamente detti, che l'indagine linguistica dimostra non soltanto risalire al ceppo indoeuropeo, ma costituire in esso una particolare unità, differenziata dalle altre maggiori della stessa famiglia indo-europea: Celti, Germani, ecc. In questa unità, peraltro, la medesima indagine linguistica impone si distinguano due gruppi: il gruppo Latino-falisco e il gruppo Umbro-sabellico o Osco-umbro, per notevoli differenze fonetiche, morfologiche, sintattiche e, soprattutto, lessicali., Al primo gruppo appartengono Latini e Falisci: al secondo tutte le popolazioni elencate sotto la lettera c) parlanti l'umbro e idiomi affini e quelle sotto la lettera d) parlanti le diverse varietà dell'osco. Tra le popolazioni elencate alla lettera b) i Volsci pare avessero affinità con gli Umbri, mentre per gli Equi e per gli Ernici che furono presto latinizzati, resta incerto a quale dei due gruppi appartenessero.
Alla famiglia indoeuropea, oltre i Greci, appartenevano con certezza anche i Galli, di stirpe celtica, i Siculi e i Sicani, che dovevano sostanzialmente costituire un'unità etnica, e con probabilità anche i Veneti e gli Iapigi, a giudicare dalle poche conclusioni che possono trarsi dai difficili testi epigrafici veneti e messapici; anzi i più convengono che vi abbiano particolari affinità tra le lingue degli uni e degli altri e l'antico Illirico. Anche dei Liguri è stata da alcuni sostenuta l'origine indoeuropea, ma sembra da escludersi, come pare debba escludersi per gli Etruschi: ché anzi, nella tanto vessata e tormentata questione sulla nazionalità degli Etruschi, questo pare l'unico dato sicuro. Sull'origine dei Sardi e dei Corsi, finalmente, nulla, per mancanza di documenti, l'indagine linguistica può accertare.
L'assetto etnografico che noi abbiamo descritto è quello delle diverse regioni italiane, quando vi giunsero le armi romane, e sostanzialmente corrisponde a quello della confederazione italica; ma questo assetto fu, a sua volta, la risultante di tutto un complesso di precedenti invasioni, sovrapposizioni e spostamenti etnici, che si effettuarono dai tempi più antichi ai giorni della dominazione romana.
Di questi spostamenti e di queste fluttuazioni quelli che possiamo cogliere in età storica sono i seguenti: la discesa delle stirpi celtiche nell'Italia settentrionale, effettuatasi, probabilmente, già nel sec. V a. C., non sappiamo se con unica invasione o, come par più probabile, a ondate successive, e l'avanzarsi delle stirpi sabelliche nella Campania, nella Lucania e nel Bruzio, nella seconda metà del sec. V e nel principio del IV. Nell'Italia settentrionale i Celti ebbero a combattere con gli Etruschi, ed è certo che, se non le sedi, la dominazione di questo popolo si estese, verso la seconda metà del periodo della monarchia romana, oltreché nell'Etruria, Emilia e Italia settentrionale, nel Lazio e in parte della Campania. D'altro canto sappiamo che le stirpi sabelliche, discendendo nell'Italia meridionale, si sovrapposero a stirpi preesistenti, che son poi quelle con le quali erano venuti a contatto i Greci nei primi tempi della loro colonizzazione, e cioè, gli Ausonî della Campania e gli Enotrî del resto dell'Italia meridionale, dei quali facevano parte gl'Itali dell'estrema punta dello stivale e dai quali si dipartirono i Siculi e i Sicani sfociando nella Sicilia. Ausonî, Siculi e Sicani e quindi, in genere, gli Enotrî appartenevano con la massima probabilità al gruppo latino (basti ricordare che sono nomi di stampo prettamente latino quelli di Volturnus, Nola, ager Falernus, come anche gli etnici Siculi e Sicani). Quindi è lecito concludere che prima del sec. V a. C. l'Italia settentrionale era divisa tra Liguri, Etruschi e Veneti, la centrale tra Umbri, Etruschi e Latino-Falisci, la meridionale e la Sicilia tra questi ultimi e le colonie greche.
Altre illazioni sono lecite per il tempo precedente all'invasione etrusca, che, cioè, gli Etruschi, così nell'Italia settentrionale come in quella centrale, si fossero sovrapposti a stirpi umbre. Infatti anche qui basti ricordare che sono di origine italica nomi quali Umbro per il fiume Ombrone, Camers per la città di Clusium Hatria, Spina, e origini umbre erano attribuite dalla tradizione a Cortona, Perugia, Ravenna, Rimini, ecc.; si aggiunga che, secondo Erodoto, i due affluenti del Danubio, Karpis e Alpis, avevano le loro sorgenti in terra 'Ομβρικῶν, e l'importanza degli Umbri nella più remota antichità è confermata da non pochi indizî. E allora noi possiamo riconquistare nella carta etnografica dell'Italia antica il momento nel quale l'Italia centrale e la settentrionale erano per la massima parte occupate da stirpi umbre, cioè italiche.
E siamo tutti a domandarci: quali furono le stirpi, cui alla lor volta si sovrapposero gli Umbri? e può rispondersi con la massima probabilità che nell'Italia settentrionale essi trovarono i Liguri, i quali certamente un tempo ebbero sedi assai più estese di quelle del tempo storico: e allora ecco la successione che ci si profila: substrato ligure, diffusione delle stirpi italiche, arrivo ed espansione delle stirpi etrusche, colonizzazione greca, invasioni celtiche, confinamento degli Etruschi nell'Etruria, avanzata delle stirpi osco-umbre nell'Italia centrale e meridionale.
Per le più antiche di queste diverse fasi è possibile soltanto una cronologia relativa, ché una assoluta, e sempre di carattere approssimativo, è consentita soltanto a partire dalla colonizzazione greca, che risale alla metà circa del sec. VIII a. C., e si prosegue nei decennî successivi, mentre le invasioni celtiche sono, come già dicemmo, del sec. V e l'avanzata delle stirpi osco-umbre giunge sino al principio del quarto. Circa l'arrivo degl'Italici, d'altronde, dalla loro pertinenza alle stirpi indoeuropee si può desumere che essi siano discesi dal Nord attraverso i valichi delle Alpi centrali od orientali, e poiché può ritenersi accertato che le stirpi indoeuropee conoscessero il rame prima di pervenire nelle sedi europee, sembra parimenti certo che essi non possano essere giunti in Italia prima dell'alba dell'età dei metalli, cioé del periodo eneolitico. E altrettanto allora deve valere per l'arrivo dei Veneti e dei Messapî che abbiamo visto appartenere pur loro al ceppo indoeuropeo; ma saranno essi venuti prima o dopo gl'Italici? È una domanda alla quale non si può rispondere nemmeno per via di presunzione sulla base di elementi linguistici o tradizionali; ed è necessario chiedere eventuali lumi ai materiali dell'archeologia preistorica.
Più difficile assai e complicato è il problema del quando, donde e come sopraggiunsero e si espansero nell'Italia le stirpi etrusche. Qui non mancano notizie tradizionali, ma sono contraddittorie e hanno fondamento congetturale, non storico; qui non mancano migliaia di testi epigrafici, ma essi non hanno finora purtroppo consentito l'inserzione, non solo certa ma nemmeno probabile, dell'etrusco nell'uno o nell'altro gruppo linguistico; onde anche qui è necessario volgersi al sussidio dell'archeologia preistorica. Ma, purtroppo, questa, se è preziosissima fonte d'informazione per quanto concerne la successione delle diverse civiltà nel mondo è generalmente insufficiente alle individuazioni etnografiche, e di rado avviene che, riavvicinando i dati linguistici e tradizionali con quelli archeologici, si possa uscire dal campo della congettura. Il che purtroppo si verifica in particolar modo nella preistoria italiana e specialmente nella questione etrusca, e di fatto quanto mai diversi e contraddittorî sono i numerosi sistemi proposti da storici, e da archeologi, circa il riporto dei singoli strati preistorici delle diverse regioni italiane alle diverse popolazioni, e soprattutto circa l'individuazione etnografica degli strati che si succedono dal periodo della prima età dei metalli alla prima età del ferro. Vi è chi identifica i palafitticoli-terramaricoli con gl'Italici, e chi li identifica con gli Etruschi, chi fa venire quest'ultimi dal Nord, chi dall'Oriente, chi considera gl'Italici come eneolitici precedenti ai palafitticoli, e chi li vuole Villanoviani, chi considera gli Iapigi preitalici, e chi li fa giungere in età quasi storica. In tanta varietà di opinioni noi ci limitiamo a propendere, senza poterne qui specificare le ragioni, per coloro che considerano gl'Italici come eneolitici, fanno giungere gli Etruschi dal Nord nel corso dello stesso periodo eneolitico: i Veneti e gli Iapigi dall'Illiria nella prima età del ferro. Resta per noi invece incerto se i palafitticoli-terramaricoli siano gl'Italici o gli Etruschi, e se debbano considerarsi come discendenti di paleolitici i Liguri, di paleolitici o di neolitici i Corsi e i Sardi.
Quanto mai variopinta, dunque, è la carta etnografica dell'Italia preromana: vi si riscontrano quattro nazionalità indoeuropee: Italici, Greci, Celti, Illiri; una certamente non indoeuropea: gli Etruschi; parecchie d'incerta origine: Liguri, Sardi, Corsi, Elimi. E nelle varie età preistoriche si delinea il travaglio millenario del succedersi e trasformarsi di varie civiltà, spesso oscure e anonime, finché Roma con la forza delle armi e col genio della politica dà all'Italia unità ordine, e una superiore forma di vita civile.
Conquista romana dell'Italia peninsulare e sua organizzazione. - Fra tanta varietà di stirpi, al principio dell'età storica, Roma città occupava appena una ventina di ettari di terreno, e il suo territorio un centinaio di chilometri quadrati. Tutto attorno, fino ai monti Albani, sorgevano le città della confederazione latina.
Il soggiogamento e l'unificazione di tutti quei popoli fu per Roma opera assai ardua, irta di fatiche e di travagli (v. romani: Storia) e della quale le tappe principali furono: la conquista del primato sul Lazio, durante il periodo monarchico, le lotte contro Equi, Volsci ed Etruschi del Sud nel sec. V a. C., la distruzione di Veio al principio del IV e, subito dopo, il superamento della catastrofe gallica, il fronteggiamento dei primi moti insurrezionali latini, la prosecuzione delle lotte contro Volsci ed Etruschi, con un'espansione sempre più rapida, di guisa che verso la metà di quel secolo il dominio romano aveva già un' estensione di circa 8000 chilometri quadrati, dal Monte Cimino a Terracina. Vengono poi la prima guerra sannitica, con l'allargamento del dominio romano fino al golfo di Napoli e verso gli avamposti dell'Appennino per circa 12.000 kmq., e la guerra latina, col consecutivo scioglimento della lega. Appena una sessantina di anni dopo, attraverso le altre guerre sannitiche e la guerra pirrica, con le operazioni immediatamente successive, tutta l'Italia peninsulare da Rimini e da Pisa sino allo stretto di Messina, per circa 130.000 kmq., è stretta sotto il dominio di Roma.
Soltanto nelle prime fasi delle loro conquiste i Romani non fecero che distruggere le città sconfitte e trasportarne in Roma parte degli abitanti, ma dopo la distruzione di Alba, lasciarono generalmente sussistere le comunità vinte. Al principio del sec. V a.C. strinsero coi Latini il cosiddetto foedus Cassianum sulla base di un'eguaglianza, almeno teorica, politica e giuridica, e coi Latini divisero i frutti delle comuni vittorie, evitando, generalmente, ulteriori ingrandimenti esclusivi del proprio territorio, e contentandosi di fondare nelle terre conquistate colonie di diritto latino, alle quali partecipavano, alla pari, Romani e Latini. Distrutta Veio, tornarono alla politica delle annessioni dirette con la fondazione di nuove tribù e con la deduzione di colonie romane, ma nei decennî successivi essi perfezionarono in forme sempre più ingegnose gli schemi della loro espansione, escogitando un duplice sistema di annessioni delle comunità vinte: annessioni con conferimento della piena cittadinanza, e annessioni con conferimento della civitas sine suffragio, sfornita, cioè, di diritti politici, e di tal cittadinanza minore, a sua volta, articolarono due tipi diversi; quella con autonomia comunale e quella senza di essa. Le comunità, cui non fu data l'una o l'altra forma di cittadinanza, Roma lasciò sussistere come federate, sulla base di trattati, che ne determinarono rigorosamente le condizioni e i rapporti, alcuni pochi basati su una parità di diritti che naturalmente non poteva essere se non formale; i più su disuguaglianza di diritti; trattati notevolmente divergenti tra loro pur nell'ambito della stessa categoria (per i particolari v. città, X, p. 483 segg.). Mercé questo sistema Roma poté tenere saldamente in pugno una popolazione che era circa il doppio di quella romana, apparteneva a quattro nazionalità diverse, Italici, Greci, Iapigi, Etruschi, ed era sparsa per un territorio quattro volte superiore al proprio.
Romanizzazione dell'Italia. - Di queste popolazioni i Romani non si proposero in genere un'assimilazione violenta, né tentarono d'imporre la loro lingua, ché anzi l'uso del latino come lingua ufficiale considerarono quale massimo onore e quale oggetto di graziosa concessione. E tanto meno i Romani ostacolarono i diversi idiomi dei federati italici, ché anzi, difendendo le nazionalità minori contro gli appetiti delle maggiori, assicurarono alle loro lingue una durata maggiore di quella che forse, abbandonate a sé, avrebbero avuto. Comunque il latino stentò per secoli prima di diventare popolare nelle città della Magna Grecia, e tarda fu la sua avanzata nell'Etruria centrale e settentrionale.
La latinizzazione della penisola fu preceduta dalla creazione di una coscienza solidale e unitaria tra i federati, che i Romani affrettarono con mezzi di grande efficacia. Con straordinaria abilità, con accortissima politica monetaria, essi dominarono il traffico e il commercio della penisola italiana; ai federati riconobbero eguaglianza economica assoluta sui mercati aperti dalle armi comuni, ed elargirono loro privilegi giuridici nelle provincie, sì da far sparire all'estero ogni sensibile differenza tra un cittadino romano e un federato, onde Romani e Italici vennero a costituire fuori d'Italia quelle collettività legalmente chiuse e privilegiate, di cui è così frequente traccia nelle epigrafi. Gl'istituti romani penetrarono nei comuni italici in lente tappe, non per coazione, ma per la forza di espansione che derivava dalla loro superiorità, fino a sboccare nell'ordinamento municipale uniforme del periodo imperiale. E massimo crogiolo di fusione nazionale furono gli eserciti comuni, nei quali uno era il comando supremo, una l'organizzazione, uno l'ordinamento.
Per tal guisa i Romani unificarono attorno a sé, materialmente, economicamente e militarmente gli abitanti della penisola prima di unificarli nazionalmente che è quanto dire linguisticamente, e per un periodo abbastanza lungo sembrò che il sistema federale potesse bastare ai compiti storici dell'Italia romana. Soltanto quando negli sviluppi del sec. II a. C., il governo di Roma tralignò verso un'oligarchia sempre più gretta ed egoista, e i federati si sentirono ogni giorno più indifesi contro gli abusi e le prepotenze del governo centrale, essi desiderarono, per rimediare alla loro inferiorità, l'acquisto della cittadinanza romana e, dopo lunghi travagli, la ottennero con le armi alla mano, durante quella guerra sociale nella quale parve che alla formazione di una nazionalità italiana, convenisse la soppressione di Roma. Ma questa, continuando ad alternare le arti della politica con la forza militare superò la tempesta, e ne approfittò per procedere alla romanizzazione definitiva dell'Italia, e conferirle così unità di lingua e di nazione. Concessa in breve tempo la cittadinanza romana a tutti gl'Italici federati, la lingua latina si diffuse per ogni dove, e, con la lingua, l'onomastica, il calendario, i costumi romani; cadde ogni privilegio locale, scomparvero gli istituti di diritto privato divergenti dal diritto romano, si uniformarono gli ordinamenti municipali.
La guerra sociale ebbe notevoli conseguenze anche rispetto alla latinizzazione della Gallia Cisalpina, nella quale l'egemonia romana gravemente compromessa durante la II guerra punica, era stata, nei primi decenni del sec. II a. C., riaffermata, approfondita e allargata, ma questa regione era rimasta sempre nettamente distinta dall'Italia peninsulare. Con la guerra sociale la zona Cispadana, già prima in gran parte romanizzata, perveniva al diritto di città, mentre i Traspadani, in forza della lex Pompeia Strabonis ottenevano la latinità, ma poi, nel 49 a. C., Cesare concesse loro la piena cittadinanza, e dopo la battaglia di Filippi, Ottaviano, soppressa l'organizzazione provinciale, che, a quanto pare, Silla aveva introdotto nella Cisalpina, l'incorporò pienamente nell'Italia. Allora il confine d'Italia, che a NE. già dallo stesso Silla sembra fosse stato spostato dall'Aesis al Rubicone, a NO. dalla Magra al Varo, fu al NE. spinto al Formio, piccolo fiume che si getta nell'Adriatico a sud di Trieste, e a nord giunse alle Alpi in una linea che quasi combaciava col confine delle future provincie delle Alpi marittime e delle Alpi Cozie, lasciava fuori la Val d'Aosta, proseguiva lungo i laghi, rasentava a sud la Valtellina, comprendeva l'alta valle del Chiese e la Val di Non e toccava le creste delle Alpi Venete.
Confini augustei. - Fu Augusto che fece domare definitivamente i Salassi della Val d'Aosta, nel 25 a. C., a opera di A. Terenzio Varrone Murena; i Reti e i Vindelici nel 15 a. C., a opera di Druso e di Tiberio, e tutti gli altri popoli alpini, che, sebbene prima vinti più volte, avevano ciononostante continuato a dare molto filo da torcere ai Romani. La sottomissione completa non ebbe termine se non nel 6 a. C., e allora l'Italia eresse ad Augusto, sulle falde meridionali delle Alpi, sopra Monaco, un grande monumento che spaziava sul Tirreno, e glorificava la pacificazione di 46 popoli soggiogati definitivamente. A tale epoca il confine augusteo dell'Italia va tracciato così da Occidente a Oriente: Varo, Monviso, Piccolo e Gran S. Bernardo, S. Gottardo, Alpi Retiche, Alpi Carniche e Giulie, fiume Arsia.
La posizione dell'Italia nella compagine dell'Impero romano. - Come per l'epoca repubblicana, così per quella imperiale la storia politica d'Italia è quella dello sviluppo, dell'apogeo e della decadenza dello stato romano (per una trattazione analitica, v. romani: Storia). Ma non si può trascurare il fatto saliente di tale storia, dal punto di vista italiano. Ed è questo: che, per un complesso di circostanze diversissime - in primo luogo la vastità stessa dell'impero, la sua complessa organizzazione, le esigenze imprescindibili della sua difesa e organizzazione - l'Italia, che pure lo aveva creato, finì per vedere assai diminuita la sua iniziale posizione di preminenza nella compagine dell'impero: talché - per quanto ciò possa a prima vista apparire paradossale - soltanto con la dissoluzione di quella compagine l'Italia si avviò a una nuova sua storia. La quale continua bensì e non dimentica quella di Roma e del suo impero, anzi, con la Chiesa, che continua l'universalità dell'Impero, mantiene la sua funzione di primato spirituale; ma solo dalla caduta dell'impero la storia italiana si svolge autonoma e con proprî destini: la faticosa conquista d'una forma politica per l'unità nazionale del popolo italiano.
Il periodo repubblicano aveva fatto l'Italia signora del mondo: i legionarî italici costituivano il nerbo degli eserciti romani e ai mercanti italici erano assicurati i massimi privilegi in tutti i mercati. Ma il trapasso dalla repubblica all'impero era in minor parte conseguenza, in maggior parte esso stesso causa della trasformazione di queste condizioni di privilegio. Se le necessità politiche imponevano ormai di ricercare la collaborazione dei provinciali, il fattore economico sospingeva anch'esso gl'imperatori alla parificazione tra l'Italia e le provincie. Passato il periodo dei torbidi sociali e delle guerre, le provincie riprendevano naturalmente l'importanza economica che loro spettava per la ricchezza del suolo e del sottosuolo, per la loro situazione geografica. Soprattutto Gallia, Spagna, Egitto e Asia diventavano centri economici di prim'ordine. In un primo momento, sotto la dinastia giulio-claudia, parve che dal rifiorire economico di tutto l'impero dovesse guadagnare anche l'Italia. Ma l'accrescimento della prosperità non durò: l'emancipazione delle provincie portava alla decadenza dell'Italia. La grande esportazione dell'olio e del vino, fonte di prosperità, diminuisce e perciò si accresce di nuovo la produzione del grano, che tuttavia non basterà mai ai bisogni degl'Italici, al che occorre sopperire con importazioni, in ispecie dall'Egitto. Ma soprattutto decadono i piccoli proprietarî, e quindi si costituisce un latifondo che peggiora le condizioni preesistenti e quindi contribuisce a una ulteriore decadenza dell'economia italiana, già visibile nel periodo dei Flavî e degli Antonini. Alla quale decadenza economica si accompagna quella politica. Gl'Italici non hanno gran volontà di servire nelle legioni, e in genere gl'imperatori accondiscendono volentieri a questa loro tendenza, perché si sentono più sicuri con legionarî tratti fuori d'Italia. Perciò, da Vespasiano in poi, le leve d'Italici diventano un'eccezione. Con ciò, in un impero in cui l'esercito dice le parole decisive, l'Italia è privata della possibilità di far udire la sua voce. L'autonomia amministrativa è di molto diminuita dall'autorità imperiale. Ai tempi di Traiano erano introdotti i curatores, che dal controllo della contabilità delle singole città passavano facilmente alla loro sopraintendenza generica; e Adriano aggravava la limitazione dell'autonomia con l'introduzione dei quattro consulares per un nuovo regime giudiziario, consulares che, aboliti per le proteste degl'Italici da Antonino Pio, furono di fatto ricostituiti, forse con maggiori attribuzioni, da Marco Aurelio sotto il nome di iuridici. Anche la partecipazione degl'Italici alla classe dirigente dell'impero diminuiva: i senatori e i governatori delle provincie, poi gli stessi imperatori, erano sempre più spesso scelti tra i provinciali. Nello stesso tempo i vecchi centri culturali delle provincie (Grecia, Egitto, Asia Minore) riprendevano vigore, dando luogo a un'abbondante produzione in lingua greca (non è caso che Adriano fosse filelleno, e Marco Aurelio scrivesse in greco), mentre centri nuovi si formavano in Gallia, Spagna, Africa, che reggevano il confronto con quelli italiani.
La decadenza economica diventata generale in tutto l'impero man mano aumenta, né valevano provvedimenti come quelli di Traiano per obbligare i senatori a impegnare i loro capitali in Italia e per soccorrere con prestiti i contadini. E alla decadenza seguiva ora anche lo spopolamento, nonostante il quale l'ltalia soffrì sempre di più per l'insufficiente approvvigionamento, via via che il disordine impedì sempre più spesso le regolari comunicazioni tra le regioni dell'impero. L'editto di Caracalla (212 a. C.) col fare tutti i provinciali cittadini romani non sanzionerà che la parificazione ormai raggiunta tra Italia e provincie. Già sottoposta nel sec. III a un regime di correctores, le cui differenze dai correctores provinciali sparirono presto, l'Italia diventerà una delle dodici diocesi dell'Impero con Diocleziano, perderà la sua posizione di capitale con Costantino, perderà subito dopo anche la sua fisionomia amministrativa con l'essere aggregata in una sola prefettura con l'Africa (e in certo periodo con l'Illirico).
Tuttavia, non solo per il suo passato, ma anche per la sua permanente vita spirituale e culturale, a cui conferiva nuova dignità e nuovo vigore il papato, l'Italia resterà sempre uno dei centri della vita dell'impero, né mai si oblitererà del tutto la coscienza della funzione fecondatrice e civilizzatrice che da essa si era irraggiata per il mondo romano. Quanto più si approfondirà il distacco tra l'Oriente rimasto fondamentalmente ellenistico e l'Occidente romanizzato, altrettanto più netta apparirà la funzione dell'ltalia come centro dell'Occidente. Ciò si vide soprattutto dalla morte di Teodosio (395 d. C.) in poi, e tale funzione non venne meno neppure quando tutto l'Occidente fu preda dei barbari, perché all'impero si sostituì entro certi limiti la Chiesa.
Bibl.: Per la trattazione dal punto di vista storico generale v., oltre le maggiori storie di Roma (specialmente quelle di Th. Mommsen, I, 10ª ed., Berlino 1907, pp. 3 segg., 111 segg.; G. De Sanctis, I, Torino 1907, pp. 50-223; E. Pais Roma 1926, I p. 346 segg.; II, p. 440 segg. ed il vol. II della Geschichte des Altertums di E. Meyer, 1ª ed., Stoccarda 1893, p. 488), E. Brizio, Epoca preistorica nella Storia politica d'Italia, ed. dal Vallardi; W. Helbig, Die Italiker in der Peobene, Lipsia 1879; J. Beloch, Der Italische Bund, Lipsia 1880; D'Arbois de Jubainville, Les premiers habitants de l'Europe, 2ª ed., Parigi 1889-1894; B. Modestov, Introduction à l'histoire romaine, Parigi 1907 (dal russo); H. Nissen, Italische Landeskunde, Berlino 1883-1902; Sophus Müller, L'Europe préhistorique, Parigi 1908 (dal danese); L. Pigorini, Preištoria (pp. 1-71 del vol. II dei Cinquanta anni di storia italiana per cura della R. Accademia dei Lincei), Roma 1911; N. Toscanelli, Le origini italiche, Pisa 1914; G. Dottin, Les anciens peuples de l'Europe, Parigi 1916; G. Sergi, Italia, le origini, Torino 1919; Lackeit, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., vol. III di suppl., 1918, col. 1268 segg.; E. Pais, Italia antica, 2ª ed., Bologna 1923, I, p. 31 segg.: G. Pinza, Storia delle civiltà antiche d'Italia, Milano 1923; F. L. Pullé, Italia, I Torino 1927, p. 156 segg.; II, p. 1 segg.; A. Della Seta, Italia antica, 2ª ed. Per la trattazione archeologico-preistorica v. la bibliografia del paragrafo relativo. Per gl'Italici in particolare, v. Th. Mommsen, Unteritalische Dialekte, Lipsia 1850; Th. Aufrecht e A. Kirchhoff, Die umbrischen Sprachdenkmäler, Berlino 1845-1851; F. Bücheler, Umbrica, Bonn 1883; R. von Planta, Grammatik der oskisch-umbrischen Dialekte, Strasburgo 1892-97; R. S. Conway, The Italic Dialects, Cambridge 1897; e in Atti del Congresso inter. di scienze storiche, Roma 1903, II, p. 9 segg.; C. D. Buck, A grammar of Oscan and Umbrian, Boston 1904; e Elementarbuch der oskisch-umbrischen Dialekte, traduzione tedesca di E. Prokosch, Heidelberg 1905; B. Terracini, in Rivista di filologia classica, XLVIII (1920), pp. 1 segg., LIII (1925), p. 43 segg. e in Studi etruschi, III (1929), p. 209 segg.; F. Ribezzo, Questioni italiche di storia e preistoria, in Neapolis, I, p. 319 segg.; e in Rivista Indo-greco-italica, XIV (1930), p. 59 segg.; G. Devoto, Gli antichi Italici, Firenze 1931; P. G. Goidanich, Varietà etniche e varietà idiomatiche in Roma antica, in Atti del primo congresso di studi romani, Roma 1929, II p. 396 segg.; id., I rapporti culturali e linguistici fra Roma e gli Italici, in Rendiconti della R. Accademia di Bologna, s. 3ª, IV (1930-31); e in Historia, V (1931); A. von Blumenthal, Die Iguvinischen Tafeln, 1931; e la bibl. della voce italici. Per le altre popolazioni v. le voci relative, specialmente etruschi, riguardo ai quali basti qui citare quelle opere recenti che ne trattano in connessione con l'etnografia generale dell'Italia antica: R. A. L. Fell, Etruria and Rome, 1924; P. Ducati, Etruria antica, Torino 1925; L. Pareti, Le origini etrusche, Firenze 1926. Circa la conquista e la romanizzazione, v. bibl. della voce romani, e per uno sguardo sintetico, G. Cardinali, in Historia, 1932. - Per le ragioni augustee e per l'amministrazione dell'Italia nel periodo imperiale v. J. Marquardt, R mische Staatsverwaltung, Lipsia 1881, pp. 1 segg., 216 segg., 231 segg.; Desjardins, in Revue Hist., I (1876), p. 184 segg.; C. Jullian, Les Transformations politiques de l'Italie, Parigi 1881; Th. Mommsen, Die Italischen Regionen, in Gesammelte Schriften, V, Berlino 1908, p. 268 segg.; cfr. 179 segg., VI (1910), p. 284 segg.; H. Nissen, op. cit., I, Berlino 1883, p. 57 segg.; Cuntz, De Augusto Plinii geogr. auctore, Bonn 1887, p. 27; Klotz, in Göttinger Gelehrte Anzeigen, 1910, p. 477 segg.; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, 2ª ed., Berlino 1905, pp. 101, 127 segg., 212 segg., Thédenat, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., IV, p. 817 segg.; L. Cantarelli, La diocesi Italiciana, Roma 1903; Jung, in Mitteilungen des Instituts für Österr. Geschichtsforsh., vol. V di suppl. (1896-1903), p. 1 segg. - In generale v. K. J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, p. 488 segg.; V. Chapot, Le monde romain, Parigi 1927, p. 135 segg.; Lackeit-Philipp, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., vol. III di suppl., coll. 1246 segg.; G. Cardinali, in Dizionario epigrafico di antichità romane, IV, p. 92 segg.
Regni barbarici in Italia.
Le prime formazioni romano-germaniche nella penisola. - Occupata la penisola iberica e la Gallia meridionale dai Visigoti, dai Franchi Salî la Gallia settentrionale, dai Franchi Ripuarî la valle della Mosella, dai Burgundî la valle del Rodano e della Saona, dagli Alamanni la regione attorno alle sorgenti del Reno, dagli Angli e Sassoni la Britannia; insomma risoltosi gran parte del territorio dell'impero d'occidente in regni romano-germanici, sia pure confederati nominalmente dall'impero, non rimaneva sotto il diretto ed effettivo dominio dell'impero d'occidente, a metà del sec. V, se non l'Italia, anch'essa mutilata di regioni insulari per opera dei Vandali d'Africa, e qualche zona della Gallia meridionale e della regione oltre le Alpi del nord-est. L'impero d'occidente (v. romani: Storia) sopravviveva solo dove era nato. Ma nel corso del sec. V più volte la penisola intera è stata battuta dai barbari, fino alla Calabria; più volte Roma stessa ha visto nelle sue mura i barbari, ha subìto saccheggi e devastazioni. Più d'uno degl'imperatori del sec. V è salito al trono per volontà e sotto la protezione di re barbari. Barbari sono Stilicone, capo della cavalleria e fanteria, Ricimero che vince per mare la flotta dei Vandali, reduci dal saccheggio di Roma nel 455, e governa anche senza imperatori, Gundobaldo capo della guardia imperiale e padrone efettivo della città, Oreste che caccia il legittimo sovrano e vi mette il proprio figlio Romolo, un fanciullo. Rappresentano essi quell'infiltrazione e immigrazione barbarica che da un pezzo è in atto e dà soldati e capi all'esercito e membri al senato, sino a provocare la formazione di un movimento o partito antigermanico nell'aristocrazia e alta borghesia romana. Non hanno ancora un vero e proprio territorio, questi barbari d'Italia, come altri altrove. Solo stanno accampati nel centro dell'impero. Ma piccoli stanziamenti non ne mancano. Barbari sconfitti, fatti prigionieri oltralpe, sono portati in Italia su terre a loro concesse. Nel Modenese, Reggiano e Parmense, Graziano dissemina i Goti Unni e Taifali sconfitti nel 377. Sul Po Teodosio colloca Alamanni prigionieri. Al principio del sec. V, si parla di Sarmatae gentiles, stanziati a Cremona, Padova, Torino, Bologna, Forlì, Oderzo, Vercelli e in altre città del nord. Si voleva con ciò, fra l'altro, ripopolare vaste regioni spopolate, specie nella zona che più era necessario tener difesa da possibili invasioni.
Fino a che, anche questa superstite oasi venne assorbita. E fu nel 476, quando le milizie barbariciie che erano in Italia vi chiesero ad Oreste un regolare stanziamento. Oreste negò e allora Odoacre, uno dei loro capi, già venuto per conto suo in Italia attraverso le Alpi nordorientali, promise terre e fu levato sugli scudi, prese Pavia e Ravenna mandando via Romolo Augustolo, ultimo imperatore d' Occidente in Italia, distribuì ai suoi Eruli, Rugi, ecc., le terre che chiedevano, governò i suoi barbari in nome proprio, come re, e gl'Italiani in nome dell'altro imperatore, come suo patrizio, cioè investito della direzione militare e amministrativa: sebbene il titolo non gli fosse mai dato ufficialmente dall'imperatore. Poiché l'imperatore, in cui era sempre vivo il senso dell'unità dell'Impero, si considerò esso successore in Occidente, e vide in Odoacre un usurpatore, da tollerare finché non fosse possibile trarlo giù di seggio. Acquiescenza scambievole per alcuni anni, resa possibile dal contegno di Odoacre nei rapporti con l'Impero, con la Chiesa, con i Romani, dei quali poco toccò l'organizzazione civile, cioè il senato, le curie, le provincie, la gerarchia; fra i quali anzi trovò molti collaboratori. Essi dovettero vedere in lui presso a poco uno dei tanti patrizî barbarici, più o meno romanizzati, nel sec. V, investiti di funzione specialmente militare e capaci di fronteggiare i barbari d'oltralpe. Tutto sommato, il 476 rappresentò nulla più che qualche passo avanti sulla via della prevalenza politica dei barbari in Italia: anche perché poche erano le genti di Odoacre e, in un modo o in un altro, già stanziate nella penisola a costituire guarnigioni, specialmente rade nel centro e sud. Il maggiore stanziamento fu certo attorno a Ravenna; tuttavia l'esercito si saturò vieppiù di elementi germanici, l'Italia si staccò ancora un poco dall'Oriente e, pur assimilandosi anche in questo ai paesi occidentali dell'impero, guadagnò in personalità politica, s'individuò in mezzo al mondo romano. Con Odoacre, si ha il restringersi alla sola penisola del senso politico della parola Italia, laddove, nella ripartizione imperiale degli ultimi secoli, la prefettura d'Italia comprendeva le diocesi di Africa, quella d'Italia vera e propria, quella dell'Illirico, particolarmente legata all'Italia perché il vicario dell'Illiria risiedeva a Milano. Ora l'Italia è la penisola; e Odoacre è, di fatto, re di questa Italia. Fuori della penisola, ma pur legatissima ad essa anche geograficamente, Odoacre ha, oltre la Sicilia, la Dalmazia, invasa nel 480 e tutta da lui signoreggiata.
Più profondamente incisero sul vecchio ordine politico-sociale della penisola Teodorico e i suoi Ostrogoti. Vera invasione barbarica questa, sebbene Teodorico, semplice magister militum, fosse venuto in Italia in nome dell'imperatore, che voleva allontanare da sé quei barbari e abbassare o cacciare i barbari di Odoacre.
La battaglia sull'Adda (agosto 490), vittoriosa per Teodorico, fu decisiva e Odoacre, assediato in Ravenna, dovette, dopo tre anni, capitolare. Né vi fu più altrove resistenza alcuna, salvo un poco in Sicilia. Teodorico sottentrava a Odoacre; gli Ostrogoti, cioè un popolo-esercito, a quell'accozzaglia di antichi mercenarî di varia stirpe che costituiva le forze di Odoacre: sebbene anche gli Ostrogoti, già incorporati nel regno degli Unni entro i confini dell'impero, non avessero più la loro vecchia organizzazione e compattezza morale e poi accogliessero nelle loro file anche Rugi, anche gruppi di Alamanni, cacciati verso il sud dai Franchi e provvisti da Teodorico di terre ai confini. Si calcola fra duecento e trecentomila il numero degli Ostrogoti.
L'Italia si abbandonò senza resistenza al nuovo signore. Elevato a re dai suoi Goti, dopo la morte di Zenone, fu poi riconosciuto re dall'imperatore, re dei Goti, mentre sui Romani esercitava autorità solo come magister militum: anche se, di fatto, li governò indipendentemente da Bisanzio. Anch'egli, come Odoacre, divise fra gli hospites un terzo delle terre dei possessores; ma certamente, non di tutti i possessores e non di tutta Italia. Forse anche, chi cedette il terzo, non lo cedette di tutto il suo patrimonio, ma solo di quei possessi situati vicino o in mezzo a stanziamenti goti. I quali, anche ora, ebbero particolare ampiezza attorno a Ravenna; poi, nel Veneto, ai piedi delle Alpi, a Trento, nel Piceno, nel Sannio, in Tuscia; altrove, più che altro guarnigioni. Le terre date ai Goti dovettero essere quelle stesse già date a Eruli e Rugi: più, altre, in rispondenza al maggior numero dei nuovi occupatori. Anche i Goti, sebbene fossero un popolo, funzionarono più che altro come un esercito. Essi tennero le armi e solamente le armi, rimanendo ai Romani uffici e attività civili. Si accentuava cosi quella specie di passività delle popolazioni indigene di fronte al compito della difesa e quella netta distinzione di funzioni, che da un pezzo si stava attuando. Processo graduale e spontaneo. Ma i Goti se ne fecero un proposito, quasi un programma di governo. Il regno doveva poggiare su questa duplice base. Così era già balenato ad Ataulfo visigoto; così, più chiaramente, a Teodorico ostrogoto. Incapaci a fare da soli, invocavano la collaborazione dei vinti; ma collaborazione tutta estrinseca. Si trattava di popoli separati ancora da un abisso morale, consapevoli gli uni della propria forza, gli altri della propria debolezza, ma gli uni e gli altri persuasi della propria superiorità. A non contare la differenza religiosa. Anche in Teodorico, pur sollecito del bene di tutti, il re dei Goti prevalse sopra il magister militum e funzionario imperiale. Fece una politica estera più volta verso i regni romano barbarici dell'Occidente, specialmente i Visigoti di Spagna e Gallia meridionale, che verso l'impero. Verso l'impero si destreggiò, anche per impedire che da quella parte gli venissero suscitati contro altri barbari. Il suo pensiero andava a un raggruppamento di popoli germanici, capace di fronteggiare l'impero. S'imparentò, così, con Visigoti, Turingi, Vandali, Franchi, e cercò anche di conciliare Visigoti e Franchi suoi confinanti. Né gli mancò qualche desiderio di aggraziarsi i vinti; qualche pensiero di grandezza che, trovando appagamento solo nella tradizione imperiale romana, si risolveva in manifestazioni bene accette ai vinti. Tutto questo e certa superiorità che conseguì sui vicini regni barbarici, poté dare l'impressione d'una ripresa di vita nella penisola. Ma, viceversa, Teodorico stesso non voleva accostarsi troppo ai Romani. In lui era più ostentazione, più ricerca di letterati adulatori che apprezzamento vero della civiltà dei vinti. Peggio ancora i suoi Goti. Non che qualcosa non penetrasse anche in essi dal contatto coi Romani. Ma considerarono questa penetrazione un pericolo: si direbbe che la coscienza della loro pochezza numerica e, pur con tutte le loro armi, debolezza politica, li spingesse a chiudersi in sé, per timore di essere sopraffatti dal lento ma irresistibile moto della grande massa circostante. Perciò il regno goto e i Goti si trovarono isolati, quando sopraggiunse la guerra di riconquista dell'impero, intrapresa da Giustiniano nel 535. Nel 553, sconfitti e uccisi Totila e Teia, il regno gotico cadde distrutto.
Si erano messe in movimento, durante questa guerra, anche orde di Alamanni e di Franchi. Ma ora, gli Alamanni furono annientati; i Franchi ricacciati; i Goti vinti si dispersero e il loro stesso nome scomparve. Non si sa neppure se e quanti ripresero la via delle Alpi, se e quanti si confusero nella massa della popolazione o si mescolarono confusamente coi successivi invasori: proprio come un esercito in paese stranieto, ove la sconfitta militare vuol dire la fine. Di solidarietà dei Romani con i Goti non si ebbero tracce se non, un poco, nelle campagne del Mezzogiorno, dove i contadini furono guadagnati da Totila, per poterli contrapporre ai Greci che godevano invece qualche favore di grandi proprietarî.
Così l'Italia divenne una provincia dell'impero d'Oriente, con i confini sulle Alpi e sul mare. A Roma, il senato cessò di esistere. E fu, più ancora che non per la sostituzione di Odoacre a Romolo Augustolo, la fine dell'Italia come centro dell'impero d'Occidente, e di Roma come capitale dell'impero. Poté contribuire a ciò anche la crescente decadenza economica di Roma e dell'Italia, che riprendeva il suo corso, anzi lo accelerava, dopo venti anni di guerra che, in molte regioni, fu veramente sterminatrice. Si accentuò anche l'isolamento di Roma nei rapporti col resto della penisola e dell'Italia di fronte al resto dell'Europa, non essendovi più né il nesso creato già dall'impero né quello creato dalla politica di Teodorico e anche solo dalla comune origine germanica delle stirpi dominatrici.
E tuttavia, pur mentre certi vincoli si spezzano, altri il corso delle cose comincia a crearne, d'altra natura. Si moltiplicano chiese e diocesi nell'Italia meridionale a sud di Roma e Roma esercita su esse i diritti metropolitici. Sorgono poi (v. appresso: Il cristianesimo in Italia) quelle della media e alta Italia. Si costituiscono le provincie ecclesiastiche di Milano, di Aquileia e di Ravenna. Sulla chiesa di Ravenna si riflette la cresciuta importanza della città, sede della corte. Presto si rivela e si fa sentire anche nel nord l'azione disciplinatrice della Chiesa di Roma. La quale intanto lavora per conseguire il primato sulla Chiesa cattolica e per sottrarsi alle tendenze cesaropapistiche dell'impero d'Oriente. Con Giustiniano, si hanno atti di benevolenza verso il papa, riconoscimento di attribuzioni civili ai vescovi italiani. Ma queste largizioni volevano dire anche dipendenza. In realtà, benevoli o gravosi che fossero gli atti dell'imperatore verso la sede romana e i vescovi italiani, il risultato era di alienare dall'Oriente l'Italia ortodossa. Il legame, rafforzato dopo il 535 nel campo politico, s'indeboliva in quello morale. Anche perché la nuova vita religiosa cresceva di vigore in Italia e sempre più acquistava caratteri suoi di fronte a quella di Oriente. Proprio negli ultimi anni del dominio goto, Benedetto da Norcia iniziò il suo movimento di riforma monastica che irraggiò dall'Italia e dettò legge al monachesimo d'Occidente, lo adattò ai bisogni spirituali e pratici dell'Occidente latino. In Calabria, Cassiodoro dava intanto vita a un altro importante movimento, con carattere più intellettuale, destinato anch'esso a svilupparsi e a operare in Italia e in Europa. È da riconoscere al monachesimo in genere, a questo monachesimo occidentale e italiano in ispecie, nel quale si espressero alcuni caratteri dello spirito italiano e occidentale, di avere non poco accentuato questo distacco. Esso, col suo anelito alla libertà della vita religiosa e chiesastica, portò nella Chiesa d'Occidente, anche dei paesi soggetti politicamente a Bisanzio, un fermento di opposizione al cesaropapismo orientale, ancora più energico che non fosse già quello della gerarchia ecclesiastica e dei vescovi di Roma. Esso accentuò la tendenza occidentale e italiana di stringersi attorno a Roma, di vedere nella chiesa di Roma il centro e capo della Chiesa. Lo sviluppo successivo della storia italiana marcerà su questa duplice direttiva di differenziazione dall'Oriente e d'individuazione sua nell'ambito della vita politico-religiosa dell'Occidente.
La conquista longobarda. - Questo staccarsi dall'Oriente e avvicinarsi all'Occidente, questo individuarsi della penisola entro lo stesso mondo romano-barbarico si accentua dopo il 568 (v. alboino), quando i Longobardi, già stanziatisi nell'odierna Ungheria sotto il dominio degli Eruli, alleati poi di Teodorico nel distruggere quel regno, stanziatisi nel Norico per concessione di Giustiniano, cioè alle porte dell'Italia, irruppero dai valichi delle Alpi Giulie (v. longobardi). Con essi, il germanesimo scompariva dall'Oriente e si afforzava in Occidente. Occupata Forum Iulii e subito dopo Milano, iniziarono per le genti della penisola una nuova fase di vita. A differenza degli altri barbari, venivano, non come federati e amici dell'impero e sospinti a tergo da esso, ma come nemici e conquistatori. Più barbari dei Goti, e più fermi nei quadri della loro vecchia costituzione germanica, procedettero senza riguardo, né per l'impero, né per le popolazioni italiane, né per le chiese.
Giudizî diversi e opposti sono stati pronunciati sulla condotta dei Longobardi nei primi tempi. Ma si può ammettere ormai che i nuovi invasori, a differenza degli Ostrogoti, trattarono i Romani come cosa di conquista. Certo i relatori chiesastici del tempo esagerarono. A Pavia, Alboino entrò nulli laesionem ferens, e il popolo, dopo tante miserie, si sentì il cuore sollevato a nuova speranza. Certo, anche, i più dei vescovi rimasero nelle loro sedi e qualcuno ebbe benigno trattamento. Probabile che, come sempre in queste invasioni, plebe, contadini, servi della gleba fossero indifferenti e magari attendessero beneficio. Anche, qua e là, possessores. E Gregorio Magno lamenta che dalla Corsica e dalla Campania taluni di essi fuggissero presso i Longobardi di Tuscia e di Benevento, per odio ai Bizantini. Ma è vero anche che, specialmente con Clefi successore di Alboino e durante l'interregno che seguì a Clefi, vi fu vera strage di potentes, cioè di gente ricca e altolocata: che fu altro colpo dato alla vecchia aristocrazia, già battuta dalla reazione militare e contadinesca del sec. III-IV e dal dispotismo burocratico dell'impero, e sostituzione di un'aristocrazia quasi del tutto germanica alla vecchia di origine romana. Vero anche che, di fronte ai Longobardi predatori e ariani e fautori di scismatici, vi fu largo esodo verso i luoghi meno battvti dall'invasione. Paolo che reggeva la chiesa di Aquileia fuggì a Grado. Non pochi Milanesi presero stanza a Genova. Altra gente cercò a Roma e a Ravenna la protezione di quel vescovo e del duca greco. Le coste e le isole di Toscana, le coste pugliesi e napoletane dovettero egualmente accogliere fuggiaschi. Lo stesso era avvenuto e avveniva lungo le coste della Dalmazia, dove sorse Spalato. Si ebbe certamente ora la prima ondata migratoria verso le isole dell'Estuario veneto. Insomma, come un deflusso verso i paesi periferici, più facili a tener collegati con l'impero e difesi: deflusso che o diede la prima origine a nuove città o rinsanguò e avvivò città preesistenti, mentre altre decadevano o scomparivano per sempre. Nello stesso tempo, là dove, specialmente lungo il confine fra Greci e Longobardi, furono trasferiti per difesa corpi di truppa coi loro duchi e magistri militum, sorsero nuovi castelli, alcuni dei quali divennero poi città. Così Ferrara. E rappresentò, tutto questo, un primo e tenue spostamento nella vecchia e solida ossatura urbana della penisola.
Nei primi tempi, rapida fu la conquista, fino a Benevento e oltre. Ma intanto si organizzava la resistenza dei Bizantini. Ravenna, Roma, Napoli si consolidavano nelle loro mani. Poca coesione e forza, tra i duchi longobardi; e qualcuno entrò al servizio dell'impero, gli altri cercarono di sistemarsi nell'ambito dei territorî a essi partitamente assegnati. Si aggiunsero gli urti coi Franchi, che tendevano a straripare sull'Italia. Da Bisanzio, giungevano sollecitazioni e stimoli: e vi fu anche un'alleanza tra i Franchi e l'imperatore Maurizio. Così minacciati nella loro interna compagine e dalle forze circostanti - Greci, Franchi, Chiesa -; pochi e isolati in mezzo a una popolazione numerosa e ostile, se pur non disposta a guerra, i Longobardi tornarono a nominare un capo unico. Che fu il figlio di Clefi, Autari.
In questo tempo sono già costituite le circoscrizioni longobarde, i ducati: i più, nell'alta e media Italia, ove essi si raggruppano in nuclei maggiori, come Austria, Neustria, Tuscia, che sono quelli ricordati con maggiore frequenza, pur essendo essi, a quel che pare, non grandi ripartizioni amministrative e politiche, ma distinte regioni geografiche. Solo molto grossolanamente i ducati o iudiciariae paiono rispondere a precedenti ripartizioni civili o religiose. Hanno, sì, a centro, una civitas: ma non ogni civitas è centro di un ducato. Si può pensare che i Longobardi, da principio, presero le città a base del loro ordinamento, a mano a mano che vi si stanziarono: ma poi molti spostamenti avvennero nelle vecchie circoscrizioni, sia civili sia ecclesiastiche. È poi certo che il ricordo delle vecchie circoscrizioni, legate a interessi di ogni genere, non si spense: ché anzi si manifestò subito la tendenza a riportare le nuove circoscrizioni sulla linea delle antiche. In tale vicenda mutò non poco la gerarchia delle città. Alcune guadagnarono, altre persero d'importanza: anche in rapporto all'ampiezza degli stanziamenti longobardi, che furono numerosi in alcune regioni (Friuli, Brescia, Pavia, Lucca, Pistoia), scarsi altrove. Alcune città ebbero una lunga eclissi, come Padova; qualche altra mutò sede. Cadde Milano, già capitale dell'impero d'Occidente; crebbe invece Pavia (Ticinum), già centro gotico di notevole importanza, diventato nel 540 capitale del regno dopo la caduta di Ravenna, luogo dell'estrema difesa gotica contro i Bizantini. I quali pur essi misero lì, a quel che sembra, il vicario d'Italia e vi resistettero tre anni ad Alboino: ciò che spiega la durevole impressione che la caduta di quella città lasciò nei Longobardi. E ora, dopo la morte di Alboino (572), Pavia è scelta a stabile capitale del nuovo regno.
Salito al trono, Autari assunse il nome romano di Flavio, e cercò d'accrescere la sua autorità tanto sui Romani quanto sui Longobardi. Così poté fare qualche accordo con l'esarca, respingere le incursioni dei Franchi combinate spesso con gli attacchi dei Greci, trovare anch' egli amicizie oltralpe, fra quelli che si sentivano minacciati dai Franchi: e precisamente nel duca di Baviera Garibaldo, di cui sposò la figlia Teodolinda, cattolica, fatto significativo per un principe ariano. Iniziò poi trattative per un accordo durevole coi Franchi, conchiuso dal successore suo Agilulfo. Il quale, meno premuto da strette nemiche, riprese la conquista. Espugnò Padova, prese Monselice decimando le popolazioni. L'esodo verso le isolette della laguna dové, allora, accentuarsi; mentre, nell'interno, Altino, Concordia, Aquileia, Monselice, Padova, declinavano o scomparivano. Alleato poi con gli Avari, Agilulfo ne ebbe aiuti per occupare altre città padane, come Cremona, che andò distrutta; con la cooperazione dei duchi di Spoleto e Benevento, progredì nel sud contro i Bizantini e ampliò i possessi dell'Italia centrale, rendendo difficili o impossibili, con l'occupazione dei castelli lungo la Via Flaminia, le comunicazioni fra Ravenna e Roma. Isolata Roma, tentò d'avere anch'essa nelle sue mani. L'impresa non riuscì, e Agilulfo conchiuse col papa e con l'esarca una tregua che durò parecchi anni e favorì il primo aprirsi dei Longobardi alle influenze civilizzatrici dei Romani: sorgente per essi di forza e, insieme, di debolezza.
Come potevano sottrarsi a quelle influenze, una volta fermatisi sopra stabili sedi, datosi un ordinamento territoriale più o meno ricalcato sul precedente, accostatisi al possesso della terra, messisi a convivere coi Romani? Vi era una salda costituzione agraria: e dentro di essa i nuovi proprietarî rimasero come avviluppati. Vi era una tradizione statale: ed essa dovette subito operare nel senso di sollecitare la monarchia restaurata farsi valere sui duchi e iniziare con essi la durissima battaglia. Vi era una ormai salda organizzazione chiesastica: e presto i Longobardi cominciarono a sentirsi attirati, malgrado il favore mostrato dapprima agli scismatici. Fra i Longobardi, come si determinò presto una corrente disposta a intendersi con l'impero e servirlo, così anche una corrente ben disposta verso i cattolici e il cattolicismo. La promosse Gregorio I, che, spettatore dell'impotenza dei Greci a fronteggiare i barbari, non persuaso che un rafforzamento eccessivo dell'impero in Italia fosse un vantaggio per la Chiesa e le popolazioni, si volse a promuovere accordi e tregue tra Longobardi e Greci e un'intesa fra Longobardi e Chiesa. Intermediaria efficace la regina Teodolinda. Con essa certamente ebbe inizio la conversione dei nuovi barbari: donde nuovi e più stretti contatti di ogni genere che promoveranno la mescolanza e, poi, non so se la fusione dei due popoli o l'assorbimento degl'invasori in mezzo ai vinti. Agilulfo non si convertì, ma lasciò battezzare cattolicamente il figlio Adaloaldo (7 aprile 603). Accolse poi benevolmente il monaco Colombano, venuto fra il 610 e 612 a posarsi fra Milano e Pavia. Sua prima intenzione era combattere gli ariani. Ma si trovò anche in mezzo al turbamento prodotto dallo scisma. Vide allora nella conversione dei primi un mezzo per porre fine anche al secondo. E pare che Agilulfo stesso lo incoraggiasse. Tra il 613 e 614, egli donò a Colombano un ampio territorio lungo la strada Pavia-Genova e presso l'altra che da Luni conduceva verso la bassa valle padana. E lì, presso Bobbio, sorse un monastero, poi grande e famoso. Si trattava tanto di aprire la via verso Genova, quanto di consolidare nel possesso dei Longobardi quel territorio, da poco, come sembra, strappato ai Greci per opera del duca Sundrarit. Dunque, fini politici: ma anche religiosi, se, per raggiungere il suo fine, Agilulfo si servì di un ferventissimo campione di cattolicismo e ortodossia contro ariani e scismatici.
È probabile che la politica filocattolica di Agilulfo, determinata anche dal bisogno di vincere le difficoltà interne e agevolare la conquista, sortisse l'effetto contrario. Ciò spiega come si avesse, negli ultimi anni di Agilulfo, un nuovo arresto nell'espansione longobarda; e come ricomparisse poi con Rotari, insieme, spirito longobardo e ariano e volontà di conquista. Ed ecco l'invasione della Tuscia lunense e della Liguria marittima, fino ai confini franchi: che volle dire punti d'appoggio tolti ai Bizantini per tentare imprese contro i Longobardi e punti d'appoggio dati ai Longobardi per tentare sbarchi e acquisti nelle isole del Tirreno. Ecco anche qualche progresso a nord-est, dove Oderzo, punto d'incontro dei tre ducati longobardi del Friuli, di Ceneda e di Treviso, e sede ultima del governo ducale in terraferma, fu presa e distrutta: ciò che costrinse quel governo a trasferirsi nell'isola di Cittanuova, sempre nelle dipendenze dell'esarca, avendo sotto di sé i tribuni delle isole. Nel tempo stesso, Grimoaldo di Benevento avanzava a sud, distruggeva Crotone, faceva larghe razzie di uomini, messi poi al lavoro servile o venduti schiavi. Fu questo il maggiore e più duraturo progresso territoriale compiuto dal regno dopo la prima invasione. In seguito, non ve ne furono altri di qualche entità. Con le imprese di guerra, l'attività legislativa, che ebbe il suo grande monumento nell'editto di Rotari (v.); il quale, mentre è un segno dell'energica personalità del nascente regno longobardo, in un momento in cui la nazione sembra voglia riaffermare sé stessa e rituffarsi nelle sue tradizioni, tradisce anche un crescente compenetrarsi e fondersi di due società e civiltà e stirpi, implicitamente riconosciuto nell'atto stesso che si reagiva ad esso.
L'avvicinamento si accentuò negli anni successivi, quando salì al trono Ariperto, cattolico; e il regno fu di nuovo sconvolto da fazioni e ambizioni di duchi, gareggianti nel guadagnarsi seguaci anche fra i Romani. E intanto i pontefici seguitavano nella politica iniziata da Gregorio Magno. Si compié allora, per quel tanto che era stata turbata, la gerarchia cattolica. Si ha ragione di credere che il 680, come segnò l'inizio di una fase tranquilla assai nei rapporti fra Greci e pontificato romano e, più ancora, fra pontificato e regno longobardo, così anche una più larga e profonda infiltrazione di cristianesimo e cattolicismo fra i Longobardi.
Divisione dell'Italia, distacco crescente da Bisanzio, avvaloramento di forze locali. - Con l'arresto della conquista territoriale, la penisola si è venuta dividendo in due parti, quasi in due Italie: quella dei Longobardi, cioè la Longobardia, che occupava tutta la regione subalpina e padana (salvo l'esarcato e il ducato di Venezia), la Tuscia, il ducato di Spoleto e il ducato beneventano, variamente esteso ma specchiantesi sui tre mari, Adriatico, Tirreno, Ionio; quella dell'impero, cioè la "Romania". Le distingueva e divideva anche una maggiore persistenza di antiche istituzioni municipali e di antico diritto, di economia di scambio e di attività artigiane, una maggiore autonomia di vita locale di fronte allo stato. Ché se nella Longobardia si veniva da per tutto, con moto sia pur lento e non regolare, affermando l'autorità del re, e quasi tutti i duchi si riducevano a funzionarî, il numero dei gastaldi regi cresceva, i vescovi venivano contenuti entro i limiti della loro attività religiosa e chiesastica; nella Romania, invece, si ebbe una crescente importanza di poteri locali, civili o religiosi.
Gli sconvolgimenti delle invasioni e la guerra greco-gotica avevano da per tutto elevato la posizione dei vescovi e fatto di essi quasi il fulcro della vita cittadina. Giustiniano poi regolò la nuova situazione con una serie di leggi di cui la Prammatica Sanzione, emanata nel 554 a richiesta di papa Vigilio, è forse un riassunto. Queste leggi facevano dei vescovi quasi altrettanti organi di governo, per il controllo di tutte le attività amministrative dei municipî, per la tutela dei minori e degli assenti, per la sorveglianza dell'amministrazione provinciale, ecc. Insomma quasi sostituzione, in molti compiti, della gerarchia ecclesiastica alla gerarchia civile, screditata e abbassata. Quale lo scopo di questa sostituzione, che in parte era riconoscimento di uno stato di fatto? Rafforzare l'autorità imperiale. I vescovi, soggetti già al principe come tali, ora dovevano esserlo ancor più come depositarî di autorità civile e politica. In realtà la logica delle cose portava a risultati diversi. Anche perché l'impero procedeva attraverso crisi frequenti di autorità. Perciò i vescovi erano portati ad attaccarsi a quelle attribuzioni civili come a cosa propria. L'autonomia a cui essi aspiravano come vescovi fu desiderata e si cercò d'attuarla anche nell'esercizio delle attività loro affidate dallo stato.
Questa situazione maturò solo nell'Italia bizantina: per quanto qualche passo facessero, nel medesimo senso, anche i re longobardi. Nell'Italia bizantina, anzi, come i vescovi, così le aristocrazie locali e i capi militari. Lontano l'impero e spesso in tutt' altre faccende affaccendato, questi tendono a conquistarsi una loro indipendenza. Talune cariche, come quella dei tribuni, capi dei castelli, diventano ereditarie. Insufficienti le milizie greche, vengono reclutate milizie locali, si militarizza la grande proprietà che, naturalmente, se ne avvantaggia in prestigio e autonomia. A più alta attività, come è la difesa del territorio, non può non seguire più alta autorità anche politica. Dalle file di questa aristocrazia esce spesso il vescovo che, anche come tale, è portato ad allargarsi sempre più nel campo civile e ad accentuare la sua autonomia. Vescovi e aristocrazia ora sono solidali, ora gareggiano. E di solito, prevale la seconda: ma non da per tutto; non a Roma, per esempio. Qui, il vescovo è un grande metropolita, è ormai capo di tutto l'episcopato d'Occidente, ha grandi disponibilità finanziarie, per i molti possessi suoi nell'Italia meridionale e nelle isole. Di fronte a lui, più difficile è, tanto al rappresentante dell'impero, quanto alle famiglie dell'aristocrazia militare e fondiaria, di farsi valere. La sua autorità civile si esplica nella città e nel territorio attorno, ma si fa sentire anche più lontano, nei paesi dove il vescovo di Roma ha poteri metropolitani e grandi possessi fondiarî. Anche nell'esarcato, dove è il centro dell'Italia greca e l'arcivescovo lotta per l'indipendenza ecclesiastica da Roma, come vescovo di una città già capitale dell'impero.
Fosse l'azione di operose forze locali, fosse la lontananza di Bisanzio, i vincoli di dipendenza che tenevano stretta l'Italia all'impero si vengono sempre più rilassando. E se la Sicilia, a cui è unita amministrativamente la Calabria, è fortemente tenuta dal governo centrale, la Sardegna e la Corsica vedono lentamente allontanarsi l'insegna di Bisanzio; e Venezia e Napoli e Roma si avviano a costituire altrettanti ducati a sé, con alla testa il capo militare, cioè il duca, o il vescovo. E le popolazioni dell'esarcato e della pentapoli, sottoposte al maggior funzionario greco in Italia, l'esarca, manifestano uno spirito d'indipendenza che erompe in frequenti rivolte. Si fa vivo il sentimento d'interessi proprî di fronte all'impero: interessi che tutti vedevano rappresentati e tutelati dal vescovo di Roma. Fortemente operavano in questo duplice movimento le discordie frequenti fra la Chiesa di Roma e gl'imperatori, tutte le volte - ed era assai spesso - che questi ultimi intendevano fare una politica autoritaria ed esercitare a pieno l'antico imperium sulla Chiesa. Messi al bivio fra Roma, la nuova Roma papale, e Bisanzio, le popolazioni parteggiavano per la prima. E poteva accadere che anche qualche esarca volgesse le spalle all'imperatore e si accordasse col papa.
La condotta di Giustiniano II, che mandò a Roma un suo funzionario per imporre al papa le decisioni del sinodo Quinisesto, provocò allora (fine del sec. VII) un movimento insurrezionale in Ravenna e nella regione vicina, l'umiliazione in Roma dell'inviato imperiale che dovette solo alla protezione del pontefice Sergio I la sua salvezza. Poiché in questi papi, all'evidente insofferenza della gravosa tutela greca si accompagnava una non meno evidente mutela nei rapporti con quella corte. La presenza dei Longobardi, spesso irrequieti, consigliava di non bruciare tutti i ponti con Bisanzio. Ai primissimi del 700, quando comparve a Roma l'esarca Teofilatto, nuovamente si commosse tutta l'Italia bizantina e gente armata accorse da ogni parte a Roma: ma anche questa volta papa Giovanni VI (701-05) si adoperò per calmare l'agitazione. La quale ha sempre in Ravenna e fra le popolazioni dell'esarcato il suo maggior focolare. Fra il 711 e il 712, il nuovo esarca Giovanni Rizocopo, mandato a governar l'Italia, giunto lì dopo aver commesso gravi violenze a Roma, è affrontato dalla milizia ravennate, sconfitto e ucciso. La città possiede ora un proprio ed energico capo, Giorgio, figlio di un Gioannicio che nel 695, partecipe forse a quella congiura che costò a Giustiniano II la detronizzazione, fu dieci anni dopo, risalito Giustiniano al trono, vittima della sua vendetta. Giorgio organizza la difesa della città, chiama alle armi tutti i cittadini anche del territorio, li raggruppa in reparti o numeri, comandati da un tribuno. La stessa organizzazione si compie, o si perfeziona, nelle altre città della Romagna, da Bologna a Cesena, a Sarsina. Anche a Roma, tumulti violenti contro il nuovo imperatore Filippico, che vuole rimettere in onore il monotelismo. Il popolo prende le armi contro il duca mandato da lui e si acquieta solo per l'intervento del pontefice e per la deposizione di Filippico nel 713. Fatti gravi e significativi tutti questi, che dovettero fortemente commuovere le popolazioni italiane, specialmente della regione che faceva capo a Ravenna, e dar materia a leggende e a componimenti poetici.
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Dato questo avvaloramento delle forze locali in molta parte dell'Italia greca, questo allentarsi dei rapporti di dipendenza verso l'oriente, ne consegue anche un crescente indebolirsi dei legami fra le varie parti dell'Italia greca: anche perché essa non era un blocco territoriale coerente e omogeneo. Si stendeva quasi tutta nella zona marittima e delle isole. Ma questa fascia eta continuamente rotta da terre longobarde che si affacciavano sul mare. I collegamenti fra esarcato e pentapoli da una parte, e Roma dall'altra, sono quanto mai precarî. La Sicilia poi sta a sé; ancor più la Sardegna e la Corsica. Quindì non solo una Longobardia e una Romania, nella penisola italiana, ma molte Romanie, e sempre più distinte l'una dall'altra, sempre più staccate ognuna da quella che è la principale e ha in Ravenna il suo centro e che perciò finisce col conservare, essa sola, il nome di Romania: Romagna. Così l'Italia, individuatasi prima entro il declinante impero romano d'Occidente, fattasi in parte indipendente dall'impero d'Oriente con la formazione del regno longobardo, vede ora non solo affievolirsi l'autorità di Bisanzio sopra le provincie che ancora possedeva nella penisola, ma queste provincie bizantine e poi via via tutte cominciar a costruire una lor propria vita.
Sì giunse così al 726, quando la politica fiscale di Leone Isaurico e il suo decreto contro le immagini provocarono più grave insurrezione. Gregorio II diede l'esempio, rifiutando di sottomettersi alle imposizioni e incoraggiando il moto rivoluzionario. Seguirono analoghi rifiuti dei rettori dei patrimoni ecclesiastici, urti tra funzionarî e milizie greche e popolo romano e ravennate. Non tutti concordi gl'Italiani nei rapporti coi Greci. Questi avevano messo non poche radici, contavano su interessi solidali di ceti superiori, sui legami che lingua e cultura greca, largamente diffuse, avevano creati fra essi. E accanto alla contesa fra Greci e Italiani, divampò quella fra Italiani e Italiani, tra fazione imperiale e fazione antimperiale. Ma le opposizioni di gran lunga prevalevano. A Ravenna, l'esarca fu ucciso. Presso Roma, il duca bizantino fu accecato e sostituito da un altro duca, Stefano, che pare creatura della rivoluzione. In quasi tutta l'Italia bizantina, gli ufficiali greci furono espulsi e i duchi locali sottentrarono. Anche i Longobardi si mossero. Liutprando invase l'esarcato fin oltre Ancona, e occupò castelli fin presso Roma. Si può facilmente ammettere che un sentimento di religiosa ortodossia animasse quel re e i suoi Longobardi, già da tempo convertiti. Ma la spedizione di Liutprando era innanzi tutto una ripresa della politica di Alboino, di Agilulfo, di Rotari.
Esigenze d'ordirie interno spingevano. Un regno sorto dalla conquista non poteva, senza pericolo d'intima corrosione, fermarsi sulle precarie posizioni raggiunte. Solo nuove conquiste potevano tener a freno i duchi, soddisfare la richiesta di terre da parte degli arimanni, esaurito come era o fortemente intaccato il patrimonio del re. D'altra parte, il regno, dopo decennî di disordini interni, di discordie fra i duchi, di ribellioni al re, si presentava, come dopo una crisi di crescenza, più forte che non fosse mai stato, quanto ad autorità regia, a organi di governo proprî della monarchia, a subordinazione di gran parte dei duchi. Anche assai più vicini, ormai conciliati, in qualche strato sociale probabilmente fusi, Longobardi e Romani, pur ammettendo che la monarchia di Alboino non abbia mai fatto, come quella di Teodorico, una vera e propria politica di avvicinamento. Tutto questo aveva creato vincoli molteplici d'ogni natura fra i soggetti, anche se le leggi seguitano a distinguere Longobardi e non Longobardi; li aveva tutti collocati, di fronte al re, sopra un piano non molto diverso. L'esercizio di un'autorità piena sui vinti lo ha aiutato a rafforzare anche l'autorità sopra i Longobardi, a vincere le tradizionali limitazioni germaniche del potere regio, ad ascendere al concetto di una regalità piena. Egli è, sì, prevalentemente, il Rex Langobardorum. Ma è difficile pensare che, a mezzo il sec. VIII, quei Langobardi siano solo Longobardi. È già apparso, alla fine del sec. VII, con Cuniperto e successori, il Rex Italiae. Anche Ariperto, padre di Liutprando, è Rex in Italia... feliciter. Qualunque sia l'estensione territoriale che si attribuisce a questa Italia, certo l'espressione denota un crescente e più organico nesso fra il re e il paese e gli uomini su cui il re regna.
Circostanze favorevoli, tutte queste, al nuovo sforzo di guerra della monarchia longobarda contro i Greci: in un momento in cui contro i Greci si levavano anche la Chiesa romana e le popolazioni di mezza Italia. Ma c'era in Roma, avversa circostanza, il capo della Chiesa. Egli non voleva essere un vescovo di Bisanzio, ma neanche dipendere da Pavia. Veniva logorando l'autorità dell'impero nel ducato romano, ma non per sostituire ad essa quella del vicino re. A difesa dell'imperatore, essa contava sulle popolazioni italiane, su qualche esarca bizantino in lotta col suo sovrano o vagheggiante un proprio dominio in Italia, magari sui duchi longobardi di Spoleto e Benevento, ma non sull'esercito del re.
Perciò, ora, Gregorio II, turbato della rapida avanzata di re Liutprando, da una parte cercò di fermare l'ondata di ribellione all'imperatore, dall'altra invitò il re a ritirarsi. E il re sgombrò alcune delle terre occupate, ma rimise a Gregorio II - la fonte romana dice restituit - la città di Sutri (728). Poi, visto che i duchi di Benevento e Spoleto e il pontefice si legavano sempre più, e questa volta non contro i Greci ma contro il re, prima assalì e vinse quelli, poi invase il ducato romano, si accampò sotto Roma. Ma più forte delle sue ambizioni e del suo sentimento di re fu la riverenza per le somme chiavi. Vinto dalle parole del papa, andò a far penitenza nella basilica di San Pietro, depose qui le insegne regie, si ritirò con l'esercito verso il nord. Successive imprese di re Liutprando non ebbero più durevole successo. Gli toccò anche di vedere il papa intendersela, oltre che con i duchi, con l'esarca di Ravenna, e ambedue aiutare il lontano imperatore contro tentativi di usurpazione della dignità imperiale compiuti vicino a Roma. Anche sull'esarcato il papa vigilava come sopra un interesse proprio, presente o futuro.
Storia longobarda e storia d'Italia. - Insomma, Liutprando fallì di fronte all'opposizione delle forze varie e anche discordi, ma pure, contro una conquista longobarda, solidali: impero greco o alti e mezzani dignitarî italiani, operanti spesso con molta autonomia da Bisanzio e tendenti a trovar sul luogo la loro base; ducati di Benevento e Spoleto, cioè grossi nuclei di Longobardi stanziatisi lontani dal centro; popolazioni italiane, avviate a un assetto politico proprio, come gli abitatori delle lagune, oppure adagiatesi sotto il suave iugum dei vescovi, fra i quali emerge quello di Roma, che di tutti gl'Italiani soggetti a Bisanzio è come capo spirituale, forte della sua religione ma anche delle armi della milizia romana e ravennate, delle navi veneziane, degli aiuti militari dei duchi ribelli. Si può ammettere che il re avesse un altro nemico anche in quel suo spirito di cristiano e quasi di romano che lo guidava nella riforma delle leggi "empie o inumane" della sua nazione. Ma assai più lo rese esitante e arrendevole di fronte al papa la visione o coscienza della difficoltà grande, anche militare, di vincere la resistenza di quelle forze avverse che si accentravano nel papa, di poter inquadrare nel regno elementi così diversi e resistenti. Visione giusta, in fondo: e lo dimostrerà il fallimento eguale e maggiore dei successori di Liutprando.
E pur tuttavia pericolosi alleati o fiancheggiatori, per la Chiesa romana, quei duchi beneventani e spoletini che appetivano le terre della Chiesa non meno del re longobardo, quegli esarchi bizantini che ogni tanto mettevano a subbuglio Roma e l'Italia con le loro eresie e le loro ingerenze nel campo della Chiesa, quelle milizie romane che traevano vigore specialmente dall'aristocrazia secolare, gareggiante con quella ecclesiastica! Doverono ben sentirlo i due pontefici che si trovarono in mezzo a così varia mischia, Gregorio II e Gregorio III. Nei quali perciò maturò l'idea di trovare altri appoggi, più sicuri e meno compromettenti. Dover vi era, confinante col regno longobardo, il regno franco, primissimo fra i varî regni barbarici ad accettare il cattolicismo, sollecito a promuovere la evangelizzazione degli Anglosassoni e dei Germani, baluardo ora contro gli Arabi della Spagna. Più d'una volta, Franchi e impero si erano intesi a danno dell'interposto regno longobardo. Ad essi perciò si volge la Chiesa romana, certo consenziente l'imperatore. Gregorio III scrisse una prima volta a Carlo Martello nel 739; una seconda l'anno appresso. Per il momento, furono vani gli appelli. Ma quando, morto Liutprando, rovesciato Rachi per opera del partito che voleva riprendere la conquista e cacciare i Greci dall'Italia, re Astolfo avanzò su l'esarcato, occupò Comacchio e Ravenna, e strinse, da presso Spoleto e il ducato romano; allora il papa, Stefano II, da poco eletto, si recò in Francia, e il re Pipino, assunto l'anno prima al trono col consenso, anzi incoraggiamento di papa Zaccaria, gli promise di ottenere da Astolfo la restituzione delle terre. Stefano aveva passato le Alpi d'intesa con l'imperatore. Ma certo egli pensava più al Beato Pietro che non ai diritti di Bisanzio; e certo la restituzione fu concordata a beneficio del Beato Pietro, nuovo sovrano. Difatti il papa, ora, incoronato re Pipino, conferì a lui e successori il titolo di patrizio dei Romani: un titolo che fino allora solo l'imperatore aveva conferito. Con esso, le terre della Chiesa venivano messe sotto la protezione di Pipino. Seguì la prima spedizione franca del 754, con relativo assedio di Astolfo in Pavia e la sua promessa di rendere le terre occupate. Poi, la seconda spedizione del 756, dopo che Astolfo, non che rendere le terre, marciò ostilmente contro Roma. E questa volta esarcato e ducato romano furono resi, cioè dati al papa. Con l'esarcato e il ducato romano, passò al papa anche il ducato di Perugia, recente istituzione bizantina. Questa è la donazione famosa di Pipino, più ristretta che non suoni il documento interpolato e contraffatto che ce ne ha tramandato la notizia, ma sempre assai importante nella formazione dello stato della Chiesa.
I pontefici si sono ora giovati dei Greci contro i Longobardi, ora dei Longobardi contro i Greci, ora delle popolazioni italiane contro Greci e Longobardi. In ultimo hanno fatto ricorso ai Franchi d'accordo con l'imperatore, sotto la cui alta autorità essi pur sempre rimangono, per le terre ricevute. Ma comincia subito in curia il lavorio per togliere ogni fondamento giuridico a questa autorità di Bisanzio. Subito dopo la donazione vera di Pipino, ecco una falsa donazione di Costantino, Constitutum Constantini, che è manipolata negli anni immediatamente seguenti alla prima e con tutta probabilità in Roma stessa; certo, a Roma, subito nota e adoperata. Essa doveva servire a dimostrare che il pontefice nulla riconosceva dall'impero che già non avesse per diritto proprio e in estensione ancora maggiore. Con l'indipendenza del papa da Bisanzio, si cerca anche la dipendenza dell'aristocrazia romana dal papa, negandole ogni diritto sulle cariche civili, quasi come compartecipe, col papa, in Roma e nel ducato, dell'eredità bizantina.
In mezzo ai contrasti che questa politica papale e di curia sollevò, si venne formando a Roma un partito longobardo. E la corte di Pavia cercò un ravvicinamento coi Franchi, per staccarli dalla Santa Sede. Ma le nozze di due figlie di re Desiderio con Carlo di Neustria e Carlomanno di Austrasia, succeduti a Pipino nel 768, non interruppero quello che ormai pareva il corso naturale delle cose. Carlo, rimasto solo nel 772, e Desiderio vennero a rottura. E quando Desiderio invase esarcato, pentapoli, ducato romano, Carlo, sollecitato dal pontefice, riprese la via delle Alpi, sboccò nella pianura padana, assediò Pavia e Verona, entrò in Roma, rinnovò la donazione. Intanto, Pavia e Verona capitolavano, i Longobardi si sottomettevano quasi tutti, il regno veniva riunito a quello franco.
Le fonti parlano solo di Langobardi alla difesa: che poi non dovettero essere neppure tutti i Longobardi. E se ne è desunto che la nazione longobarda era sempre distinta e staccata dai Romani. Alessandro Manzoni vide, ancora nel sec. VIII, aperto dualismo. Ma se ne potrebbe desumere anche un'altra conclusione: cioè che i Longobardi non conservavano più la loro compattezza, quasi assorbiti dal terreno italiano, su cui poggiavano i piedi; e i Romani, cioè la massa della popolazione, non erano e non si sentivano ancora bene inquadrati, giuridicamente e moralmente, in un regno che portava ancora tanti segni della sua origine barbarica e aveva un'ancor imperfetta organizzazione territoriale. Comunque, finiva così, dopo due secoli, l'indipendenza e la personalità politica del popolo longobardo, fiaccato dall'urto della nazione e della monarchia franca, ma già indebolito e corroso dal vano sforzo di allargare le sue conquiste, dalla tenace opposizione dei Greci padroni del mare, dal crescente prestigio della Santa Sede che diventava essa punto di attrazione anche di elementi longobardi, dalla superiore civiltà dei vinti e dallo stesso suo accostarsi a questa civiltà. E tuttavia, anche gl'invasori longobardi avevano arricchito di elementi proprî la vita delle genti italiane, vi avevano immesso un piccolo ma robusto fiotto di elementi demografici, un po' stanziatisi a sé in nuovi villaggi, un po' mescolatisi coi Romani nelle vecchie sedi e ora in parte assorbiti dalla massa indigena, un po' ancora distinti perché mutatisi in alta e mezzana aristocrazia, socialmente e politicamente assai importante. Notevoli elementi di diritto e influenze non piccole, anche se da non valutar troppo, sul diritto romano pubblico e privato. Come questo aveva agito sulle rozze consuetudini e sulla vita giuridica dei barbari, così queste su quello, anche per effetto del relativo rimbarbarimento che la società italiana nel suo complesso subì, cioè decadenza di economia di scambio, rafforzamento del vincolo familiare, ecc.: tanto è vero che influenze longobarde si ebbero anche là dove Longobardi non dominarono. Qualche nuova abilità tecnica e capacità artistica, un certo corredo di consuetudini di vita familiare e pubblica, un piccolo patrimonio di leggende entrate in Italia con gli invasori o formatesi sul terreno della loro vicenda italiana, minime influenze linguistiche, rappresentate da qualche centinaio di parole germaniche entrate nella lingua del paese, poiché, nella gara con quella lingua, il longobardo soccombé. Nel sec. X, esso si può considerare affatto morto. Che fu poi, a lungo andare, il destino di molti elementi longobardi, uomini, diritto, istituzioni, consuetudini varie. Che cosa è, nel '200 e '300, l'estinguersi di gran parte della vecchia aristocrazia feudale, il nuovo vigore del diritto romano, la nuova e originale civiltà, se non il graduale decadere e scomparire di elementi di vita trapiantatisi sul suolo italiano coi Germani o dai Germani segnati della loro impronta.
Ma l'importanza del dominio longobardo è data specialmente da quegli eventi che esso crea o determina, da quel complesso di problemi politici e politico-morali che al suo tempo e anche per opera sua cominciano a costituire la trama su cui sarà tessuta la storia italiana. Per cui quei due secoli che vanno dal 568 al 774 segnano, per quella storia, quasi un inizio. Temprano il loro vigore, consolidano la loro vittoria, nell'attrito con gl'invasori, cattolicismo e Chiesa romana e papato; e in Roma nasce, come organizzazione di difesa, il potere politico dei papi, quello che sarà poi il vero e proprio stato della Chiesa. Cià appare visibile un interesse della Santa Sede, che diverrà cosa permanente, avverso a ogni formazione politica italiana che appaia pregiudicevole alla sua piena libertà di movimento: cioè già si accampa nel centro della penisola una forza politica che segnerà in non piccola parte il destino suo, all'interno e nei rapporti internazionali. Questo contrasto fra papato e regno, sebbene puramente politico, avrà suoi riflessi grandi nell'intimo delle coscienze. E già s'indovina, nella condotta dei re longobardi stessi, nei contrasti interni del regno, che precedono e un po' preparano la tragedia del 774, quel turbamento interiore, quel dissidio fra dovere civico e dovere religioso che poi diverrà cosa specificamente italiana e renderà in Italia più difficile e tormentata la soluzione di tanti problemi di vita nazionale. Appaiono già chiare davanti ai nostri occhi, dal sec. V all'VIII, le tendenze centrifughe della vita italiana, troppo forti perché sia possibile ricondurle alle vicende dell'economia. Si direbbe che riaffiorino le forze regionali e locali preromane, nel crollo dell'impalcatuta giuridica e politica creata da Roma. Più ancora, operano le forze e gl'interessi piantatisi in Italia con la riconquista imperiale che ha, in parte, carattere di affermazione bizantina e greca, cioè straniera; più ancora quelle venute coi Longobardi. I quali infransero l'unità instaurata dai Greci, senza esser capaci d'instaurarne una propria; e anche nell'ambito del regno che riuscirono a costruire in Italia, presto riluttarono all'unità regia che faceva capo a Pavia (Spoleto e Benevento). Ed ecco quel nuovo sgretolarsi della penisola, que] l'emergere di gelosie e particolarismi cittadini che, già visibili e operosi nell'età longobarda e bizantina, toccheranno il culmine nell'età successiva, quando la penisola sembra ritorni a essere quella delle cento e cento tribù galliche, etrusche, umbre, greche, sannite, sabine, latine, ecc. Con questa differenza: che ci è stata di mezzo Roma, potentissima a livellare e unificare e sempre spiritualmente presente in questa sua funzione, anche ora che essa è caduta. E c'è stato di mezzo, anche, con più modeste funzioni, il regno longobardo, che egualmente tessé una sua trama e fondò in Italia una tradizione politica di unità.
La rinnovazione dell'Impero.
I Franchi in Italia e il ritorno di Roma. - Col 774, con la dinastia franca a capo del regno longobardo, altri fatti maturarono. Quel distacco, politico e morale, dall'Oriente, che la conquista longobarda, l'emergere della Chiesa romana a potenza e gli interessi proprî delle popolazioni soggette venivano da tempo attuando, ora si accentuò, sebbene non si spezzassero i legami tra il mondo greco e l'Italia, rappresentati, oltre che dall'effettivo dominio nelle provincie del sud e dalla presenza nella Puglia, in Calabria, in Sicilia, di nuclei greci o grecizzati e di un clero obbediente più all'imperatore che al papa, anche dalla cultura greca che ancora nel sec. X sopravviveva nel centro e a nord della penisola, e dalla persistenza in Bisanzio della coscienza di un diritto su quanto era stato territorio dell'impero e dall'intenzione di farlo valere, quanto meno in Italia. In rispondenza a questo maggiore distacco dall'Oriente, che coronava, nel campo religioso, i lunghi sforzi del papato, maggiore collegamento con l'Occidente romano-germanico e cattolico-romano. Vi è non solo una dinastia franca sul trono del regno longobardo e un'unione personale dei due regni, ma anche una nuova, sia pur tenue, infiltrazione di elementi etnici franchi e d'altre stirpi germaniche (Alamanni, Burgundî, Baiuvari, ecc.) che daranno ulteriore alimento alla preesistente aristocrazia; e la penisola aperta ai molteplici influssi della vicina nazione e, per il suo tramite, collegata anche con la Germania, con i paesi anglosassoni. Insomma, un nuovo e più vasto orizzonte occidentale, davanti agli occhi degl'Italiani. Si ebbe anche qualche altro evento: il potente affermarsi del regno franco, dopo la vittoria sui Longobardi, attraverso una serie di vittoriose spedizioni, in mezzo ai Germani del nord e dell'est e anche in mezzo alle avanguardie slave, Avari, Carantani, Croati, fino a instaurare un grande impero, come quello di Roma. Alta posizione del re Carlo davanti alla Chiesa cattolica, per tanto impulso dato alla lotta contro gl'infedeli e alla conversione dei pagani; e crescente solidarietà fra Carlo e il papato, crescente interesse e occasione di Carlo a vigilare sulle cose di Roma, dove, scomparso il pericolo longobardo, incombeva sui pontefici e sulla curia il pericolo dell'aristocrazia secolare che ascendeva a potenza e ambiva di padroneggiare la città e il ducato. Rifiorire di cultura non solo religiosa e chiesastica, ma anche secolare. Insomma, il rinascimento carolingio, sebbene già avviato prima di Carlo e germogliante su da sue proprie radici, per il risollevarsi dei vinti a nuova dignità, per certo interesse vivo e fresco che portano nella cultura i neofiti, cioè i barbari civilizzati. Naturalmente, gli uomini colti si orientano verso il nuovo astro, ruotano attorno a lui, concorrono a elevarne il prestigio, a rafforzare coi vincoli della cultura quell'unità politica che le armi venivano creando: Pietro da Pisa, Paolino di Aquileia, Alcuino, monaco anglosassone, Paolo Diacono longobardo di Cividale, uomo rappresentativo di quella evoluzione che i Longobardi, pur col senso della loro nazionale personalità, vivo negli uomini di qualche cultura e di alto rango sociale, avevano compiuta e forse affrettarono in questi decennî di tempesta, verso la cultura tradizionale del paese. Paolo, storico della sua gente, si accosta intimamente alla storia dei Romani. Proclama il suo affetto alla loro letteratura. È felice di essersi nutrito di quello spirituale cibo. Il regno di cui Desiderio è re si colora, davanti allo scrittore, di colori antichi. Roma ormai riemergeva dal gorgo, anche per gl'invasori. Scomparsa come organizzazione politica e giuridica, essa tornava a operare come esempio e come ispirazione; e non solo per i bisogni della vita pratica - il diritto, l'ordinamento fondiario, ecc. - ma anche per i più alti e delicati bisogni dello spirito. Per il contrasto con questa grande visione, sempre più l'età successiva, l'età delle invasioni e del disordine barbarico, si configurava come età di decadenza: decadenza anche religiosa, oltre che civile e letteraria. Si cominciava a vagheggiare una restaurazione: delle lettere e arti liberali e, insieme, della religione; restaurazione che si presentava come un ritorno all'antico, come una renovatio. Anche il ricordo dell'impero risorgeva, purificato dei suoi peccati; dell'impero fattosi cristiano, protettore della fede, largitore di benefici alle chiese. E la curia romana, con il suo Constitutum Constantini, non concorreva anch'essa a riportare il pensiero a Roma imperiale, a determinare questa rinascita?
A Roma, intanto, venuta ormai a mancare l'antica autorità e non ancora ben salda la nuova, si erano aggravate le interne agitazioni, che andavano di pari passo con l'emergere di un'aristocrazia terriera, con il passaggio dei poteri di governo nelle mani della gerarchia romana, con le rivalità fra quell'aristocrazia e questa gerarchia. E nel 799 vi fu, per opera di nobili avversi alla politica troppo francofila di Leone III, una congiura che costrinse il papa a fuggire. Ma tornò subito, accompagnato da armi franche. In Oriente l'impero in quegli anni vacava. Nel 795 lo stesso papa Leone aveva rotto l'ultimo segno di dipendenza da esso, datando le sue bolle dagli anni di regno di Carlo. Ed ecco, la notte di Natale dell'800, Carlo re incoronato dal papa, davanti all'altare di S. Pietro, "grande e piissimo imperatore" e adorato more antiquorum principum, cioè come un imperatore romano.
Quali siano stati gli accordi che precedettero l'incoronazione, pare innegabile che, se anche Carlo desiderò un rinnovamento così fatto dell'impero; se egli se ne attese un aiuto grande e una specie di riconoscimento delle conquiste fatte; certo non lui, ma il papa determinò, dell'incoronazione, forme modi titoli. Egli volle così affermare la sua autorità sul maggior principe della terra ed esercitare i diritti che gli venivano dalla "Donazione di Costantino". Nel rinnovato imperatore egli vedeva un protettore in Roma, in Italia e da per tutto; il braccio armato per l'attuazione di quei compiti che gli scrittori ecclesiastici ormai attribuivano allo Stato e alla Chiesa insieme. La nuova unità politica di tanti paesi sotto Carlo a lui appariva naturale conseguenza e quasi riflesso della unità religiosa cristiana e cattolica, mezzo per conservarla e consolidarla. E Carlo non poteva poi affermarsi anche in Oriente, dove il trono ora vacava, e far risorgere integralmente l'unità antica, nei suoi più ampî confini? O almeno aiutare il pontefice nei suoi sforzi di sottomettere a Roma la chiesa orientale, ostinata a far da sé, tenuta in stretta dipendenza dallo stato, esposta alle velleità dogmatiche dell'imperatore? Certo, Carlo, una volta impugnato lo scettro, mostrò subito di volerlo tenere con ogni sua forza, ebbe l'occhio aperto sull'Occidente ma anche sull'Oriente, si considerò successore degli antichi imperatori e, proprio come un antico imperatore, regolò le cose della Chiesa e della religione accanto a quelle civili, accentuando, per influsso della tradizione romana, un sistema già invalso in Francia, specialmente da Pipino in poi, esaltato da cronisti e poeti della corte come rex et sacerdos.
Questa restaurazione o instaurazione imperiale, se per un verso trascende la storia d'Italia, non è estranea ad essa, anzi ne è parte viva. Basta pensare, a parte il luogo del suo primo nascimento, come l'impero fu nel Medioevo visto e considerato dagl'Italiani; pensare quanto esso incise, per secoli, sulle vicende storiche dell'Italia; come fu messo a centro di ogni costruzione di pensiero politico dagl'Italiani. Né solo da chi contemplava nostalgicamente il passato, ma anche da chi sognava un più alto avvenire per il mondo e per l'Italia. Ciò più tardi: ma l'ascesa di Roma è già cominciata; essa sta rimettendosi al centro dell'Occidente. Centro religioso già era diventata; e sempre più vede ampliarsi attorno a sé la sua sfera con la conversione dei Germani e degli Slavi. Ora, anche centro politico. L'Occidente ormai guarda tutto ad essa; e anche l'impero d'Oriente, che non ha ancora rinunciato all'Italia. Insomma, molti e varî interessi del vasto mondo tornano a convergere su Roma; molte leve, maneggiate da quel centro, mettono in movimento le cose del vasto mondo. Di qui, la rinnovata importanza anche della storia della città di Roma, con i suoi partiti, le sue gare fra aristocrazia secolare e gerarchia, le sue agitazioni attorno al papato e attorno all'impero. Il "popolo romano" diventa anch'esso, in tal modo, fattore d' importanza mondiale, con certo consapevole e orgoglioso ricollegamento al "popolo romano" antico e persuasione di esserne l'erede; d'essere quindi, come esso, fonte prima della potestà suprema.
Attorno all'814, anno della morte di Carlo Magno, la penisola si presenta, politicamente, come regno longobardo sotto la nuova dinastia franca; come dominio greco, ridotto alle regioni costiere meridionali, alla Sicilia e, quasi svanendo nella lontananza, alla Sardegna e Corsica; come respublica romana o terre di dominio della Chiesa, appartenenti già all'impero e, in piccola misura, al regno longobardo. E poi, ducato e principato beneventano; ducato di Venezia, che è una federazione d'isole con centro a Rialto; ducato di Napoli, ridotto ormai a piccola estensione: tutti avviati, non ostante qualche dipendenza, più o meno effettiva, dal regno d'Italia o dall'impero bizantino, verso un regime proprio. La vita della penisola, fallito lo sforzo dei Longobardi di raccoglierla tutta sotto di sé, sconvolto poi quel regno dalla conquista franca, si viene dunque svolgendo nel senso di una crescente moltiplicazione di organismi politici indipendenti. Anzi, con i Franchi, la tendenza s'accentua. Anche il ducato longobardo di Benevento si spezza.
La compagine del ducato longobardo di Benevento perde il suo vigore, via via che esso si distacca dal regno. Quelle poche migliaia di Longobardi, qui mantenutisi assai distinti dal resto della popolazione, che nel passato son riusciti a governare un vasto e vario terrirorio, ora non ci riescono più. Cause o manifestazioni di debolezza sono: le tendenze autocratiche dei principi; lo spirito di ribellione nell'aristocrazia dei conti e gastaldi preposti alle città e provincie; il carattere elettivo del principato; l'incapacità di assoggettare le regioni che costituivano lo sbocco naturale sul mare, specialmente Napoli, per mancanza di forze navali e per l'accorta tenacia di quelle città rivierasche; l'opera di disgregamento compiuta dall'impero greco che preme da tre parti il principato; la rivalità fra i centri urbani. Salerno, posta sul mare, divenuta sede di traffici marittimi e di scambî con l'interno, divenuta quasi la capitale effettiva del principato, nell'840 si ribella a Benevento, dandosi un proprio duca. Dopo un poco, il gastaldo di Capua si la prima vassallo del duca di Salerno contro Benevento, poi finisce con l'essere del tutto indipendente, diventa pur esso duca, infine principe. È il tempo questo in cui anche lungo il litorale fra Salerno e Capua si delineano, distinti e indipendenti, tre piccoli stati: Napoli, Gaeta, Amalfi. Insomma, polverizzazione politica in questa regione di Longobardi e Greci. Le città campane rappresentano, insieme con Venezia e, fra un secolo o due, Bari e Genova e Pisa, l'Italia marinara che precede nell'innovare socialmente e politicamente.
Peggio, quel che accade in Sicilia, dove è ribellione a Bisanzio. E la ribellione sollecita, con o senza invito di Siciliani ribelli, gli Arabi e Berberi, fattisi da oltre un secolo padroni dell'esarcato d'Africa. Da un pezzo, essi erano comparsi minacciosi nei mari Ionio e Tirreno: prima quelli di Spagna, poi quelli d'Africa. Ponza, Ischia, il litorale calabrese, la Sardegna e Corsica avevano avvertito la minaccia. E si era dovuto, da re Carlo e da chi lo rappresentava in Italia, provvedere alla difesa. Ma ora, nell'827, 80.000 Berberi sbarcano in Sicilia e cominciano a conquistarla, a mettervi radici, ad annodare accordi con signori e città dell'Italia meridionale.
Nella vicina terraferma il principe di Benevento, Sicardo, è in guerra con Napoli. Una flotta musulmana assale Sicardo e lo costringe a togliere l'assedio da Napoli. Vi era stata una sollecitazione dei Napoletani? Certo, queste città marinare avevano bisogno di navigare in pace e, non potendo acquistar pace con la forza, se la procuravano con gli accordi. Certo, anche, si ebbe dopo d'allora una vera alleanza fra Sergio duca di Napoli e i Saraceni di Sicilia, che durò molto tempo. Appena i Napoletani si sentivano minacciati da Benevento, i Saraceni entravano in azione, un po' per gli alleati, più ancora per sé. E nell'837-8, essi assaltarono la costa longobarda di Puglia, occuparono Brindisi, poi Taranto, di cui fecero una forte base e centro di scorrerie all'intorno. Anche Radelchi di Benevento, in guerra con Siconolfo di Salerno, ne chiama o, almeno, ne assolda. E così altre bande, forse d'Africa, prendono Bari nell'840, procedendo prima fra stragi e saccheggi, poi con certo ordine: accordi col vescovo, promessa di tolleranza religiosa e di rispetto delle persone, ecc. Certo, hanno in vista una stabile dominazione, come già in Spagna. Allora, anche Siconolfo si dà ad ingaggiare infedeli. I quali così sono richiamati sempre più verso l'interno del paese. Quelli di Bari fan sentire la loro presenza su tutta la Puglia; quelli di Taranto su tutta la Calabria longobarda. Circa l'840, un nuovo nido saraceno, a Capo Miseno: e di qui, la campagna romana è corsa e saccheggiata fin quasi alle porte della città; Fondi e Formia bruciate e distrutte. Insomma, nuove "invasioni barbariche", in regioni che già avevano subito le prime invasioni o dalle prime erano state risparmiate. Intanto, quelli di Sicilia avevano nell'831 preso Palermo, forse nell'843 Messina. Poi, via via, quasi tutto il resto.
Dal "regnum Langobardiae" al "regnum italicum" e suo vano sforzo di unità nella penisola. - Così un'altra civiltà, che dominava ormai il grande arco di cerchio dalla Spagna alla Siria, spinge i suoi tentacoli verso l'Italia meridionale. La penisola, già punto d'incontro e di attrito di due imperi, ora ne vede ancora un altro, fra asiatico e africano, entrar nella gara, anche esso forte sul mare. E ne è come avviluppata, subisce altre fratture. Anche la Sardegna e la Corsica, perduta per l'impero la Sicilia, ora rimangono abbandonate a sé stesse e vedono ridotti a poco o nulla, per qualche secolo, anche i rapporti col vicino litorale toscano e ligure, dove l'organizzazione navale del regno langue.
Ma su questo regno longobardo-franco è specialmente necessario portare la nostra attenzione. Nel sistema di stati o quasi stati italianì di quel tempo, esso occupa il primo posto, per ampiezza, importanza politica, nessi con il papato e l'Europa romano-cristiana-germanica, capacità di poter direttamente o indirettamente agire sopra gran parte della penisola. Il regno ha sua capitale, sua corte, sue leggi, sua assemblea. Ma esso è legato per vincoli dinastici, anzi, da principio, per unione personale, col regno franco e fa parte della grande monarchia creata da Carlomagno, sotto la duplice egida della Chiesa e di Roma antica. Poi, quando si viene a una ripartizione del nuovo impero tra i figli dell'imperatore, il regno longobardo ha un suo re: Pipino, dall'806 all'810, e Bernardo, suo figlio, dall'814 all'817. Ma debole è la personalità politica di questo regno longobardo-franco. Chi lo regge è più un governatore o vicario che non un vero re. Accennò a crescere questa dipendenza negli anni appresso, via via che in Francia prevaleva la concezione dell'impero come effettiva unità politico-amministrativa. Maturò allora il disegno del re Bernardo di scuotere questa tutela. Attorno a lui si stringevano molti grandi longobardi e franchi e anche vescovi dell'Italia settentrionale e lo stesso arcivescovo milanese Anselmo. Era, questa, una manifestazione delle forze centrifughe e, in certo senso, antimperiali o antimperialistiche che tendevano, con maggiore o minore coscienza, a più rìstrette organizzazioni locali o nazionali: le singole stirpi, le aristocrazie, l'alto clero, alcuni maggiori centri urbani, Sopraffatti un momento dal costituirsi del rinnovato impero d'Occidente, ora risorgevano per virtù della stessa unità imperiale, capace di promuovere, con i contatti, la coscienza di quelle stirpi, di avvalorare, chiamandole a collaborare, quell'aristocrazia, di creare più favorevoli condizioni allo sviluppo delle cittadinanze. Ma il tentativo finì in tragedia. Alla prima minaccia di guerra da parte di Ludovico, Bernardo si rimise nelle mani dell'imperatore e ne ebbe crudelissimo supplizio. L'Italia fu allora data, qualche anno dopo, a Lotario, uno dei figli di Ludovico; e a Lotario fu riconosciuta qualche maggiore autorità, al regno maggiore autonomia amministrativa. E questo fu consigliato forse anche dalla situazione della penisola, dal bisogno per l'imperatore di consolidare lì il suo prestigio. In Italia risiedeva il pontefice, poco sofferente anche esso di tutela. L'obbligo di attendere la conferma imperiale prima della consacrazione, non era osservato più, nei rapporti con Bisanzio, dal principio del 700. Rimesso in vigore da Carlomagno, ora stava di nuovo cadendo in dissuetudine per opera di Stefano IV, successo nell'816 a papa Leone, e, l'anno appresso, di Pasquale I. Col quale Ludovico aveva conchiuso, nell'817, un famoso patto, in virtù del quale l'imperatore, mentre confermava al pontefice il suo dominio temporale, rinunciava anche al controllo sull'elezione pontificia. Viceversa, sempre più si faceva valere l'incoronazione papale e romana dell'imperatore, non come mera formalità, ma come atto necessario all'esercizio pieno dell'autorità imperiale. Nell'813, Ludovico era stato associato all'impero da Carlomagno con apposita incoronazione in Aquisgrana; ma nell'816, Stefano recatosi in Francia rinnova egli l'incoronazione; e nella Pasqua dell'823 Lotario, re d'Italia, va a Roma a ricevere la corona imperiale. Qui, abusi, agitazioni, disordini. Si delineava la vicenda medievale di Roma: gare fra potenti famiglie, contrasti fra laicato e gerarchia, usurpazioni di terre pubbliche, rapine di beni ecclesiastici, varietà e incertezza di poteri. Ma, fatto centrale, l'esistenza di forti interessi dell'aristocrazia militare e fondiaria, che, offesi dalla crescente potenza del chiericato, reagivano con violenza. Ora, qui in mezzo, il re e imperatore franco aveva partigiani. Contro il vicino principe, essi confidavano nel principe lontano. E certo, appoggiandosi su questo partito, Lotario portò in alto, con la costituzione dell'824, quell'autorità imperiale in Roma che già, dopo Carlomagno, accennava a declinare. Abbandonato il diritto di conferma dell'eletto, il sovrano esigeva tuttavia il ripristino del diritto di laici di aver parte insieme col clero nelle elezioni pontificie, otteneva che un messo imperiale lo rappresentasse stabilmente in Roma e che davanti a lui e davanti al popolo l'eletto prestasse giuramento prima della consacrazione, si riservava d'intervenire a tutela dell'ordine pubblico e nei processi criminali. Mai forse, come in questo momento, la restaurata dignità imperiale affermò e fece riconoscere così esplicitamente il suo alto diritto su Roma, accanto a quello del pontefice: sebbene incerti i limiti fra l'una e l'altra; difficile, all'autorità pubblicamente più alta ma lontana, di farsi valere di fronte all'altra vicina se pur minore, mal tollerabile una condizione di semi-sudditanza temporale in chi - il papa - aveva pienezza spirituale di poteri e si considerava ormai quasi la sorgente dell'autorità dell'altro, l'imperatore. Di qui i futuri conflitti fra papi e imperatori.
Tutto questo sta a dimostrare quale importanza il regno longobardo aveva nel sistema imperiale creato da Carlomagno: importanza quasi di centro, pur essendo debole militarmente, dominato da un crescente disordine civile, spesso trascurato dal suo principe, coinvolto nelle gravi contese dinastiche di cui la Francia era sanguinoso teatro. Visibile anche, nelle successive divisioni dell'impero, il progressivo individuarsi di quel regno - come delle altre parti dell'impero stesso - con proprio re, fornito di larghe attribuzioni e alti compiti; e il suo andare congiunto con l'impero nella stessa persona. Quello a cui tocca di governare l'Italia tendeva anche a prendere in Roma corona imperiale. Anche il patto di Verdun (843) assegnava a Lotario, già incoronato imperatore, l'Italia, insieme con altre terre transalpine, sulla destra del Reno. Poi Lotario assegnò al figlio Ludovico il compito di curare l'Italia: e Ludovico, venuto in Italia e a Roma nell'844, vi fu solennemente incoronato re; poi, nell'850, associato all'impero e coronato a Roma da Leone IV papa. Da allora egli attese quasi solo alle cose della penisola.
In lui noi possiamo vedere quasi un redivivo re dei Longobardi; sebbene non più tanto come re di una nazione ancora male radicata nel paese e male fusa con gli altri abitatori e sudditi, quanto come re di un popolo ormai, nella grande massa, uno e inquadrato in un suo territorio. Non è senza significato che, proprio con Lotario e Ludovico, la denominazione di Regnum Langobardiae ceda quasi totalmente a quella di Regnum Italiae o Italicum, prima d'allora apparsa solo sporadicamente. Senpre più invale anche la parola Italici o talienser, per indicare tutti gli abitatori e sudditi del regno. La nuova parola "regno d'Italia" è probabile tradisca l'intenzione di troncare ogni segreto desiderio di restaurazione longobarda da parte delle grandi famiglie ducali. Ma forse esprime anche la maggiore fusione determinata, almeno nei ceti medî e inferiori, dalla conquista franca, col susseguente rinvigorirsi dei più numerosi e civili elementi originarî del paese (uomini, idee, cultura, parole, ecc.); esprime anche il proposito del principe di estendere l'autorità effettiva del regno su tutta quella penisola a cui la tradizione letteraria estendeva il nome di Italia. E difatti, Ludovico non solo è presente a Roma col suo missus ed è molto legato all'arcivescovo di Ravenna, del quale favorisce le tendenze autonomistiche di fronte al papa, ma svolge anche tenace azione nel sud, fra Longobardi e Greci.
Nel sud, ogni giorno più dilagava il pericolo musulmano. Insufficiente la difesa bizantina. I Longobardi di Benevento, con le loro discordie, piuttosto chiamavano che non allontanassero le bande saracene. I Napoletani forse mandarono loro ausiliarî all'esercito degl'infedeli che nell'843 assediò ed espugnò Messina. E caduta Messina, fu più facile moltiplicare gli assalti e le scorrerie lungo le coste ioniche e tirrene. Si avvertì allora, veramente, la gravità del pericolo. Reazione di Napoli, Gaeta e Amalfi, che unirono le proprie forze. Comincia con queste imprese di guerra, con queste iniziative politico-militari, la nuova storia delle città italiane. Ecco, poi, sollecitato da queste città, dall'impero greco, da Salerno, dal papa, che vedeva Roma stessa minacciata; ecco anche Ludovico II. La sua prima impresa è dell'849, quando Franchi e Longobardi respinsero gl'infedeli fino alle coste pugliesi, e le navi della lega campana, comandate da Cesario figlio di Sergio, distrussero una grossa flotta di Musulmani che venivano all'assalto di Roma. Poi nuove spedizioni di Ludovico, nell'852, nel'60, nel'66-71; ora per combattere vassalli ribelli, ora per compiere lo sforzo decisivo contro i Saraceni. E il 2 febbraio 871, cadeva finalmente Bari, e poco più rimaneva ai Saraceni. In tutti questi anni, Ludovico ridiede certo vigore all'autorità regia e trasse città e piccoli dinasti nella propria orbita; confermò la sua protezione sui monasteri di S. Vincenzo al Volturno e su Montecassino. Con Bisanzio trattò per una sistemazione definitiva che doveva metter nelle mani del re e imperatore tutta l'Italia meridionale. Ma era un edificio friabile, tenuto in piedi da motivi negativi ed estrinseci, soprattutto dal pericolo saraceno. Per cui, debellati ora i Saraceni, venne a mancar la ragione prima di questa precaria sottomissione e concordia. Laggiù, non si volevano i Saraceni; ma neanche un re che volesse essere vero re. Covava fra l'aristocrazia locale quello stesso invincibile spirito d'indipendenza, che già aveva animato i duchi contro il re di Pavia; e quel non meno invincibile sentimento di avversione ai re franchi, che era quello di tutta la gente longobarda dopo il 774. Può dirsi che nel sud si prosegue la lotta decisa quell'anno nella valle del Po. E si sa quanto brigasse e quanta solidarietà trovasse nel sud Adelchi, figlio di Desiderio, nei tentativi di restaurazione fra l'VIII e il sec. IX. Ed ecco che ora, nel viaggio di ritorno da Bari, Ludovico fu assalito nel suo palazzo di Benevento, costretto ad arrendersi e fatto prigioniero dal principe, Adelchi anch'esso. Lodovico poté tuttavia liberarsi, tornare nuovamente nel sud; attese, sì, a combattere Adelchi e i ribelli duchi di Spoleto e Camerino, ma anche a combattere i Saraceni che erano tornati alla riscossa e avevano posto l'assedio a Salerno. Bene capì Ludovico che la ragione prima d'essere del regno, nel Mezzogiorno, la sorgente prima del suo credito, era la lotta contro gl'infedeli. Ma Adelchi resisté. Ebbe aiuto dai Napoletani e dal loro duca e forse dagli altri duchi. Sollecitò il concorso di Bisanzio e una flotta greca giunse a Otranto, prese Bari. E da Bari, i Bizantini, tenaci, metodici, cominciarono lentamente la riconquista. L'edificio di Ludovico e della dinastia franca crollava. Il disegno, ereditato dalla dinastia longobarda, di una conquista che giungesse allo Ionio e facesse di ogni duca di città campana, di ogni duca o principe longobardo non più di un vassallo o di un funzionario imperiale, rimase inattuato. Ludovico morì nell'875, senza tornare più nel Mezzogiorno. Il successore, Carlo il Calvo, vide solo al Garigliano e al Sangro i confini del suo regno. Al di là di questi confini, ripresero a martellare i Saraceni, da Taranto. Le città della costa trovarono subito modo d'intendersi con gl'infedeli, sia per aver pace sia per partecipare a saccheggi e prede. E si ebbe una vera e propria alleanza loro con Napoli, Amalfi, Gaeta, a cui dové aderire anche Adelchi, incapace di resistere ai Saraceni.
E allora, un po' di sua iniziativa, un po' per incitamento della corona franca, si fece innanzi, al posto del re d'Italia, il pontefice. Fino a quel tempo, tutela imperiale e regia sul papa. Ma ora, l'impero si sta smembrando, la sua autorità si esaurisce nell'ambito del particolare regno il cui sovrano è anche imperatore. Per giunta, discordia fra i Carolingi, gara per la corona imperiale. In tali condizioni, la curia può riconquistare la sua indipendenza, dettare legge o imporre patti ad aspiranti e coronati. Così da Carlo il Calvo, venuto nell'876 per l'incoronazione a Pavia, ottiene la rinuncia al missus in Roma. Si sostituisce poi al re nel Mezzogiorno d'Italia. Egli deve qui difendere un ricco patrimonio e ostacolare i duchi di Spoleto, che miravano ad allargarvisi, rinserrando da ogni parte le ambite terre del ducato romano; deve staccare le città campane dall'empia lega coi Saraceni, difendere la religione.
Cade in questo tempo un famoso patto, conchiuso non è ben chiaro se a Roma o in Francia, per cui Carlo il Calvo avrebbe ceduto Sannio, Calabria, Salerno, Benevento, Capua, Spoleto e altro al papa. Controverso il contenuto di questo patto; incerto, che cosa il re effettivamente diede e che cosa promise; incerto che cosa, nel documento originale, fu interpolato per far più grande quel dono, come è avvenuto di altri famosi documenti del genere. Certo, un nocciolo storico c'è.
Il pontefice svolse un'intensa azione nel Mezzogiorno d'Italia, quasi sostituendosi al re o imperatore. A Traetto, Giovanni VIII imbastì una lega contro i Saraceni. Ma anche quest'azione pontificia destò diffidenze e sospetti e, anziché procurar concordia e collaborazione, aggiunse nuovi motivi di divisione a quelli preesistenti. I Saraceni, anziché freno, ebbero altri incitamenti, altri alleati. Si formarono, al posto degli antichi, nuovi punti di concentramento saraceno, fra Salerno e Amalfi, ai confini dello spoletano, vicino al Vesuvio, sul Garigliano. Falliva così anche l'iniziativa papale nel sud. Viceversa, sgombro ormai il terreno da re e papi, si rifaceva innanzi da Bari lo stratego di Bisanzio: nell'880, caduta Taranto, solo in Calabria rimaneva agli Arabi qualche luogo. L'impero greco tornava a essere un fattore politico importante nelle cose del sud, rifaceva sentire qualche sua influenza sulle città campane e sui duchi longobardi. Guido II di Spoleto, voltate le spalle al vicino re e imperatore d'Occidente, s'intese con l'imperatore d'Oriente, promettendo di tenere per esso le terre che avrebbe conquistate. Fece cosi più spedizioni o scorrerie nel sud, ora per combattere i Saraceni, ora per mescolarsi nelle contese locali e trarne frutto; poté avere nelle mani anche Capua, su cuì Giovanni VIII era riuscito ad affermare la sua alta signoria; poté avere anche Benevento. E per qualche tempo, governò le due città, prima di esserne cacciato. Si delinea a chiare note quella che sarà poi la storia del Mezzogiorno coi Normanni; si prepara la futura unificazione, possibile forse solo dopo il totale sgretolamento di tutte le forze locali, per effetto delle divisioni patrimoniali, dei contrasti d'interessi fra l'aristocrazia longobarda, dell'incessante martellare dei Saraceni, dei molti interventi estranei, regi, bizantini, papali, spoletani.
Per ora è il momento buono per Niceforo Foca, imperatore d'Oriente. Gli fallì il piano di riconquista della Sicilia; ma poté togliere ai Saraceni le terre della Calabria e ai Longobardi di Benevento e Salerno la regione ionica; assicurò certo ordine e riconciliò un poco le popolazioni all'impero; risalì la costiera tirrenica e attrasse Guaimaro principe salernitano nella sua orbita; ai signori beneventani tolse terre pugliesi e lo stesso santuario nazionale dei Longobardi, San Michele al Gargano; assediò e costrinse alla resa nell'891 Benevento, mentre Guido di Spoleto era impegnato a nord contro Berengario per la corona regia e imperiale. Fino a che, ricostituitasi attorno a Guaimaro la tenace opposizione longobarda, divampò una vasta ribellione e Benevento fu liberata, anche col concorso di Guido di Spoleto, il quale tuttavia si tenne esso, a dispetto del legittimo signore, il principato, e quando glielo rese, lo mantenne sotto l'alta sovranità della casa spoletana. Pareva così risorgesse il pensiero di Ludovico. Ma presto gli Spoletani caddero e salì in alto la casa ducale di Capua con Atenolfo, che compose le guerre civili, tenne a freno Napoli, escluse le ingerenze bizantine dal suo stato, divenne principe anche di Benevento, parve instaurare per i Longobardi meridionali un'era nuova, mentre Puglia e Calabria si consolidavano nelle mani dei Greci e ne risentivano nuove influenze di cultura. Capuani e Greci fronteggiarono anche i Saraceni, sempre vinti e mai vinti: tanto che, ai primi del secolo appresso, erano nuovamente padroni di Reggio, nuovamente minacciavano Bari.
Crisi di regno e afforzamento di vita locale. - Tutto sommato, crisi di poteri centrali, crescente sgretolamento politico-territoriale, nell'Italia meridionale. Ma gli stessi fenomeni ci presenta ora il regno d'Italia: e, potremmo dire, tutto l'impero d'Occidente.
Si pensi alle grandi casate ducali, già riottose di fronte al loro re longobardo: specialmente quella di Spoleto, che dominava sin quasi alle porte di Roma. Si era cercato di sciogliere le circoscrizioni ducali, mettendo in ogni ducato longobardo più conti, direttamente dipendenti dal re. Ma si era dovuto anche raccogliere in unità amministrative e militari le contee di confine: così la marca del Friuli, che fronteggiava gli Slavi. Al conte di Lucca si era egualmente riconosciuta autorità sui conti di Tuscia, mme del resto già era accaduto ai duchi longobardi di quella città. Compito suo, organizzare contro pirati saraceni e normanni la difesa navale delle coste e delle due grandi isole tirreniche, che in tal modo vennero a stringere ancor più, con la Toscana, quei legami che già i Longobardi, mediante qualche impresa di guerra, e le chiese e i monasteri pisani e lucchesi coi loro possessi fondiarî di Sardegna e Corsica, avevano cominciato ad annodare. Anche i semplici conti tendevano ad accentuare la loro autonomia di fronte al potere regio e imperiale, a farsi riconoscere investiti ereditariamente degli uffici e benefici: come ottennero da Carlo il Calvo. Aggiungi i vescovi, che stavano rapidamente compiendo la loro evoluzione in senso temporale. Il sec. IX è secolo di formazione tanto del grande possesso fondiario, secolare ed ecclesiastico, quanto della forza politica dell'aristocrazia e dell'alta gerarchia. Donazioni regie, usurpazioni di funzionarî, dedizione di terre e di persone a più potente signore per esserne protette, offerte per l'anima, ecc., tutto concorre a questo concentramento terriero. In Italia, meno che altrove. Serve da remora la stessa natura montuosa del paese, il gran numero di centri urbani, la relativa fittezza di popolazione. In Italia certa persistenza di piccolo possesso e di liberi homines; certa prevalenza di terra sistemata a famiglie coloniche, cioè a piccole aziende autonome entro la grande azienda; certa determinatezza di rapporti giuridici fra coltivatori e proprietarî e regolarità di censi in natura, denaro e opere, già attuata fra il sec. VIII e il IX per il formarsi di una conditio dell'agricoltore, anche di valore legale, della quale si fanno forti i dipendenti ogni volta che qualcuno commette atti arbitrarî. Tutto questo in Italia e nei possessi ecclesiastici italiani più che altrove: e spiega il più sollecito e generale affrancamento servile da noi, dopo il sec. XI, in confronto degli altri paesi. Tuttavia, egualmente, conti e marchesi che si atteggiano a signori in proprio, grandi proprietarî, che hanno largo seguito di "vassi", aumentano i loro diritti immunitarî e le giurisdizioni attive nell'ambito delle loro terre, ogni giorno s'impinguano - in special modo i vescovi - di aree pubbliche, di diritti di mercato, di stationes nelle città; egualmente, formazione di una numerosa classe di militi e vassalli di vario grado, anche di origine servile ma tendenti a elevarsi in virtù degli uffici curtensi, dell'uso delle armi, del conferimento della milizia.
Nelle mani di questa aristocrazia è la corona regia. L'episcopato lombardo nella seconda metà del sec. IX ha importanza decisiva nelle diete: e si vede durante l'elezione di Carlo il Calvo nell'875. E accade allora che il nuovo re si deve obbligare in Italia alle stesse ampie concessioni verso quei signori, che già aveva fatte ai signori franchi: ciò che tuttavia non lo salva, il dì che un altro aspirante alla corona si fa innanzi. Ormai, col crescere numerico dei discendenti di Carlomagno, le ambizioni si moltiplicano, specialmente in Italia, ove la corona regia apre la via alla corona imperiale. Perciò Carlo il Calvo deve battere in ritirata per il sopraggiungere in Italia di Carlomanno, figlio di Ludovico il Germanico, che ha l'appoggio di Berengario marchese del Friuli. Morto Carlomagno, il fratello Carlo III, detto il Grosso, eletto dai signori italiani, è incoronato in Roma dal pontefice nell'881. Gran bisogno di protezione aveva il pontefice. Era attorniato da potenti famiglie romane che trovavano appoggi nel duca di Spoleto e non di rado lo costringevano a cercare scampo nella fuga, come fu alla morte di Carlomanno. Dal sud sentiva giungere nuovamente la minaccia dei Saraceni a cui il papa dovette persino pagar tributo. Ma ormai debole era il braccio dell'imperatore, scarso il suo credito, anche se Carlo III riuscì, per l'ultima volta, a riunire tutto lo stato franco sotto di sé. Da tutte le parti premevano le aristocrazie, i grandi casati, i lontani rampolli del ceppo carolingio: tutti esponenti anche di particolari interessi o tendenze nazionali. Perciò, nell'887, Carlo III fu deposto e da per tutto apparvero re proprî, in Provenza, in Francia, in Germania, in Italia.
Qui, in Italia, erano in gara Guido di Spoleto, che aveva grande base nell'Italia centrale e, un po' nella meridionale, e Berengario del Friuli, prevalente fra i signori dell'Italia settentrionale. Alla fine prevalse Guido, che ebbe la corona, dopo guadagnatisi i vescovi e il papa con promessa di protezione (889), e fece nominare prima re, poi incoronare imperatore da papa Formoso il figlio Lamberto. Ma Formoso, che si sentiva gravare addosso, in casa propria, il peso della casa spoletana, alleata con i marchesi di Toscana, simpatizzava per i Carolingi di Germania e si volse ad Arnolfo, che già aveva nell'888 affermato il suo diritto alla corona imperiale come figlio di Carlomanno. Dopo un primo tentativo, frustrato dall'opposizione dei grandi, Arnolfo poté giungere a Roma e prendere la corona imperiale. Ma la morte lo colse subito dopo, e il regno ebbe due re, Berengario e Lamberto, con prevalenza di quest'ultimo, per la forte sua posizione nello spoletano e nel sud fino a Benevento, mentre, come imperatore, si faceva valere anche in Roma, dove i suoi partigiani facevano l'empio processo al già morto papa Formoso. La morte di Lamberto diede nuovamente tutto il comando a Berengario. Comando effimero, tuttavia: ché egli non riuscì a imporsi nell'Italia centrale, mentre anche nel nord grosse masnade di Ungari entravano in Italia, vincevano in battaglia Berengario, correvano la valle del Po fin quasi ai piedi delle Alpi occidentali, finivano di togliergli ogni autorità e credito. È il tempo che i Saraceni riprendevano vigore nel sud e loro bande, sbarcate sulle coste tra Provenza e Italia, penetravano nel Piemonte, distruggevano villaggi e monasteri. Contro Berengario, i grandi chiamarono Ludovico di Provenza che a Pavia fu re e a Roma imperatore, nel 901. Riuscì a Berengario di cacciarlo una prima volta; una seconda volta, prenderlo e, accecatolo, rimandarlo oltralpe.
Ma sempre autorità precaria la sua, sempre vigilato dai potenti signori del regno: il marchese Adalberto d'Ivrea ed Ermengarda; Adalberto marchese di Toscana e la moglie Berta; a Roma e nella regione attorno, la nobiltà terriera appoggiata al duca di Spoleto e giunta, dopo la morte di papa Formoso, a impadronirsi delle cariche civili e dell'amministrazione ecclesiastica. Alla sua testa, Teofilatto, magister militum e console, e la moglie Teodora, mentre la figlia Marozia aveva sposato in seconde nozze Guido, marchese di Toscana. Chiesa e Stato sono, in Roma, nelle mani di Teofilatto e di Teodora. Emancipatisi i papi da Bisanzio; riusciti ad allontanare da Roma il rappresentante e ministro dell'imperatore d'Occidente, sono ora come assorbiti dalle potenti forze sociali che la terra dell'urbe alimenta. E quanto al sud, nessuna possibilità per il re di tentarvi qualche impresa, tutta in balia come è, anche quella regione, delle forze locali, oltre che dell'impero d Oriente e dei Saraceni. Su esse giungono a farsi sentire, se mai, il papa, l'aristocrazia romana, il duca di Spoleto. I quali, nel 915, aderirono a un'alleanza promossa da Atenolfo di Capua e costituita dai Napoletani, da Amalfi, dall'imperatore d'Oriente, contro i Saraceni del Garigliano. Le milizie coalizzate marciarono contro quel nido d'infedeli che di lì correvano e depredavano fino ai confini della Toscana, e lo distrussero. Poté tuttavia Berengario, quell'anno stesso, cingere in Roma la corona imperiale. Ma la nuova e più alta corona poco gli valse: ché vi fu un'altra trama dei grandi con Rodolfo di Borgogna; un'altra e più rovinosa incursione di Ungari che, chiamati da lui per castigare i grandi, si spinsero sino al Mezzogiorno, quasi dando la mano ai Saraceni; infine, discesa di Rodolfo, sconfitta di Berengario a Fiorenzuola, nel 923, morte violenta sua nel 924, mentre gli Ungari nuovamente battevano la valle del Po e davano alle fiamme la capitale del regno, Pavia. Vana vittoria anche questa di Rodolfo. Aveva appena assunto titolo regio, che papa Giovanni, Berta, Ermengarda chiamano Ugo di Provenza, che è incoronato nel 926 a Pavia, e si associa qualche anno dopo il figlio Lotario.
Fatica di Sisifo, quella a cui erano condannati questi re d'Italia. Non popolo, fornito di certa compattezza e forza propria, interessato a stringersi attorno al principe e dargli forza. Elemento instabile, fluttuante, infido, i grandi, facile a coalizzarsi per contrapporre nuovo re a re già in carica, ma facile anche a disciogliersi quando si tratti di appoggiare il nuovo re. Nessuna durevole solidarietà fra loro, nessun sentimento dello stato, il re ritenuto nulla più che un primo fra gli eguali. Due re, meglio di uno, per potere, come scrive Liutprando di Cremona a mezzo il sec. X, non obbedire a nessuno. Quale dei nuovi regni barbarici ebbe tanta debolezza di fondamenti come questo? Seguitavano ad agire quei medesimi fattori negativi che già avevano portato a rovina il regno longobardo. E altri in più: il nuovo turbamento prodotto dalla conquista franca; il potere territoriale dei pontefici; i nuovi elementi di aristocrazia venuti con la dinastia carolingia, che riportarono lo spirito predatore e accaparratore dei tempi delle invasioni e non si sentirono mai uniti con il regno dei Longobardi; la restaurata elettività regia con relativi frequentissimi mutamenti dinastici, che resero impossibile il consolidarsi di sentimenti e interessi attorno a una di esse. Lo spirito monarchico dei ceti superiori finì di estinguersi, per far posto a quella pratica intolleranza della monarchia, a quell'accettarla di nome ma respingerla di fatto, che caratterizzerà poi l'Italia comunale, più che ogni altro paese di Europa.
Per oltre venti anni re Ugo si tenne bene in sella. Aveva energia e astuzia e ambizione grandi. Fronteggiò bravamente le insidie dei magnati del regno; anzi contrappose a essi una folla di parenti e conterranei suoi ai quali affidò vescovati, abbazie, uffici importanti del regno: ciò che, se li metteva in mala vista degl'Italiani, li costringeva, isolati com'erano in un paese straniero, ad essere fedeli al re. Accennò anche a un orientamento verso i liberi alloderi e i ceti minori del mondo feudale, fra i quali già fermentavano vive animosità contro i grandi e aspirazioni di ereditarietà di uffici e benefici. Anche sulla Toscana, terra poco accessibile ai re d'Italia, egli poté esercitare certa effettiva autorità. A Roma, sollecitò o accettò la mano di Marozia, per la terza volta moglie e ora quasi padrona della città, essa e il figlio papa Giovanni XI (932), col loro dominio di Castel S. Angelo, vero centro strategico di Roma. Spinse l'occhio anche verso il sud, vuoi che volesse riprendere la politica di Ludovico, vuoi parare di laggiù le incursioni dei Saraceni. Ma se tutta Italia era terreno infido, ancor più era Roma, città di pontefici, città di aristocrazia che si era impossessata del papato e se ne faceva forte contro altrui velleità di dominio, citta di grandi memorie, d'intolleranza verso ogni straniero signore, di superstiti, anzi ravvivati spiriti di romanità contro i barbari. Il papato stesso aveva concorso a mantenere qui un po' dell'antico sentimento di superiorità verso tutti. Aiutavano a ciò anche la tradizione letteraria e gli studî di diritto romano che venivano riprendendo da per tutto e che trovarono anche in Roma una loro sede. Di qui, lo stesso anno 932, la ribellione dei Romani a re Ugo, guidati dal figlio stesso di Marozia, Alberico. Vedutasi sfuggir dalle mani, per quest'ultimo matrimonio della madre con Ugo, quella che era quasi sua eredità materna, Alberico sollevò il popolo romano contro la madre e Giovanni XI, che furono incarcerati, costrinse Ugo e i "barbari" di Provenza e Borgogna a fuggire, frustrò poi ogni tentativo suo di ritorno, in vista della corona imperiale, e solo nel 946 si riconciliò con lui, dietro sua rinuncia a Roma. Da allora, Alberico tenne fermamente questa città, come principe e senatore di Roma, padrone delle cose civili e, insieme, delle ecclesiastiche: sebbene al papa, con la sfera delle attività spirituali, fosse riconosciuta la nominale sovranità dello Stato della chiesa. Fu, questo di Alberico, un po' regime personale, un po' di classe, un po' monarchia, un po' repubblica oligarchica. Certo, egli si appoggiò sul popolo romano e, più specialmente, sulla nobiltà, lusingandone l'orgoglio e rievocando le antiche glorie della città, come spesso dopo d'allora i laici che hanno operato e parlato in Roma da un alto seggio o dall'Italia hanno mirato a Roma. Roma accennava a voler riavere una propria storia, imperniata su quell'aristocrazia che, qualunque fosse la sua origine, affondava in suolo romano le sue radici. E ora, con Alberico, Roma rivendicava praticamente a sé, di fronte ai re d'Italia e anche al pontefice, il diritto di assegnare o no la corona imperiale. Avveniva tutto questo in un'epoca di grave crisi per la Roma papale o chiesastica. Essa si dibatteva nelle spire di quegl'interessi secolareschi che lo sviluppo sociale del ducato creava e il dominio temporale dei pontefici muoveva a reazione. Per oltre un secolo, dopo Niccolò I e Giovanni VIII il pontificato romano scese dall'alto seggio già conquistato e parve smarrire la coscienza di sé e dei suoi compiti e della sua posizione di fronte allo stato. L'opera di propaganda lontana cessò. L'Oriente si distaccò definitivamente da Roma e dal papato, per cui non ebbe che disprezzo. Anche questo ci spiega la rivoluzione romana e la dittatura di Alberico.
Più s lungo si sostenne re Ugo nell'Italia settentrionale. Ma anche qui, a un certo punto, il terreno gli cominciò a franare sotto. Veniva meno il sostegno dei grandi. Uno di essi, Berengario d'Ivrea, nipote del primo Berengario, fuggì presso Ottone re di Germania, allacciò rapporti coi signori del regno, sempre ben disposti a mutamenti, scese in Italia per la valle dell'Adige nel 945, fece larga distribuzione di terre, uffici, privilegi a vassalli di Ugo e Lotario e per alcuni anni ebbe governo di fatto specialmente nella regione di nord-est, dove Verona fu quasi sua capitale, mentre Ugo volse le sue cure specialmente a nord-ovest, per parare ogni minaccia dei Saraceni di Frassineto. Morti poi Ugo e Lotario, Berengario si fece incoronare col figlio Adalberto a Pavia (950). Egli rappresentava l'estendersi anche al nord, dopo che a Roma, di una corrente che potremmo chiamare nazionale. Ma era più apparenza che sostanza il suo potere. Una parte del regno sfuggiva a Berengario. A Roma padroneggiava sempre Alberico, arbitro anche della corona imperiale: e Roma condizionava il possesso di tutta l'Italia del centro. La vacanza imperiale dava occasione o pretesto d'intervento a re stranieri. Insomma Roma era, se non sufficiente, certo necessario compimento e appoggio della dignità regia; era un po' la chiave di vòlta dell'edificio politico italiano. Di questa situazione di cose si avvantaggiavano i vescovi, sempre più potenti dalla fine del sec. IX.
Era cominciato allora o da allora era diventato cosa quasi normale il passaggio dalle semplici immunità negative a quelle positive, cioè alle giurisdizioni patrimoniali prima e poi alle giurisdizioni pubbliche, limitate inizialmente alla città, ma presto allargatesi fino ad abbracciare, per taluni vescovi, tutto il contado. Cominciò nell'840 tale trasformazioni, o qualche decennio più tardi: certo, con Carlomanno, Carlo il Grosso, Berengario I, ecc.; con i diplomi alle chiese di Piacenza, Ravenna, Reggio, Verona, Cremona, Arezzo, ecc., siamo in piena fase innovatrice. Più le forze dello stato - regno e impero - s' illanguidivano, più altri crescevano, vescovi e grandi secolari, i vescovi, nell'insieme, più dei grandi, alcune volte in sostituzione di famiglie comitali che si estinguevano. Escono spesso i vescovi dagli stessi ceppi da cui uscivano i conti: e tuttavia, certo antagonismo fra le due aristocrazie, gravitanti verso centri diversi, diverse come organizzazione patrimoniale, diverse per posizione morale nei rapporti con le cittadinanze. Molta solidarietà, quasi sempre, fra queste e i vescovi, in questa prima fase. Le cittadinanze, abbandonate a sé stesse, non ben disposte verso i conti carolingi e pur bisognose di protezione, legate per cento vincoli alla chiesa urbana, si stringono attorno al loro pastore ecclesiastico e con esso sollecitano da Guido e Lamberto, da Ludovico e Rodolfo, il diritto di levar mura e torri, di scavare fossati. Nella vita di tante città italiane, fra il sec. IX e X, non compaiono se non vescovi e cittadinanze: quelli, intercessori e concessionarî, a vantaggio di tutti. E così, dopo la preminenza morale, dopo la forza patrimoniale e feudale, anche un'alta posizione politica e di diritto pubblico che fa dei vescovi l'elemento decisivo nelle diete del regno e dell'impero. Sempre più screditati, invece, i conti, specialmente nelle città. Anche le nuove famiglie comitali, nate fra il sec. IX e il X, da condottieri di Provenza e Borgogna, da cavalieri italiani saliti a fortuna, da antichi gastaldi regi e ducali di Toscana e Spoleto, solo in parte sottentrarono alle antiche. Alcune, sì, sono destinate a salire molto in alto: Aleramici, Anscarici, Arduinici, Obertenghi, Canossa, che nel sec. X sono in possesso di vaste marche. Ma non in tutti i comitati essi occupano il posto dei vecchi conti; e, dove lo occupano, solo nel territorio, poiché nelle città molti vescovi erano intanto sottentrati. Va eccettuata la Toscana, dove i marchesi, sebbene fiancheggiati dalle due maggiori signorie ecclesiastiche d'Italia, cioè Roma e Ravenna, pure si sostennero di fronte ai vescovi.
Questa ascensione di vescovi, che nelle regioni renana e danubiana fu in gran parte opera dei re, si compì in Italia più liberamente e assai per tempo cioè durante il IX e X secolo, nelle città dell'Italia longobarda, dopo che già prima si era compiuta nelle città soggette all'impero greco. La storia del nostro paese è, specialmente nei secoli che vanno dall'VIII al sec. XV, la storia dello sviluppo spontaneo delle forze paesane. In nessun altro paese come qui, il fatto precede il diritto. E tuttavia anche in Italia una politica dei re, sempre più definita dal sec. IX in poi, per valorizzare ai fini proprî questi vescovi che coprono della loro ombra le città e quasi ne rappresentano la nuova vita, per sostituirli o contrapporli ai conti dove i conti vengono meno o son fomite di ribellione e di disordine, per trovare in essi quella base che i signori laici non forniscono più e nessun'altra classe ancora fornisce. Grande e duplice l'importanza dei vescovi in quest'epoca: nei rapporti interni delle città e nei rapporti dello stato, come esponenti di forze paesane ancora acerbe, come mezzo di politica regia contro i signori secolari.
Regno di Germania, Regno d'Italia, Impero.
Solidarietà fra papato e impero. - Questa politica dei re giunge a piena maturità nel secondo 900, per opera di stranieri, vuoi che la sostituzione di fatto dei vescovi ai conti sia ora più avanzata, vuoi che le ragioni e i vantaggi di preferire vescovi a conti laici nel governo della città e dei comitati italiani, siano, per lontani re, maggiori che non per re aventi a Pavia la loro sede.
Ed ecco Ottone I, re di Germania, invocato contro Berengario da Adelaide, vedova di Lotario re d'Italia e profuga presso il vescovo di Reggio. Ottone scese in Italia (951), entrò in Pavia quasi senza combattere, prese il titolo di re dei Longobardi, sposò nella stessa Pavia la vedova Adelaide e, tornato in Germania, investì del regno Berengario e il figlio Adalberto, mutilandolo tuttavia della marca di Verona e di quella di Aquileia che passarono al duca di Baviera (e di Carinzia), Enrico, fratello di Ottone. Cioè spostò ancora più al sud il confine Italia-Germania. Re d'Italia, Ottone adocchiò subito la corona imperiale. A Roma c'era Alberico: e il papa si oppose al nuovo re. Ma quando Berengario volle fare da sé, come sovrano di pieno diritto, i suoi nemici ricorsero nuovamente a Ottone. Papa Giovanni XII, che pure era figlio di Alberico, morto suo padre, lo sollecitò anch'esso. Lo sollecitarono anche vescovi e abati che da Berengario avevano avuto favore. E allora Ottone rivalicò le Alpi. Voleva essere erede e continuatore di Carlo re dei Franchi. Certo, come lui era portato all'impero dalla raggiunta forza del suo regno di Germania, dalla riunificazione di più regni e paesi (Germania, Italia, Lorena, parte della Borgogna), dalle vittorie su infedeli e dall'espansione su terre d'infedeli a servizio della religione, oltre che dello stato, dalla necessità di aver controllo su vescovi e abati divenuti funzionarî dello stato, dallo stesso accentuato carattere spirituale del suo ufficio, dalla speranza specialmente dei chierici che impero significasse più efficace protezione e quasi restaurazione delle fortupe della Chiesa. Così, mentre Berengario si ritirava e si chiudeva nelle fortezze, Ottone marciò senza opposizione alcuna su Pavia, andò a Roma e prese con la moglie la corona imperiale, promise al papa protezione, onore, mantenimento del suo temporale dominio, e a sé ed erede assicurò la sovranità sulla Chiesa. Si ritornava a Carlomagno e a Lotario. E poiché presto gli umori mutarono, sorsero in Roma stessa opposizioni all'imperatore, il papa partecipò a segrete trame contro di esso e dové fuggire, così Ottone si fece prestare dai Romani il giuramento di fedeltà, riunì e presiedette un sinodo, cui intervennero alto clero e nobiltà romana e molti vescovi del regno, fece eleggere un suo papa. Nuova ribellione dei Romani, repressa nel sangue; ritorno e morte del deposto Giovanni XII; elezione di un nuovo papa senza che nessuno chiedesse consenso all'imperatore, assedio di Roma e sua resa all'esercito tedesco-italico raccolto da Ottone; nuovo intervento imperiale nelle elezioni papali. Ormai il papato è nuovamente in mano sua. Si compiva così la nuova traslazione dell'impero dai Franchi ai Tedeschi. Il regno di Germania, schiettamente tedesco, se pur avviato e fecondato da germi culturali dei paesi latini circostanti, aveva tolto il primato a quello franco. Si era spostato verso est, cioè verso i popoli che solo da poco erano entrati nell'orbita della vita romano-cristiana, il centro dell'Europa. Ciò aveva voluto dire più frequenti rapporti fra Germania e Italia, più viva tendenza dei Tedeschi verso l'Italia. Ora, la corona regia e quella imperiale, a Pavia e a Roma, suggellano questa nuova situazione. La storia della Germania e dei Tedeschi quasi confluisce con quella dell'Italia.
Sforzo massimo del nuovo imperatore, mettere e tener fermo piede in Roma. Non doveva avere molto riguardo per i Romani, che egli trovò lacerati dalle interne discordie, politicamente e religiosamente depressi. Quando Liutprando, ambasciatore dell'imperatore a Bisanzio, diceva che Longobardi, Sassoni, Franchi, Lorenesi, Bavari, Burgundî dispregiavano tanto i Romani da non trovar altra parola di spregio per i loro nemici se non questa, romano; certo diceva cosa che anche il suo signore pensava e diceva. Per Ottone I la città del cuore era Aquisgrana, la più cospicua città dell'impero oltre Alpi, ove Carlo aveva sepoltura. E la rinnovazione dell'impero nel 962, in persona di Ottone I, è rinnovazione non dell'antico impero, ma di quello di Carlomagno. Ridar vigore alla dignità di Carlomagno, ecco il pensiero politico dei Sassoni. Ma Roma è pur sempre, per lo stesso Ottone, caput mundi. E poi, Roma voleva dire possibilità di dominare o controllare il papato: come realmente Ottone fece, con un'energia quale da un pezzo mancava nell'imperatore, sia pure largheggiando in concessioni di diplomi ai vescovi, oramai padroni di due terzi delle città italiane, procurando il ricupero di terre perdute, aiutando il papa a rendere effettivo il contenuto delle donazioni carolingie. Si riconfermava che potere temporale del papa voleva dire dipendenza sua dall'imperatore.
Insomma, Italia regia e Italia pontificia, ravvicinate nell'unità del comando. Rimane quell'altra Italia che Longobardi, Greci, Islam, città libere si contendono con alterna vicenda. Vi era stato qui, fra sec. IX e X, un promettente inizio di restaurazione bizantina. Importanza crescente del monachesimo basiliano, specie su l'Aspromonte. Poi, col terzo e quarto decennio del secolo, nuova crisi del potere imperiale in seguito a insurrezioni pugliesi e calabresi, ad altre scorrerie saracene e slave. In ultimo, una rinnovata preminenza longobarda, con Landolfo principe di Benevento e Capua e, più ancora, con Pandolfo Testa di ferro. Contro di esso, aveva mosso in armi, con l'aiuto dei marchesi di Toscana e Spoleto e Camerino, Giovanni XII, in virtù di diritti che i papi accampavano su quei principati. Infatti il Privilegium Othonis confermava al pontefice, fra l'altro, città campane, Capua, Gaeta, Fondi, ecc., i patrimonî della chiesa nel Beneventano e Napoletano, cunctum ducatum beneventanum. Interpolazioni anche qui? È probabile. Fatto certo è che le mire dei pontefici si volgevano da quelle parti. Ma dopo il 962, anche Ottone I. Tornavano l'impero e il regno a farsi vivi nell'Italia meridionale, col programma stesso dei re longobardi e dei successori, specialmente di Ludovico II. Solo che ora si ebbe conciliazione e solidale azione politica di Ottone I e Pandolfo Testa di ferro, divenuto centro e base dell'azione politico-militare dei Sassoni nel sud. Nominato marchese di Spoleto e Camerino; impadronitosi del principato salernitano dopo vicende di sconfitte e vittorie, egli si fece capo di una nuova unita longobarda, comprendente Spoleto, Camerino, Salerno, Benevento, Capua.
Intanto, era morto Ottone I. E Ottone II, suo figlio, sposato con una principessa greca, ebbe pensieri ancora più vasti: contro i Saraceni del sud e, nel suo segreto, contro i Greci. Per sua disgrazia, morì proprio allora Pandolfo e l'unità longobarda si frantumò nuovamente. E chi ebbe Benevento e Capua, chi Salerno, chi Capua, chi altro. Ricominciarono le discordie, le insidie, le usurpazioni fra i varî principi e signori, le gelosie di Benevento contro Capua. E fu grave colpo anche per Ottone. Tuttavia, messe in ordine le cose di Roma, disfatta l'opposizione dell'aristocrazia capeggiata dai Crescenzî che in Roma avevano, dopo la morte di Alberico II, preso il posto della famiglia di Teofilatto e ora contrapponevano papi proprî a papi imperiali, Ottone II mosse verso il sud, quasi a guerra santa. Anche i ribelli pugliesi lo invocavano. Pacificò alla meglio le cose dei principati longobardi, si fece riconoscere da signori e città, entrò ostilmente in Puglia, territorio bizantino, e prese Bari e Taranto, vinse gli Arabi a Crotone. Ma a Stilo, nel luglio 982, fu vinto dai Saraceni. Salvo per miracolo, tornò a Roma. Ma da ogni lato, i suoi partigiani soccombevano o si allontanavano; la sua autorità era vilipesa e i suoi vescovi scacciati: Venezia e Amalfi, che vivevano di relazioni con l'Oriente, contrariavano quella politica antigreca. L'opera fino allora compiuta cadde disfatta. Anche Ottone II morì nel 983. I Bizantini erano di nuovo risollevati in alto. Grande orgoglio, in essi: orgoglio di "Romani" di fronte a "barbari", fossero questi Longobardi o Tedeschi o altri Germani; per quanto essi rigettassero Roma come cultura e lingua e l'accettassero e rivendicassero solo come impero. Comunque, i ribelli pugliesi piegarono a loro, Bari e Trani e Ascoli e Lucera e Siponto furono rioccupate, Bari divenne centro e capitale dell'Italia bizantina. Lì prese stanza il catapano, apparso la prima volta nel 975 e ora diventato la più alta autorità dell'impero in quelle provincie. Anche i Saraceni riapparvero con nuova forza e nuova audacia, e poiché Bisanzio si trovò impegnata in Siria e nei Balcani, così la difesa contro gl'infedeli rimase in Italia affidata alle popolazioni soggette, che, quasi abbandonate a sé stesse, fecero qualche resistenza, si raccolsero attorno ai nuclei delle aristocrazie urbane contro Saraceni e fisco bizantino, diedero impulso a un principio di organizzazione a sé delle città. Ma per il momento, Gerace e Cosenza e Matera e Oria caddero e i sobborghi di Bari vennero devastati e Taranto fu assalita (990). Anche questa volta, l'Italia meridionale, se poteva essere relativamente facile acquistarla, difficile era mantenerla. Essa mancava di ogni coesione. Difficile organizzarvi un comando unitario.
Nel nord e centro d'Italia, invece, cioè nel regno, l'autorità di questi re e imperatori tedeschi si sostenne: e Ottone III poté, divenuto maggiorenne, passare le Alpi, ricevere a Pavia il consueto omaggio, avere favorevoli o non contrarî i signori laici, specialmente il potentissimo Ugo di Toscana, Ugo il "grande" e più ancora i Signori ecclesiastici, vescovi o abati, che anche in Germania erano il principale sostegno suo e della sua dinastia. A Ravenna, gli si presentarono i rappresentanti della nobiltà romana che trattarono con lui per l'elezione del nuovo papa. Ed egli riuscì a far eleggere suo cugino Brunone di Carinzia, Gregorio V: il primo tedesco che occupò il soglio pontificio, in un momento in cui la Germania accentuava il suo orientamento verso l'Italia, spostava verso l'Italia il suo centro. E da lui, poco dopo, Ottone ebbe in Roma la corona imperiale; insieme con lui cercò di dare alla città un'amministrazione che assicurasse il rispetto ai diritti del papa e dell'imperatore. Poiché a Roma v'era, più o meno subordinato al pontefice, un organismo cittadino che veniva prendendo vigore. Ed era anch'esso una manifestazione della tendenza a ravvivare antichi titoli e uffici. Tornò a Roma, Ottone, al principio del 998, invocato, ancora una volta, dal pontefice, dopo che Crescenzio, nuovamente insorto, aveva preso possesso del governo di Roma, confiscato beni e redditi della chiesa, messo un altro papa, originario dell'Italia greca, al posto di Gregorio V. Questa volta, il giovane imperatore procedé con spietata energia. Ebbe dalla sua, in questa repressione, anche parte della cittadinanza, che, come sempre, era divisa e discorde. Da allora, parve uno stretto legame si ristabilisse fra l'imperatore e il popolo romano, oltre che fra essi e l'imperiale pontefice. Ottone non abbandonò Roma, come aveva fatto nel 996. Il pensiero o proposito di ristabilire a Roma la sede dell'imperatore, già più volte balenato dopo Carlomagno, ora parve prossimo all'attuazione. Il pontefice dovette vedere nella vicinanza del principe più sicura garanzia per sé e per la Chiesa; i Romani, il principio della rinascita della città
Figlio di madre greca, iniziato alla cultura classica e bizantina, egli aveva alimentato in sé sentimenti di grande ammirazione per l'idea romana e carolingia di un impero che non fosse solo un nome, una corona, ma un organismo di per sé stante, fornito di un proprio contenuto. Renovatio Imperii Romanorum porta inscritta la bolla di piombo del diploma 22 aprile 998 al monastero pavese di S. Pietro in Ciel d'Oro: impero che, nelle intenzioni di Ottone o, per lui, del suo precettore Gerberto di Aurillac, doveva o poteva comprendere anche l'Oriente, sempre con l'Italia e Roma al centro e alla testa. In tal modo, mondo romano e mondo germanico si avvicinavano ancora di più, dopo l'aspro contrasto dei primi tempi. E si avvicinavano mondo romano e mondo cristiano. Poiché Ottone non solo era preso e abbagliato da questi fantasmi dell'antichità, in cui era tuttavia come il preannuncio di un' epoca nuova, ma anche da una viva passione religiosa. A fianco di Gerberto, divenuto papa Silvestro II, egli sognava una stretta solidarietà fra papato e impero, per il miglior compimento dei destini morali del genere umano; anzi collaborava con esso, come esso con lui, al governo, insieme, della Chiesa e dello Stato. E tuttavia chi, in questa specie di diarchia, sovrasta, ha l'iniziativa, impronta di sé il tutto è l'imperatore. Il pontefice assume quasi la veste di suo ministro nelle cose spirituali. Ottone vuole sicurezza e prosperità per la Chiesa: ma anche, e specialmente, perché "prosperi il nostro impero e si propaghi la potenza del popolo romano".
Questo mettersi dell'imperatore quasi alla testa della Chiesa è da considerare un p0' come il coronamento di quel processo storico che ha portato i vescovi ad alte funzioni civili e politiche e ne ha fatto, in certo senso, funzionarî del principe, non ostante l'inevitabile tendenza, già visibile nei vescovi di Roma, a considerar quelle funzioni come cosa propria. E si risolve in ulteriore ascesa dei vescovi, nel campo civile e politico. Si risolve in un assiduo sforzo del principe di tutelare beni e diritti delle chiese dagli assalti della feudalità, ormai anche della piccola feudalità, che cerca di rendere ereditarî e proprî gli uffici e benefici e le terre enfiteutiche. Gerberto, già abate di Bobbio e poi arcivescovo di Ravenna prima che papa, aveva avuto molto a che fare con gli usurpatori. E certo per suo suggerimento, Ottone III emana da Pavia nel 998 una costituzione che limitava la concessione di terre ecclesiastiche alla vita del concessionario, libero o no il vescovo di rinnovarla al successore. Una volta che i vescovi governano, per l'imperatore, città e comitati, è necessario che essi non perdano, con le terre e i redditi, anche la capacità di assolvere i compiti statali, fornire i contributi militari, restaurare le mura cittadine, curare i ponti. Ciò urtava sempre più grandi e piccoli signori. E nella società feudale fra il sec. X e il XVI covava un sordo spirito di opposizione a cosiffatta politica di favoreggiamento dei vescovi, portata al culmine dalla casa sassone. Si vide chiaramente nel Piemonte, dove Arduino marchese d'Ivrea, Arduino l'"episcopicida", gran nemico e martellatore di vescovi, fu scomunicato dal papa e messo dall'imperatore al bando e i suoi beni e i beni dei suoi seguaci confiscati e dati ai vescovi: fra i quali seguaci, molti militi, molti ministeriali delle chiese.
Crescfnte decomposizione politica della penisola. - Anche attorno a Roma, nuovi disordini: e alla testa, sempre l'aristocrazia secolare. Insorse Tivoli; insorse la città di Roma, con Gregorio dei conti di Tuscolo. Imperatore e papa dovettero fuggire, nel febbraio 1001. Insurrezioni anche in Toscana, morto Ugo marchese, il fedele sostenitore e amico di Ottone III. Tutto si sfaldava attorno al giovane signore, dopo il breve sogno. Nel 1002, anche l'imperatore morì. Che meraviglia se l'opposizione politica prese allora certa colorazione nazionale, come di "Romani", di "Italiani" contro stranieri e Tedeschi? Poté così risorgere Arduino, eletto a Pavia da una dieta di grandi e incoronato re d'Italia, sebbene la sua autorità non si affermasse mai fuori delle regioni nord-occidentali d'Italia. Ma ecco dalla Germania Enrico II, della stessa famiglia di Sassonia, incline alla stessa politica nei rapporti con i vescovi, tanto in Italia quanto in Germania. Ebbe riconoscimento dai signori dell'Italia nord-orientale; molti vescovi gli fecero buona accoglienza. Poté così prendere a Pavia, dall'arcivescovo di Milano, la corona regia (1004). La notte si accese battaglia tra cittadini e Tedeschi. E il re dovette fuggire. Poi, finalmente, il moto cittadino fu soffocato. Ritenta Arduino la prova, alcuni anni dopo: e di nuovo Enrico scende in Italia, rafforza i suoi partigiani, specialmente i vescovi, li aiuta nella rivendicazione dei loro beni, li mette in grado di potersi sostenere, dopo la sua partenza, di fronte a un ritorno di Arduino, e di rendere vano, anche scomparso definitivamente Arduino, il proposito dei suoi seguaci di contrapporre a Enrico un nuovo re. Dopo d'allora, più nessun re di origine italiana, fino al sec. XIX. Corona d'Italia e corona imperiale, ormai già unite nella stessa persona:, quasi come un annesso questa di quella, si fissano l'una e l'altra sul capo dei re di Germania, i più forti in questo momento fra i varî re del restaurato impero.
Fatto importante, per secoli, questa unione quasi definitiva di regno italico e regno germanico per effetto del comune re e dello stretto rapporto politico creato dall'impero. La Germania fu tratta a operare fuori dei suoi confini, e a trovare quasi fuori di sé il suo centro, a logorare molte sue forze per fini non intrinsecamente proprî. Nell'assenza poi degli imperatori e re, nella necessità loro di patteggiare e transigere coi principi tedeschi per averne concorso di uomini e denari alle spedizioni italiane, questi principi si rafforzarono, i particolarismi locali, dinastici e di stirpe si consolidarono, lo sforzo unitario dei re fu reso vano, la Germania si venne ordinando in gran numero di piccoli e mezzani stati territoriali. Di qui il rammarico di moderni storici e politici tedeschi, come se la Germania abbia barattato, con l'effimera gloria dell'impero, la forza del regno. I quali storici e politici tuttavia non debbono dimenticare quanto la vita spirituale e la cultura tedesca siano state sollecitate da questi più stretti legami con l'Occidente e con l'Italia; non dimenticare neppure quanto il possesso dell'impero e del regno d'Italia poterono dare di prestigio e di forza interna a molti di quei re di Germania; quanto concorsero, ponendo scopi comuni davanti agli occhi di tutti, a dare unità a quel regno minato dalla molteplicità e dal contrasto di tante stirpi e dinastie; quanto alimentarono il nascente sentimento nazionale tedesco, in virtù dei rapporti e degli urti molteplici con un mondo così diverso e ostile come era quello italiano. Ma assai più si risentì, di tale unione di regni, l'Italia. Giuridicamente, nessuna dipendenza del regno d'Italia dal regno di Germania. I due regni conservarono ognuno le proprie leggi e istituzioni, nell'ambito dell'impero che ambedue, a egual titolo, li comprendeva. Ma poiché tedesco era il re d'Italia e imperatore, quella unione si risolveva praticamente, in vassallaggio del regno d'Italia verso il regno di Germania. Comunque la penisola si aprì anch'essa a influenze d'oltre Alpe. Vescovi tedeschi vennero a insediarsi nelle chiese italiane; nobili cavalieri sassoni o svevi o bavaresi, discesi al seguito di re e imperatori, presero stanza in Italia, largamente dotati di benefici e uffici, e portarono nuove linfe alla vecchia aristocrazia italiana. Le marche di Verona e di Aquileia, cioè Trentino e Friuli e Istria, furono aggregate a organismi politici di là dai monti, a maggiore garanzia delle strade d'accesso verso l'Italia. Anzi, queste regioni nord-orientali, dove assai per tempo si fece sentire l'azione dei Sassoni, dove Enrico II trovò subito riconoscimento e Aquileia divenne centro d'irradiazione d'influenze tedesche; queste regioni subirono certo processo di germanizzazione, più o meno superficiale o profondo. Contadini e piccola nobiltà tedesca s'insinuarono giù per le valli alpine e dominarono i castelli del Friuli. Più ancora: re straniero voleva dire potere regio sempre più nominale, per la lontananza e discontinuità sua. Sì, certo, qualche re d'Italia fra il X e il XII secolo, forte di forze tedesche, pare che riporti vigore al regno. Ma intanto egli deve più che mai, se vuol contare, appoggiarsi su vescovi e poi su feudatarî secolari e poi, un poco, su città, tutti aspiranti a vivere autonomo: cioè scavarsi il terreno sotto i piedi e quasi negare sé stesso. Ma intanto, coll'avvivarsi del sentimento nazionale, crescerà negl'Italiani l'insofferenza verso un sovrano che è straniero e si circonda di stranieri; e questa insofferenza si risolverà in discredito di autorità regia. Quindi, più debole regno, per insanabíle debolezza, anche quando altrove tornano condizioni favorevoli al suo ricostituirsi; distacco dal centro e autonomia e vita a sé di forze particolari; qualche pallido albore di coscienza nazionale, che si colora fra i contrasti politici. Da una parte, ulteriore dissolvimento di vita politica italiana; dall'altra, più vivo senso della propria individualità etnica, certa ideale unità che accenna a costituirsi o ricostituirsi. Fatti complessi: ma da ricondurre un poco alla dinastia straniera e legata a stranieri.
Nonostante i propositi spesso grandiosi, la cura assidua delle cose italiane, i nuovi o più ampî titoli assunti, nulla di solido e duraturo costruiscono gli Ottoni in Italia. I tentativi nel sud fallirono; Roma era sempre un condominio in cui l'imperatore valeva solo fino a che durava la sua presenza materiale in Roma; il regno era sempre inquieto, per la perenne insofferenza dei grandi, dietro i quali ora cominciavano a vedersi forze organiche nuove che avrebbero, sì, portato altra esca al fuoco ma anche dato alla lotta più chiarezza, più contenuto, più vigore costruttivo.
Anche fuori del regno e oltre Roma, tutti i vecchi dominatori apparivano corrosi dalle fondamenta. Un piccolo mondo sempre più lacerato da interni contrasti appariva, nel sud della penisola, quello dei principati longobardi, pur dopo la breve riunione di tutti quei territorî al tempo del primo Ottone. Nessun sentimento di comuni interessi. La natura del paese, rotto e accidentato e vario; le divisioni e suddivisioni fra gli eredi; le usurpazioni dei gastaldi, le molteplici ambizioni dinastiche e discordie familiari, le varie e opposte azioni e suggestioni che si esercitavano da papi, Bizantini, Saraceni, città costiere; tutto operava come forza dissolvente. Più di tutti era scosso il principato di Benevento, culla della Longobardia meridionale, impoverito delle terre periferiche, che non era riuscito mai a rompere la barriera napoletana. Anche il dominio greco, scomparso da tempo a Ravenna, nell'esarcato e pentapoli; scomparso a Roma e attorno, dove nuove gerarchie sociali e politiche si vengono formando e si organizza il feudalismo come nel resto d'Italia; è ridotto poco più che vano nome o patina superficiale nelle città marinare dell'Adriatico e della Campania, ad Amalfi, a Napoli, a Gaeta, che pure si erano largamente colorate di bizantino e mantenevano strette relazioni di commercio, di vita intellettuale, di famiglia con l'Oriente. Anche il duca o doge di Venezia non è più, fra il sec. X e XI, un alto dignitario dell'impero d'Oriente. E i Veneziani di classe elevata non vivono più a modo bizantino; non si presentano più, in Oriente, come soggetti. Si vengono moltiplicando i loro rapporti commerciali e anche politici col regno d'Italia e la loro presenza comincia a farsi sentire sui paesi bagnati dall'Adriatico, donde pure i Bizantini arretravano. Così nell'Istria, così nei paesi del Quarnaro, così anche, salvo. un breve ritorno bizantino nel sec. XII, in Dalmazia, dove la vita si veniva rinnovando, la cultura e il linguaggio si svolgevano ormai non diversi da quelli della vicina penisola italiana, data la comunanza delle radici. Nel tempo stesso, sull'altro mare italiano, dopo che già l'isola di Corsica era stata dalla conquista franca unita alla Toscana e dalle donazioni messa nella sfera delle ambizioni temporali dei papi, anche la Sardegna veniva rompendo i ponti con Bisanzio. La perdita della Sicilia aveva reso difficili e radi i rapporti dell'impero con la grande isola tirrenica. Era così entrata in una fase di sostanziale autonomia, si era divisa in provincie a sé. Si potrà ancora discutere se tutto questo avvenisse un po' prima o un po' dopo: certo, nel sec. XI è un fatto compiuto. Forti e distese radici, invece, hanno ancora i Bizantini, nonostante le crisi, nell'estremo sud: meno in Puglia, assai più in Terra d'Otranto e in Calabria, tenacemente conservate, più volte perdute, altrettante ricuperate e rinforzate di forze morali e demografiche oltre che politiche e militari. La Calabria ha dato rifugio a monaci basiliani, cacciati da Costantinopoli al tempo di Leone Isaurico. Molti greci vi sono fuggiti dalla Sicilia, dopo la conquista araba. Colonie greche, specie di servi affrancati, vi hanno mandato più di una volta gl'imperatori. Monasteri basiliani numerosi vengono su da per tutto, specie nel Reggiano e nell'Aspromonte, organizzati, riformati, animati di una nuova vita per opera di Nilo da Rossano fra il sec. X e l'XI, fatti capaci di propagarsi attorno largamente, di far sentire influenze loro sul mondo bizantino e su quello romano. Ma i paesi al nord della Calabria, della Terra d'Otranto, della Puglia si venivan facendo terreno sempre più avverso a queste influenze greche. In opposizione alla corrente monastica dal sud al nord, ve ne era stata e seguitava ad esservene una dal nord verso il sud, da Montecassino, da S. Vincenzo al Volturno, poi da Conversano e da Cava, favorita dai principi longobardi e dalla chiesa di Roma, nemici in politica ma alleati in questa resistenza al mondo greco. E poi, di fronte al governo bizantino e ai suoi funzionarî, quasi permanente stato di ribellione, ora latente ora aperta, da parte delle popolazioni. La perenne minaccia saracena a volte li univa. Ma non meno li distaccava: poiché l'azione difensiva dei Bizantini troppo spesso era deficiente o addirittura mancava. E gli altri dovevano provvedere da sé. Se anche quella azione c'era, essa aveva bisogno del concorso degli abitanti. I quali acquistavano qualche coscienza di sé, si allenavano ad agire autonomamente. E allora, tanto più gravoso il fiscalismo, più intollerabili le prepotenze del governo e dei funzionarî greci. Da lontano, i Longobardi, Montecassino, il clero latino, soffiavano su quei malumori, alimentavano il sentimento di un contrasto profondo.
Infine, i Musulmani sono, al principio del sec. XI, già tutti estirpati dall'estremo della penisola. Si può dire che laggiù tutte le genti italiane e, pel tramite dei papi e imperatori, tutta la cristianità si son trovate unite nello sforzo contro gl'infedeli. Fu destino di quelle regioni, dominate da imperi mediterranei, Bisanzio e Arabi e un po' anche Chiesa romana (più tardi Angioini, Svevi, Spagnoli, che erano o dinastie o governi aventi fuori d'Italia i loro centri), di essere quasi sempre trascinate nel vortice di una storia più grande di loro, di dover quasi sempre servire interessi che le trascendevano. Solo in Sicilia i Musulmani avevano ancora fermo piede: e di lì bande di predoni e navi corsare saettavano verso le coste della penisola e le grandi isole tirreniche. Ma ogni giorno che passava, perdevano compattezza; e spezzavano qualche legame coi loro confratelli d'Africa. Nell'isola, poi, la vecchia popolazione indigena e cristiana ha ripreso animo: specie nella parte orientale. L'emigrazione in Calabria e i vincoli da essa creati fra le genti di là e di qua dello Stretto, avevano ricollegato questa parte della Sicilia al mondo cristiano.
Insomma, quanto mai rotto, incoerente, malfermo l'ordine politico fondato nella penisola, sia pure con materiali in gran parte paesani, dai Greci di Bisanzio, dagli emiri arabi, dai conquistatori germanici, cioè da forze estranee, e, talune, repugnanti. È che in un paese come l'Italia, fra genti fortemente segnate da Roma e talune anche fornite di più antica e propria civiltà, il compito degl'invasori era più difficile che altrove. Come nessuno era stato capace di prendersi tutta la penisola, pur aspirando al possesso totale di essa, quasi per suggestione di natura; così nessuno era stato così forte e spiritualmente ricco da improntare di sé, durevolmente, quelle genti su cui ebbe dominio. Esse conservavano una propria vita, una propria intelaiatura, relativamente robusta, che gli altri non potevano distruggere, per sostituirvi la propria. Potevano solo inquadrarvisi, rinvigorendola e arricchendola. E questo era avvenuto. Perché ormai il gran travaglio delle stirpi diverse e contrapposte, se pur conviventi, è vicino a finire. Si sta esaurendo, per lo meno nell'Italia longobarda e franca, la storia dei conquistatori, come storia a sé; essa si sta fondendo in una storia più vasta e organica che sarà storia italiana, nutrita dei succhi profondi di questa terra. Già lo abbiamo detto: il Regnum Langobardorum si chiama regno d'Italia o Italico, e la parola Langobardia da principio sinonimo di regno, si viene restringendo alla valle padana, anzi alla parte centrale di essa. Le fonti letterarie e i documenti del tempo distinguono ancora, talvolta, Langobardi e Romani: ma gli uni e gli altri sono unificati di fronte a Teutisci o Teutones, a Franchi, a Sassoni, ecc., e ormai compresi nella più larga denominazione di "Italici", Itali, Italienses. Certo l'alta aristocrazia deriva quasi tutta da Longobardi e Franchi, immigrati. L'aristocrazia mezzana e piccola, cittadina e campagnola, ha nelle sue file molti elementi longobardi. Ma questa aristocrazia non è più una stirpe fra altre stirpi: è diventata un insieme di gruppi sociali e come tale agisce o reagisce, prima di decadere e, in gran parte, scomparire anche come gruppi sociali. Ci sono voluti varî secoli perché questo processo di assestamento organico si compisse. E le popolazioni di gran parte della penisola ne sono uscite, dal più al meno, rinnovate: più nel nord e nel centro, meno nel sud. Comunque, maggiore o minore, questo rinnovamento non è tanto etnico (ricordare il piccolo numero degl'invasori; ricordare che essi, in quanto diventano un'aristocrazia, si estinguono su larga scala fra il sec. XI e il XIV), quanto sociale e spirituale: nuovi strati di popolo, venuti su dopo scadute o soppresse le vecchie gerarchie dell'età imperiale romana; nuovi modi di vivere, nelle condizioni in cui la decadenza politica ed economica e le invasioni barbariche avevano costretto tutti quanti; nuova libertà dei nuclei locali e familiari; nuova capacità d'iniziative, e vigore creativo, in tanta pochezza dello stato barbarico.
Progressi di vita sociale in Italia. - Se deboli e malfermi, anzi in via di corrosione e decomposizione, erano gli organismi politici sorti nella penisola con le invasioni germaniche e arabe e con la riconquista greca; progrediva invece e si faceva più varia e complessa e operosa nei suoi varî elementi la società italiana in molta parte della penisola. Non era fatto solamente italiano, questo: ma in Italia, più sollecito e visibile che altrove. Più che altrove si era qui conservato di cultura, di costume civile, di vita economica, anche dopo lo straripamento arabo nel Mediterraneo. Altrove, assoluta prevalenza di grande possesso fondiario e di ordinamento curtense. Da noi, molta terra libera e molti liberi alloderi. Anche nei grandi possessi fondiarî, alta proporzione di uomini liberi in rapporto ai servi. Quei possessi, raramente organizzati come unità chiusa: donde la conseguenza che raramente costituivano la cellula di nuove città, come accadeva oltralpe. Ciò presupponeva lavoro libero, certa economia di scambio, più numeroso artigianato, fisso o mobile, capace di fornire quantità e varietà maggiore di lavoro al confronto del lavoro fornito dall'industria domestica e curtense, presupponeva gran numero di città, decadute, sì, ma sempre città, cioè con una specifica economia cittadina, e molte e varie interferenze fra mondo rurale e mondo urbano.
Perciò, prima che altrove la ripresa, in Italia, coi secoli IX e X, sul fondamento antico e nuovo creato da Roma, dal cristianesimo, dalla conquista barbarica, dalla stessa occupazione della Sicilia per opera degli Arabi, che alimentò qualche commercio e attività marinaresca, specialmente nelle città nostre del sud. Sul finire del sec. IX, Napoli appariva a Ludovico II come città d'infedeli, accorrenti lì a scopo di commercio e alle fiere di Salerno venivano Greci, Arabi, Catalani, Provenzali. È il tempo che Amalfi, città nuova, comincia a fiorire, come intermediaria fra Greci, Arabi, popolazioni italiane. Essa non solo provvedeva, con Napoli e Salerno, ai bisogni del vasto retroterra longobardo, ma spingeva i suoi traffici fino alla valle del Po, che era il campo più propriamente riservato prima a Comacchio, e poi a Venezia, che v'importava sale e merci d'Oriente. Venezia, che di questi scambi viveva, gettava le prime fondamenta della sua fortuna. Né le città marittime erano sole a muoversi. Sappiamo delle città padane, quale Cremona, come prima fossero rifornite dai Comacchiesi, poi si mettessero esse a navigare su le navi di Comacchio, infine, a mezzo il sec. IX, già possedessero navi proprie. Sappiamo di Pavia, buon centro commerciale, col suo transito di soldati e pellegrini verso Roma, la sua corte regia e le molte piccole corti di grandi e di vescovi italiani, la sua rete di canali e vie d'acqua che la congiungevano a Venezia, a Ravenna, a Milano. Sappiamo delle molte stazioni doganali disposte lungo la linea delle Alpi, ai confini del regno d'Italia, a Susa, a Bard, a Bellinzona, a Chiavenna, a Bolzano, presso Castelfranco, ad Aquileia. Per esse si svolgeva il movimento dei pellegrini e dei traffici che dai paesi del nord facevano capo a Roma e alle città del regno. Questa linea doganale rispondeva presso a poco al confine d'Italia fissato da Augusto, conservatosi abbastanza fermo, non ostante qualche spezzatura del tempo delle invasioni e, poi, l'aggregazione di territorî del regno italico al regno di Germania nel sec. X.
Queste non mai scomparse o presto risorte attività civili, questa specifica funzione economica che le città conservano e, più ancora riprendono dopo il sec. IX e X, ci aiutano a capire anche il permanere di certa personalità giuridica delle città stesse, indipendentemente dal potere politico che in esse aveva la sua sede principale.
Tale personalità non era certo scomparsa neanche nell'età longobarda. Coi Carolingi, si accentuò: o almeno, cominciò a lasciare qualche maggiore traccia di sé. L'ascesa del vescovo come autorità civile fu anche ascesa dei cittadini, entro quella zona, città e distretto, in cui il potere dei vescovi cominciò ad affermarsi: ed è difficile dire quanto i privilegi regi e imperiali ai vescovi fossero implicito riconoscimento di un fatto compiuto, cioè una vita urbana fornita di certa sua consistenza e di suoi rudimentali organi; e quanto la promovessero. Che cosa è, nell'837, quella contesa fra i cives et urbis iudices di Verona e la pars ecclesiae di quella città, per il restauro delle mura? Pare si trattasse di una tripartizione dell'onere, che prima era tutto e solo del potere pubblico. E quei Rotecario, Dodilone, Gudiberto che, a metà del sec. IX, compaiono con i ceteri habitatores de civitate Cremona a Pavia, dove Ludovico teneva placito, per richiamarsi contro il vescovo che voleva costringerli al pagamento del ripatico, saranno andati lì uti singuli? E quei cives ianuenses che nel 950 hanno da re Berengario II la conferma delle loro consuetudini? E i Veronesi, che nel 968 son in lite col vescovo Rateno per un prato? Si tratta certo di una di quelle terre pascue, che ogni città aveva a integrazione della sua economia ed erano communia, terre comunali: elemento, questo, che serviva a unire e individuare gli abitanti di una città, come gli abitanti dei vici e dei luoghi minori. Ma altri elementi vi erano, a dare unità e individualità: vi era il mercato settimanale; vi era il collegio degli scabini, forniti di attribuzioni giudiziarie, che, a norma dei capitolari carolingi, venivano eletti dal conte, totius populi consensu. Vi era la dipendenza religiosa dalla pieve urbana, cioè la partecipazione alla vita di una comunità chiesastica che imponeva anch'essa oneri, come la decima, il restauro della chiesa, ecc., e conferiva diritti, come l'elezione del rettore a clero e popolo, il concorso all'amministrazione dei beni della chiesa, ecc.: quindi, comunità non puramente religiosa ma coincidente con quella civile, che ha in godimento terre comuni, paga il tributo al fisco, concorre a formare l'esercito, ha l'obbligo delle exentiae alle mura, concorre alla costruzione di opere pubbliche.
Siffatte attività fanno pensare anche a organi proprî di deliberazione ed esecuzione: il conventus ante ecclesiam dell'editto, che ha una speciale pace, cioè è protetto dai perturbatori con pene assai più gravi; o l'asamblatorium, come una carta milanese dell'879 chiama il foro pubblico, davanti alla cattedrale. Si tratta di rudimentali assemblee cittadine, organo dell'amministrazione interna della universitas urbana, che hanno autorità di emanare praecepta, come li emanavano il conte e il vescovo, dispongono di un proprio notaio distinto dal notarius domini regis e dal notarius ecclesiae o episcopi, di cui si parla in fonti del sec. IX, conservano in atti scritti le proprie decisioni. Fra l'altro, esse si pronunciano sull'accoglimento di estranei nella cittadinanza.
Tutto questo, nel sec. X, non cade ma si perfeziona, via via che le varie funzioni della vita cittadina si unificano sotto il vescovo, e la città cresce di popolazione, di attività, di libere iniziative, e diventano numerose le riunioni, i conventus, i colloquia (Pisa 1084), i commune consilium civitatis (Milano 1098), i consulatus, parola che qua e là comincia a indicare le riunioni e il luogo delle medesime (Milano 1097), e che è affine all'altra che poi indicò gli uomini delegati dall'assemblea, i consules. E ciò, in una forma o in un'altra, nel nord come nel sud, dove non solo l'aristocrazia militare e fondiaria accenna a soppiantare nelle funzioni di governo il duce bizantino e poi anche il duca indigeno, ma si fanno innanzi tutti i ceti, omnes homines de civitate, maiores mediani et minores o cunctus populus assistendo ad atti importanti di governo, obbligandosi per la collettività cittadina presente e futura, ecc. Il tutto, con qualche precedenza in ordine di tempo, specie nelle provincie bizantine. Insomma, la città possiede una più o meno rudimentale ma propria organizzazione, dentro il quadro sempre più debole ed evanescente del potere pubblico e a sussidio del potere stesso, specialmente delle sue funzioni fiscali: un' organizzazione che ha anche le sue membrature topografiche, cioè i quartieri, ognuno in rispondenza con una porta, ognuno con un determinato settore di mura da difendere e mantenere, una determinata quota ideale di terra comune da godere, determinati compiti e responsabilità. Che potrebbe anche essere, come è stato sostenuto, la membratura stessa dell'antichissima città italiana, Roma compresa, scaduta d'importanza col fiorire dei municipî, riemersa col loro decadere e col venir meno del vigore dal centro, lasciata intatta dagl'invasori che vi si adagiarono, viva ancora nell'età comunale, quando altre ripartizioni s'intersecheranno con essa, si sovrapporranno a essa.
Nel sec. X, i mutamenti e i progressi nella struttura sociale delle popolazioni italiane si fecero più celeri. L'oscuro lavorio interno cominciò a venire allo scoperto. Gli stessi sconvolgimenti politici, le confische e l'assegnazione di patrimonî e benefici dall'uno all'altro signore, le usurpazioni dei secolari a danno degli ecclesiastici, le scorrerie di Ungari e Saraceni, la rovina di tanti monasteri, si risolvevano in alimento a nuove forze sociali, in ascensione di ceti minori. Molti affrancamenti di servi, per la crescente difficoltà di tenerli legati alla gleba. Molta ascesa di piccola gente di condizione servile, attraverso il servizio a cavallo, il chiericato, i bassi uffici curtensi, il matrimonio con donne di condizione libera (donde figliuoli liberi, poiché filius matrem sequitur), le rapine dei beni padronali in tempo di vacanza vescovile, di disordini monastici, di rovina delle famiglie signorili. Molte terre messe a coltura, specialmente da parte delle chiese. Grande preferenza data ai semplici coltivatori e uomini liberi, da parte delle chiese stesse, nella concessione di terre. Vasta costruzione di castelli che servivano a proteggere la terra e i coloni dagli assalti degli Ungari o dalla guerriglia feudale, ma che rappresentavano anche il moltiplicarsi dei rami delle famiglie signorili, l'ascesa dei ceti feudali minori di fronte ai maggiori, lo sforzo di organizzazione e di avvaloramento degli uomini e della terra. E agivano poi fortemente sulla vita sociale ed economica. I castelli volevano dire una minuscola aristocrazia di castellani; contadini assunti a difesa delle mura e all'uso delle armi, insomma organizzazione militare del popolo; rapporti contrattuali e scritti fra nuclei organici di uomini liberi e il signore, e impulso dato alla nuova vita associativa; concentrazione e aumento assoluto di popolo entro e presso i luoghi murati, per la maggiore tutela che gli si offriva e per le nuove attività che si sviluppavano, mentre scadevano le piccole industrie famigliari e curtensi. Frequentissima la concessione regia del mercato ai castelli: spesso accompagnata alla concessione di levare torri e mura. E ne risultavano tante minuscole città nuove, con la stessa struttura sociale un po' complessa. La popolazione rurale rompeva o allentava il ferreo legame col grande possesso fondiario e qua e là lentamente lo dissolveva, si metteva per mezzo del castello e del mercato locale in qualche contatto con la città. Non si possono disgiungere, attorno al 1000, il movimento economico-sociale delle campagne italiane e il rinascere delle vecchie città. Anche esse ora crescono di abitanti: e ne sono prova il sorgere delle parrocchie tra il sec. IX e il X, ognuna col suo ministro e i suoi servizî religiosi, laddove prima solo la pieve o chiesa cattedrale li compiva; la costruzione di una cinta murata più solida e vasta, che molte città già nel sec. X intraprendono e altre di più nell'XI. Le città ricominciavano a fare sentire qualche vivace richiamo alle popolazioni circostanti; diventavano la sede o il centro morale, il luogo di raduno della minore nobiltà, fatta in gran parte di vassalli ed enfiteuti del vescovo e degli enti ecclesiastici, di funzionarî loro per il temporale, vicecomiti, vicedomini, avvocati, gonfalonieri, ecc. Taluni, originarî della città, altri del contado, ma sempre più orientati anch'essi verso la città, di cui venivano diventando la forza propulsiva maggiore. Dietro loro, ma già con una propria fisionomia, i cittadini veri e proprî, i cives, la borghesia, egualmente legata al possesso fondiario, ma volta già a nuove attività, fondamento più tardi di tutta la sua vita materiale e spirituale.
Nuove forze rivoluzionarie e costruttive fra il X e il XII secolo.
Azione di città e movimenti sociali. - Nessuna meraviglia se tra il sec. X e il XI le città facevano più spesso ed energicamente atto di presenza sulla scena politica italiana: né solo le città dell'Italia già bizantina e Roma, ma anche altre del regno, più tarde a svilupparsi a sé, sebbene destinate a maggiore avvenire. Pavia insorge contro i Tedeschi, nel 1004. Navi pisane operano già al tempo di Ottone I nel mare di Calabria. Comincia poi, con le prime imprese (inizî del sec. XI) di Genova e di Pisa, quella penetrazione militare e mercantile dalla Toscana e Liguria che legherà strettamente la Sardegna e la Corsica alle vicende della penisola italiana, da cui il dominio bizantino le aveva distaccate: inizio anche della secolare rivalità fra le due repubbliche marinare. Intanto, sull'Adriatico, allarga il raggio della sua attività e si afferma protettrice e quasi signora, Venezia. È dell'anno mille l'impresa di Orseolo II in Istria e Dalmazia e, poco dopo, il soccorso navale portato a Bari bizantina, assediata dai Saraceni. Procedevano spesso solidalmente, Venezia e l'impero d'Oriente; ma a questo tempo ogni supremazia di questo su quella era cessata.
È poi la volta delle città pugliesi. Nel 1009, Bari è in nuova e maggiore ribellione, per il gran fermento che covava fra quella borghesia o patriziato dedito al commercio e giunto a un'organizzazione quasi di comune: e il barese Melo ne è il capo. Da Bari il movimento si estende: Trani, Canosa, Ascoli, altre città dell'interno. Non debbono mancare neppure simpatie e aiuti dell'elemento chiesastico latino. Melo che è, pare, un longobardo, conta anche sull'elemento longobardo: e realmente da Capua pare che vengano aiuti. Accanto al suo nome, ricorre il nome di un Arduino "lombardo", forse venuto dall'Italia settentrionale, alla ventura, come vengono Saraceni e Tedeschi. Sono comparsi, proprio in questi anni, manipoli d'ignoti guerrieri: i Normanni. Pellegrini, diretti in Terrasanta o a San Michele del Gargano? Predoni, come quelli che avevano corso il Mediterraneo e devastato le coste toscane nel sec. IX? Tener presente che di Normanni se ne trovavano già da tempo nelle file degli eserciti di Bisanzio; ve ne dovevano essere anche fra i Bizantini che combattevano nel Mezzogiorno d'Italia. Melo, che aveva assunto il titolo di duca di Puglia, è vinto e fugge a Benevento in cerca di aiuto. Invoca anche Arrigo II che nel 1014 è a Roma e che a Melo conferma quel titolo. La rivolta di Puglia divampa ancora. Proprio in quegli anni, anche a Benevento, facta est prima communitas. Beneventani, Melo, pontefice paiono d'accordo. Ai primates di Benevento Benedetto VIII nel 1016 invia un gruppo di altri Normanni calati proprio allora, che Melo si condusse con sé in Puglia, insieme con gente longobarda. Ma le cose andarono di nuovo male per i Pugliesi e Melo e i suoi alleati. I Bizantini ripresero la Puglia, che ebbe anche un nuovo ordinamento politico ed ecclesiastico; avanzarono verso i principati, costringendo quelli di Capua e Salerno a patteggiare e fare atti di ossequio; cercarono d'impedire contatti e collaborazioni fra questi loro nemici di Puglia e Langobardia. E a tale scopo, certo, doveva servire la città di Troia che essi fondarono circa il 1019 sulla strada di Benevento, popolandola di Greci, di Longobardi, di gruppi di Normanni. Alla sua testa un rettore, nominato dai cittadini e confermato dal catapano, e un consilium civitatis. Insomma, albori di autonomie municipali da per tutto.
Di fronte a nuovi appelli di Melo, di papa Benedetto VIII, di Normanni, scese in Italia Enrico, a riprendere nel sud l'antica opera dei re italici e degli Ottoni. Ma trovò resistenze da ogni lato. Le porte di Puglia gli rimasero chiuse e lo scopo primo della spedizione fallì anche ora. Mancò la capacità o abilità tanto di raccogliere in uno le forze varie e discordi o malamente concordi del paese, quanto di costringerle con la forza. Messi fra i due imperi, d'Oriente e d'Occidente, o, meglio, fra i Greci e i Tedeschi, molti ancora preferivano i Greci. Anche la politica di solidarietà coi principi longobardi, iniziata da Ottone I e ora ripresa, non raccoglieva frutto. Ma qualche legame si strinse fra l'imperatore e i Normanni, che gli avevano prestato aiuto e che ebbero terre. Nacquero allora, per concorde azione di Enrico II e di Guaimaro V principe di Salerno, i primi stanziamenti di Normanni nell'alta valle del Liri, in posizioni avanzate contro i Bizantini di Puglia; sorse allora la contea di Aversa, con Rainolfo primo conte e vassallo dei Longobardi salernitani. Pare che Enrico contasse molto su di essi, come sostegno dei suoi diritti nel sud. Neppure raccoglieva molto frutto la politica svolta fino allora nel regno. L'anno 1024 era appena morto Enrico, ultimo dei re Sassoni, e i grandi signori secolari dell'alta Italia si volgevano a Roberto re di Francia e poi a Guglielmo di Aquitania, per offrirgli la corona regia e l'aiuto per conquistare l'impero, in odio ai vescovi che, memori dei favori dei re tedeschi, subito si dichiararono per Corrado di Franconia, nuovo re di Germania; e i Pavesi, che avevano inaugurato con una sommossa il regno di Enrico nel 1004, ora assaltarono il palazzo regio e lo distrussero. Esplodeva il risentimento del 1004; reagivano gl'interessi cittadini offesi dall'amministrazione sperperatrice dei re sassoni. Al tempo degli Ottoni, Ravenna era diventata quasi la capitale del regno, mentre Pavia non aveva più i vantaggi ma solo l'onere di una capitale. Anche quei militi, che già Arduino aveva raccolti sotto di sé contro i vescovi e contro il loro re tedesco, dovevano soffiare sul fuoco. Certo, la nuova rivolta fu un altro colpo inferto a un organismo già corroso dentro da tanti interessi avversi. L'amministrazione dovette farsi più confusa e incerta. Molte fila si spezzarono. Certo organi amministrativi cessarono di funzionare. Vi dovette essere grande distruzione di titoli di diritto. Il regno, come organismo giuridico e politico avente propria personalità, si fece più evanescente, fu più di prima conglobato nell'impero, si legò di più a dinastie tedesche, cioè si estraniò di più dall'Italia. Pavia cessò di essere, nel fatto, la capitale. Caddero molte istituzioni del regno, si eclissò per molto tempo il conte pavese o conte palatino: e il posto suo lo presero missi dominici, investiti volta per volta, in via straordinaria, di quelle che erano le funzioni ordinarie del conte palatino. Riemerge, alla testa delle città lombarde e di tutto il regno, Milano. Arcivescovo e città molto si avvantaggiarono di quella crisi. L'uno raccolse non pochi beni regi, fra cui la corte di Monza; l'altra fu promossa nei suoi ordinamenti cittadini. E nessun dubbio che, fra gl'impulsi alla rivolta di Pavia, c'era anche questo. Siamo nel tempo in cui quella che era aspirazione dei minori ceti feudali di tenere con tutta sicurezza e autonomia gli uffici e i benefici a loro conferiti, diventa un po' aspirazione di cittadinanze - di cui quei ceti sono anch'essi parte sempre più importante - a vivere autonomamente, farsi la propria legge, tener lontani i funzionarî del re, anzi, salvo la dovuta riverenza, la stessa persone del re. A Costanza, dove Corrado ricevé i delegati delle città lombarde e i vescovi capeggiati da Ariberto, andati a fargli omaggio e offrirgli la corona reale (Roberto di Francia e Guglielmo di Aquitania avevano rifiutato), si trovarono anche i Pavesi: ma il re non volle riceverli e li mise al bando. L'anno appresso, scese in Italia. Prese la corona a Milano e cinse d'assedio la capitale del regno. I Pavesi finirono col cedere: ricostruirono il palazzo: ma fuori le mura, iuxta civitatem, come faranno poi parecchie città.
Due anni rimase in Italia Corrado. Prese a Roma la corona imperiale, si occupò delle cose del regno; si occupò delle cose del Mezzogiorno. Qui una matassa sempre arruffata, sia per l'intervento sulla scena, dei Normanni, sia per lo slancio che pareva animasse i due più giovani principati longobardi, Capua e Salerno. In quel momento, accennava a prendere una posizione prevalente nel sud il turbolento Pandolfo IV di Capua. L'imperatore lo tenne a freno. Meglio disposto invece si mostrò verso i Normanni, li ricevette in vassallaggio, li considerò quasi sua milizia nel Mezzogiorno. Non più tranquillo del sud, il regno, fresco ancora delle lotte fra Enrico e Arduino, cioè fra signori secolari e signori ecclesiastici, fra grandi feudatarî e vassalli minori, fra partigiani del re italiano e partigiani del re tedesco, reclutati in ogni ceto o gruppo sociale. Il movimento dei vassalli minori covava ancora. Non tutti amici i grandi signori. I vescovi non più sufficiente sostegno dell'impero neppure essi. L'imperatore attese a consolidare i fondamenti di questo malfermo edificio. Dalla marca di Verona, già riunita al regno di Italia, staccò il vescovato di Trento, unendolo alla Germania, per assicurarsi la strada verso la valle del Po. Più tardi, con la conquista della Borgogna, stringerà il regno anche da nord-est e si assicurerà togliendole ai feudatarî franchi, altre importanti porte d'accesso verso l'Italia. Cercò poi di riguadagnarsi i grandi signori del nord e della Tuscia. Conferì a Bonifacio, della casa degli Attoni, assai ligia ai Tedeschi, l'importante marca di Toscana tolta al marchese Ranieri. Quella marca era quasi un regno a sé, entro il regno d'Italia. E la casa degli Attoni, che già padroneggiava la bassa valle padana, dall'Adige all'Appennino su fino alla montagna modenese e reggiana, assurse ora al culmine della potenza: due grandi marche nelle sue mani; innumerevoli possessi allodiali da per tutto, specialmente nel mantovano, nel basso Po, nel bolognese, sull'Appennino; tutte le strade d'accesso verso l'Italia centrale e Roma controllate da Bonifacio, il "gran marchese". Per stringerlo maggiormente a sé, l'imperatore ricorse anche ad altri mezzi. Vedovo di Richilda, Bonifacio sposò nel 1036 Beatrice di Lorena, nipote dell'imperatrice e legatissima al gran mondo principesco e feudale d'oltralpe. Nessun dubbio che l'imperatore mirava ad affrancarsi dalla quasi dipendenza verso i vescovi italiani. Politica non diversa aveva adottata in Germania. Allo stesso scopo, mise in parecchi vescovati e abbazie prelati tedeschi. Non è difficile che egli pensasse, con ciò, anche a una riforma chiesastica. Ma, pure con intenzioni riformatrici, accentuava quell'ingerenza del principe nella vita ecclesiastica, quel suo arbitrio nel disporre dei beni delle chiese ai fini dello stato, che aggraverà anziché sanare i mali della Chiesa, farà sentire più che mai necessaria la libertà della Chiesa, metterà contro l'impero i rifor natori, darà un nuovo e rivoluzionario carattere al moto della riforma, gia politicamente ortodosso.
Intanto s'inaspriva la questione dei secondi militi. E a Milano essa esplose in rivolta, che mise in movimento e urto quasi ogni elemento sociale di Lombardia e che prese di mira specialmente l'arcivescovo Ariberto. Valvassori e arcivescovo finirono con ricorrere a Corrado. Al quale, altri appelli venivano dal Mezzogiorno, dove, dieci anni prima, appena allontanatosi l'imperatore dall'Italia, Pandolfo IV di Capua aveva occupato Napoli e se ne era intitolato duca al posto di Sergio IV. Riuscì a Sergio, aiutato dai Gaetani e dai Normanni di Rainolfo Drengot, di rientrare in Napoli. E rientrato, donò a Rainolfo, divenuto suo genero, la borgata di Aversa, con terre e casali attorno, presto munita di torri e fossati e mura. I Normanni, coi matrimonî e col possesso di luoghi murati e di fertili terre, cominciavano a mettere radici nella nuova patria. Aversa che, posta fra Napoli e Capua, doveva servire di baluardo alla prima, divenne il gran richiamo dei Normanni d'oltralpe, il gran centro dei Normanni italiani per parecchi anni. Ma Pandolfo tornò alla riscossa, si fece padrone del ducato di Gaeta, costrinse i vassalli di Montecassino a giurargli fedeltà, guadagnò a sé i Normanni di Aversa, altri ne arruolò da poco arrivati, tentò di avere anche Benevento, fece piani sopra Salerno. Capua grandeggiava, afferrava essa il primato fra i principati longobardi. Fu allora che Benedetto IX, Montecassino, Guaimaro di Salerno si volsero all'imperatore.
E l'imperatore, sollecitato da nord a sud, riprese nel 1037 la via dell'Italia. Ebbe non buona accoglienza dal popolo milanese. Anche Ariberto non si presentò alla dieta di Pavia. E allora Corrado lo bandì e gli tolse l'arcivescovato, assediò Milano, sebbene inutilmente, pubblicò la Constitutio de feudis che assicurava ai valvassori l'ereditarietà dei feudi in linea maschile e li garantiva contro ogni minaccia, mettendoli sotto la sua diretta autorità. Gran fermento fra i vescovi! E invitarono, contro Corrado, Oddone di Champagne. Ma i grandi secolari rimasero fedeli. Parecchi vescovi furono esiliati in Germania. Parma fu saccheggiata. Il papa dovette scomunicare Ariberto. Recatosi poi nel sud, Corrado metteva un monaco tedesco, Richerio, a Montecassino; entrava in Capua donde Pandolfo era fuggito a Costantinopoli; entrava a Benevento; procurò di legare a sé il principe di Salerno Guaimaro e i Normanni di Aversa, adottando quello per figlio e investendolo del principato di Capua, riconoscendo a Rainolfo la contea di Aversa, pur nelle dipendenze di Capua. Poi se ne tornò in Lombardia e di li in Germania, lasciando i grandi del regno all'assedio di Milano. Ma Ariberto e il popolo milanese gli tennero testa: comparve il carroccio. Alla notizia della morte di Corrado, l'esercito assediante si sciolse, Ariberto andò in Germania a riconciliarsi col successore: ma i cives, che ormai appaiono nel primo piano della vita milanese, lo cacciarono insieme con la nobiltà tutta. Si ebbe allora un primo saggio di ciò che saranno le future lotte fra popolo e nobiltà, nei Comuni; il popolo è forte dentro le mura, e ha ragione dei suoi avversarî; ma è debole in campo aperto. Padroni della campagna, i nobili possono affamare e taglieggiare la città. Vennero pacieri dell'imperatore. I nobili rientrarono in Milano. Vi sarà poi un compromesso fra le classi: il Comune. Così, in meno di mezzo secolo, si è fatta innanzi sulla scena nobiltà minore e popolo: quella, creazione del regime feudale; questo, forza antica, ora rinnovata, delle città; quella e questo, forza costruttiva del nuovo ordine politico. Laddove, nel sud, la forza costruttiva di più decisivo valore sarà un'altra.
Qui, tramontato Pandolfo e l'astro del principato longobardo di Capua, come già quello di Benevento, si ebbe una rapida ascesa di Guaimaro e del principato di Salerno. Quasi tutta la costiera campana, ricca e portuosa, al sud di Gaeta riconobbe Guaimaro signore. Guaimaro aveva assoldato altre bande di Normanni venuti coi fratelli Altavilla, le quali, unitesi ben presto ai Normanni di Drengot, si volsero verso la Puglia, ove era nuova ribellione contro Bisanzio. La prima impresa, d'importanza risolutiva, fu la presa di Melfi. E da Melfi, come già i Saraceni, i Normanni, guidati da Atenolfo di Benevento e da Guglielmo d'Altavilla, Braccio di ferro, occuparono città pugliesi, vinsero battaglie campali sui Greci a Canne e Montepeloso (1041). Il miraggio della Puglia serviva a dare qualche unità e disciplina alle scomposte brame di quegli avventurieri. I quali tutti si raccolsero ora sotto Guaimaro di Salerno, mentre anche i ribelli pugliesi gli sì dichiararono fedeli. E Guaimaro assunse il titolo di duca di Puglia e Calabria, mentre Braccio di ferro e altri capi normanni si spartivano le città e da alleati dei Pugliesi si mutavano in signori. Sorgeva, così, di fatto, la contea di Puglia, con Guaimaro alto signore, i Normanni nominalmente in sottordine.
I Normanni nell'Italia meridionale e nel quadro della politica italiana. - Nel 1046 Enrico III scese in Italia. Problemi gravi erano in discussione, specialmente di natura politico-ecclesiastica. Accanto e di fronte alle buone intenzioni riformatrici del principe, una crescente volontà di riformare entro la Chiesa, fra clero regolare e secolare. Presa a Roma la corona imperiale, Enrico III proseguì per il sud. E qui, prima tolse Capua al principe di Salerno, rendendola per denaro al principe spodestato; poi sistemò secondo gl'interessi dell'impero Montecassino e mise un abate tedesco a S. Vincenzo al Volturno; poi investì normanni, pugliesi e campani delle terre che possedevano e li mise nella diretta dipendenza sua. Anche Benevento, che a Enrico chiuse le porte in faccia, l'imperatore lasciò in balia dei Normanni. Era per i Normanni un grande passo avanti. Dopo esser cresciuti all'ombra dei ribelli pugliesi e dei principi longobardi, ora procedono oltre, nella protezione dei re e imperatori, ma con crescente autonomia e senso di padronanza. Gli Altavilla capeggiano. Morto Guglielmo e Umfredo, ecco Roberto il Guiscardo e Ruggiero, uomini diversi e pur ben dotati l'uno e l'altro, quello più politico, questo più guerriero, quello più intento ad annodare e sciogliere trame, a manovrare sul difficile terreno di Puglia, questo a conquistare Calabria e Sicilia. In mezzo a tante forze screditate o logore dopo un violento attrito di secoli, essi, gente nuova, non legati moralmente a nessuno, non subordinati se non al proprio, disposti a servire tutti per servire solo sé stessi, capaci anche, come tutti i conquistatori e sovvertitori, di destare qualche speranzosa attesa, nelle plebi cittadine e rurali, malcontente dei vecchi governi e dei proprietarî; essi cominciano a rappresentare la nuova ricostruzione, la nuova forza unitaria.
Nuovi eventi promossero l'ascesa di questi minori ceti sociali, delle cittadinanze, dei Normanni: eventi che appartengono alla storia dell'Europa cristiana e sembrano trascendere la vicenda politico-sociale della penisola. E tuttavia hanno in questa vicenda qualche loro scaturigine e, in ogni modo, fanno con questa, per alcuni decennî, una storia unica. Ci riferiamo al movimento riformista che ora si accentua e mette capo alla grande lotta per le investiture: l'uno e l'altra particolarmente vivi e agitati in Italia. Quel movimento già si preannunciava, nel sec. X, quando vescovi come Raterio di Verona e Attone di Vercelli, monaci come Romualdo di Ravenna, eremiti come San Nilo di Calabria, nutrivano in sé e diffondevano attorno a sé l'aspirazione a un più severo costume monastico e chiesastico, a un chiericato e a una chiesa più liberi da beghe terrene e più volti a religione. Intanto, nei monasteri di Lorena e di Borgogna si cominciava ad attuare una regola di vita che poi si diffuse anche fuori del mondo monastico. Riforma di monaci e monasteri decaduti e corrotti, innanzi tutto; in seguito, dalla fine del sec. X in poi, riforma ecclesiastica in senso largo.
I mali che si lamentavano, derivavano in gran parte dall'essere la chiesa sommersa nella mondanità, soffocata ormai nelle spire della società feudale. L'evoluzione storica, mettendo nelle mani di vescovi e abati enormi patrimonî fondiarî, facendo di essi altrettanti signori e capeggiatori di vassalli, affidando a loro giurisdizioni patrimoniali e pubbliche, aveva anche, via via, corrotto la Chiesa, sollecitato i laici a impadronirsi di queste leve di comando, permeare di sé l'organismo chiesastico, soffocarlo sotto mille incrostazioni. Era insieme rovina economica e rovina morale. La politica dei re e imperatori aveva la sua parte di responsahilità nei mali lamentati. E pure, si credé in principio, dai riformatori, che la salute potesse venire dai re e imperatori stessi. Si può anzi pensare che qualche raggio dell'aureola che sembrò cingere il capo dei rinnovati imperatori fra il sec. X e XI venisse da questa fiducia nella lor capacità riformatrice, da qualche loro preoccupazione o tentativo di riforma. Così, in particolare maniera, Enrico II, presente col papa al concilio di Pavia del 1022. Ma ciò voleva dire ingerenza sempre maggiore nelle cose della Chiesa, più complicato groviglio di secolare ed ecclesiastico. E realmente, nella prima metà di quel secolo, sempre più i vescovi furono creature dell'imperatore, i papi furono scelti o tollerati in rapporto alla garanzia di fedeltà che essi fornivano, i beni delle chiese furono distolti a favore del principe, si fece commercio di uffici ecclesiastici, cioè si commise simonia, complici attivi o passivi i vescovi italiani. Enrico III di Franconia, che, assai più del padre Corrado, riprese la tradizione dell'ultimo Sassone, si propose di astenersi da atti simoniaci, si fece dai vescovi prestar promessa solenne di astenersene per conto loro.
Si giunse all'elezione, prima da parte di Enrico III, su richiesta dei Romani, poi, in Roma, da parte del clero e del popolo, come i canoni e l'antica tradizione della chiesa prescrivevano, di Brunone di Toul (Leone IX), che usciva dalle file dei patrocinatori di riforma in Lorena. Leone IX mutò, rimosse cardinali simoniaci, riformò abitudini e sistemi di curia, provvide contro il concubinato e il matrimonio dei preti. Al suo fianco era Ildebrando da Soana, il futuro Gregorio VII. Il papato parve tutto rianimato dall'antica coscienza chiesastica, dal concetto dell'assoluto primato romano su tutta la Chiesa e della superiorità del potere religioso sul potere politico. Così l'iniziativa della riforma passava dalle mani dell'imperatore a quelle del papa, sia pure senza opposizione dell'imperatore, ma certo, contro quella situazione politico-giuridica che l'imperatore aveva concorso a creare. E la penisola ancor più diventava essa il centro propulsore della riforma, ancora più vedeva intrecciarsi e fondersì i nuovi problemi politico-sociali e i problemi chiesastici o religiosi.
Leone IX attese anche a far valere diritti o pretese territoriali: specialmente nel Mezzogiorno. Cominciavano a far paura i Normanni, che non raccogliessero essi quell'eredità di Longobardi e Bizantini a cui i pontefici evidentemente aspiravano, tutta o parte. Poiché già vi erano donazioni imperiali, vere o fittizie, di città alla Santa Sede: Capua, per esempio. Già gli occhi della curia si sono posati su Benevento, in specie da quando la città aveva fatto e poi rinnovato il comune. Ora i Beneventani, insorti contro il loro principe, hanno acclamato signore Leone IX. Tutti quelli che han paura dei Normanni, si rivolgono ora piuttosto al papa che all'imperatore. E il papa va a combattere i Normanni, li affronta in battaglia presso Civita. Ma è vinto e fatto prigioniero, largheggia in concessioni e promesse al vincitore durante la prigionia, rafforza nei Normanni vittoriosi la volontà di procedere oltre. E nel 1056, Roberto il Guiscardo, coi suoi compagni di Puglia, conquistò la terra d'Otranto circondando e isolando Bari. E Riccardo di Aversa espugna Capua. Era, con la presa di Capua, la morte di quel principato, che pochi decenni prima sembrava dovesse riuscire a dominare il Mezzogiorno; mentre anche quello di Benevento era ormai ridotto a poco; e quello di Salerno, minato all'interno dal feudalismo, non resisteva più alla forza dei Normanni, a cui è passata l'iniziativa politica del sud.
L'impero non si fece vivo, in questi avvenimenti. Se mai, consentì e diede qualche aiuto al pontefice. Al nuovo papa Vittore II, un tedesco anche lui, Enrico III garantì la piena reintegrazione del patrimonio della Chiesa romana; e, nel 1055, in un sinodo tenuto a Firenze, non solo rinnovò il divieto di ogni alienazione di beni ecclesiastici, ma fece cessione delle marche di Spoleto e Fermo alla Santa Sede. Pare evidente che si cercasse la solidarietà dei papi, molti dei quali tedeschi, e dei vescovi. Come altrimenti tener testa ai Normanni e ai grandi signori, malcontenti prima per i troppi favori ai vescovi, ora per la protezione accordata ai vassalli minori? Anche i marchesi di Canossa, sempre fedeli e investiti perciò della marca di Toscana, vacillavano. Ma ormai riusciva sempre più difficile tenersi amico e ligio il papato. Il partito della riforma cresceva ogni giorno di forze in curia e in Italia, specie in Toscana e Lombardia. Le dottrine curialiste che mettevano il papato al centro della Chiesa, si facevano strada come non mai. Potenti personalità, quasi adeguate ai tempi nuovi, come Ildebrando, consigliere e ispiratore della politica papale in questi anni, sono sulla scena e portano elementi nuovi, imponderabili, di dissidio. Con i papi di origine lorenese si aggiunsero altri motivi di contrasto, più propriamente tedeschi e dinastici, nei rapporti di Roma con l'imperatore. Così avvenne che papa Stefano IX, eletto dai Romani dietro ispirazione d'Ildelbrando, fu consacrato senza che nessuno chiedesse il consenso in Germania, ove allora, morto Enrico III, reggeva il regno per i figli la vedova Agnese. Successe Niccolò II, vescovo di Firenze, nel cui nome si trovarono concordi, contro un tentativo dell'aristocrazia romana, capeggiata dai Tuscolo, di avere un proprio papa, vescovi del partito riformista e del partito imperiale, riuniti a Siena. Vivo era in curia il desiderio di emanciparsi da ogni tutela tedesca. E mezzo adatto parve un ravvicinamento coi Normanni. Così in un concilio tenuto a Melfi l'agosto 1059 ai fini della riforma, Nicolò II liberò i Normanni dalla scomunica, investì del principato di Capua Riccardo di Aversa (Drengot) e del ducato di Puglia e Calabria e del principato di Benevento, la città esclusa, Roberto il Guiscardo; diede a quest'ultimo autorizzazione di togliere agl'infedeli la Sicilia; ricevé promessa che avrebbero difeso terre e diritti di San Pietro e dato tributo per quanto essi possedevano della Chiesa. Non è ben chiara la natura di questa concessione, né il fondamento sul quale il pontefice la poggiava. In ogni modo era sempre un suo sostituirsi all'imperatore. Essendo in secolare dissidio con l'Oriente cercò e parve trovasse nei Normanni un valido ausiliario; non sicuro dei futuri rapporti con l'impero d'Occidente, staccò i Normanni dal suo vassallaggio, troncò il legame che si era stretto fra impero e regno da una parte, Mezzogiorno d'Italia dall'altra. I Normanni dal canto loro, dopo aver acquistato rinomanza e credito combattendo vittoriosamente Leone IX, altro maggiore ne acquistarono procurandosi il riconoscimento e, per il momento, l'amicizia del successore, migliorando i loro rapporti coi vescovi e col potentissimo Montecassino. Essi potevano ormai presentarsi come investiti d'una missione religiosa contro gl'infedeli. Cominciava il fatto a mutarsi in diritto e il diritto a penetrare nella coscienza dei popoli. In quegli stessi anni, anche i Normanni di Normandia, inalberando stendardo papale, conquistavano l'Inghilterra. E anche questo accrebbe negli Altavilla e loro compagni la fiducia, negli Italiani del Mezzogiorno il sentimento quasi di una fatalità o divino volere, a servizio di quel popolo.
Ma erano, questi rapporti fra la S. Sede e i Normanni, soggetti a oscillazioni continue, per il misto di fiducia e di sospetto che ispirava la Santa Sede nei rapporti con i conquistatori. Oggi transazioni e accordi, più o meno di buona o mala voglia; ma se domani Normanni Drengot e Normanni Altavilla erano discordi, o i minori capi investiti delle città pugliesi e le altre città che pure avevano giurato fedeltà al Guiscardo insorgevano contro di lui, la curia era tentata di approfittare di quella discordia, di parteggiare per quei ribelli. Non si trattava solo, per la S. Sede, di conservare e ottenere possessi e diritti nel sud, di fronte agl'invadenti Normanni, ma anche di difendersi dai Normanni stessi che cominciavano dal sud a premere verso il nord. Investiti dei ducati di Spoleto e Fermo, essi erano penetrati anche nell'Abruzzo e ormai quasi circuivano il ducato romano. Non bene chiari i disegni di Riccardo di Capua; forse grandi le sue ambizioni. Giungere a Roma? All'impero? Certo, il nuovo papa Alessandro II ebbe con lui querele, gli spinse contro Goffredo di Toscana, lo costrinse a chieder pace rinnovando l'omaggio e la fedeltà. E tuttavia le ragioni della solidarietà permanevano sempre, accanto alle altre e opposte. Nel 1071, Roberto il Guiscardo aveva conchiuso la lunga guerra con Bisanzio, espugnando Bari, ultima città rimasta ai Bizantini. Era una vittoria delle armi normanne, ma anche della Chiesa romana, che per secoli aveva, con Montecassino, ispirato, spesso capeggiato, l'opposizione a Bisanzio. Da allora in poi fu un continuo progresso del cattolicesimo e del clero latino e dell'influenza romana nel sud, un continuo regresso del cattolicesimo e del clero greco e dell'influenza bizantina. Avvenimento memorabile nella storia dell'Italia e dell'Europa, nel secolo stesso in cui la riforma metteva il papato contro gl'imperatori tedeschi, e le città del regno e i Normanni stessi cominciavano a operare come forza antitedesca. Il confine fra mondo greco e mondo latino era diventato quanto mai incerto e oscillante nell'Italia meridionale. La vittoria dei Normanni e di Roma lo fissa stabilmente, portandolo all'Adriatico e allo Ionio. Né tutto si limitò all'espulsione dei Bizantini. Nel 1061 si era iniziata la conquista della Sicilia. In dieci anni, essa era quasi compiuta. Negli stessi mesi che Roberto il Guiscardo prendeva Bari, il fratello Ruggiero prendeva Palermo. Anche qui fu ricuperato un territorio perduto e la cristianità e l'Europa creavano una più salda frontiera verso il mondo islamico. Ma intanto il Mezzogiorno si veniva unificando politicamente, per la prevalenza di una delle tante forze che vi tenevano il campo: prima Greci e Longobardi; poi anche Saraceni; poi anche impero franco e impero germanico e papi, da Giovanni VIII in poi, in base a titoli varî di diritto, falsi e genuini; e anche città, viventi fra principato e repubblica aristocratica; in ultimo, i Normanni, specialmente quelli che si raccoglievano attorno agli Altavilla. E allora, i motivi di contrasto tra la Santa Sede e i Normanni cominciarono a prevalere. Non passò molto tempo dopo la presa di Bari, e gli Altavilla si trovarono di fronte a una vasta coalizione: conti normanni di Puglia, Gisulfo principe longobardo di Salerno, Riccardo signore normanno di Capua, città pugliesi che rodevano il freno e ormai vedevano i Normanni prendere il posto dei Bizantini e mettere in pericolo ancor maggiore le loro autonomie. La Puglia andò nuovamente in fiamme. Ascese allora al pontificato Ildebrando: Gregorio VII, anno 1073. Ed egli prese la direzione della lega, proprio mentre s' intorbidavano sempre più i rapporti col giovane Enrico IV di Germania. Perciò Gregorio fece nel sud una politica di accorgimenti, di astuzie: per quanto a taluni sia apparsa non del tutto chiara. Trattò con Roberto e trattò coi suoi nemici; ebbe riconoscimento di vassallaggio dal principe di Benevento, e prese in protezione, contro di lui, la comunità beneventana, dando inizio al dominio della Santa Sede su Benevento. Abboccatosi col Guiscardo, si urtarono ancora di più. Si ravvivò la coalizione, e il papa stesso si recò al campo: ma l'esercito si sbandò.
Lotta per le investiture e organizzazione delle nuove forze italiane. - Gregorio si trovò presto a dover fronteggiare con maggiore impegno le cose del nord, quelle per le quali i monaci e il partito della riforma da decennî battagliavano, il popolo ormai si appassionava andando anche oltre il segno, la cristianità tutta variamente si risentiva. Il vasto problema, che da principio era stato sentito specialmente come problema morale, si veniva concretando in una serie di problemi giuridico-politici e patrimoniali che, pur avendo a centro imperatore e papa, interessavano, per il loro contenuto ideale e pratico, tutti: laici e chierici, signori e popolo, contadini e cittadini, gente di ogni paese. Ma in modo speciale Germania e Italia, che erano i regni dove più era avvenuto il trapasso di beni e funzioni temporali a vescovi e chierici, dove la promiscuità del sacro e del profano era maggiore; l'Italia più ancora che la Germania, perché in Italia quel trapasso era stato massimo e lì più grande era l'azione del pontificato, più vivo, nel tempo stesso era il fermento religioso e più ricca d'impulsi di rinnovamento la vita civile. Gregorio portò nella lotta insieme l'ideale dei monaci e quello politico-chiesastico che rispondeva alla tradizione, variamente viva ma non mai spenta, della Chiesa romana, da Gregorio I in poi. Voleva distrigare e liberare persone e beni della Chiesa dal groviglio in cui si erano coinvolti e quasi smarriti, dare al clero una disciplina, un costume, una cultura veramente chiericale, rivendicare la piena indipendenza della S. Sede dall'Impero, subordinare a sé tutta la gerarchia e dare unità piena, organica, morale e gerarchica alla Chiesa. Questo programma non era solo separazione, ma coinvolgeva il concetto d'una superiorità assoluta delle cose sacre sulle profane, del chiericato sul laicato, della Chiesa sullo Stato, del papa sull'imperatore: concetto più volte enunciato; ora, affermato con nuovo vigore e nuova coerenza, in vista di una sua pratica attuazione. Appena asceso al pontificato, Gregorio prese provvedimenti, enunciò pensieri e propositi che rivelavano chiaramente come ormai il papato non solo avesse preso in mano esso, togliendola all'impero, l'iniziativa della riforma, ma come l'avesse rivolta contro l'impero. E poiché Enrico IV si oppose energicamente a Gregorio, Gregorio minacciò la scomunica se l'altro non sottostava alle sue volontà. Fu il principio dell'aperta lotta.
In essa si trovarono impegnate le alte gerarchie secolari o ecclesiastiche e anche il popolo, la grande folla anonima, prima non mai vista, dei piccoli vassalli, dei borghesi, dei minuti lavoratori, dei contadini. La vita intellettuale e la cultura ebbero un potente stimolo: discussioni, polemiche, passione di chiarire e approfondire questioni di ogni genere. Sfavillò più vivo il sentimento religioso, che veniva da tempo approfondendosi e diventando operoso nella vita civile. E volle dire, anche, più viva coscienza nei fedeli di essere parte attiva della Chiesa, di avervi diritti oltre che doveri. I laici presunsero anche farsi giudici dei chierici. E in quanto i chierici non assolvevano i loro doveri, non si adeguavano alle nuove prescrizioni, vivevano nel secolo ecc., i laici li rinnegavano e rinnegavano i sacramenti da essi amministrati, rivendicavano a sé persino l'esercizio di certe attività sacerdotali. Eresia e ortodossia romana per un momento si confusero: e il patarinismo delle città lombarde, specie di Milano, fu il massimo dell'adesione a monaci e papi riformatori e il massimo di quella insurrezione contro monaci e preti concubinarî simoniaci dissipatori che, già allora collegata a qualche vena di vecchia eresia circolante sotterra, sfocierà poi nelle eresie dei secoli XII e XIII.
Con tutto ciò, il movimento riformatore e la lotta per le investiture s'inserivano a pieno nella storia politico-sociale dei ceti minori in via di ascesa. In quanto quel movimento tendeva a ristabilire la disciplina chiesastica, le prescrizioni canoniche circa la designazione del clero e l'amministrazione dei beni ecclesiastici, in quanto voleva liberare persone e sostanze delle chiese dallo sfruttamento dei principi e dell'aristocrazia, andava incontro ad aspirazioni non solo religiose ma civili ed economiche di cittadinanze e di popolazioni rurali. La lunga lotta, in quanto scosse la gerarchia ecclesiastica, scosse anche la gerarchia politica, coincidente spesso con quella. Il contrasto fra i due partiti, pro e contra la riforma, si risolse in incoraggiamento a vassalli e contadini contro signori e padroni: furono sciolti i sudditi dal giuramento di fedeltà al sovrano. Gli scrittori curialisti videro nel regno e impero un ufficio, con doveri oltre che diritti; non dissimularono le loro simpatie per l'elettività al posto della ereditarietà; proclamarono che nel rapporto fra sudditi e sovrani era un contratto, un patto; e riconobbero al popolo il diritto d'insorgere contro il principe violatore di quel patto e privarlo del trono; affermarono il pieno diritto di reagire alle leggi ingiuste. La società italiana era in quel momento calda, recettiva, plasmabile quanto mai. Era già di per sé agitata da fermenti rivoluzionarî; altri ne aggiunsero gli avvenimenti chiesastico-religiosi del tempo. In particolar modo agì rivoluzionariamente il partito della riforma.
Comunque, fitto intreccio di avvenimenti varî, singolari coincidenze cronologiche, che fanno della lotta delle investiture, della definitiva conquista del sud da parte dei Normanni, del rapido emergere delle autonomie cittadine, quasi una sola storia. Nel 1075, l'anno del divieto sinodale ai laici di fare investiture, l'anno della minaccia di scomunica a Enrico IV, Amalfi, per sfuggire a Gisulfo di Salerno che l'assediava, si dà al Guiscardo. Non passa molto e il Guiscardo, conciliatosi coi Normanni di Capua, aiutato da navi napoletane e amalfitane, moralmente sostenuto dal re di Germania, assedia Salerno (maggio '76) e prima costringe alla resa la città, poi la rocca, dove Gisulfo II si è rifugiato. Altro principato longobardo che cade, dopo qualche decennio di effimera luce che era di tramonto, dopo acerrima resistenza a cui anche la popolazione partecipò. Nello stesso anno 1076, scomunica papale a Enrico e, durante l'inverno, Canossa. Fortune del Guiscardo e umiliazioni dell'impero procedono insieme, anche se, in quel momento, certa solidarietà li stringe di fronte a papa Gregorio. Ma nessun dubbio che il Normanno si giovava di questo volgersi del papa alle cose del nord. Nel novembre 1077, muore senza figli Landolfo VI di Benevento. E subito il Guiscardo è sotto Benevento. Mirabile la resistenza. Gregorio VII promosse allora una lega antinormanna, che ebbe qualehe successo iniziale, anche perché il Guiscardo dové attendere alle cose di Calabria. Ma i suoi vassalli proseguirono a corrodere il territorio beneventano. Fino a che, nel 1080, nuova rottura del papa con l'imperatore e nuova scomunica; insurrezione dei vescovi tedeschi contro Gregorio per amore d'indipendenza; concilio di Brescia con la presenza del re e scomunica e deposizione di Gregorio ed elezione dell'antipapa Giberto arcivescovo di Ravenna. E allora Gregorio VII e signore normanno si conciliarono e si allearono col trattato di Ceprano, per cui questi rinnovava gl'impegni precedenti verso la Chiesa, quegli riconosceva al Guiscardo le terre che già aveva e il principato beneventano, tenendo per sé la città. Fine della Longobardia meridionale. Altro colpo a quel che di longobardo rimaneva nel diritto, nelle consuetudini, nelle tradizioni, nella forza di certi gruppi sociali: sebbene nel sud questi elementi di vita longobarda avessero ancora molta forza di resistenza. Negli stessi anni si compiva la conquista della Sicilia; il 1091 cadeva, ultimo baluardo, Noto. Ormai l'isola è sicuro possesso nelle mani di Ruggiero e discendenti suoi: più forse che non Puglia e Calabria, nelle mani del Guiscardo e suoi discendenti. Terra d'infedeli, la Sicilia, era stata anche terra di conquista, nel vero senso della parola. Non si doveva fare i conti o transigere con nessuno. La religione era arma potente, a sussidio delle altre armi, nelle mani dei conquistatori. Laddove in terraferma, i Normanni avevano avuto e ancora avevano a che fare con gli antichi compagni divenuti conti e feudatarî potenti; non erano sicuri né dei Bizantini, che avevano ancora qualche radice nel sud, né dei pontefici, ondeggianti fra solidarietà e contrasto; né delle città stesse, longobarde, pugliesi, calabresi, campane, dipendenti direttamente dal Guiscardo o concesse ad altri. Esse hanno giurato tutte obbedienza e fedeltà; ma hanno tutte, anche, un loro grado di autonomia, che il signore ha, da parte sua, giurato: esse tenute a lui, lui ad esse. In questi primi tempi, ogni momento, uno strattone: e le città rompono la cavezza. Nel 1073 Trani, nel 1079 Bari, nel 1083 Troia e Canne: tutte riassoggettate. La sospirata espulsione dei Bizantini le ha isolate di fronte al nuovo signore. Morto Roberto nel 1085, altre insurrezioni di città e di signori locali: quasi un principio di dissolvimento del ducato di Puglia. Di fronte a una situazione locale come questa, accade che la S. Sede sia tentata spesso di parteggiare per i ribelli: come farà in seguito. Ma la situazione generale consigliava ad essa, dopo la pace del 1080, di mantenersi in buone relazioni coi Normanni. Erano la forza più salda del sud. Erano, sulla scena del Mezzogiorno, i protagonisti. E ciò permise ai Normanni di svolgere liberamente il loro giuoco, di badare alle cose del sud, e insieme dare aiuto ai pontefici, nell'interesse proprio oltre che loro, contro Enrico IV ed Enrico V e contro i loro antipapi. Né erano aiuti gratuiti. Pasquale II investì Guglielmo normanno, figlio di Roberto, della Puglia, Calabria, Sicilia. Callisto II confermò. Gran beneficio fu pure, per i Normanni, che l'impero fosse così gravemente impegnato con i suoi Tedeschi, col papa, con le città italiane. Si ebbe la fine degl'interventi imperiali nel sud, dopo Enrico III. Scompariva dal sud l'impero di Oriente, e, per oltre un secolo, quello d'Occidente.
Invece questa stessa situazione fu, nel nord e nel centro, favorevole alle città. Qui, sono esse le protagoniste o, quanto meno, importanti comprimarie: come nella Tuscia. La lotta per le investiture le trovò parte in causa, ed esse s'inserirono nel vivo della lotta, furono anch'esse, e, spesso, più di altri, il partito della riforma o il partito imperiale, e oggi l'uno domani l'altro partito. Le città videro i loro vescovi ora colpiti dal papa ora dall'imperatore, ciò che significava lacerazione di legami anche tra vescovi e città, stimolo e occasione di cittadinanze a far da sé. Motivi locali e contingenti determinavano questo vario parteggiare delle città per papi e imperatori: come poteva essere il prevalere in esse dell'uno o dell'altro partito, oppure l'atteggiamento di altra e non amica città. Ma questi motivi già accennavano a consolidarsi, in rispondenza di vecchi e latenti antagonismi, di nuove rivalità mercantili. Non pochi diplomi, a riconoscimento di diritti e privilegi, diedero in questi anni gl'imperatori alle città. Ma anche dai papi vennero alle città atti di favore. Così, per citare un esempio, Pisa, il cui vescovo ebbe dal pontefice dignità di legato papale e poi diritti metropolitani sui vescovi sardi e corsi, in piena rispondenza con gl'interessi politici della città. Ciò che non tolse a Pisa di accattare o accettar favori anche da Enrico IV. Nella lotta esterna e interna la personalità della città come tale emerse, si sviluppò lo spirito associativo, si fecero frequentissime le occasioni di agire come corpo costituito, si consolidarono le nuove gerarchie o le vecchie mutarono un po' natura, allentarono la dipendenza dai vecchi signori, presero più il carattere di emanazione della cittadinanza. Si ebbero le prime guerre fra città e città. E le prime alleanze fra città: anche contro l'imperatore. E dentro le città, lotte armate di partiti e anche aggruppamenti di famiglie e gruppi sociali, "patti", "concordie", "compagnie", coniurationes, che possono essere considerate principio di un ordine politico sostanzialmente nuovo, pur essendo esso innestato su altro precedente e mancando nei contemporanei la coscienza di un distacco dal passato. Si accentuò, nella pratica notarile, l'uso, già invalso verso la metà del sec. XI di non datare più le carte dagli anni di regno dell'imperatore. Crebbe il numero delle città che battevano moneta o intitolavano da sé la moneta. Alcune di esse iniziarono proprio ora la costruzione di nuove mura; oppure di una nuova e più grande e adorna cattedrale, centro di vita non solo religiosa ma anche civile.
A questo punto, fine del sec. XI e principio del XII, possiamo considerare già costituiti, nel quadro delle antiche città e sul fondamento di ordini forse non mai caduti, i comuni.
Sono essi momento conclusivo di una lunga evoluzione politico-sociale ed economica, assai intensa negli ultimi due secoli, che ha dato vita a nuovi elementi sociali cittadini e tratto verso la città forze del mezzano mondo campagnolo e feudale; ha messo i vescovi al governo delle città o in alta posizione politica, oltre che economica e feudale, nelle città stesse; ha con ciò promosso la formazione di nuovi gruppi dirigenti e più libero moto di cittadinanze; ha creato nuove consuetudini di diritto privato e pubblico, nuovi vincoli di solidarietà entro determinati gruppi e nuove e più varie forme associative; ha individuato la città nel mondo feudale circostante e, nel tempo stesso, l'ha più strettamente e organicamente collegata con esso, rendendone possibile l'ulteriore sviluppo. Molta incertezza regna ancora sui modi come il comune si costituì, sui rapporti che ebbe col vecchio ordinamento e su quel che è fatto, specificamente nuovo, sulla natura della giurisdizione che i suoi capi da principio esercitarono, sull'ampiezza sua e sui ceti o gruppi che entrarono originariamete a costituirlo: ceto feudale, assai legato al vescovo; nuova borghesia di mercatores; artigianato. Pur con questa incertezza, il comune ci si presenta da principio come un'associazione essenzialmente volontaria, temporanea, determinato o no che ne fosse il termine di durata nell'atto del suo costituirsi; associazione assai ristretta, il cui nucleo centrale è costituito dalle molte famiglie dei vicedomini, dei vicecomiti, degli avvocati, di quanti hanno avuto unci e benefici dai vescovi e conti e chiese e monasteri e si sono appropriati, attraverso l'ereditarietà, gli uffici e benefici stessi e li gestiscono e sfruttano in comune. Essi reggono l'Opera del duomo, amministrano il vescovato in sede vacante, addestrano sulla cattedra il nuovo vescovo e gli son vicini in una quantità di atti giudiziarî e politici e amministrativi che riguardano vescovato e città. Strettissimo il rapporto fra chiesa e comune: e molti atti sono compiuti dall'ecclesia et comune civitatis, molte donazioni fatte alla chiesa e al comune insieme. Strettissimo, per conseguenza, anche il rapporto fra vescovi e consoli: i quali ultimi, inizialmente consules episcopi, quasi consiglieri del vescovo ed emananti dal vescovo più che dai cittadini, poi sempre più rappresentano il vero e proprio potere esecutivo del comune, operante più o meno a fianco del vescovo. Qualunque sia il significato e l'origine della parola, il consolato appare anch'esso costituito fra il sec. XI e il XII, e certo in stretta connessione col costituirsi dell'associazione giurata che si chiama comune. Nello stesso tempo, il piccolo organismo iniziale del comune si dilatava, accoglieva elementi sociali nuovi, liberamente aderenti all'associazione o costretti, accentuava il suo carattere pubblico e moltiplicava le sue iniziative d'interesse generale o destinate a ripercuotersi su tutta la compagine della città e del suo immediato territorio. Si costituiva una finanza comunale che aveva il suo nocciolo nella preesistente organizzazione finanziaria cittadina, fondata sull'obbligo del contributo alle spese e alle opere d'interesse della città; una giustizia del comune, sempre più estesa al campo penale; un territorio del comune, che presto va oltre l'originario piccolo distretto, rimasto collegato con la città. Permaneva certo ricordo, tenuto desto dalla diocesi e dal comitato, di un antico più grande territorio municipale, e certa coscienza di un diritto della città su di esso. Ora, questo ricordo e questa coscienza, insieme con i nuovi interessi unitarî creati dallo spostarsi di tanti signori e vassalli del contado verso la città, sollecitano lo sforzo dei comuni di dettare legge sul contado. Era il contado, già unità di diritto pubblico, ridotto in frammenti. Se lo dividevano vescovato e chiese cittadine, monasteri, famiglie comitali cresciute sul ceppo dell'originario conte, una miriade di piccole consorterie nobilesche,. milites o "cattani" o "lombardi", ecc., annidati nei loro castelli: tutti, con esenzioni fiscali e giudiziarie; con diritti di pedaggio, ripatico, mercato, ecc., con giurisdizioni varie. E ora, sempre più, anche comunità rurali e comunità di castelli, quelle fatte solo di contadini, queste di castellani e contadini, distintamente organizzati ma formanti poi unità, gli uni e gli altri rappresentati all'assemblea dei "vicini" da proprî consoli. Fatto nuovo, anche questa organizzazione comunale delle campagne. Nuovo e fondamentalmente spontaneo: sebbene anch'esso germogli sopra tradizioni e consuetudini antiche, romane o preromane, cristiane e chiesastiche, germaniche e feudali. Entro questo mondo contadinesco in frantumi si gettano ora le città, dopo assorbito il suburbio. Comincia così a ricostituirsi quel legame antico fra centro urbano e territorio, che dal secolo IX al XI, col progressivo loro differenziarsi giuridico e sociale, si era spezzato. Le città, contrattesi nel periodo barbarico entro le mura, prendevano un nuovo slancio che le riportava ai limiti dell'antica provincia romana e faceva di tutto il contado un loro districtus. Di qui anche lotte fra città o comuni, oltre e dopo che fra città e signori.
Questo nuovo ordine politico delle città, si verificava pure mentre il regno, in persona dei re e imperatori di Franconia, faceva grandi sforzi per sostenersi di fronte ai papi e alle tendenze centrifughe dell'episcopato, rese più gagliarde dalla riforma. E si sa che, in quegli anni agitatissimi, Enrico IV, o che si sentisse malsicuro nella Valle Padana o volesse dare maggior prestigio al regno, tentò, dopo presa Roma, di costituire anche lì una sede regia, con una cassa centrale, amministratori, cura di chiese e strade e ponti. Dopo andata in frantumi l'Italia greca, anzi proprio quando parte di essa cominciava a ricomporsi in nuova unità, ecco è la volta dell'Italia longobarda, dell'Italia regia. Le forze di dissoluzione ora non sono più i grandi organismi feudali, ma le città: le quali, come minano alle fondamenta il regno, così le marche. Si dissolvono la marca di Verona, quella di Liguria, quella d'Ivrea, quella di Torino; ancora più e prima di tutte, quella di Toscana, ove concorsero non solo il potente slancio autonomistico di città come Pisa e Lucca e poi Firenze e Siena, ma anche l'estinzione dei Canossa, in un momento in cui ormai non era più possibile sostituire a un casato un altro. E fu, pur mentre la questione delle investiture era sempre aperta, l'inizio di nuove complicazioni, per la ricchissima eredità matildina, fatta di beni allodiali e di beni feudali, disseminati dal Mincio all'Ombrone, rivendicata tanto dall'imperatore, come imperatore e parente dei Canossa, quanto dai papi, in virtù di un'altra di quelle donazioni d'incerta genuinità ed estensione che venivano riempiendo gli archivî della S. Sede.
Il corso delle cose volgeva dunque in modo assai diverso per il nord e centro d'Italia e per il Mezzogiorno. Vi fu veramente qualche decennio in cui anche nel Mezzogiorno, scomparse le vecchie forze politiche - dominio greco e principati longobardi -, ancora malferma la nuova forza dei Normanni, le città, che laggiù erano egualmente in sul crescere, e i feudatarî, costituitisi un po' per spontanea evoluzione del possesso fondiario indigeno, un po' per influsso normanno, tennero il campo con certa energia e misero in pericolo il potere ducale. Qualche incoraggiamento veniva a loro anche da Roma, non ostante la dipendenza feudale dei Normanni dalla Santa Sede. Con Onorio II (1124-30), anzi, il papato, che ora si sentiva più sicuro dalla parte del nord, parve ritornare ai tempi di Leone IX. Era morto nel 1127 il giovane duca Guglielmo II, ultimo discendente diretto di Roberto. Incerta era la successione; non chiari i diritti del conte Ruggiero di Sicilia, figlio del primo Ruggiero conquistatore dell'isola; città e baroni in subbuglio. Su questo fuoco, soffiò Onorio. Che l'edificio normanno dovesse crollare? Che il sud dovesse prendere il volto del nord, essere anche esso Italia comunale e Italia feudale? Ciò non fu; e forse non poteva essere, per ragioni intrinseche alla vita del Mezzogiorno. Ma non fu, e questo è certo, perché i principi normanni deviarono ancor più la storia del Mezzogiorno da quella strada su cui tutta la vita italiana, con decisione maggiore o minore, si veniva mettendo coi secoli X e XI. Ecco Ruggiero conquistatore della Sicilia. Ecco, con una sua funzione di protagonista, la Sicilia. Essa, tolta con la forza agl'infedeli, era veramente in pieno dominio dei Normanni, ne costituiva la solida base. Per cui, quando il sud d'Italia è conteso fra città, signori, pontefice, Ruggiero può intraprendere una serie di campagne per raccogliere l'eredità del morto congiunto. Dura impresa, questa di Ruggiero. Egli chiede al papa l'investitura ma ne ha la scomunica. Il papa, anzi, prende in sua protezione qualcuna di quelle città (Otranto). Ormai è chiara questa spiegata politica papale a favore delle autonomie cittadine del sud, destinata a culminare durante le lotte contro Federico II: che era poi politica contro qualunque forte potere centrale. Di fronte allo stato, la chiesa, come rivendicava le sue "libertà", così anche esaltava le "libertà e municipali. Questa politica ebbe la sua efficacia in qualche paese, come l'Inghilterra, nell'aiutare il nascimento dei parlamenti e del regime costituzionale; in altri, come nel sud, l'ebbe nel rendere inquieta e malferma la vita del regno, pur senza impedire che il regno si costituisse. Poiché Ruggiero, dopo i primi insuccessi, rifornitosi in Sicilia di armi e di uomini, trionfò. Con gli accordi conchiusi il 22 agosto 1128, Ruggiero ottenne da Onorio l'investitura anche del ducato di Puglia e Calabria. Dopo di che, le città e i signori cedettero. E nel settembre 1129, curia generale a Melfi.
Come si viene tessendo l'unità morale della penisola. - Tuttavia, pur mentre l'Italia regia si risolveva nei municipî, e il sud prendeva un suo proprio volto monarchico, e assai s'indeboliva quella forza di unità rappresentata nel nord e un po' anche nel sud dal regno, che era creazione degl'invasori germanici; si avvertivano segni crescenti di unità morale, rigermogliante sopra il comune fondo romano, cristiano e germanico.
Non solo si era ricostituita l'unità religiosa, dopo espulsi o convertiti i Saraceni di Sicilia, dopo cessato il dominio dei Bizantini e arrestato il progresso del loro rito e del loro clero e ravvicinate a Roma la Calabria e la Terra d'Otranto; ma affioravano anche elementi comuni di cultura, più veramente proprî e caratteristici delle genti della penisola. Si veniva formando una lingua romanica o volgare, che era la lingua parlata in generale già nel sec. X e ora cominciava a sprizzare visibilmente dal sottile involucro del latino dei documenti, non più capace di contenerla. Non meno visibile e significativa, dall'undecimo secolo in poi, una fioritura architettonica che si esprime in forme affini, in ogni regione, della Lombardia alla Puglia. È l'arte romanica. E insieme, diritto romano che potentemente ritorna, nelle cose stesse prima e più ancora che negli studî. E non è solo inconscio rinascere del diritto romano, immedesimato nella vita: ma anche studio di esso. Non era stato mai interrotto, anche nei centri di diritto longobardo, Pavia o Benevento, utile essendo esso all'elaborazione dello stesso diritto longobardo oltre che a quella del diritto della chiesa. Ora, dopo Pavia, dopo Benevento, dopo Ravenna e Roma e Pisa, si avanza Bologna con Irnerio, quasi fondatore di quello studio. Insomma, il nome, l'immagine di Roma si fanno ogni giorno più grandi: Roma libertà, Roma grandezza, Roma impero, Roma diritto e ordine. Essa aveva preparato la renovatio imperii dei secoli X e XI; ora accompagna gli ulteriori progressi della società italiana e il nuovo ordine politico. Di fronte al partito papale che tendeva a svalutare la Roma profana, la Roma imperiale, contrapponendo ad essa la Roma dei martiri e confessori, abbeverata e fecondata dal loro sangue, ora il nascente laicato, le città, specie le maggiori, si richiamano anche alla Roma profana, alla città di Roma. Si hanno, a Roma e fuori, notizie di un interesse grande per gli antichi monumenti e anche per la storia dell'urbe, soprattutto dalle origini.
È un fatto quasi generale, nell'Europa romano-germanica e anche oltre, questo riemergere di Roma, passata la fase delle invasioni, della sovrapposizione delle genti germaniche a quelle romane o romanizzate, del mescolamento delle stirpi: come che Roma potesse fornire il modello e l'esempio al più consapevole sforzo creativo di una nuova civiltà, che ora comincia. Ma è fatto specialmente italiano. Esso si spiega anche, in Italia, come reazione all'attività dei Tedeschi, da Ottone I in poi: attività politico-militare di re e imperatori; politico-chiesastica di vescovi tedeschi messi sulle cattedre italiane. La lotta per le investiture rese più frequente e intensa tale attività; mise ancor più le cittadinanze aderenti al partito della riforma contro quei vescovi, imposti dall'alto e non eletti canonicamente a clero e popolo. Quindi, un frequente urto che eccitò anche, dalle due parti, lo spirito nazionale, diede qualche impulso alla nascente coscienza nazionale, cioè mise di fronte Tedeschi e Italiani come tali. I Tedeschi cominciano, durante quelle lotte chiesastico-politiche, a stringersi all'impero come a cosa propria e a vedere nel papato una istituzione di Latini, d'Italiani. Roma, da parte sua, per bocca di Gregorio e, poi del successore, identifica, nei momenti di lotta, impero e Tedeschi, rievoca di fronte a questi il ricordo dei Germani antichi e delle antiche offese, alimenta negl'Italiani il senso della loro individualità nazionale e dei comuni interessi di fronte agli altri.
Sono da segnalare anche, in questo tempo, un movimento, uno scambio d'influenze varie, una vita di relazione che si fanno sempre più intensi dentro la penisola. Dalla Romagna qualcosa passa alla Toscana. in fatto d'istituti giuridici e di magistrature. Il Mezzogiorno bizantino dà al nord testi di diritto ed elementi varî di cultura: e la leggenda delle Pandette ritrovate ad Amalfi e portate a Pisa, donde sarebbe risorto lo studio del diritto romano, deve pur avere un significato. I consoli, che una lettera di Gregorio VII constata in Corsica, potrebbero essere una importazione pisana, come poi le belle chiese policrome che nel sec. XII cominciano a sorgere nelle due isole. Se da Bologna la nuova scuola del diritto irraggia di già a mezzo il sec. XII la sua azione su buona parte d'Italia, anche dalla corte dei re normanni, a Palermo, si spandono influenze letterarie e scientifiche. Non meno visibile la circolazione delle attività pratiche entro la penisola: si tratti di cavalieri lombardi che si mescolano nella guerriglia meridionale del sec. XI; si tratti di Pisani e Genovesi che costituiscono i primi loro stanziamenti nelle città marittime della Sicilia, punto d'appoggio importante per i traffici con l'Oriente e l'Africa settentrionale o che promuovono il sorgere di nuovi castelli e centri abitati in Sardegna. Certo, la rivoluzione politica s'accompagna a un più libero movimento di attività e d'interessi, a un più libero moto di uomini e di attività dall'una all'altra regione della penisola.
E anche dalla penisola verso il di fuori. Nella seconda metà del secolo XI, la frequenza dei mercanti italiani in Francia doveva essere molto cresciuta. Verso la Germania, nuove strade alpine cominciano ad aprirsi nel sec. XII. Maestri costruttori e tagliapietre già sciamano verso i paesi di Francia e di Germania e più lontano ancora: come, fra il sec. X e XI, Guglielmo da Vulpiano che si mette in viaggio per la Borgogna, capeggiando una piccola spedizione di cui fanno parte uomini litteris bene ruditi e uomini diversorum operum magisterio docti. L'Oriente e l'Africa settentrionale, finora battuti solo da Veneziani, Amalfitani e altri Italiani del sud, ora si popolano anche di Toscani e di Liguri. Le loro spedizioni navali verso quei paesi nel corso del sec. XI, aggiunte alle altre compiute in Sardegna e Corsica, segnano dopo la frammentaria ma efficace e qualche volta vittoriosa resistenza dei Campani, dei Calabresi, dei Pugliesi contro gl'infedeli nei due secoli precedenti, il maggiore sforzo di reazione degl'Italiani per la riconquista del dominio del Mediterraneo, già padroneggiato dagli Arabi: sforzo che precede e prepara le crociate. Sono certamente imprese a fondo economico-mercantile. Anche fini politici e territoriali si proposero invece i Normanni, nei paesi prospicienti la Puglia e la Sicilia. Non avevano ancora gli ultimi rappresentanti del dominio greco e arabo abbandonato le terre del Mezzogiorno, e già Roberto il Guiscardo mirava ai Balcani, e oltre. Ed è del 1081 la prima spedizione in Albania. Contemporaneamente Ruggiero puntava su Malta e Gozo e le toglieva agli Arabi, preparando più lontane conquiste africane. Città del nord e Normanni, con fini più da mercanti quelle, più da conquistatori questi, parteciparono poi alla prima crociata. E le une accrebbero i loro commerci e costituirono nuovi nuclei coloniali, ordinati come la madrepatria; gli altri acquistarono terre e giurisdizioni feudali, a gara con i baroni francesi. Non passarono molti anni, e una grande spedizione pisana mosse verso le Baleari. Egualmente, Italiani di varie regioni si trovavano presenti in Spagna, nel sec. XII, durante le lotte dei cristiani contro gli Arabi: presenti come soldati, piloti, artieri, costruttori di macchine da guerra, mercanti. I Genovesi erano ormai chiaramente orientati verso quella direzione.
Insomma, la penisola ricomincia a essere centro di azione capace d'irraggiare attorno. Né solo azione papale e chiesastica, segnata non poco di romanità; ma anche economica e artistica, politica e militare; anche di cultura vera e propria (si ricordino nei secoli X e XI Gunzone, Lanfranco di Pavia, Anselmo d'Aosta, ecc., per citare solo quelli che esplicano fuori della penisola, in tutto o in parte, la loro attività): sebbene questi non siano ancora, in Italia, tempi di cultura eminente. Comunque, questa azione, come porta impressi certi segni comuni, così concorre a rafforzare gli elementi comuni della vita italiana, ad alimentare negli Italiani quel sentimento di unità morale che ad essi veniva anche dai ricordi di Roma e dall'ormai comune patrimonio della rinascente cultura.
L'inizio dell'età comunale.
Regno normanno e comuni. - Per parecchi decennî, questo vasto mutamento, quasi rivoluzione, compiutosi nella penisola dallo Ionio alle Alpi, non trovò serî ostacoli da parte del regno e dell'impero. Nessun serio tentativo d'impedire la conquista normanna, né la ormai troppo autonoma vita delle città a danno dei diritti del principe, né la vasta usurpazione che città e castelli e signorotti feudali venivano facendo della grande eredità matildina. In Germania, vi è conflitto per il regno che Lotario e Corrado si contendono. Vi è una discesa di Corrado in Italia, il quale si fa incoronare re a Monza (1128) come successore di Enrico V, cerca di rimettere le mani sui beni di Matilde, tenta una spedizione su Roma. Altro e maggiore intervento di Lotario, qualche anno dopo, anche per sollecitazione di papa Innocenzo II che rivendicava a sé il soglio pontificio, contro l'antipapa Anacleto II. Vi erano a Roma due potenti famiglie, i Frangipane e i Pierleoni; due partiti in contesa; ora, due papi (1130). Gl'italiani si divisero anch' essi, si divise l'Europa cristiana e cattolica. Tenne Lotario per Innocenzo, il quale, poi, costretto a fuggire da Roma, si recò prima, su navi pisane, in Francia, poi in Germania; tennero per Anacleto gli Svevi. Molti comuni, pure, seguirono Innocenzo; con Anacleto, invece, stette Ruggiero di Sicilia e Puglia. Il quale, inserendosi in questa contesa fra il papa e il pretendente, fra aspiranti alla corona d'Italia e all'impero, fra partigiani del papa e dell'antipapa, si fece da un inviato di Anacleto incoronare re a Palermo. Crollarono rapidamente, dopo l'incoronazione, le ultime resistenze meridionali alla monarchia.
Risorsero esse tuttavia, poco dopo, quando Lotario, chiamato da gravi interessi del regno e indotto da Innocenzo II, scese in Italia, giunse a Roma pur attraverso l'opposizione di molte città lombarde, e a Roma ebbe la corona imperiale (1133) e l'investitura dei beni matildini: che voleva significare anche un rapporto di vassallaggio dell'imperatore nei riguardi della S. Sede. Ma ritiratosi l'imperatore, il papa dové nuovamente fuggire a Pisa: donde incitò a più energica guerra contro Ruggiero. Contro Ruggiero si era formata una vasta coalizione in cui, col papa, entravano Lotario, i Pisani, le città pugliesi e campane, i baroni meridionali, persino i Greci, insomma, tutti gl'interessi italiani ed europei, vecchi e nuovi, soliti a contendersi il Mezzogiorno o, comunque, avversi al consolidarsi di quel regno. Tornò anche Lotario: e questa volta, senza troppi contrasti di città lombarde. Si spinsero insieme verso il sud. E qui investirono della Puglia Rainolfo, dei Normanni Drengot, giuocando sul non spento antagonismo fra le due casate e contrapponendo i minori ai maggiori. Nel luglio 1137, i due supremi gerarchi tennero gran corte a Melfi. Ma, interrotta l'impresa, Ruggiero ricomparve, ricuperò la Puglia, restaurò la fortuna del regno, non ostante che Innocenzo, nel concilio lateranense del 1139, lo scomunicasse ancora. In quel tempo, per di più, moriva Rainolfo. E allora il papa, rimasto senza speranze, piegò alla pace, riconobbe Ruggiero e lo investì di quanto possedeva, salvo Benevento che rimase alla S. Sede. Alle altre terre, il re aveva già aggiunto, per concessione di Anacleto, il principato di Capua, che era dei Normanni di Aversa ma si trovava ora in preda all'anarchia, e la città di Napoli che si governava con propria famiglia ducale. Ora Ruggiero assunse il suo titolo definitivo: "re di Sicilia, duca di Calabria e di Puglia". È la fine delle autonomie cittadine nel Mezzogiomo, sebbene persistano gli spiriti municipali, pronti a riprendere e scattare nelle crisi della monarchia, alla fine dei secoli XII e XIII.
L'opera iniziata dal Guiscardo e da Ruggiero è compiuta: meglio, bene avviata. Non tutto era solido in questo nuovo edificio. Quel baronato era sempre potente e infido. La Santa Sede vantava sempre diritti sul regno e, come aveva incoraggiato Benevento contro Pavia, così, ancor più, i baroni contro il re che risiedeva a Palermo. Tuttavia, si vide, per la prima volta dopo il 570, il potere politico di una vasta regione raccogliersi in una sola mano e raggiungere un grado d'indipendenza e libertà da interessi d'altri regni e paesi, quale non aveva mai avuta e neppure avrà più dopo i Normanni. Lo stato formò un corpo solo: prima avvicinamento di parti distinte, poi unità più organica. La feudalità trovò certa fermezza e un suo ordine, quale ci è indicato dal catalogo dei baroni, compilato fra il 1160 e il 1170. Gettò le sue basi, pur sopra un terreno preparato da Roma, da Bisanzio, dai Longobardi, dagli Arabi stessi, quel sentimento monarchico del Mezzogiorno che darà un suo carattere a tutta la storia della regione. Il nuovo edificio veniva sorgendo, essenzialmente, sopra le istituzioni premusulmane e prelongobarde, cioè su quelle romane modificate dal diritto bizantino. Anche il feudalesimo, i cui germi preesistevano ai Normanni (patronato, commendatio, immunità, ecc.) e a cui i Normanni diedero poi alimento di loro tradizioni e di loro uomini, fu legato e subordinato al re. Era lo stesso sforzo antifeudale con l'arma del diritto romano, che intanto nel centro e nel nord anche le città venivano compiendo: tratto comune, che avvicinava queste diverse parti d'Italia, pur così diversamente orientate quanto a istituzioni politiche.
Intanto, il movimento comunale progrediva; il nuovo ordine istituzionale si consolidava; nuovi ceti più bassi erano sollecitati a farsi innanzi e si accelerava l'affrancamento dei servi, contadini o artigiani che fossero; la campagna cominciava anch'essa a prendere un nuovo volto; comuni rurali a migliaia; valvassori e cattani e anche potenti signori, costretti a giurare il sequimentum communis; molti castelli demoliti. S'inasprivano i contrasti fra le città vicine: e già le più grandi, per nuova o per antica grandezza, ora restaurata, tendevano a circuire e assorbire ecclesiasticamente, economicamente, politicamente le più piccole. Anche le relazioni con i vescovi volgevano al peggio. All'antica solidarietà di fronte al mondo feudale extraurbano, sottentravano i dissidî, in quanto i vescovi erano concessionarî di diritti, giurisdizioni pubbliche, regalie, castelli, a cui ora pretendevano gli antichi vassalli, come singoli e come comune. Sono, a rigore, dissidî fra comuni e regno o impero, da cui i vescovi ripetevano quei diritti, e non di comuni e Chiesa, di Stato e Chiesa. Ma poiché erano in giuoco persone e beni e interessi chiesastici, che la dottrina curialista metteva sopra un alto piedestallo come cosa sacra e inviolabile, così poteva accadere che il fatto politico mettesse capo a complicazioni religiose o alimentasse preesistenti opposizioni religiose. Erano recenti le agitazioni popolaresche, ultra riformiste, che avevano accompagnato la riforma. E ancora i mistici, gl'infatuati di Chiesa primitiva e di Vangelo, gli insofferenti di ogni gerarchia, ecc., erano in attesa, seguitavano anzi a rampollare dal ricco sottosuolo della Chiesa, anzi della società medievale italiana; si facevano più folti i manipoli dei "catari" o puri, vecchia setta venuta dall'Oriente con un vario e consolidato bagaglio dogmatico, con negazione piena del mondo, con odio feroce per la Chiesa romana e per ogni sua potestà terrena. Nessun dubbio che il contatto con questi settarî potesse stimolare anche gli altri a dare una qualche elaborazione dogmatica alle proprie vaghe aspirazioni di riforma chiesastica e di più puro cristianesimo. E nessun dubbio, egualmente, che l'agitazione politica, in alcuni luoghi assai accesa e ostinata, a Cremona, a Piacenza, a Brescia, a Parma, a Reggio, a Vercelli, ecc., contro i vescovi conti, i vescovi guerrieri e giudici, i vescovi grandi signori, per rivendicare al comune indipendenza e giurisdizioni e regalie e castelli e moneta, s'incontrasse qua e là con la propaganda spicciola dei mistici e degli eretici o fosse spontaneamente pervasa e animata da certe loro esigenze; nel modo stesso che mistici ed eretici, operando in ambienti ricchi di motivi politici anticlericali, potevano assorbirli e fonderli con i proprî motivi religiosi, rinfocolando la propria passione. Tutto questo è fatto cattolico: ma più specialmente dei paesi di maggior progresso sociale e intellettuale e di più veementi contrasti e di più ricca vita cittadina, dai Paesi Bassi alla Provenza, dalla Renania alla Valle del Po, alla Toscana, all'Umbria, che sono appunto le regioni dove nel sec. XII serpeggiavano di più le nuove eresie, a fondo pratico e sentimentale da principio, poi anche dogmatico, che diventano movimento vasto e grave nella prima metà del '200. E in Italia, appunto, ci si presenta qualche singolare figura di riformatore chiesastico che inquadra la propria azione e le proprie speranze religiose entro la nuova società e cerca di promuoverla politicamente: Arnaldo da Brescia.
In Arnaldo, non si saprebbe dire se fosse più rappresentato l'ideale evangelico, che risponde anche ad esigenze della società laicale e dello stato; oppure la società laicale e lo stato che, lavorando a elevarsi, si sentono solidali con gli uomini spiritualmente religiosi e vogliono aiutare la Chiesa a liberarsi dai troppi pesi temporali. Certo, egli aveva davanti a sé la fantastica visione di una chiesa primitiva e, insieme, l'esempio di Roma antica e la nuova esperienza dello stato cittadino: per cui si mescolò alla rivoluzione cittadina di Roma, che nel 1144 creava dal nulla (secondo alcuni) o su avanzi superstiti (secondo altri) il comune, contro il pontefice e la nobiltà, e prendeva possesso del Campidoglio, volendo antiquam renovare dignitatem; proclamò la città "sede dell'impero, fonte di libertà padrona del mondo". Agitato da questa duplice passione fusa in uno, Arnaldo è uomo rappresentativo nella storia del popolo italiano, il quale ha sentito e praticato sempre la religione più come azione che come contemplazione o problema teologico, e quando ha volto il pensiero a una riforma della chiesa, l'ha concepita anche come mezzo per crescere dignità allo stato; e ha combattuto la Chiesa, non con spirito antireligioso e neppure antichiesastico, ma anticlericale. Secondando, poi, le aspirazioni dei Romani a darsi, sotto il solenne nome di repubblica romana, un ordinamento municipale proprio, Arnaldo contribuì ad avvicinare Roma alla nuova storia d'Italia, che era storia di città autonome.
Imperatori e papi di fronte ai comuni e al regno normanno. - Contro il comune di Roma e contro il re di Sicilia, Eugenio III e Adriano IV papi trovarono un alleato in Federico I di Svevia, che, incontratosi a Costanza con i legati di Eugenio III giurò aiuto contro quei nemici e prese impegno di andare a Roma per ricevere la corona imperiale. E Federico mantenne la promessa, nel 1154. Varî gli scopi: riaffermare l'autorità sua sopra il papato che si dimostrava, sì, amico, ma veniva mettendo troppo allo scoperto una sua dottrina e ambizione di primato sull'altra potestà, l'impero; riprendere l'antica impresa, nell'Italia meridionale, dove ora i re normanni facevano da padroni; rimettere in sesto le cose del regno che era pur sempre la chiave di vòlta dell'impero in Italia, ma adesso appariva come un edificio sconquassato. Non c'erano più, come uno o due secoli prima, i grandi conti e marchesi i potenti arcivescovi arbitri della corona. Ma le città ne venivano prendendo il posto. Anche Matilde era morta e scomparso il suo casato. Ma lo spirito dei Canossa ormai animava Firenze, cresciuta appunto nella protezione della grande contessa e destinata a incarnare, più forse di ogni altra città italiana, la sospettosità municipale di fronte all'impero, l'avversione degl'Italiani al dominio di genti estranee e, come essi diranno poi dei Tedeschi di Enrico VII in un documento ufficiale, "repugnanti per antichi fatti e portamenti, per linguaggio e costumi, per animo e volontà".
L'impero aveva fino allora concorso anch'esso a creare questo nuovo ordine politico-sociale, in Italia come in Germania. Lotario aveva tentato di mettere qualche riparo. Ma tutto era seguitato come prima. Fino a che le forze feudali di opposizione, l'energica personalità del nuovo imperatore, una certa coscienza della gente germanica che fosse in giuoco un interesse suo, sorsero a sbarrare il cammino alla nuova società cittadina. Federico Barbarossa si armò della sua forza e della sua legge; chiamò o accolse attorno a sé feudatarî, animati da odio contro i vassalli e i plebei, e giuristi, accorsi in folla per difesa del diritto costituito e, per il momento, del più forte; stimolò anche l'amor proprio nazionale tedesco e il sentimento di un diritto e di un onore tedeschi impegnati in Italia; si fece centro nella penisola di tutti gl'interessi offesi, di feudatarî, di vescovi, di conti, di piccole città oscurate o minacciate dalle maggiori (Pavia, Lodi, Como ecc.); lusingò le speranze di potenti città marittime che contavano sulla forza dei Tedeschi le une contro le altre e aspettavano vantaggi commerciali dalla conquista imperiale della Sicilia.
Sei spedizioni compì, cominciando dal 1154. Nell'alta Italia, Milano era la chiave di vòlta. Ma Federico non aveva forze per affrontarla. Si volse su Roma, consegnò al papa Arnaldo destinato al rogo, prese la corona, vinse i Romani: ma non poté né egli né il papa entrare nella città. Si spinse poi verso il regno, dove a Ruggiero II era successo nel 1154 Guglielmo I, e i baroni del continente erano in ribellione, la nobiltà siciliana in attesa di eventi. Papa Adriano, inglese di patria, che non aveva voluto riconoscere il nuovo re, accompagnava l'imperatore. Ma Guglielmo, come fronteggiò i nemici interni, così quelli esterni. Il Barbarossa, giunto in Campania, dové tornare indietro. Il papa allora, non contento del Barbarossa, preoccupato dal ritorno di Bisanzio che aveva occupato Ancona, città della Chiesa, e sconfitto la flotta normanna a Brindisi, conchiuse col regno la pace di Benevento (1156), impegnandosi a incoronare Guglielmo e a investirlo della Sicilia, della Puglia e di Capua, e confermandogli le prerogative ecclesiastiche. Anche fra Bisanzio e re normanni si venne alla pace. E in Roma i Romani si acconciarono col papa. Il quale così, sicuro in casa e alle spalle, assunse anche con l'imperatore un altro contegno. Il papato tornava a riaffermare il suo alto diritto sulla corona imperiale, a considerar essa come un "beneficio" da assegnare e chi ne era investito come un beneficiario e soggetto. E poteva ora farsi centro di tutte le opposizioni all'impero e ai Tedeschi, cioè i Normanni del sud, i comuni del nord e del centro. A Roma il pontefice non poteva tollerare un ordinamento municipale indipendente; ma fuori di Roma, una politica di autonomie o libertà comunali poteva ben corrispondere al suo proprio interesse. Cresciuto in Italia e nutrito di vita italiana, il papato aveva il senso della realtà italiana più che il signore tedesco.
S'inasprì allora anche la politica imperiale di rivendicazioni contro le città. Nuova e maggiore spedizione nel 1158: e Milano, assediata, dové capitolare. Si riunirono poi a Roncaglia, per volontà dell'imperatore, i dottori bolognesi e un grosso collegio di giudici delle città: e determinarono quali fossero le regalie da ricuperare. E subito i funzionarî imperiali ricominciarono a mettere le mani su questi diritti. Ma scoppiò la tempesta. Insorsero le città. E poiché quelle rivendicazioni imperiali si volgevano anche verso i beni della contessa Matilde, s'inasprirono anche i rapporti col papa. Vi fu poi rottura apertissima con Alessandro III, dopo che un antipapa, Vittore IV, confermato a Pavia in un concilio convocato dall'imperatore, proclamò scismatico Alessandro e l'imperatore lo mise al bando. Al bando imperiale Alessandro rispondeva con la scomuniea e si trasferiva in Francia, per cercarvi nemici al Cesare tedesco. Si formò una coalizione e la resistenza al Barbarossa si disciplinò attorno a varî centri, i quali furono, in vario modo, la Roma papale, il regno normanno e il comune di Milano, vera porta dell'Italia per i Tedeschi, anzi per ogni dominatore transalpino che volesse entrare durevolmente nella penisola. A Milano vibrava più fortemente che altrove l'anima della nuova Italia che si costruiva una nuova e propria legge. Era la più popolosa e ricca città della penisola e aveva ripreso su Pavia, innalzatasi a capitale con i barbari, l'indiscusso primato nel regno. Idea diffusa, allora, che Milano fosse corona regni italici, come dice il cronista Galvano Fiamma, dal cui destino poteva dipendere quello di tutta Italia. Quindi, per i partigiani dello Svevo, Milano incarnava lo spirito di rivolta alla legittima autorità, e, devastato il territorio milanese, stretta d'assedio la città dai Tedeschi e dai loro ausiliarî italiani, essa dovette arrendersi. E fu distrutta. Poté credere allora Federico di essere quasi in porto. E si mise a riordinare ai suoi fini il paese, assumendone la diretta gestione. In tutte le città mandò rappresentanti suoi, rettori o podestà, che curassero l'amministrazione delle regalie e salvaguardassero i suoi diritti. Ma fu più parvenza che sostanza di forza. O meglio, forza che egli attingeva specialmente fra gl'Italiani. Ma ora gl'Italiani gli vennero in gran parte meno: anche quelli che lo avevano aiutato a prendere e distruggere Milano.
Nella quarta spedizione sua, 1166-67, il Barbarossa poté espugnare Ancona, rivale di Venezia e terra della Chiesa, donde l'imperatore greco brigava nelle cose d'Italia. Marciò ancora su Roma, respinse i Normanni, si fece di nuovo incoronare, riconobbe questa volta il senato pur riservandosi egli d'insediarlo e di nominare un prefetto imperiale. Sopraggiunse la pestilenza, fierissima. Ed egli dové ritirarsi, quasi fuggire attraverso l'alta Italia, dove le città si erano messe in rivolta, avevano cacciato i vicarî imperiali e conchiuso a Bergamo, nel febbraio 1167, una grossa lega. Risorse, per deliberazione e con l'aiuto di essa, la distrutta Milano. Funzionarî e fautori dell'imperatote tenevano ancora abbastanza fermo in Toscana, in Romagna, in Piemonte. Ma ormai arbitra della situazione è la lega, piccolo superstato cittadino, con suoi rettori, suo consiglio, sua solidale attività. Per opera sua, fu costituito alla confluenza del Tanaro e della Bormida un forte campo trincerato che doveva fronteggiare il marchese di Monferrato, fedele all'imperatore. E quando Federico fece nel 1174 la sua quinta spedizione italiana, di fronte a questo campo, che si avviava a diventare una città, Alessandria, s'infranse il suo sforzo. Alessandria era la più concreta espressione dell'alleanza delle città col papa. L'imperatore cercò spezzare questa alleanza, patteggiò con la lega, trattò i preliminari di Montebello con cui i Lombardi si sottomisero e il sovrano riconobbe la lega, rinunciò ad attuare le determinazioni di Roncaglia. Ma quando egli chiese anche che fosse tolto di mezzo il campo trincerato di Alessandria, i Lombardi rifiutarono: e l'accordo fu rotto. La lega affidò la decisione alle armi. Sconfitto sul campo di Legnano (29 maggio 1176), l'imperatore cercò nuovamente, con le città, una pace o conciliazione separata. Non riuscì: perché le città non volevano staccarsi dal papa. Tentò allora col papa: e il papa, che poteva essere alleato delle città ma, avendo interessi tanto più larghi, non subordinare la sua politica alla politica delle città, prestò ascolto. Federico riconobbe papa Alessandro e abbandonò l'antipapa, s'impegnò di ricostituire lo stato della Chiesa e l'eredità matildina, rinunciò ad avere in Roma un suo praefectus. Condizione di questo accordo era che il papa ottenesse pace anche fra l'imperatore e le città lombarde, l'imperatore e il re di Sicilia. Pace veramente non vi fu, per allora: ma solo tregua, con le une e con l'altro, al congresso di Venezia, ove i messi delle città, pure riluttanti, piegarono al desiderio del papa. La pace venne a Costanza nel 1183. E il trattato suonò riconoscimento e legittimazione, da parte dell'imperatore, dei fatti compiuti e degli ordini esistenti.
Gravemente colpito fu l'impero da questi avvenimenti. Si può dire che esso cessò di essere il pernio o centro della vita politica italiana. E con l'impero, il regno, che con esso si era identificato, quasi annullato. L'Italia si veniva con ciò ancora più differenziando dal resto dell'Europa romano-germanica. Altrove, in quel medesimo tempo, i regni sorti dalle invasioni e dalla conquista riprendevano vigore. I re di Castiglia e i re d'Aragona, Enrico Plantageneto in Inghilterra, Filippo Augusto in Francia, si rimettevano alla testa delle varie e cozzanti forze nazionali, raccogliendole sotto di sé, disciplinandole, utilizzandole ai fini comuni, corrodendole nel loro particolarismo; rappresentavano la nazione tutta, nelle lotte coi nemici esterni, e ne promovevano la coscienza unitaria. Fino a che, nel sec. XV, si assideranno arbitri sopra tutti, saranno una sola cosa con la nazione, si lanceranno nelle competizioni internazionali, inizieranno una fase storica europea. Invece in Italia, sorgeva, sì, nel Mezzogiorno un regno vitale; ma nel nord e nel centro il regno fondato dai Germani proseguiva la parabola discendente, corroso dalle forze locali, che erano anche le forze originarie della penisola.
Comunque l'abbassamento dell'impero e del regno voleva dire via libera lasciata alle energie politiche del paese, libero svolgimento di vita cittadina e di stato di città. L'Italia, l'Italia del regno, si avviava a farsi "indomita e selvaggia". L'unità politica si allontanava, la spontanea attività creatrice della nazione italiana si rinvigoriva e fruttificava, il sentimento di nazione cominciava a sfavillare, quasi che della nuova realtà si cominciasse ad avere consapevolezza. La lunga lotta col Barbarossa e coi Tedeschi aveva affrettato il divenire di quella e stimolato questa, per opera specialmente delle città maggiori, quelle che avvertirono il maggiore contrasto fra il loro interesse politico e la politica dei re tedeschi. Si forma e si propaga, costruendo su quel che già si era cominciato a costruire nel sec. XI, il senso di un'unità che non è più solo riflesso di quella romana, ma più veramente intrinseca e propria, derivante da certa comunanza di vicende, dalla somiglianza della vita e del costume, dalla determinatezza del territorio abitato, dalla solidarietà degli interessi ora che una grave minaccia incombe. Vi fu una vera e propria cooperazione di Siciliani, di papi, di città, attorno a un grande problema non particolare o municipale. Fra i comuni, si strinse un legame costituzionale vero e proprio. La lega lombarda, col suo collegio di rettori formato dai consoli o podestà dei comuni collegati, deliberanti tuttavia come rettori della lega, collegialmente, e non come consoli o podestà delle rispettive città, rappresentò un organismo federale che limitò l'autonomia dei singoli associati e dettò una sua legge, superiore alle speciali leggi della città: un fatto che si ripeterà pochi anni dopo in Toscana, con la lega di S. Genesio, capitanata da Firenze, come l'altra da Milano, e rivolta contro Enrico VI e, più ancora, contro i grandi feudatarî suoi partigiani. Si formò un'opinione pubblica che condannava il parteggiare d'Italiani per un nemico che veniva di fuori e che appariva avverso a tutta la gente italiana' e quelle guerre fra città sentì e denunciò quasi guerre civili. La curia romana parlò il linguaggio dei collegati di Lombardia e di Toscana: segno dei tempi e dell'ambiente in mezzo a cui agiva la curia e da cui traeva alimento di varia natura per i suoi proprî fini, se essa, cercando la solidarietà di altre forze attorno a sé, parlava dell'"utile e dell'onore dell'Italia", del "comune bene della S. Sede e dell'Italia". Tutto questo ci spiega come e perché la storia dei decennî che culminarono nella lega lombarda, nella vittoria di Legnano e nel trattato di Costanza, sia stata dagl'Italiani del sec. XIX innalzata all'onore di storia nazionale, storia di precursori. Interpretazione insufficiente: ma da non rigettare in blocco. Legnano e Costanza bene entrano nell'orbita ideale della nazione italiana.
Tuttavia il 1177 e il 1183, cioè la tregua di Venezia e la pace di Costanza non segnarono affatto la fine dell'azione dei re e imperatori tedeschi in Italia. Vi erano sempre molti interessi a sostenere l'imperatore, città, giuristi e scuole di diritto con a capo Bologna, feudatarî che ormai, dopo alienatisi dall'impero a causa della sua politica vescovile, gli si erano ravvicinati e attendevano da lui salvezza contro le città. Nella regione piemontese, in Toscana e nell'Italia centrale, dove non grande era stata la partecipazione alla lotta contro di lui, il Barbarossa poté inviare e tenere vicarî e funzionarî, cominciare a organizzare una specie di burocrazia non tanto regia quanto imperiale. Le stesse città della lega Lombarda, con Milano alla testa, disarmarono un poco. Infine Guglielmo II di Sicilia, tutto impegnato nelle sue spedizioni nordafricane e orientali, volto col pensiero a una crociata, era portato anch'esso a una politica di intesa con l'imperatore d'Occidente. Si ebbe così in Milano, a dieci anni da Legnano, il fidanzamento di Costanza, figlia di Ruggiero II, con Enrico figlio del Barbarossa. Quest'ultimo fu anche incoronato re d'Italia dal patriarca di Aquileia, uno dei grantli puntelli del regno tedesco in Italia, da utilizzare, eventualmente, anche contro il papa, data la sua potenza e il suo vastissimo dominio metropolitano. Come fu questa volta. Poiché Urbano III, già in cattivi rapporti con Federico, anche per la sua azione nell'Italia centrale, ancora più s'inalberò di queste nozze che creavano la possibilità dell'unione delle due corone. Si venne, anzi, a nuova guerra. Enrico penetrò nello stato della Chiesa, proprio mentre moriva Urbano, lungi da Roma dove né egli né i successori Gregorio VIII e Clemente III poterono entrare, fino alla pace coi Romani del 1188, che riconobbe la costituzione della città e fissò entro stretti limiti - investitura del senato e regalie - i diritti del papa.
Nel 1189 morì Guglielmo di Sicilia e nel 1190 Federico imperatore: Enrico VI subito si volgeva a cogliere l'ormai maturo frutto siciliano. Vi era, laggiù, un partito antitedesco, come ve ne'era stato uno antifrancese, al tempo della reggente Margherita. Vivo era lo spirito d'indipendenza, in Siciliani e in Normanni, ormai sicilianizzati. E questo partito levò Tancredi re normanno, che veniva da un figlio naturale del grande Ruggiero II. Ma nel regno e attorno al regno, era tutto un divampare di passioni, di odî, di gelosie, tenuti a freno solo da un forte re, fornito di larghi e proprî mezzi d'azione, finanziarî e militari. Durante il regno dei due Guglielmi, più volte aveva divampato la guerra civile. Partito dei grandi e partito del re o, meglio, dei funzionarî del re: insomma, aristocrazia feudale e burocrazia, che ebbero in Falcando di Palermo e in Romualdo salernitano i loro storici. Ma, se Ruggiero ebbe partigiani, e li ebbe specialmente negli elementi cittadini in cui risorgevano aspirazioni di autonomia; altri, della nobiltà, parteggiarono per Enrico. Il quale, da principio, non ebbe gran successo, e dovette arrestarsi in Campania, dopo essere stato incoronatn imperatore, insieme con la moglie Costanza (1191). E Tancredi poté afforzarsi laggiù: s'intese coi Guelfi di Germania; si ravvicinò all'impero d'Oriente fidanzando il proprio figlio con la principessa Irene; procurò accordo con papa Celestino III. E col concordato di Gravina, il papa investiva Tancredi del regno, Tancredi rinunciava ai tradizionali diritti ecclesiastici della monarchia siciliana. Ma la morte del re, nel 1194, riaprì a Enrico la strada del sud. E questa volta, con l'aiuto delle flotte di Pisa e Genova, quella strada fu battuta fino a Palermo, entro lo stesso 1194. Ormai, l'unione dei due regni della penisola, il vecchio regno fondato dai Longobardi e ormai quasi risolto in comuni e in grandi feudi, e il nuovo regno nato coi Normanni, poteva dirsi un fatto compiuto. Ed era fatto di vastissima portata. Il regno di Sicilia, nelle mani di chi già deteneva il regno d'Italia, voleva dire nuove e maggiori e più proprie risorse militari e navali e finanziarie, voleva dire tradizioni e organizzazione statali, non feudali ma di governo accentrato; risorse e tradizioni che potevano servire per una più gagliarda affermazione anche nel nord, nell'ambito del vecchio regno: come effettivamente servirono, sia pure non durevolmente, quando siederà sul trono di Sicilia Federico Ruggiero, il figlio di Enrico e di Costanza, frutto dell'unione normanno-tedesca, nato a Iesi l'anno stesso della conquista di Sicilia, cresciuto ed educato nell'isola, tanto da poter dare alla sua azione l'impronta morale e politica di quella terra. Non solo. Ma il possesso del regno di Sicilia creava la necessità non solo di avere effettivo dominio sulla Valle Padana e la Toscana, ma anche di controllare le terre della donazione. Enrico infatti volse attenta cura all'Italia centrale - Toscana e terre della Chiesa -; vi tenne suoi vicarî e funzionarî direttamente dipendenti da lui; vi rafforzò, anche in virtù dell'esempio siciliano, quel sistema burocratico che già il padre aveva lì avviato. Vale a dire che, solo avendo una qualche ferma base in Italia, si poteva dominare tutta l'Italia; che questa ferma base poteva essere costituita dal regno di Sicilia; che il regno di Sicilia poteva diventare, per un tempo più o meno lungo, chiave di vòlta della penisola e pesare fortemente sul destino della medesima.
Per il momento, tuttavia, gli eventi non volsero propizi per gli Svevi e per questi loro propositi. Enrico morì (1197), lasciando in Sicilia, in Toscana, nelle vicine terre della donazione molti Tedeschi scesi in Italia con lui e per lui. Ma i Siciliani insorsero e li combatterono. Costanza, che secondava il partito antitedesco, rinunciò per il bambino alla corona di Germania e lo fece incoronare re di Sicilia, con l'investitura papale del regno a titolo ereditario. Per giunta, essendo vicina a morte, desiderò che il papa, Innocenzo III, da poco eletto, assumesse esso, come alto signore del regno, la tutela del fanciullo ed erede. Anche nell'Italia centrale vi fu una rivolta di città e di qualche feudatario contro Tedeschi, rappresentanti dell'impero tedesco. Si formò una lega di comuni marchigiani; una lega di comuni toscani, stretta a S. Genesio, che aveva a capo Firenze: mentre ne rimase fuori l'imperiale Pisa. Cominciava l'antagonismo fra i due comuni. Pisa, città espansiva, con interessi mediterranei che molto potevano avvantaggiarsi dell'appoggio imperiale, seguiva bandiera ghibelliria; Firenze, che già aveva fatto causa comune coi Canossa contro l'impero, e ora ascendeva a potenza, si faceva fotte dell'opposizione all'impero stesso.
Il papa, di queste leghe, come e più ancora che non di quella lombarda trent'anni prima, fu sollecito promotore e sostenitore. Divenuta realtà l'antica aspirazione d'imperatori e re d'Italia ad assorbire il Mezzogiorno, i rapporti loro col pontefice, imperniati ora per forza di cose su tale questione, tornarono a essere rapporti di guerra, latente o manifesta. Anzi, la politica papale si concentrò nello sforzo di spezzare questa unione. Nuovamente Roma vellicò quel sentimento di opposizione degl'Italiani agli stranieri che ricco ora e sempre più di nuovo contenuto, veniva elevandosi a sentimento nazionale. Non solo. Ma il papa si volse a un' opera energica e metodica di rivendicazione e organizzazione delle terre della Chiesa, come mezzo per meglio impedire intrusioni dal di fuori, creare attorno a Roma una più valida protezione, rendere più difficile l'unione delle due corone sul capo dello stesso principe.
Dal comune allo stato di città. - Acquistato di diritto e, in parte, di fatto il territorio; preso possesso, per lenta appropriazione o per rapido atto di volontà, di quasi tutti gli attributi e diritti dello stato feudale; ottenuto il riconoscimento della propria autonomia politica e delle proprie magistrature; aggiunto al riconoscimento imperiale quello, o morale o, spesso, giuridico, del pontefice; i comuni hanno ormai, sul finire del sec. XII, un posto ben definito entro la sfera del regno e dell'impero che tutti, idealmente, li comprende. Non più private associazioni, come erano in origine e come il Barbarossa voleva costringerli a tornare, ma enti di diritto pubblico, sulla base del trattato di Costanza, vera carta costituzionale della vita comunale italiana.
La legislazione comunale fa ora rapidi passi, nella seconda metà del secolo. Mentre, ancora nel 1153 e 1162, i brevi dei consoli erano poco più che sommarie formule di giuramento e di obbligazione dei consoli, di alcuni funzionarî e dei cittadini, cominciano dopo a presentarsi come assai ampî complessi di disposizioni varie intorno al funzionamento dei tribunali, all'estimo e alla riscossione dei tributi, ai lavori pubblici, alla milizia, alla polizia urbana, al governo del contado. Alcune città procedono anche alla raccolta ed elaborazione delle consuetudini che regolavano il commercio, i rapporti patrimoniali privati, la condizione dei forestieri, la materia dei patti colonici e feudali ecc. È, questa redazione di consuetudini, atto significativo anche della crescente influenza del popolo di fronte all'aristocrazia che delle consuetudini, appunto, era depositaria e interprete; oltre che affermazione del nuovo stato di città. Il quale ora è respublica, come fino adesso solo l'impero si chiamava. La parola invale nell'uso durante la seconda metà del sec. XII. Indice di questa personalità giuridica e morale, di questa consapevolezza di sé da parte del comune è il crescente orgoglio municipale delle maggiori città, il diffondersi della nozione erudita o della leggenda popolare di una discendenza da Roma, il sorgere della storiografia ufficiale.
Cessa ora quasi del tutto la partecipazione dei vescovi al governo della città. L'affrancamento del comune come tale è accompagnato e, direi, sostanziato, da un altro fatto: l'affrancamento pieno di tutti i suoi cittadini e soggetti, oltre che dal vincolo pubblico, anche da ogni vincolo di natura patrimoniale o feudale. Interesse dei singoli e interesse del comune, che intende legare a sé con vincolo esclusivo cittadini e soggetti, coincidono e si promuovono scambievolmente. Si ha così un rapido processo di allodiazione, mediante riscatto, di tutti quei beni immobili il cui possesso e godimento teneva, fino allora, gran parte della cittadinanza nella dipendenza di chiese e monasteri e famiglie feudali. E si mobilizzano, insieme col possesso fondiario, anche gli uomini. Base della condizione personale dei cittadini non è più il rapporto di vassallaggio ma la dipendenza dal comune. Anche i non cittadini sono sollecitati ad allentare o rompere il loro vincolo verso il signore, perché più facilmente possano essere attratti nell'orbita della città. Tutto questo è una più o meno esplicita abolizione di feudalismo. Ed ecco il patriottismo locale e municipale che sorge o risorge fra i rottami del rapporto feudale.
Maturano anche progressi costituzionali nei comuni: anche per effetto della più evoluta e complessa struttura sociale. Abbiamo le varie forme della vita associativa. La nobiltà cittadina, che a un certo punto non s'identifica più col comune, si organizza a sé, nella societas o commune militum. Mercanti e industriali si raccolgono nella societas mercatorum o nell'arte della lana. E i loro consoli fiancheggiano i consoli del comune, hanno parte nella stipulazione dei trattati commerciali o anche politici: a Milano, a Piacenza, a Firenze, a Pisa, altrove. Da per tutto, sempre più numerose le associazioni del vero e proprio artigianato, che hanno avuto spesso un'infanzia religiosa e chiesastica ma ora accentuano il loro carattere economico-sociale. E poi, "porte", "quartieri", o "terzieri", e "popoli" delle Chiese cittadine, che servono ai fini della vita comunale e sono in certo senso un fatto nuovo, ma poggiano su basi preesistenti. Infine, formazioni politiche, cioè partiti, maiores o milites, populus o pedites. Innegabile che la nobiltà è al centro del partito dei militi e la borghesia mercantile al centro del popolo. Cioè, coincidenza grosso modo di raggruppamenti sociali e politici. E tuttavia quei partiti raccolgono e mescolano ognuno elementi sociali diversi, concorrendo a sgretolare le organizzazioni professionali e di classe, a sminuzzarle, polverizzarle. Essi vanno assai oltre le mura cittadine e creano larghe solidarietà intercittadine, interregionali, quasi peninsulari.
Anche la storia interna delle città si complica. Alle lotte per l'acquisto del territorio o per l'autonomia dai vicarî imperiali, che avevano culminato nel sec. XII ma non sono ancora finite, si aggiungono quelle interne, a fondo economico-sociale. Quasi due storie, pur tuttavia assai collegate, perché gli acquisti territoriali, incanalando verso la città molti nuovi e turbolenti elementi, hanno agito e agiscono sullo sviluppo interno, sui ceti, sui partiti, quasi trasferendo entro le mura tanti motivi di contrasto, familiare o di ceto, che prima operavano nelle campagne; e viceversa, il contrasto cittadino fra popolo e militi spinge il comune a intensificare la sottomissione piena del contado, per strappare ai nobili questa base di operazione, questa zona di rifornimento e reclutamento e per procurarsi maggiori redditi tributarî, più numerosi servizî di ogni genere, più libertà di movimento. Si può cominciare a osservare anche qualche grande signoria feudale, non distrutta dal crescere delle città, i conti di Savoia o i patriarchi di Aquileia, iniziare in questo tempo una graduale trasformazione delle basi giuridiche del loro dominio, per giungere a un più effettivo esercizio del potere. Non diversamente procede il papa dalla fine del sec. XII in poi.
A questo punto, la costituzione a consoli, fondata sopra una ristretta e abbastanza omogenea società cittadina, entra in crisi e cede il posto, gradatamente, ad altra costituzione, impersonata nel podestà. I cittadini lombardi e anche, qua e là, toscani avevano, al tempo del Barbarossa, conosciuto un podestà o rettore, funzionario imperiale o d'incerto carattere fra imperiale e comunale. E già allora, imposto dal di fuori, esso aveva secondato nella costituzione cittadina una tendenza a svolgersi, allargare la sua base, risolvere e disgregare il nucleo comunale. Cacciato come funzionario imperiale, a furia di popolo, ricompare come magistrato cittadino. Esso è, da principio, vario e mutevole nelle varie città e nei varî momenti anche di una stessa città: vario e mutevole quanto a durata dell'ufficio, ad ampiezza di poteri (a volte, quasi dittatore), a compiti più particolarmente assegnatigli (più di guerra o più di giustizia e di pacificazione dei partiti). Proviene ora dall'aristocrazia consolare, ora da quella feudale, è cittadino o forestiero. Caso frequente che spesso assuma quel titolo e relativi poteri il vescovo stesso della città. È frutto di una transazione fra militi e popolo e rappresenta lo sforzo dell'aristocrazia consolare, alquanto screditata, di mantenersi in sella dandosi un dittatore che risponda a certe esigenze popolari; oppure emana piuttosto dal popolo che vuole al comune un capo che sia anche suo capo, come poi lo avrà, esclusivamente suo, nel capitano del popolo. Si alterna con i consoli o si accompagna con essi, come moderatore del collegio consolare, ora divenuto più ristretto.
Ma appare chiaro, pur in questa fantasmagorica varietà, che il podestà rispecchia tutti i mutamenti e progressi compiuti dalle città in un secolo: la maggiore unità territoriale; i più ampî e legalmente riconosciuti poteri del comune di fronte all'impero e al vescovo (infatti nelle comunità rurali seguitano a esserci i consoli, non il podestà; e in taluni comuni maggiori di tardo sviluppo, la lista dei podestà comincia esattamente l'anno in cui essi hanno conseguito una larga autonomia, come a Trieste, per esempio, l'anno 1295); il delinearsi più netto di un ente, lo stato che nasce, al di sopra del nucleo di famiglie che tenevano il governo. Nel podestà si rispecchia anche l'emergere, pure in regime di maggiore democrazia, anzi proprio per questo, di personalità singole, generate dal più forte attrito interno, dalle maggiori possibilità di farsi valere in mezzo ai partiti, dal seguito che dentro la città riacquistano grandi famiglie feudali; la maggiore complicatezza della macchina di governo e il bisogno di elementi tecnici, specie per la giustizia; la necessaria sostituzione di funzionarî stipendiati e controllati a quelli che esercitavano il potere come un diritto e un dovere inerente alla loro classe, o alla loro qualità di vassalli e beneficiarî del vescovo o del conte. In mezzo alle guerre intercomunali e al complicarsi dei rapporti col di fuori, il podestà deve essere un capo di guerra e un ben visibile e accreditato rappresentante; nella varietà e discordia dei gruppi sociali e politici interni, una forza coordinatrice ed equilibratrice, un magistrato pubblico vero e proprio, volto a interessi generali. Massimo suo requisito è l'imparzialità: e se essa manca, se il podestà inclina a un partito, il comune è comune "fittizio", "iniquo" o "fraudolento". Può avvenire allora che le tendenze centrifughe prendano il sopravvento, che scompaia dalla scena il podestà del comune, che i militi e il popolo abbiano distinto podestà e gli uni e gli altri rivendichino a sé il diritto di essere il comune, che al posto dello statuto le parti cerchino dare valore generale ai particolari loro brevi, che i militi col loro podestà alla testa escano dalle città che per essi è sempre un po' un accampamento. Fino a che interviene qualche mediatore, il vescovo o una città vicina o un frate paciaro, e il comune si ricostituisce nella sua unità, ritorna la communis potestas e constitutum commune. C'è, in questa evoluzione costituzionale, il principio della signoria, cioè di un regime monarchico dello stato di città. Quanto meno essa soddisfa sin d'ora alcune delle esigenze stesse a cui più tardi la signoria risponde.
Attorno al secondo o terzo decennio del '200, il podestà è cosa generale delle città italiane, dalle Alpi all'Abruzzo. Quasi nessuna differenza, in rapporto al podestà, nell'Italia già longobarda e nell'Italia già greca, pur che esse vivano in regime di libertà comunale. Sporadicamente appare il podestà anche a Roma. A Venezia c'è sempre il vecchio doge o dux. Ma la città compie anch'essa fra il sec. XII e XIII un'evoluzione che richiama quella per cui altrove si giunge al podestà, con la stessa maggiore indipendenza del potere centrale da ogni autorità esterna ed eliminazione delle ultime tracce dell'origine sua feudale e patrimoniale. Poiché l'antico dux, che esplicava la sua autorità un poco come rappresentante di Bisanzio, un poco e più ancora per diritto proprio, trasmettendo spesso ereditariamente il suo potere, ora si muta in un capo dello stato che incarna la podestà della repubblica e si riconosce pur egli soggetto alle leggi e viene nominato non più per tumultuaria acclamazione del parlamento generale, ma con ordinato procedimento di una ristretta balia di elettori designati dalla Concione. Sebastiano Ziani, attorno al 1170, inizia la serie di questi dogi. E dal 1192 è la Promissione ducale che il doge Dandolo deve giurare, impegnandosi come un qualunque podestà di far giustizia, osservare gli statuti, ecc. Dodici anni dopo, anche Venezia, con la presa di Costantinopoli e lo spodestamento della vecchia dinastia greca, rompe gli ultimi collegamenti anche solo morali che ancora la tenevano stretta all'impero di Bisanzio.
Comunque, da per tutto ormai gli statuti fanno largo posto al podestà. L'opinione pubblica lo tiene assai in alto. Qua e là esso è raffigurato nel marmo, in segno di onore. Con l'allargarsi delle fazioni cittadine e diventar esse regionali e interregionali, accade che il podestà debba essere ricercato sempre più lontano, perché meglio possa essere e mantenersi estraneo e superiore ai partiti. Migliaia di persone fanno di questo ufficio una carriera onorevole; centinaia di famiglie fanno di questa carriera una professione ereditaria, per tre o quattro generazioni. Si può considerare questa migrazione di podestà attraverso mezza Italia come un fatto di grande importanza per l'unità spirituale della penisola: unità di cultura giuridica e anche letteraria, rappresentate spesso dagli stessi uomini. Nasce per opera di giuristi e dottori, di solito per le loro esperienze personali, tutta una letteratura come di manuali del perfetto podestà, animati spesso da intuizioni e concetti generali sulla natura del potere civile, sui doveri e diritti dei governi, e inclini a richiamarsi al Corpus iuris di Giustiniano, anziché al Decretum di Graziano.
Realmente il podestà, come volle dire più forte sentimento statale, politica estera più attiva, sforzo risolutivo per organizzare a unità il contado, maggiore indipendenza personale dei dirigenti dal vescovo, così anche una politica piuttosto spregiudicata nei rapporti con la chiesa cittadina e la Chiesa in genere. E si presero di mira le giurisdizioni dei vescovi e capitoli e monasteri nel contado; si manomisero le immunità personali dei chierici e delle chiese nei rapporti fiscali, si legiferò sulla proprietà ecclesiastica, sia limitandone l'accrescimento, sia affermando su essa un superiore diritto dello stato e dei laici; s'impose ai chierici la giustizia del comune o per lo meno l'applicazione delle leggi penali del comune nei tribunali ecclesiastici; si assicurò ai laici il foro secolare, nelle cause civili, anche quando erano convenuti dai chierici; si diminuì il numero delle cause spirituali o miste assegnate al tribunale della Chiesa ecc.
Si ebbe insomma una nuova e più aspra fase nei rapporti fra Stato e Chiesa. Poiché ora si può veramente parlare, nelle città, di Stato e Chiesa, dopo che il comune ha avuto il suo riconoscimento e i vescovi hanno perso la posizione di rappresentanti del principe. E con i più aspri rapporti fra Stato e Chiesa nelle città, anche più aspra e diffusa opposizione religiosa alla Chiesa: cioè sviluppo di eresie che soffiano su quella lotta politica e insieme ne traggono alimento. Agitazioni politiche e agitazioni religiose si mescolano e si confondono già sul principio del '200 a Orvieto, a Brescia, a Firenze, a Parma ecc. Qualche regione ha una specie di primato: l'Umbria, tutta piena di contrasti civili, seminata di catari e patarini, e patria di Francesco d'Assisi; l'Emilia, col suo centro Parma e territorio, che fu tra i più caldi focolari di agitazioni d'ogni natura, vivaio di oppositori religiosi. Lì crebbero le propaggini eterodosse del grande albero francescano. Lì, anzi, s' incontrarono la corrente umbra del francescanesimo e quella gioachimita della Calabria. Visto nel complesso, il movimento religioso che, dopo le prime prove del XI, si allarga nel secolo XII, ci appare lo sforzo dei fedeli di permeare di sé la Chiesa, come il popolo veniva permeando e trasformando lo Stato. Rivoluzione politico-sociale da una parte, rivoluzione religiosa dall'altra, con forme radicali e forme blande mescolate insieme. La prima andò assai più innanzi della seconda.
L'età sveva: papi e comuni contro l'unità regia.
La politica della Chiesa nei rapporti dell'Italia. - Insediamento di una dinastia tedesca nell'Italia meridionale, quella stessa che da tre generazioni aveva, oltre il regno di Germania, anche il regno d'Italia e l'impero, con molta buona volontà di mettere le mani anche sulle terre della Chiesa; vasta violazione di libertà ecclesiastiche nelle città, come anche, ormai, nei regni d'Europa, con gli Enrico e i Filippo Augusto, tutti più o meno volti a ricostruire lo stato nella sua pienezza; eresie che si diffondono in vaste zone della cattolicità, specialmente nei paesi più vicini a Roma, e, più ancora, manifestazioni varie di religiosità non in tutto conformi al nuovo spirito del cattolicismo romano; ecco altrettanti problemi di fronte a cui si trova, fra il sec. XII e il XIII, il papato. Ed ecco Innocenzo III, prodotto, nella Chiesa, dalla stessa coscienza di pericoli incalzanti. Poiché più la regalità si ricostituisce in Europa, più le borghesie italiane ingrossano, promosse quella e queste dalla stessa azione politica del papato nella sua lotta con l'impero; più regalità e borghesie devono farsi indipendenti dalla Chiesa, anzi penetrare nella stessa amplissima sfera che la Chiesa considera sua propria e distinguere gli elementi varî che la costituiscono e appropriarsi quelli profani; e più la Chiesa reagisce, perfeziona il suo diritto, cerca mettersi più, in alto dello stato per controllarlo, considera tutto il temporale un grande annesso dello spirituale. Donde l'apparente contraddizione di una dottrina teocratica, che giunge a maturità quando già rosseggia all'orizzonte lo stato moderno e il moderno laicato. Bisogna considerare l'Italia come uno dei centri più vivi di questo processo dialettico che porta in alto l'uno e l'altro potere e principio di vita, pur opposti l'uno all'altro.
Eletto nel 1198, come esponente di un partito d'azione e di resistenza più energiche, che si era formato in curia dopo il pontificato del debole e vecchio Celestino III, Innocenzo III fu tutto preso nel vortice delle mille cure impostegli da una situazione così grave, da un concetto così alto della sua autorità, come il papato, e lui in particolar modo, avevano: esso arbitro dei governi, distributore della giustizia, depositario di ogni podestà terrena, da esercitare a volte direttamente a volte per mezzo di altri, oltre che difensore e propagatore della fede. Egli è "inghiottito tutto quanto nell'abisso delle occupazioni che gli porta il governo del mondo", scrive di sé stesso. E si sa che cosa egli fece per combattere i focolari d'eresia, per difendere da podestà e principi le prerogative ecclesiastiche, per rendere effettiva la sua autorità nelle terre della Chiesa. Un problema religioso e chiesastico è in cima ai suoi pensieri: la difesa della fede e delle libertà ecclesiastiche. Ma "in nessun luogo così bene si provvede alla libertà ecclesiastica, come dove la Chiesa romana ha tanto nel temporale quanto nello spirituale piena podestà", scrive fin dai primi giorni del suo pontificato all'arcivescovo di Ravenna. Insomma, dominio del mondo, a servizio dello spirito: dominio innanzi tutto di Roma. Il papa rivendicò a sé la nomina del senatore di Roma, pure riconoscendo alla città una certa autonomia. Nelle terre del patrimonio e della donazione, molto si adoperò per ricuperarle e per averle in effettivo dominio. Cominciava a delinearsi uno stato della chiesa: certo affrettato dalla nuova situazione del Mezzogiorno e dalla minacciata unione dei due regni della penisola. Doveva servire a premunire i possessi della S. Sede dalla parte del sud la stessa istituzione che Innocenzo fece di un principato ecclesiastico ai confini meridionali, per suo fratello Riccardo dei Conti. Ma anche il regno di Sicilia dipendeva dal pontefice. Anche Toscana, Sardegna e Corsica, affermò ripetutamente Innocenzo III, appartenevano ad ius et proprietatem beati Petri. Quasi tutta l'Italia, insomma!
Intanto manovrava per impedire troppo cumulo di corone e unione di regni attorno a sé. In Germania, dopo morto Enrico VI, era discordia per la successione: grande fortuna, questa, per l'attività politico-territoriale del pontefice. Si contendevano il regno Ottone di Brunswick, figlio di quell'Enrico il Leone che aveva concorso al fallimento della politica italiana del Barbarossa, e Filippo di Svevia, fratello di Enrico e già suo luogotenente in Toscana. Il papa favorì Ottone, scomunicando il suo avversario. E Ottone assicurò al papa il riconoscimento dello stato della Chiesa, compresa l'eredità matildina, il rispetto dei suoi diritti sulla Sicilia, la conservazione delle leghe di città, diventate per il papa, come si vede, quasi elemento costituzionale della vita italiana. Ma poiché Ottone, rimasto definitivamente padrone del campo dopo la morte di Filippo nel 1208 e ricevuta alle porte di Roma (in Roma non potè mettere piede) la corona imperiale, mostrò di pigliare alla leggiera gl'impegni contratti col pontefice e intraprese la sua campagna nel Mezzogiorno, Innocenzo lo scomunicò e gli suscitò contro, in Germania, il giovane Federico. E il giovane Federico si recò a Roma ove il papa lo proclamò re dei Romani, giurò fedeltà alla S. Sede, diede garanzia contro ogni possibile unione della corona di Sicilia e della corona tedesca, si recò in Germania coi mezzi fornitigli dal papa e vi fu eletto re, confermò a Innocenzo tutte le concessioni e i riconoscimenti fattigli da Ottone. La sconfitta di quest'ultimo a Bouvines sgombrò del tutto la strada al giovane principe e secondò i piani d'Innocenzo e del successore Onorio III.
Incoronato re in Germania, Federico scese nel 1220 in Italia. E parve facesse tutto a ispirazione della curia, per i fini che essa si proponeva. Erogò diecine di diplomi a vescovi italiani andati a sollecitarlo oltre Alpi; procedé addestrato e consigliato da una coorte numerosa di principi della Chiesa. Entrato in Roma, ecco proclama il suo dovere di difendere la Chiesa dagli arbitrî dei comuni e di perseguitare gli eretici ed emana costituzioni per la libertà ecclesiastica e l'integrità della fede, largisce altri diplomi ai vescovi italiani, in cui si fa scempio degli statuti cittadini e delle concessioni imperiali ai comuni. Intanto, già vescovi e prelati percorrevano l'Italia come vicarî imperiali, fulminavano bandi imperiali, giudicavano contese tra vescovi e comuni, trattavano negozî dell'impero, imponevano pace alle città in guerra, provvedevano alle libertà ecclesiastiche. Qualche scrittore ebbe la visione di una quasi identificazione delle due potestà, conforme all'antico ideale. Certo si ebbe, ispirato dalla Chiesa, attuato o tentato dall'imperatore, un vasto sforzo di reazione chiesastica che poteva anche compromettere lo sviluppo dello stato di città e della società cittadina, impotenti di fronte all'alleanza delle due supreme potestà.
Ma il corso delle cose era segnato dai bisogni e dalla natura delle nuove forze italiane, dalla tendenza e volontà di ricostruzione statale, nei regni e nelle città. Anche Federico II riapparve presto come re di Sicilia e di Puglia, di quelle terre ch'egli giovanissimo aveva dovuto riguadagnare contro la violenza e le insidie di musulmani e di avventurieri tedeschi. E qui, dopo il 1220, volse subito il suo sforzo, giovandosi certo del prestigio che a lui veniva dalla corona imperiale e di qualche risorsa che, allora e poi, gli cominciò a venire dalle altre terre del regno d'Italia, ma riattaccandosi essenzialmente alle tradizioni di Ruggiero II e Guglielmo I, agli elementi romani, bizantini, musulmani, che il Mezzogiorno gli forniva a dovizia. Le forze eslegi che laggiù tendevano a crescere e straripare egli contenne fortemente. Erano gli Arabi di Sicilia; erano i chierici che allargavano il campo delle loro "libertà"; erano specialmente le grandi casate che si venivano organando unitariamente, sostituendo alle norme del diritto feudale longobardo quelle del feudo franco, cioè instaurando l'indivisibilità della successione e il maggiorasco, per meglio resistere alla monarchia. Il re domò i musulmani di Sicilia e ne fece colonie militari in terraferma; contenne le libertà ecclesiastiche; richiamò la feudalità all'osservanza dei provvedimenti normanni e altri ne emanò. Nella pratica di governo e nelle costituzioni del regno, pubblicate a Melfi, dopo pacificatosi a San Germano col pontefice Gregorio IX, volle apparire davanti ai suoi sudditi unica fonte del diritto, legislatore esclusivo e supremo giudice, rivestito di un potere assoluto simile a quello che sui Quiriti aveva esercitato l'imperatore romano, dopo che all'imperatore i Quiriti lo avevano trasferito. Come nei comuni del nord e del centro i podestà erano ex iure romano, così Federico si fece forte del diritto romano.
Nel tempo stesso che svolgeva nel sud un'attività di tal genere, Federico s'interessava alle cose del regno d'Italia. Poteva egli straniarsi dalle cose d'Italia? Egli non aveva rinunciato del tutto alla Germania e i paesi dell'alta e media Italia erano come i necessarî piloni di questo ponte fra Sicilia e Germania. Nel regno d'Italia, poi, le lotte tra le città e le fazioni locali venivano sfociando in più vasti partiti a cui davano occasione, nome, alimento, da principio le due casate e i due partiti che in Germania, sull'inizio del secolo, si erano contesa la corona; poi, il papa e l'imperatore, dopo che questi tornarono a nuova discordia. Era non solo bisogno di aiuti e sanzioni dall'alto, ma quasi istintivo processo d'idealizzazione delle contese locali, tutte interessi ben definiti e quasi tangibili, di libero adattamento della vita municipale nel quadro delle due grandi istituzioni universali. Si esprimeva in tale forma anche l'unità politica della penisola: non unità istituzionale; bensì, in mezzo e sopra le minuscole fazioni paesane dal vario nome, in mezzo e sopra alla folla dei capiparte o capipopolo che cominciavano a spuntare da ogni parte, due grandi partiti, due bandiere, due capi, due miti, che son cose più particolarmente municipali, ma, in certa misura, di tutta l'Italia. Le nuove lotte tra papi e re di Sicilia, che sono anche re d'Italia e imperatori, dobbiamo vederle un poco anche a questa luce, fermentanti da questa sostanza viva del suolo italiano, alimentate da quelle forze irrequiete del popolo italiano: vederle quanto meno in funzione della nobiltà che resiste alla borghesia e della borghesia che si afferma sulla nobiltà, dello Stato che da per tutto è in contrasto con la Chiesa, dei comuni che si dissolvono e ritrovano poi in un regime signorile una più robusta e ampia unità.
Perciò, prima d'intraprendere la crociata a cui si era obbligato, Federico si volge al nord, dove partigiani e sostenitori non gli mancavano: i ghibellini. Riprese insomma la politica del Barbarossa suo avo e di Enrico suo padre. E come il Barbarossa e Enrico, di nuovo si trovò di fronte la Santa Sede: prima papa Onorio III, poi, peggio, Gregorio IX (1227-41), il vecchio Ugolino cardinale vescovo d'Ostia, energico assertore e restauratore di diritti ecclesiastici, accorto disciplinatore del movimento francescano, di così incerta natura, nei quadri della Chiesa e del papato. Di nuovo si trovò di fronte e armata la risorta lega lombarda. Riuscito vano il bando lanciato contro le città, scomunicato da Gregorio, Federico partì per la Terrasanta, riacquistò per trattative i luoghi santi, vi s'incoronò re di Gerusalemme (1228-29), tornò nel regno dove intanto il papa aveva mosso lui la crociata contro il re crociato e gli aveva messo in subbuglio il paese, lo riconquistò, cacciò i papalini, fece pace col papa (San Germano 1230), si liberò dalla scomunica, dietro qualche concessione in fatto di diritti dei chierici nel regno, compì la sua opera di ordinamento e di legislazione e le diede il suggello giuridico nelle assisi di Melfi, 1231. Poi ritornò alle cose del nord, cercando mantenersi in buoni rapporti con la curia. Prese le difese del papa che era in lite coi Romani. Perseguitò gli eretici nel suo regno e cercò che anche nel nord le costituzioni antiereticali fossero osservate. Accettò anche che il papa si facesse arbitro e pronunciasse sentenza arbitrale nella controversia fra lui e i comuni della lega. Ma quando in Germania gli si ribellò, nel 1235, il figlio Enrico, e le città si misero dalla parte del ribelle, allora Federico, domata la ribellione, mosse contro la lega e dichiarò nulli i patti di Costanza; respinse la mediazione di Gregorio, che naturalmente inclinava verso le città, e sconfisse i collegati a Cortenuova, 1237; respinse la conciliazione condizionata che i Lombardi gli offrivano; procurò al figlio Enzo, mediante il matrimonio con Adelasia di Torre, vedova di Ubaldo Visconti giudice di Gallura, il titolo di re di Sardegna.
Ma vennero anche i primi insuccessi militari nella valle del Po, in seguito a una ripresa offensiva della lega; esplose, per la questione dei chierici siciliani e poi della Sardegna su cui la S. Sede affermava il suo diritto eminente, l'ira di Gregorio; una nuova scomunica cadde su Federico nel 1239. E fu rottura piena, guerra senza quartiere da una parte e dall'altra. I due contendenti furono egualmente portati non solo a trarre a sé partigiani, ad allargare materialmente il campo del conflitto, anche fra re e signori e borghesi d'oltre Alpe, a far propaganda delle proprie ragioni per mezzo di frati mendicanti o di scritti polemici o proclami; ma anche ad assidersi sopra una più sicura e alta base teorica. Così Federico, dalla sua parte, elaborò e ordinò sempre meglio il suo diritto regio e i comuni i loro statuti, quasi lex ormai anch'essi; e i giuristi portarono il loro contributo di diritto romano alla costruzione regia e imperiale e cittadina. Il re e imperatore cercò di elevarsi anche religiosamente e presentarsi investito del diritto di riformare la Chiesa, accendendo così non poche speranze di eretici o simpatizzanti. Dall'altra parte, si rinsaldò la disciplina romana dei nuovi ordini monastici; la "parte guelfa" fu sempre più tratta verso Roma, sino a diventare la pars ecclesiae; fu inasprita la persecuzione degli eretici e perfezionati gli organi della medesima; le Decretales, volute dal battagliero Gregorio IX, presero il posto del Decretum, privata compilazione di un monaco bolognese, rispecchiando la più alta e centrale posizione che papato e curia avevano acquistata nella Chiesa. Con Innocenzo IV (1243-1254), poi, furono messi da parte i titoli esterni, umani, contingenti, ai quali già si erano richiamati i pontefici per affermare la loro potestà politica su questa o quella provincia o regno, e siffatta potestà fu affermata come propria della Chiesa, in virtù della sua divina origine. La sfera spirituale più che mai si dilatò, assorbendo e comprendendo ogni relazione di vita, assoggettata tutta al controllo del potere religioso, depositario del divino, e divenuta tutta un enorme annexus dello spirituale. Sempre più il papa si sentì autorizzato a intervenire, ratione peccati, in ogni umano accadimento.
Federico II e l'Italia ghibellina. - Vicenda intessuta per gran parte sopra una trama italiana, questa che va, genericamente, sotto il nome di papa e imperatore, di Stato e Chiesa nel sec. XIII. Ma vi fu anche un potente sforzo di organizzazione unitaria di tutta la penisola, compiuio da Federico II come re e imperatore.
Scarse erano le relazioni di Federico con la Germania: e ben se ne giovarono principi secolari e alti prelati d'oltre Alpe, che accrebbero la somma delle loro prerogative e cominciarono a organizzare il paese come un insieme di piccoli e mezzani stati indipendenti. Per cui Federico, sentendo che la casa sveva perdeva terreno in Germania, si orientò sempre più verso i paesi di qua dalle Alpi. Si giovò, sì, di qualche risorsa militare della Germania e, in certi momenti, cercò di allargare fuori della penisola la sua lotta contro il papato. Ma si appoggiò essenzialmente sopra i suoi Pugliesi e Siciliani, sopra Pisa e Siena e Modena e Pavia e Como ghibelline, sui feudatarî e vicarî suoi di Toscana, Lombardia, Marca veronese. Una fitta rete di rapporti varî si tessé, per proposito suo o per forza di cose, fra il suo regno di Sicilia e il resto d'Italia: organizzazione burocratica, innanzi tutto, mediante vicarî imperiali scelti fra gente di Puglia, sudditi del regno; podestà pugliesi mandati a reggere città lombarde e piemontesi; Manfredi, figlio di Federico, Uberto Pelavicino, gran signore Obertengo, e la famiglia da Romano, messi e rafforzati con favori e uffici in Piemonte, in Lombardia e in Lunigiana, nella regione veneta fino a Trento e oltre, anche perché tenessero per l'imperatore le vie verso la Germania. Incoraggiò poi Federico l'immigrazione di stranieri nel regno, esentandoli dalle imposte per un certo numero d'anni: ragione per cui crebbe la frequenza di Pisani, Genovesi, Fiorentini, Veneziani, prima nei porti poi nell'interno del paese. Accolse in Sicilia un bel nucleo di Lombardi guidati da Ottone di Camerana e ne formò la colonia di Corleone, nel 1237, divenuta presto una delle più popolose e prospere terre del regno. Coltivò numerose relazioni personali nelle altre contrade d'Italia ed ebbe partigiani e sostenitori in ogni angolo della penisola. Si muovevano, questi, più che altro, per impulsi locali e interessi proprî, ma inserivano la loro azione politica in quella di Federico, come questo la propria nella loro. Taluni di essi avevano un volto che ricorda quello del re: Uberto Pelavicino ed Ezzelino da Romano. Vi erano podestà cittadini che subivano l'azione morale, oltre che, in certi casi, le precise direttive, del principe. Nei manuali podestarili del tempo, gli elementi teorici ricordano quelli che il re proclamava nelle sue accese proteste contro la curia. E viceversa, Federico non rimaneva insensibile a quel che accadeva nelle città, alla loro legislazione, alle loro scuole di diritto e di rettorica. La sua concezione del principe attingeva anche dalla tradizione bolognese, oltre che da quella di Bisanzio, che erano poi, un po', la stessa cosa. E del lavoro dei glossatori egli si giovò per rendere sempre più pieni i suoi diritti sopra i sudditi e il territorio. Svolgendo una sua politica personale e assolutistica, di larghi e varî intenti, egli, mentre allontanava dalla sua corte feudatarî e prelati, si circondava di giuristi che avevano tutti studiato a Bologna: Roffredo di Benevento, Taddeo da Sessa, Andrea di Bari, i due di Tocco, Pier delle Vigne da Capua, i maggiori di quella classe di uomini di legge che sono il nocciolo della borghesia nel regno, come anche, sebbene in minore misura, nell'Italia delle città. A essi, Federico aveva affidato la redazione delle costituzioni di Melfi; e, per suggerimento di Roffredo, istituita nel 1224 l'università di Napoli, che doveva essere quasi propaggine bolognese nel sud, secondo le intenzioni del fondatore. Si deve a quegli uomini il fatto che la legislazione di Federico risentì l'influsso tanto del diritto romano e canonico, egualmente elaborato dalla scuola bolognese, quanto dell'elemento statutario italiano. È merito loro se anche l'azione letteraria del nord e la cultura letteraria e artistica dell'antichità classica si fece sentire nel sud. Tali uomini sono quasi tutti delle provincie continentali e settentrionali del regno, Puglia, Campania, Molise e Abruzzo, provincie che sono più legate a Roma e al resto d'Italia. Fatto sintomatico, da mettere in rapporto con la tendenza del regno a spostare verso il continente e il nord il suo centro: tendenza che è un po' nelle cose ed è nella volontà del re, i cui occhi tanto si volgono verso la ricca, colta, raffinata Italia delle città. Decade la normanna e araba Palermo, sebbene seguiti a essere la capitale ufficiale; cresce invece Messina, città già greca e latina e ora latina sempre più, sollecitata da ambizioni di primato siciliano; cresce Napoli, ormai la maggiore città del Mezzogiorno in terraferma, non ostante le resistenze opposte alla conquista tedesca e le menomazioni subite alla sua autonomia comunale.
Insomma la dinastia, mezzo straniera di origine, si abbarbicava sempre più al paese (nessuna traccia germanica vedeva più Dante in Federico e in Manfredi!); e dinastia e paese sempre più si avvicinavano e quasi si saldavano all'Italia, non ostante le molte differenze sociali e la diversità di certi aspetti della cultura che perdurava e, sotto certi riguardi, cresceva, fra nord e sud. La conquista sveva del sud, venutasi a inserire nel movimento già iniziato dalle genti italiane, sempre più autonome di fronte al di fuori e sempre più tendenti ad assimilarsi, accelera questo movimento. E come rompe quei legami che si erano conservati o instaurati fra il regno e Francia e Inghilterra, e riduce al nulla le influenze greche e arabe sul Mezzogiorno; così toglie il regno all'antico isolamento di fronte al resto d'Italia. È quasi il ravvicinarsi di due storie poco legate fra loro e destinate ancora a staccarsi. Ma nulla va perduto nella storia, che è tutta un fare, nel suo perpetuo disfare. Federico avvertiva l'ostacolo, sempre più resistente, dello stato della Chiesa, e vi si gettava contro, quasi presago che esso avrebbe isolato il regno e che dall'isolamento sarebbe venuta la decadenza della monarchia e la sua maggiore soggezione alla curia. Roma tagliava le ali a quelle ambizioni regie e tendenze unitarie, pur mentre contribuiva a italianizzare il paese e la dinastia, prima aiutando la cacciata dei Greci e Saraceni e promovendovi la diffusione del cattolicismo romano, poi combattendo laggiù i Tedescrii di Enrico VI, influendo sulla cultura della corte durante la minorità di Federico di cui Innocenzo III era tutore, ostacolando l'effettiva unione delle due corone di Germania e Italia, di Germania e Sicilia, impegnando definitiva lotta con la monarchia universale. Funzione, in certo senso, nazionale, questa del papato, in rapporto a tutti gli organismi statali che volevano alla fine del Medioevo svincolarsi dall'impero, e specie in rapporto all'Italia.
A tutta questa azione politica, a questa lunga lotta, il regno di Sicilia fornì la base e molti mezzi. Se ne avvantaggiò il regno stesso? È lecito credere che la forza del regno piuttosto si logorasse che non si accrescesse e temprasse. Era forza di re, fatta di elementi vari, più che forza di popolo. Attorno a lui sta ancora troppa nobiltà, sempre come su terra di conquista. Il re può riuscire a contenerla: ma guai se rallenta il freno. Quelle energie economico-sociali che altrove corrodono dalle fondamenta la nobiltà feudale, qui sono deboli. La monarchia, nata da due conquiste, venuta su in piena rispondenza al bisogno di pace e ricostituzione statale di quelle popolazioni, ebbe certo empito di vita, certo impulso iniziale che la portò a operare largamente fuori dei suoi confini. Ma rada e debole è l'intelaiatura delle città e della borghesia e sono lenti i suoì progressi. Certo la popolazione cresce anche laggiù: e si vedono città nuove che sorgono: Corleone, Augusta; l'Aquila, che vivrà, insieme con la vicina Teramo, una vita prosperosa ma agitata, quasi da comune toscano o lombardo. Ma l'iniziativa regia ha parte non piccola in queste nuove istituzioni urbane. Se ancora nei secoli X e XI il sud poteva avere qualche elemento di superiorità sul centro e sul nord di Italia, quanto a commerci e vita cittadina, ora è rimasto indietro. La concorrenza di Venezia ha avuto effetti cattivi sui traffici levantini di Bari e di altre città marittime pugliesi. Pisa ha aiutato Ruggiero II a umiliare Amalfi: e Amalfi è decaduta. Il retroterra delle città marittime meridionali, compresa Messina, centro di buon traffico e di armamento navale, è in generale più povero e meno popolato che non quello di Genova, Pisa e Venezia. Il sud poco si risente dei progressi economici che compiono Francia e Germania e Paesi Bassi e Inghilterra: certo assai meno delle città toscane, lombarde, piemontesi, alcune delle quali sono vere mediatrici fra quei paesi e i paesi mediterranei. Il sud ha un buon traffico di derrate e materie prime assai ricercate: ma ad esercitarlo vengono sul posto Liguri e Veneziani e Toscani e anche Catalani e Provenzali, i quali vi si raggruppano in colonie ben distinte dalla popolazione locale. La nuova economia, perciò, anche per quel tanto che cresce, non determina corrispondenti formazioni sociali, capaci d'improntar di sé la vita dello stato. Si guardi anche la Sicilia. Tutto sommato, una Sicilia fondiaria, per tre quarti non molto diversa da quella dei Romani e Bizantini. I Normanni, coi loro feudi, poco hanno mutato l'ambiente. Sono solo padroni nuovi. Non si avverte sensibilmente quella dissoluzione di molta parte della grande proprietà signorile e chiesastica, che si avverte, per esempio, in Toscana; non quel mutamento di ricchezza feudale in ricchezza borghese e contadinesca. Nessuna nuova aristocrazia, nata dal commercio e dall'industria, si sostituisce alla vecchia; sono scarse, insomma, quelle formazioni sociali nuove che, altrove, diventano sostegno delle monarchie, oppure si affermano per conto proprio. Federico non trattò male le città, specialmente nei suoi anni migliori. Qualche autonomia la concesse. Ammise loro rappresentanti in parlamento. Ma la poca forza della borghesia tolse che questo parlamento, sorto laggiù, come in Inghilterra, coi Normanni, divenisse un elemento vivo e benefico del paese. Il dispotismo regio crebbe. E crebbe l'avversione delle città. E l'aristocrazia riguadagnò terreno. E la curia romana poté sfruttare con successo il malcontento delle popolazioni gravate di tributi e lo spirito autonomistico delle città. Poté tagliare i nervi alla politica del re, impedendo ch'egli si allargasse a nord.
Sviluppo della società comunale e albori di signoria. - Maggiore vigore sociale, più ricca economia, nel centro e nel nord d'Italia. Progressi rapidi del popolo, cioè borghesia, fatta di strati diversi ma pure affini e organizzati nello stato di città. Il molto battagliare delle fazioni, delle città fra loro, del papa e imperatore, anziché logorare sembra che alimenti e accenda le forze di questa società che, quasi abbandonata a sé stessa, compie la sua evoluzione verso la piena libertà delle persone e dei beni, verso un ordine politico suo proprio. Vi è un progresso agricolo, che si accompagna anche a rinnovato interesse per i fatti agrarî e a studio di più redditizia agricoltura. E questo progresso non è pensabile senza un progresso sociale delle campagne. Difatti, sta scomparendo la servitù della gleba: per uno spontaneo processo di affrancamento individuale, ma anche per virtù d'iniziative politiche e di leggi del comune che intendeva con ciò trasformare i dipendenti altrui in dipendenti proprî, soggetti ai servizî e ai tributi della città. Stanno sorgendo da per tutto diecine e centinaia di borghi o castelli franchi, opera qualche volta di signori, assai più spesso di comuni, che lì raccolgono la popolazione soggetta a feudatarî o a città nemiche, per farsene baluardo militare e per aumentare la popolazione del proprio territorio. Essi sono specialmente numerosi nella Valle del Po: nel vercellese e novarese, allo sbocco della Dora, nel piacentino e bolognese. È insieme fenomeno di aumento e di concentramento di popolazione. Sono sorte e sorgono anche città nuove, generalmente per sviluppo di villaggi di una certa zona. E la penisola, specialmente dalla Toscana e dalle Marche in su, viene diventando, ancora più che non fosse, il paese per eccellenza delle città e accentuando il carattere della sua civiltà, come civiltà essenzialmente cittadina. Fra i secoli XII e XIII, nasce Sarzana, che rapidamente assume importanza e titoli giuridici di città. Nascono Cuneo, Mondovì, Fossano, Cherasco, Savigliano ecc., per il vario concorso di antiche città nel cui territorio esse sorgono, come, ad es., Alba; di feudatarî i quali consentono che loro vassalli si trasferiscano e si raccolgano altrove; di preesistenti università rurali o gentilizie. I loro antichi signori conservano per un certo tempo diritti su quegli uomini trapiantatisi altrove e nell'amministrazione della nuova terra: ma presto debbono patteggiare, transigere, farsi cittadini, sottomettere al nuovo comune quanto hanno nei castelli del suo territorio, vendergli i loro diritti giurisdizionali o, se rifiutano, subire le ribellioni dei proprî uomini, alimentate dalla nuova città. In una zona riccamente mineraria, contesa da Pisani e Senesi e, più tardi, Fiorentini, si sviluppa Massa di Maremma; mentre in Sardegna, fra una popolazione in gran parte di minatori, reclutati sul posto o venuti da Pisa e Toscana, sorgevano Villa di Chiesa, Iglesias: due città che nel '200 hanno i loro statuti e dànno largo contributo all'elaborazione del diritto minerario. Opera invece di elementi liguri sono piuttosto Alghero, Bosa, Castel Genovese, che egualmente compaiono. È il tempo che la Sardegna muta aspetto. Sorgono o crescono Terranova, Oristano, Cagliari. Alla fine del '200, Sassari, arricchitasi di elementi genovesi e, più, pisani. Le concessioni territoriali dei regoli locali a Pisa e a Genova, con diritto d'istituire mercati, esigere tributi e servizî personali, esercitare giustizia ecc., hanno dato vita ad altrettanti centri di colonizzazione, specialmente lungo la costa, dove anche si rdccoglievano i prodotti dell'interno per l'esportazione. Cagliari è, al principio del '200, uno scalo di Pisani, un comune controllato e limitato da Pisa; e il suo capo rappresenta, insieme, i Pisani di Cagliari e il comune pisano. Intanto, anche le Marche si sono popolate di castelli e piccole città, che si giovano della rovina di tante famiglie feudali e ne attirano vassalli e contadini e cominciano a rappresentare la loro parte nella vita politica della regione, intolleranti tanto del dominio dei vicarî imperiali quanto della tutela della S. Sede: Fabriano, Matelica, Osimo, Iesi, Recanati ecc.; mentre si eleva sempre più l'antichissima Ancona, cresciuta di riputazione dopo la vittoriosa resistenza al Barbarossa, gareggiante un po' con Venezia nei commerci adriatici.
Ancor più visibili sono i progressi delle vecchie e maggiori città, quanto a popolazione e lavoro. Ormai non ve n'è una che non abbia la sua industria della lana. Non si può ancora parlare di "grande industria". Ma alcuni elementi di essa già vi sono: forte massa di lavoro, distacco netto fra chi possiede capitale e chi possiede braccia, coesistenza e mutuo aiuto di molte industrie, stretti rapporti con il cambio e con il commercio del denaro. Cambio e commercio del denaro sono cose di tutte le città: ma alcune sono vere città di banchieri, già nel '200: Asti, Piacenza, Lucca, Siena, Venezia. La quale ultima è, insieme con Pisa e Genova, città di armamento marittimo e di tutte le arti connesse con l'armamento. Sia ricordato, a questo proposito, come industria mineraria e metallurgica abbiano preso molto vigore. Tutto questo, tradotto in valori sociali e politici, vuol dire "popolo" che sale, cioè borghesia nei suoi varî strati e artigianato. Ed è visibile la sua tendenza a individuarsi nel comune, a darsi un proprio ordinamento nel comune e un proprio statuto e capo, con evidente carattere militare, ad assorbire poi il comune, a identificarsi con esso. Insomma avviamento a uno schietto regime di borghesia. Visibile, tutto questo, già nel terzo e quarto decennio del '200. A Milano, anche prima.
Ma questa età di formazioni sociali molteplici e di accesi partiti che creano anche capiparte; di borghesia e di numeroso artigianato che vogliono farsi strada, e hanno bisogno di chi li guidi in campo e generano anche capipopolo; di rinnovato intervento imperiale e regio nelle cose italiane, con uno sforzo, quale mai si era visto, d'instaurare o restaurare un ordine politico da contrapporre alla curia e alle città; questa età vede anche emergere o riemergere, ma sotto veste un po' mutata, il gran signore ricco di terre, castelli, militarmente forte, abile a inquadrare uomini e comandare. Non veramente da per tutto. In Toscana, ad esempio, la feudalità è ormai spiantata o vive solo ai margini della regione, a contatto con i piccoli centri: comunque, è un mondo ben distinto e staccato da quello delle città, se ne togli i conti maremmani di Donoratico e della Gherardesca. Ma sì nella Valle Padana, tra Alpi occidentali e Alpi orientali. È questo il paese delle grandi marche, da quella d'Ivrea a quella del Friuli; il paese degli Arduinici, degli Aleramici, degli Obertenghi, immigrati qui dalla Toscana ecc.; il paese anche dei Savoia che dal sec. XI hanno cominciato a tesservi la loro storia di montanari che scendono al piano e, un poco, s'inurbano. Questa aristocrazia è ancora bene in sella; ha guadagnato in indipendenza dall'impero, senza soggiacere alle città; sta trasformando i rapporti coi vassalli, instaurando la primogenitura per conservare l'unità patrimoniale, subordinando i varî membri a un capo, come fanno i Monferrato e i Savoia. Attratti dalle città, cercano agire su di esse, acquistarvi credito e forza e diritti. I Savoia, fattisi innanzi nel Piemonte con Oddone marito di Adelaide marchesa di Torino e Ivrea; e poi, per il sorgere dei comuni, ridotti quasi solo ai possessi transalpini; i Savoia lavorano con Umberto II e Amedeo III e successori fino a Tommaso II e Pietro II, a ricostituire i dominî cisalpini, inalberando ora bandiera imperiale ora papalina, giuocando di diplomazia e di forza, puntando prima sul Piemonte settentrionale, poi su quello meridionale. Qui sono i maggiori comuni della regione: massimo, quello di Asti, che prevale sulle città antiche, Alba, Torino, Chieri, e sopra le nuove, Alessandria, Cuneo, Fossano, Dronero, Cherasco, Mondovì, e che tiene testa ai Savoia, per timore che non le taglino le strade verso la Francia, dove sono i suoi maggiori commerci. Ramo savoiardo e ramo piemontese del casato procedono insieme, pur dividendosi il compito e subordinandosi l'uno all'altro. Via via che il primo acquista terre in Piemonte, le dà in feudo all'altro. Nel 1244, Pinerolo, lentamente circuito in seguito agli acquisti sabaudi, cade da sé: ed è lo sbocco di Val Chiusone in pianura, ai fianchi di Asti.
All'altro estremo della Valle Padana gli Estensi, che intrecciano ancor più le loro vicende con vicende cittadine. Essi hanno buone radici a Ferrara, che già al principio del '200 obbedisce loro come a signori; da Innocenzo III sono investiti, in persona d'Ildebrandino, della marca di Ancona. Col concorso di Venezia, riescono (1240) ad abbattere la signoria di Salinguerra, che, appoggiandosi sui ceti mercantili e artigiani, aveva loro conteso il primato; e da Ferrara cominciano ad allargarsi intorno. Esponente pure di ceti medî, anzi dell'artigianato e della Credenza di S. Ambrogio, da cui muove il primo impulso a quel mutamento istituzionale che sarà la signoria, è a Milano Pagano della Torre, che, eletto capo nel 1240 dopo aver guidato a vittoria il popolo milanese contro Pavia, aiuta la lotta contro capitani e valvassori.
Di più schietta e alta derivazione feudale, ramo del grande albero degli Obertenghi, come gli Estensi, come i Malaspina di Lunigiana, è Uberto Pelavicino, figlio di Guglielmo che era stato amico di Ottone IV, nemico di Innocenzo III, scomunicato fra il 1198-1205, negli anni stessi che Uberto veniva al mondo. Uberto cresce in potenza ora, proprio nel bel mezzo della Valle Padana, dove la famiglia possiede, fra Piacenza e Parma, il "podere Pelavicino", ingentissima massa di beni allodiali e feudali (che noi impariamo a conoscere dal diploma imperiale di Federico II, 9 maggio 1249, a Uberto), più tardi "stato Pallavicino", che dalla pianura s'infila su per la val di Taro e domina il passo della Cisa. E nella Marca trevigiana, i Da Romano, modesti signori al principio del sec. XI, coi castelli di Romano e Bassano, e riusciti ad acquistare influenza, possedere case e vassalli e amici, a Vicenza, a Treviso, a Verona, a Cittadella, presto emergendo nella regione sopra i Da Camino, i Camposampiero, i conti di Verona, gli Estensi, tutto un discorde groviglio di parentadi e di ambizioni. Paesi fra i più agitati d'Italia, questi dei Pelavicino e Da Romano, i quali si fanno centro e capi di partiti locali, raccolti in vasti agglomerati, di fronte ad altri e opposti agglomerati; ottengono dai partigiani che sono potenti in quelle città, e in più di una contemporaneamente, ufficio di "podestà" o "rettore" o "capitano"; altri uffici, riconoscimenti, sanzioni, ottengono dall'imperatore. Molteplice e varia base giuridica all'esercizio effettivo del loro dominio. Grande carriera fa il Pelavicino ai servizî di Federico. Semplice podestà di Cremona nel 1234; "podestà imperiale" di Pavia nel 1239. Poi, quando il re assume il governo della Lunigiana che è la sua strada verso la Valle del Po e serve a dividere le forze a lui ostili di Lucca e Genova, il Pelavicino diventa "capitano in Lunigiana", poi, "vicario imperiale in Lunigiana, Versilia e Garfagnana", organizzando di lì la guerra a Genova, cooperando con la flotta pisana e siciliana alla vittoria della Meloria. Declinando l'autorità di Federico, egli si raccoglie oltre Appennino. Ha sposato una nipote di Ezzelino e opera all'unisono con lui. Cerca una base propria, indipendentemente ormai dall'imperatore. Federico era ancor vivo, ma la Lombardia ghibellina e popolare faceva capo al Pelavicino, come a capoparte e tutore di determinati interessi proprî e altrui più che a vicario dell'imperatore, lontano.
Autonomia ancora maggiore è nell'azione di Ezzelino da Romano, che prima ha Verona come podestà, alternandovisi con Salinguerra; nel 1226 occupa Vicenza e vi mette podestà suo fratello, dominando così e Val d'Adige e Valsugana, strade fra Italia e Germania, e dividendo Venezia dalla rinnovata lega lombarda. Premuti da Venezia e dalla lega, i due Da Romano si avvicinano all'imperatore, e l'imperatore va nel'37 a Verona per consolidare la loro posizione. Ed ecco, lo stesso anno, il gran colpo: Padova, città ricca e potente che serra Venezia da vicino, investita improvvisamente, si arrende all'imperatore, lì rappresentato dal conte Gebeardo di Arnsten. Ma chi comanda è Ezzelino. Dopo Padova, è la volta di Treviso. L'accerchiamento di Venezia è compiuto. Nel 1238 Ezzelino sposa Selvaggia, figlia naturale di Federico. I Padovani e tutta la Marca cominciano "ipsum quasi per excellentiam dominum nominare", tacendo in segno di reverenza il suo nome proprio: insomma, il signore. E si fa sempre più indipendente da Federico. Riceve lui in dedizione gente che si è ribellata all'imperatore; mette alla porta podestà mandati dall'imperatore e nomina lui "podestà e vicarî dall'Oglio a Trento" suoi parenti che lo chiamano "signore". Anche lui e i suoi podestà poggiano a parte popolare, e da per tutto eleva a dignità militare uomini di popolo: quasi una nuova nobiltà. Viceversa vuole "omnes maiores et potentiores de Marchia Tarvisina delere pro posse" (Annali padovani). Colpì senza risparmio quanti cittadini avevano vassalli e clienti giurati; demolì castelli e torri e case turrite. E questo avvicinò a lui, contro patriziato e ricca borghesia, che erano il nerbo delle fazioni, il minor popolo, nella speranza anche che, messi al guinzaglio o sterminati quei faziosi, si potesse ottenere pace. Gli Ezzelino e Pelavicino e gli altri eguali a loro sono insomma un momento della storia della città e del popolo, contro nobiltà, contro privilegi ecclesiastici e invadenza clericale nel governo civile. A quest'opera essi portano quell'unità di comando e quella forza militare che alle città e al popolo mancavano. Sono fortemente organizzati per la guerra, aguzzano l'ingegno a ritrovare nuove macchine di guerra, tengono a soldo mercenarî italiani e tedeschi che la voce delle parti non commuove e "né paura. di scomuniche né paura di spade", come dice il cronista, stacca da lui. Ecco perché questa milizia mercenaria compare proprio adesso in Italia.
Il tramonto svevo. - La morte di Federico II, 1250, quando già il suo edificio si teneva su a fatica, tra defezioni di partigiani, ribellioni di sudditi, sconfitte militari, contrarietà e dolori d'ogni genere, fu per questo edificio altra e maggiore scossa. Si assottigliò e, qua e là, si spezzò di colpo la vasta trama dei vicarî e funzionarî che il re aveva un po' dappertutto. Cioè si spezzò non solo il vivo nesso che, nella persona di Federico, si era stretto fra le due corone di Sicilia e d' Italia, ma anche quella grossolana unità, di fatto oltre che meramente giuridica, che l'imperatore e re d'Italia era riuscito a ricostituire nell'ambito dell'antico regno d'Italia e anche in parte delle terre della Chiesa. Si spezzò anche quell'altra più libera e spontanea unità data dall'adesione delle mille forze locali e fazioni locali a un partito unico, il ghibellino. I guelfi, organizzatisi a grande stento in ogni città, negli anni della prevalenza sveva e ghibellina, e sempre più diventati parte di Chiesa, sempre più anche messisi a favorire i movimenti di popolo, che ora erompono da per tutto, presero in molti luoghi il sopravvento, o, se esuli, poterono rientrare in patria e riguadagnare posizioni perdute. La vita municipale, aduggiata nel ventennio precedente, qua e là riprese vigore sotto la protezione di parte di Chiesa e sotto bandiera di popolo, che era intanto quasi da per tutto asceso al governo della città, col suo capitano, il suo statuto, i suoi consigli, contrapposti al podestà, allo statuto e ai consigli del comune. Alcuni di questi comuni, anzi, presero ora un potente slancio. Così, in Toscana, Firenze, dove vivissima era stata, contro il governo dei vicarî di Federico, la reazione della borghesia mercantile e bancaria, umiliata politicamente e danneggiata dagl'interdetti papali. Anche nel regno di Sicilia, si ebbe un lieve pullulare di vita di comune, dopo tolta la pressione regia. Palermo, Messina, altre città insorsero. Innocenzo IV soffiò sul fuoco di queste rivolte cittadine, contro Manfredi che aveva assunto la reggenza e contro il viceré di Sicilia, conte Pietro Ruffo di Catanzaro. E poiché il viceré fuggì in Calabria, il legato papale, frate Francesco Ruffino, nominato dal papa vicario in Sicilia, vi fece valere la sua autorità. La curia intendeva assumere direttamente il governo del regno e annetterlo allo Stato della Chiesa, vagheggiando per quello un assetto di città autonome, come già era nel patrimonio, Marche, Umbria, Romagna. Certo apparvero laggiù magistrati e ordinamenti che richiamano quelli di Lombardia e Toscana. Si formò una specie di lega siciliana di città; e il parlamento, in cui esse e baroni e clero erano rappresentati, accennò a riprendere vita. Ordinamemo stabile, capace di sviluppo, se non interveniva Manfredi? È lecito dubitarne. Questa Sicilia papale e cittadina era destinata, se altra e più alta forza fosse mancata, a cadere, pezzo per pezzo, nelle mani dei baroni. Ma ritornò il re, Manfredi, vittorioso e incoronato l'11 agosto 1258 a Palermo.
Del resto, neppure nelle regioni di più fiorente vita cittadina, la tendenza era per la conservazione delle forme dello stato di città. La tendenza era piuttosto per i poteri dittatoriali, avviamento alla signoria, rimedio alla debolezza d' istituti poggianti sopra la mobile base dei partiti, delle corporazioni, dei raggruppamenti familiari: come si vide in tutte quelle città, dove, caduto il capoparte e quasi signore ghibellino, sottentrò un capoparte e quasi signore guelfo, oppure il vescovo fu esso investito, sotto nome di podestà o rettore, di amplissimi poteri, cioè riformare leggi, procurare pace, annullare le fazioni ecc. La tendenza era per più vasti conglomerati territoriali, meglio rispondenti alla più vasta organizzazione dei partiti, a certi interessi della borghesia mercantile, alla forza regionale di alcuni grandi casati che capeggiano questo duplice moto di trasformazione istituzionale e territoriale, al prevalere di alcune città sulle altre attorno. Così si vide Firenze, restaurata nella sua libertà dopo il 1250, intraprendere, per fini essenzialmente commerciali, una serie di vittoriose spedizioni contro Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo, che le resero più agevoli le vie dell'Appennino e le vie verso il mare e fecero di essa, come dice il poeta Guittone, la "regina della Toscana". Certo, si affermò già allora il primato economico, politico e anche giuridico di Firenze su gran parte delle città circostanti. Altrove questo ingrandimento territoriale si compì in vario modo sotto l'egida di un signore e assunse forme monarchiche: coi patriarchi di Aquileia, coi Savoia, coi Pelavicino, coi Da Romano.
Nell'estremo angolo nord-est della penisola, oltre il Tagliamento, si rinforzò, dopo la vittoria su Federico, il patriarcato d'Aquileia, vasto e vario principato ecclesiastico, in mezzo a genti latine slave e tedesche, a cavaliere fra la pianura veneta e i colli istriani. Da alcuni decennî, la S. Sede era riuscita, annullando l'antico privilegio elettorale del capitolo aquileiense, reclutato fra la nobiltà quasi tutta germanica e imperiale, a nominare essa il patriarca. E il patriarca così nominato si appoggiò sempre più alla S. Sede. La storia del patriarcato ci segnala da allora uno sforzo sempre più intenso di cementazione politica di questo vasto ma incoerente principato chiesastico. Importante questa storia, nel sec. XIII, anche per un altro rapporto: affermato il diritto della S. Sede nella nomina del patriarca, prima esercitato dall'aristocrazia locale; accresciuta la forza del signore sopra quell'aristocrazia e castelli e piccole città; tutta la regione fu attratta verso l'Italia e le genti italiane, anziché verso la Germania e le genti tedesche. Insomma, il confine ideale della nazione fu portato più in là e cominciò a consolidarsi sulla linea delle Alpi. Le terre del patriarcato cessano via via di essere una delle porte d'accesso dell'impero in Italia.
Nell'altro angolo della penisola, a nord-ovest, Tommaso II di Savoia, cresciuto assai nell'era federiciana, crebbe ancora nell'era antifedericiana che seguì. Egli si avvicinò a Innocenzo IV, che lo assolse dalla censura, sposò una Fieschi nipote del papa, ottenne un diploma da Guglielmo d'Olanda, effimero imperatore e re, a conferma di quello avuto da Federico, e l'intervento diplomatico del re e del papa presso signori e vescovi e comuni, perché gli obbedissero, a difesa dei nuovi possessi, contro Chieri, Alba, Asti. Utili alleati questi Savoia, ora che la curia s'è orientata verso occidente e cerca in Fiandra, in Inghilterra, in Francia aiuti per combattere gli Svevi e nuovi re da opporre a loro. Utili anche per i re o grandi d'oltre Alpi che cominciano ad avere ambizioni in Italia. Si delinea quella storia sabauda che cresce d'importanza via via che crescono i nessi fra la penisola e le monarchie dell'Europa nord-occidentale. L'astro di Asti in Piemonte sta per tramontare: e con essa tutta la vita comunale piemontese, di cui Asti era massimo campione.
Anche Ezzelino e Pelavicino non solo si mantennero in sella, dopo il 1250, ma proseguirono per qualche tempo a crescere. Il Pelavicino, raccoltosi tutto nella valle del Po, aveva a Cremona la sua maggiore base, col titolo di podestà. Al suo fianco, ma in sottordine, un altro capo ghibellino e di popolo, Boso da Dovara, di grande famiglia locale, come potestas mercatantiae: segno che a Cremona al centro del partito del nopolo è il ceto dei mercanti, come non da per tutto, pur da per tutto essendovi corporazioni e mestieri. Compito del Pelavicino è assicurare il partito del popolo da ogni possibile ritorno del partito avverso, che è fuoruscito. E da Cremona, egli raccoglie partigiani di Pavia, Bergamo, Lodi, Parma ecc., s'intende con tutti i capi locali del partito di popolo. Poiché ormai quasi ogni città ne ha, quasi signori: a Milano, i Torriani; a Lodi, i Vastarini; a Parma, Giberto di Gente ecc. Anche a Genova, è levato sugli scudi, come "capitano del popolo", Guglielmo Boccanegra, quasi signore per molti anni. Nel 1254, il Pelavicino è eletto podestà di Piacenza. È in questa sua qualità fa distruggere 14 e più castelli della montagna: donde l'esaltazione che il popolo fa di lui. La possibilità di vivere e commerciare era, per il popolo, la vera e sostanziale libertà. Nel 1254 è podestà di Pavia e Vercelli. Signore, insomma, di una signoria fatta di diritti vicariali e di podesterie liberamente conferitegli, di territorî e di partigiani disseminati anche là dove egli non ha effettivo comando. E signoria a vita: sebbene comincino a comprendersi esplicitamente anche gli eredi, fra quelli cui tale autorità è conferita. Signore di Piacenza e Cremona, Pelavicino domina la navigazione fluviale del medio Po, il passaggio del fiume, il crocicchio delle strade che dalla Lombardia (quindi anche dalla Germania) e dal Piemonte (quindi anche dalla Francia) vanno verso Romagna e Toscana e Roma. Unità poco coerente, quel vasto e vario territorio che aveva in Cremona e Piacenza, a cavaliere del medio Po, il suo centro, dirò, politico e a Busseto il centro patrimoniale, quella che poi, crollato il dominio, rimarrà capitale dello stato Pallavicino. E si regge questa unità, innanzi tutto, per virtù di un uomo. Ma si intravvede - e ne è prova, tra l'altro, la politica monetaria del Pelavicino anche una sottile trama d'interessi comuni e di comuni sentimenti che poi s'infittirà e darà consistenza alla rinnovata unità politica.
Grosso modo, si può dire che la signoria comincia a nascere servendo, contro le fazioni, che sono anche opera prevalente della nobiltà e dei ceti più alti, contro la "politica", gl'interessi del "lavoro" o le tendenze di quei ceti mezzani e minori che attendevano essenzialmente ai loro traffici e mestieri, poco partecipando al ribollire di odî attorno e sopra a sé. Erano anche questi nuovi dirigenti o signori legati a una parte, figli di una parte. Ma rappresentavano anche la tendenza a sciogliersi dalle parti, a rendersi indipendenti dalle parti. Questa tendenza che viene dal basso, confluendo con l'interesse dei signori e di ogni reggitore di stato, contro l'imperversare delle parti, spiega la politica di quei signori, già visibilissima fin d'ora, nei rapporti delle parti stesse. Lo stato di città comincia a risolversi nei suoi elementi: da una parte il governo, la milizia, i rapporti col di fuori, dall'altra l'ordinaria amministrazione cittadina.
Il Pelavicino è strettamente collegato coi Da Romano e loro città e da essi riceve nel'54 assicurazione di aiuto per sé e sue città e suoi partigiani, contro chiunque, anche contro chi venga in nome di re o imperatori. Nel 1258, l'uno e l'altro capo corrono anche in soccorso dei ghibellini bresciani, soccombenti, occupano la città e ne assumono insieme il governo. Ma qui, diventati troppo stretti i contatti, creati punti d'attrito, cessa la solidarietà. Ezzelino, che è arrivato a Brescia, guarda anche oltre: "Dice di voler fare in Lombardia, più grandi cose che non si siano fatte da Carlo Magno in poi" (Muratori, SS. XII, c. 6). È un abbozzo di regno padano, come poi si colorirà davanti agli occhi dei signori dominanti qui, al centro della grande valle? Certo Ezzelino guardava a Milano, fulcro della regione, grande attrattiva per tutti. E anche per il Pelavicino. E quando contro Ezzelino si formò nel giugno 1259 una coalizione in cui entrarono Azzo d'Este, il conte di S. Bonifacio, Verona, Padova, Mantova, Ferrara, ecc., tutti di parte guelfa, nella coalizione entrò anche il Pelavicino. Ezzelino puntò su Milano: ma a Cassano sull'Adda fu vinto dal Pelavicino. Il quale allora entrò in Brescia, se ne fece dare la podesteria, vi mise per suo vicario un nipote. Dopo questi primi contatti coi guelfi, il Pelavicino si accordò coi Torriani, guelfi pur essi. Martino podestà del popolo, per premunirsi contro un possibile ritorno dei ghibellini e dei Visconti loro capi, fece dare al Pelavicino l'ufficio di capitano generale di Milano per 5 anni. Nel 1260 acquistò Alessandria. Nel 1263, i Parmensi che avevano cacciato, non senza il suo zampino, il loro capo ghibellino Giberto da Gente, resosi odioso per la sua fiscalità, si obbligarono a far servizio militare col Pelavicino. Parma era fortemente agognata da lui. E ora egli è al culmine dell'ascesa. In vario modo, ma specialmente per il tramite delle podesterie, gli obbediscono gran parte delle città, da Alessandria a Brescia, a Modena, al mar di Liguria. Poiché sull'Appennino ha Pontremoli, che domina il passo; e dai Malaspina si è fatto dare castelli nella Lunigiana marittima. E Val di Taro e Val di Magra, sono anche zone di reclutamento di fanterie apprezzatissime allora.
Sono gli anni che Manfredi sembra essersi messo bene in sella. E non solo nel regno ma anche, sebbene con titoli e su basi diverse che suo padre Federico, sul resto d'Italia. Ereditava da suo padre qualche cosa, come qualità personali, come tendenza politica interna, come ambizione di potenza in Italia. Anch'egli, colto e amante di cultura e desideroso di propagarla nel suo paese. Poi, egualmente, lotta al privilegio chiesastico, pur con più abile condotta verso vescovi e arcivescovi, che gli procurò un notevole prestigio su essi, nei primi anni. Concorse a rimettere Manfredi sempre più nel solco di suo padre l'eguale ostilità della S. Sede e della parte guelfa. Gelosissima della Toscana era la curia romana: e per la vicinanza e i mille nessi di partito esistenti fra Toscana e Romagna, e quindi facilità di ripercussioni da quella a questa; e per i diritti patrimoniali e feudali che la Santa Sede accampava per la Toscana. Ma anche in Toscana vi fu, sotto gli auspici del re, una riscossa ghibellina, coronata dalla vittoria di Montaperti. Si costituì allora una lega ghibellina di città, per tenere salda la Toscana nel partito di Manfredi; lega di città che stette e operò a fianco e sotto la protezione del governo provinciale toscano di Manfredi e non più nell'immediaia dipendenza del re, come era prima con Federico. Grande importanza Manfredi annetteva a questa regione e specie a Siena, posta a sud. Di lì egli contava di stringere le terre della donazione e Roma e togliere ai papi Orvieto, loro residenza attuale.
Ma intanto, a Milano, dove i Tortiani e Martino della Torre podestà del popolo facevano una politica poco ligia a Roma, il papa ha elevato arcivescovo Ottone Visconti, della parte avversa ai Torriani. E allora Filippo della Torre, successo nel 1262 al padre, cerca di avvicinarsi a Roma. Anche il Pelavicino perde terreno, di fronte a tanto lavoro di avversarî. Nel'65, Filippo della Torre licenziò il Pelavicino dal suo ufficio di capitano generale di Milano, e cominciò a operare, in Milano e attorno, fuori di ogni tutela del Pelavicino. Sulla scia di Milano si misero le altre città lombarde. Era la riscossa dei guelfi, di quel partito ch'era fatto d'interessi autonomistici ancora vivi nelle città, e, nelle maggiori come Milano, di aspirazioni a primazia; fatto di ambizioni di altre famiglie d'altro partito, finora soccombente, ma che pure ambivano a signoria. Il Pelavicino fronteggiò con vigore la situazione. Cercò la salvezza in una perfetta solidarietà con Manfredi. Tentativi di Urbano IV per guadagnarlo fallirono. Ma l'agosto 1265, suo nipote Enrico di Scipione, che guardava Tortona e Alessandria contro il marchese di Monferrato, fu sconfitto. Brescia, poco dopo, gli si ribellò. Sopraggiunsero dal di fuori altre forze ostili.
Cominciavano nuovamente a partire dall'Italia i richiami a questo o quel principe da contrapporre a quelli che già fossero in Italia. Solo che non più, ormai, a principi italiani, come ancora poteva avvenire al tempo di Arduino. Né ci sono più signori simili ai grandi marchesi del secoli X o XI; e il diritto di disporre della corona d'Italia, sfuggito ai grandi, non assunto da città, nonostante qualche velleità romana o milanese o anche pisana, in nome della "parte ghibellina", è caduto nelle mani dei papi. I quali, fierissimamente avversi agli Svevi, diffidenti anche di ognî principe tedesco, dopo le esperienze fatte, si rivolgono altrove. Così, contro Federico, si era ricorso dalla curia a Guglielmo d'Olanda, elevato a re dei Romani nel 1247. Curia e Savoia avevano poi bussato alla porta di un principe inglese, Edmondo, per combattere Manfredi col sussidio di milizie papali e con denari forniti dai banchieri italiani. Contemporaneamente, erano partiti dall'Italia richiami e sollecitazioni a un altro principe dell'Europa mediterranea, ad Alfonso di Castiglia, uno stato che era in sul crescere e a cui, ora, saggio governo di principe, amore di cultura, ospitalità verso trovatori italiani in lingua provenzale, frequenti relazioni commerciali con i mercanti italiani, avevano procurato certa rinomanza fra noi. Subito dopo morto Federico, vacante l'impero, disperati di altro soccorso i suoi partigiani in Italia; Alfonso di Castiglia si era voltato con maggiore interesse alla penisola e quelli della penisola a lui. I Pisani lo sollecitarono a venire con la speranza di una corona; Ezzelino a lui regnum italicum promittebat; a Genova si armavano navi per suo conto; Enrico suo fratello diventava senatore di Roma. Ma, affermatosi Manfredi, la curia trovò in Carlo d'Angiò l'uomo da contrapporgli, mentre i Castigliani stavano per Manfredi, ed Enrico senatore partecipava alle ultime tragiche vicende degli Svevi in Italia.
Carlo d'Angiò, conte di Provenza, aveva già delle porte aperte sulla penisola: le valli piemontesi. In questi ultimi anni egli si è avanzato dalle Alpi Marittime e dall'Appennino ligure verso la Valle Padana, insinuandosi fra Saluzzo, Savoia, Monferrato, fra le Langhe e Asti. Nel 1251 gli si erano date altre città: Cuneo, poi Alba, Mondovì, Cherasco, Savigliano. Qualche abbazia gli cedé le sue temporalità. La neutralità benevola dei Savoia, che vedevano questa attività angioina volgersi specie contro la nemica Asti, fu di aiuto; più ancora, l'alleanza che nel'65 Carlo fece, in vista della spedizione di Sicilia, col marchese di Monferrato, in urto col Pelavicino e piazzato alla soglia della Lombardia, dove pure l'Angiò lavorava a crearsi una base di partigiani. Data questa preparazione diplomatica, si spiega come Carlo giunga al Garigliano quasi senza ostacoli e a Benevento vinca, con l'aiuto dei baroni che tradirono Manfredi e della curia che fornì benedizioni e denari; e vinca ancora a Tagliacozzo, sempre mercé il forte appoggio di Urbano IV, papa francese. Il quale, forse non credendo più, come per un momento Innocenzo IV, alla possibilità di governare direttamente il regno, voleva un nuovo Carlo che, senza corona imperiale né regno d'Italia, aiutasse la S. Sede a sostenere il partito della Chiesa in Italia, mantenerle obbediente la penisola, assicurarle il pacifico possesso di Roma, dove i papi non riuscivano a dimorare tranquilli, pur mentre pareva disponessero dei troni della terra.
Così, sistemate le cose del regno, Urbano IV volle sistemare la Toscana; e in mezzo, dormire tranquillo. Paese di banchieri, d'importatori di lana ed esportatori di tessuti, qui si doveva far leva su questi interessi. E già nel 1263, essendo Firenze parte e centro della lega ghibellina, Urbano aveva minacciato i consoli e l'Arte della lana di Firenze che, se non promovevano il passaggio del comune alla parte di Chiesa, egli avrebbe ordinato ai Veneziani e agli altri fedeli di Chiesa che erano in tutta Italia, pena la scomunica, di non fare commerci con loro. Col 1266, quel passaggio a parte di Chiesa era avvenuto; ma poiché i nuovi reggitori di popolo non intendevano mettersi a servizio della S. Sede e della sua parte, quella si volse a formare lì un partito guelfo o di Chiesa imperniato sull'alta banca, tenendo bassi gli elementi democratici. E l'ottobre '67, nel campo di Carlo d'Angiò attorno a Poggibonsi, si ebbe un parlamento di rappresentanti delle città soggette al re e una lega o "taglia" guelfa, cioè accordo per il comune mantenimento di un esercito che doveva, cominciando da Pisa, compiere l'assoggettamento della Toscana. E da allora fino a Bonifacio VIII, la Toscana fu sempre più aperta o piegata all'influenza, quasi dominio politico, di Roma, nel tempo stesso che questa lavorava per rendere effettiva la sua autorità temporale sullo stato della Chiesa fino a Bologna. Le condizioni di molte provincie favorivano questo crescente affermarsi angioino e papale. L'11 agosto 1270, in Sassari, i vescovi suffraganei della Chiesa di Torres, i rappresentanti del comune di Sassari e dell'università dei fedeli di parte di Chiesa del regno di Logudoro, eleggono Filippo figlio di Carlo "re e signore di tutta l'isola per la Chiesa romana", a cui l'isola stessa di fatto e diritto appartiene. Qualche anno dopo, Gregorio XI, abboccatosi a Losanna col nuovo re di Germania Rodolfo, ottiene da lui il riconoscimento della Sardegna e anche della Corsica. La ghibellina Pisa è, così, ferita profondamente. Anche in Lombardia cade il Pelavicino. Nello stesso tempo, ai piedi delle Alpi occidentali, altre città si davano a Carlo: fra cui Alessandria, città di diritto pontificio dal tempo della sua fondazione. E poi i marchesi di Ceva e Del Carretto, Tommaso I di Saluzzo e di Busca, i conti di Biandrate diventano suoi vassalli, mettono le loro forze a disposizione sua contro i fautori dello Svevo e del comune di Asti. I valichi alpini, per la Stura, il colle di Cadibona, il Col di Tenda, sono assicurati. Nel 1270 Torino caccia il podestà e si dà a Carlo. Poco dopo, anche Ivrea. Asti è ormai circondata. Alle autonomie cittadine, che sono sul tramonto, vengono colpi da tutte le parti: anche da uomini del papa, che pure di esse si era fatto un programma contro gli Svevi. Ma molte di quelle città si dànno a lui, per sfuggire a un più vicino signore, un Monferrato o un Savoia, che ora incalzano anch'essi.
Guelfismo e parte di Chiesa. - Così una nuova unità di partito si venne a formare da un capo all'altro della penisola, ma col suggello del pontefice e del nuovo re di Sicilia suo vassallo: per quanto i giuristi del regno cercassero di tener ferme certe tradizioni e, di fronte ad affermazioni contrarie, affermassero, a similitudine degli altri regni d'Europa e specialmente della Francia, che il re di Sicilia era monarcha, princeps regni huius, e che a lui competevano gli stessi diritti che agl'imperatori romani, salvi i capitoli concordati con la Chiesa nell'atto della concessione del regno. Il nuovo re di Sicilia non era, come Federico, anche re d'Italia e imperatore. Ma tuttavia seguitava quella tendenza a costituire di tutta la penisola un dominio solo, o almeno a controllarla tutta; quella tendenza a fare del regno di Sicilia punto d'appoggio di una costruzione politica comprendente tutta o gran parte d'Italia, che era stata così viva e operosa con Federico II e anche con Manfredi. Seguitava anche il graduale spostarsi del centro del regno di Sicilia verso il nord, perché meglio quei propositi di dominio o controllo italiano potessero attuarsi. Con Carlo d'Angiò Palermo non è più capitale neanche di nome. Contro Palermo il re favorisce Messina, che nel 1266 gli aveva aperto le porte e agevolato la conquista dell'isola e poi, mantenutasi ferma al tempo di Corradino, aveva dell'isola agevolato la conservazione. E capitale effettiva e nominale divenne Napoli. Da Napoli a Roma, breve il passo; e Roma è a mezza strada fra Palermo e Asti; da Roma si poteva tenere in mano il nodo delle fila della politica italiana. Quest'epoca di vittoriosa affermazione di parte di Chiesa e di Angiò in Italia fu anche epoca d'influenze intellettuali provenzali e francesi, preparate certo da condizioni e circostanze estranee alla politica ma dalla politica promosse.
E tuttavia questa nuova costruzione guelfa, angioina, papale, è appena abbozzata e già vengono dall'esterno i primi colpi. Intanto, il regno di Sicilia, da una condizione di piena indipendenza creata da Normanni e corroborata da Federico II, anche in virtù della sua qualità di re d'Italia e di imperatore; questo regno è passato a una condizione di dipendenza, teorica e pratica. Comincia una nuova fase nella storia del Mezzogiorno, non senza ripercussioni anche su quella delle altre regioni italiane. Arresto e arretramento dalle posizioni già assunte di fronte alla Chiesa, alla nobiltà, ai municipî. Le libertà ecclesiastiche si fan valere più che non avessero mai fatto nel sud. La nobiltà riprende vigore. Le città accennano subito a sciogliersi dai troppo stretti legami col regno, sia pure col consenso del re. Insomma, sintomi di rilassamento della compagine instaurata da Normanni e Svevi, dovuto non tanto a propositi di maggior equilibrio fra monarchia e forze locali e di più feconda collaborazione, quanto piuttosto a debolezza iniziale. Era un po' riflesso della nuova condizione giuridica del re e del regno. Tale rilassamento, subito visibile e avvertito anche dal paese, non andò unito a un miglior governo, a una più sollecita cura dei sudditi, a un alleggerimento del già grave peso fiscale: piuttosto il contrario. I Francesi poi, fecero subito il vuoto attorno a sé, per la loro arroganza e prepotenza. Si avvertì subito la presenza di una nuova baronia, venuta di Francia per fare fortuna, come già, in altri tempi, nel Peloponneso e in Siria. Cominciò subito nelle terre del regno a fermentare la rivolta: la spedizione di Corradino vi diede esca, in Sicilia, in Puglia, in Terra d'Otranto. Piccoli feudatarî e borghesi presero le armi. Ma la massa contadinesca e il clero, tornato in possesso di molti dei suoi privilegi, non secondarono: si fecero anzi strumento di reazione contro gli altri. Vi furono persecuzioni, bandi, spogliazioni, eccidî popolari e regi di borghesi, grandi confische di allodî: ciò che, in un paese pieno di possesso feudale, ecclesiastico e demaniale, voleva dire mortificare la produzione e la ricchezza, risospingere indietro il possesso libero, togliere aria respirabile a quel gramo medio ceto. Invece, si arricchiva ancora più il fisco, si creavano nuovi signori, grandi o piccoli, specie di origine francese, che spadroneggiarono poi sulle minori città, vi si fecero un partito, rinfocolarono le gare locali, che ora riprendevano vigore anche in seguito alle cresciute attribuzioni delle università nei rapporti fiscali e giudiziarî e alla elettività di molti organi locali di amministrazione. Laddove la plebe rurale, schiacciata dal fisco, riprendeva a disertar borghi e casali, a vagare nomade di luogo in luogo, a rendere mal sicure le vie, a insidiare città e castelli. Si delinea la moderna storia del Mezzogiorno d'Italia.
E anche fuori del regno, l'opposizione montava. Nel 1271 fu eletto papa Gregorio X, che nel '72 rientrò solennemente in Roma, dopo che per due anni la città era quasi in balìa del re. Con l'elezione di Rodolfo, sollecitata dalla S. Sede che voleva controbilanciare l'influenza dell'Angioino in Roma, cessò anche la vacanza imperiale e quindi cadde il vicariato imperiale di Carlo. E dall'imperatore il papa si fece riconoscere e confermare Romagna, Sardegna, e Corsica. In Piemonte i Monferrato, delusi nelle loro aspirazioni sopra Ivrea allo sbocco di Val d'Aosta, i Savoia offesi per Torino, Asti circuita, serrarono le file. E da essi mosse la reazione che nel 1272 fece crollare per qualche tempo il dominio angioino in Piemonte. A Firenze, grave malcontento è fra borgnesia e artigianato, che il regime di parte guelfa, regime di nobiltà, aveva risospinto indietro, dopo il balzo in avanti del primo popolo, 1250-60. E la S. Sede si adopera qui e altrove per far cessare il contrasto dei partiti, che era anche un pretesto a interventi angioini. Certo, non mancavano segni di crisi nei partiti tradizionali. Si attenuano, negli spiriti meno inveleniti dall'odio di parte, certe posizioni antitetiche, si delineano posizioni intemmedie che non saranno più né guelfe né ghibelline.
In tali condizioni e con tali umori, s'incoraggiavano fuori d'Italia nuove ambizioni. Rifiorivano le speranze di Alfonso di Castiglia, a cui giungevano calde invocazioni di liberare il fratello Enrico, infante di quel regno, caduto prigioniero di Carlo. Ambasciatori castigliani già nel'70 trattavano col marchese di Monferrato. E messi del marchese e dei fuorusciti ghibellini di Milano andavano in Spagna. Nel 1272, la figlia di Alfonso, Isabella, sposava il marchese e questi era fatto dal re suo vicario in Lombardia, mentre signori lombardi giuravano al re fedeltà; Buoso da Dovara veniva messo al comando di un corpo di milizie castigliane, giunto su galere di Genova, pur essa alleatasi a quel re; i capi ghibellini acclamavano Alfonso a loro capo. Ma anche ora, la parola decisiva la disse il papa. E il papa riconobbe l'Asburgo: che fu tuttavia, anch'egli, una soluzione non favorevole all'Angioino. E intanto nel 1275, 10 novembre, grave sconfitta di Carlo a Roccavione, per le forze riunite di Asti, Monferrato, Pavia, Vercelli, Novara, Genova, Alessandria. Si avvantaggiavano Saluzzo, Savoia e più ancora, per il momento, Monferrato, con Guglielmo VII, che nel 1278 si fece nominare anche capitano generale di Milano, Vercelli, Pavia, Novara, Tortona, Alba, Torino, Como, Ivrea, per 5 anni, e nel marzo 1279 indisse un parlamento ove intervennero i rappresentanti di tutte queste città e di Genova, Mantova, Verona, Asti. Ormai, le varie forze della regione piemontese son tutte variamente mobilitate nel quadro della politica generale della Valle del Po e dell'Italia. Forte delle sue relazioni e dei suoi parentadi castigliani, il marchese altri vincoli contrasse con Aragonesi.
Poiché dalla Spagna, un altro principe, più audace e fortunato del re castigliano, Pietro d'Aragona, si sta facendo innanzi. Egli è marito di Costanza, figlia di re Manfredi; e, dopo il 1266, ha una vendetta da compiere e un'eredità da raccogliere. E poiché la madre di Costanza è una Beatrice di Savoia, così il re aragonese ha qualcosa da fare anche in Piemonte, cioè alle spalle di Francia e degli Angiò, con i quali è in guerra. E vi cerca alleati. Egli deve anche secondare le tendenze espansive e gl'interessi mercantili dei suoi Barcellonesi e Catalani, che sono animati da grande spirito di avventura e di conquista, molto coltivano la Sicilia e il porto di Messina, quasi loro porto, e vogliono, in patria, sostituirsi agl'Italiani. Egli attende perciò contemporaneamente alle cose della Sicilia e a quelle della Valle del Po, ospita esuli siciliani fra cui Ruggiero di Lauria e Giovanni da Procida, coadiutore abilissimo del re nella sua politica di accerchiamento dell'Angioino, si tiene in relazioni con ghibellini toscani e lombardi, sembra anzi che guardi alle terre lombarde da spartirsi coi Monferrato, prima che alla Sicilia.
Le difficoltà interne di Aragona, l'inimicizia col regno di Castiglia distolsero Pietro III dalle cose piemontesi. E poi, precipitarono gli avvenimenti siciliani. Portavano i loro frutti tanto il fiero odio contro i Francesi accumulato nelle popolazioni, quanto le trame diplomatiche che si erano venute tessendo attorno e contro il regno, difensive e offensive insieme. Poiché Carlo aveva, dai predecessori nel regno di Sicilia, raccolto anche ambizioni espansive verso l'Oriente: cumulate con quelle che, come vassallo del papa e come fratello del re cristianissimo, portava nel petto e che si riassumono in una parola: crociata. Alla quale egli si veniva preparando, avendo di mira la ricostituzione dell'impero latino in Oriente. E s'intese coi signori di Atene e di Negroponte; s'intese coi Veneziani che volevano tornare allo stato di cose instaurato laggiù con la quarta crociata. Ma Genova, informata, informò alla sua volta l'imperatore greco; il genovese Benedetto Zaccaria, gran signore e mercante ligure bizantino, promosse un'alleanza tra impero e Aragona e Glovanni da Procida per gli esuli siciliani. La spedizione di Venezia e di Carlo era fissata per il 1283.
Ma il 21 marzo 1282, ecco i Vespri, un'insurrezione improvvisa, spontanea, popolare. Dopo le trame dei nobili signori siciliani e dei ghibellini italiani con re Pietro d'Aragona, ma senza rapporti con esse, ecco la borghesia e il popolo minuto, in mezzo ai quali ribolliva fierissimo malcontento contro i Francesi per le gravi imposte. Nuclei armati di Palermitani e Corleonesi misero a rumore la regione attorno, trascinarono tutti a rivolta, cittadini e contadini. Dappertutto, si elessero rettori e capitani per organizzare la caccia ai Francesi. Raccoltisi poi in parlamento a Palermo, gl'insorti, dopo invocato il nome della Chiesa romana, statutum communen firmaverunt. Si costituì così la Communitas Siciliae, a cui via via aderì gran parte della Sicilia ribelle, con centro a Palermo. Riluttava Messina, con le terre attorno. La S. Sede, a cui i ribelli si offrirono, rifiutava anch'essa. Nella difficile situazione, vi furono contatti fra i nobili congiurati e la rivoluzione di popolo. In parlamento si dichiarò che, da soli, i ribelli non avrebbero potuto mantenersi. E allora, partirono di lì messi per re Pietro, il 27 aprile. Dopo qualche giorno, Messina aderì alla comunità siciliana: ma ormai l'appello all'Aragona era lanciato. E tuttavia i Messinesi erano sempre per l'autonomia, né volevano impegnarsi per il lontano signore. Nel giugno mosse la controffensiva di Carlo d'Angiò: e si abbatté su Messina che resisté fermamente, sebbene incompiute fossero le mura. Crebbe con ciò, nei Messinesi, la coscienza della loro forza; sempre più furono riluttanti al nuovo giogo. Altre città si accostarono ad essi, in specie della Sicilia orientale. E in breve nacque una nuova comunità o federazione, con a capo Messina; e al comando Alaimo da Lentini, capitano, e una giunta di Siciliani. Alaimo rimise la città nelle mani di un legato papale. Ma la Santa Sede seguitò nella sua ripulsa: e allora, i Messinesi aderirono anch'essi al parlamento di Palermo e alla chiamata di re Pietro.
Crollavano così i piani orientali di Carlo d'Angiò. Il credito politico di Roma e l'influenza francese in Italia ricevevano un duro colpo, inizio di grave decadenza. Si ebbe l'intervento aragonese nell'isola e la guerra del Vespro, per terra e per mare, in Sicilia e nel continente, in specie lungo la regione costiera della Lucania, fino a Salerno e Napoli. Col trattato di Caltabellotta, le terre di là dal Faro rimasero agli Aragonesi e la Spagna gittava il primo pilone del suo ponte verso l'Italia, presto seguito da un altro. Poiché nel 1297, Bonifacio VIII, in odio ai Pisani, investì della Sardegna re Alfonso di Aragona, che non tardò a prendere le armi per conquistare l'isola. Così la breccia, aperta nel 1266 dall'iniziativa dei pontefici, si allargò. La penisola cominciava a trovarsi di fronte e a soggiacere a stati europei militarmente e politicamente più forti.
Vita e cultura di borghesia italiana: secoli XIII e XIV..
Attività economica entro e fuori la penisola. - Effimera unità dunque, dopo quella ghihellina, anche questa papale, angioina, guelfa. Effimera, come unità di dominio o controllo politico su tutta la penisola. Ma importante, l'una e l'altra, come indice e causa di comuni elementi di vita, comuni tendenze e passioni e pensieri, dalle Alpi alla Sicilia; come indice e causa di corrosione e rilassamento d'istituti e spiriti municipali.
Questa fase della vita italiana, segnata dalla prevalenza papale, guelfa, angioina, è fase anche di grande sviluppo di attività mercantili e bancarie, specialmente nell'Italia comunale. Il guelfismo è, spesso, prevalenza di interessi volti al commercio e alla banca, che in esso trovano maggiore difesa e impulso. All'ombra della sua bandiera, e nelle condizioni che esso crea nella penisola, le città che hanno maggiori capacità e possibilità economiche prevalgono ora sulle altre. Venezia, che nel'200 si volge con più attenzione alle cose della sua vicina terraferma e incontra ostacoli nelle incipienti formazioni signorili dei Salinguerra e degli Ezzelino a Ferrara, a Padova, a Treviso, a Verona; Venezia ora trova nella lotta contro il ghibellinismo un'eccellente occasione per affrettare la rovina di quegli incomodi vicini. Posta al margine della vita italiana, Venezia comincia a legarsi ad essa con vincoli politici e commerciali assai notevoli. Si sono anche moltiplicati in questo tempo i nessi della Lombardia coi porti dell'Adriatico, specialmente con Venezia; ancora di più, quelli con Genova. Genova nel '200 diventa sbocco assai ricercato della regione piemontese e anche di Bologna; ma essa è, più veramente, quasi porto di Milano, come la chiama Bonvesin della Riva. Già fra i secoli XII e XIII vi sta una colonia numerosa di mercanti milanesi. Fra l'altro, Milano vi ha acquistato quasi il monopolio del commercio delle armi. Le comunicazioni attraverso l'alessandrino e tortonese con la Liguria e la Francia; quelle con la Toscana per l'Appennino parmense e piacentino; con la Germania per Como, Val di Blenio, Val Leventina, Valtellina, Milano le cura e difende con ogni mezzo, guerre o trattati. Rivendica su Federico II e i Comaschi Val di Blenio e Leventina. Toglie a Como Bellinzona, sbocco di quelle valli nel Verbano. La signoria dei Torriani è difesa del commercio milanese all'interno e fuori, contro nobiltà e signorie padane. Le quali ultime, tuttavia, sono anch'esse sollecite degli interessi mercantili della loro città, come mostra l'esempio del Salinguerra a Ferrara e del Pelavicino nel centro della Valle Padana.
In Toscana c'è ancor più movimento economico che dà alla regione certa discorde unità e di lì irraggia largamente attorno. Tutto il paese, in particolar modo il Valdarno, gravita su Pisa per il porto, il quale unisce e divide quelle città. Ma dalla metà del '200 in poi, Firenze si mette d'un balzo alla testa della regione. Le guerre guelfe contro la ghibellina Pisa spingono i comuni della toscana Taglia Guelfa, capeggiata da Firenze, a utilizzare il porto di Genova, alleata contro i Pisani. Quasi tutti i comuni di Toscana hanno patti e trattati con Genova. Non meno della strada di Genova, Firenze conosce quella di Venezia, tramite col vasto mondo. Case veneziane e fiorentine lavorano lì insieme, per imprese di Puglia e d'Oriente, dove fra non molto le esportazioni veneziane si troveranno di fronte la concorrenza delle industrie fiorentine, in fatto di pannilani e seterie. E probabilmente il punto di partenza di quelle molte famiglie fiorentine che fra poco cominciano a comparire nelle città di Croazia e di Dalmazia, Salviati, Altoviti, Giacomini, ecc., è Venezia. Con Venezia e Padova e le città della Marca Trevigiana, come con Genova e Modena e Reggio e Parma e Cremona e Milano, Firenze ha, fra il 1270 e il 1280, una serie di trattati commerciali. Fino all'angolo nord-est della penisola, il Friuli e il patriarcato sono meta d'immigrazione di famiglie fiorentine, senesi, locchesi, pisane, che tocca nella seconda metà del '200 il suo punto più alto. Essa è determinata anche dalle lotte dei partiti e dai forzati esilî: ma si rivolge ad attività essenzialmente economiche. Ai Toscani si aggiungono o si sostituiscono, attorno al 1270, anche Lombardi, chierici e secolari, amici e consorti al seguito di Raimondo della Torre, già vescovo di Como, ora patriarca di Aquileia. La sua casa diventa un focolare e un punto d'irradiazione di Lombardi verso le città istriane. Un della Torre è anche primo podestà di Trieste, nel 1293.
La politica guelfa seconda e promuove anche i rapporti di Firenze con Bologna e la Romagna, terra della Chiesa, per le valli Ombrone-Reno, Sieve-Lamone. Faenza è sbocco importante sulla Romagna. Tra Firenze e Bologna vi sono addirittura, nel '200, pagine di storia comune, per quanto riguarda le lotte contro parte ghibellina, l'emancipazione dei servi, le leggi contro i magnati: ormai l'antica barriera fra Italia longobarda e Italia bizantina non esiste più. La nuova e propria vita delle città l'ha distrutta. E anche mondo feudale toscano e romagnolo sono una cosa sola: oggetto di preoccupazione per i papi, che vogliono essere padroni in Romagna; e anche, per essi, incitamento a dare unità politica, unità papale, alle terre di Toscana e di Romagna. Ancor più si risentono della vittoria guelfa del 1266 i rapporti economici di Firenze, e anche di Venezia, con l'Italia meridionale. Le porte del regno ora veramente si spalancano. Se Carlo, di laggiù, lavora a dominare politicamente Toscana e Valle del Po, il regno invece e la corte del re cadono nell'influenza del commercio e della finanza del nord, specialmente di Firenze e di Venezia.
Questa attività mercantile, data la posizione della penisola fra mondo europeo e mondo greco e islamico, presto ampliò grandemente la sua sfera. Oltre la geografia, giovò la storia: cioè certa tradizione cosmopolitica, alimentata da Roma e dal papato, divenuta poi quasi natura. Dalla penisola era mossa, nel sec. XI, la controffensiva all'islamismo e la riconquista del Mediterraneo centrale. Nel sec. XII e al principio del '200, Veneziani, Pisani, Genovesi, padroni delle vie marittime, forniti di denaro, allenati ai traffici con l'Oriente, possono non solo volgere a loro posta le spedizioni dei cristiani d'Occidente, ma anche decidere la sorte delle piccole signorie feudali sorte dalla quarta crociata, influire sulla politica dell'impero greco. Un po' si imponevano, un po' erano ricercati. Si moltiplicarono i privilegi commerciali, la concessione di case, piazze, scali, chiese, intere contrade, entro tutte le città d'Oriente. In una prima fase, fin dopo la metà del '200, primato di Veneziani, più vicini e più forti, più esperti dell'ambiente orientale, meno attardati da devastazioni saracene. Quel primato ricevé suggello dopo la quarta crociata, che fu impresa soprattutto di Venezia e si risolse specialmente a suo vantaggio. La restaurazione della dinastia greca, voluta e preparata da Genova, segnò anche la prevalenza della Superba in Oriente. Il trattato di Ninfeo, conchiuso fra Genova e Michele VII Paleologo, imperatore di Nicea, fu tra i più accorti atti di politica coloniale in Oriente. Da allora, si delineò sempre più come una divisione dell'Oriente in due sfere d'influenza: Genova, più forte nella Siria, nella regione costiera della Piccola Armenia (Adana), a Costantinopoli, nel Mar Nero, nel Mar d'Azov, fino a Tana. Sorge, nel Mar Nero, la grande colonia di Caffa, che poi diventa anche vescovato. E più le colonie cristiane di Siria e Palestina diventano malsicure, più acquistano importanza le altre che sono attorno al Mar Nero: importanza non solo commerciale ma anche religiosa. Venezia, invece, si consolidò nell'Egeo. Ebbe le grandi isole, massime Creta e l'Eubea, base della potenza veneziana in Oriente. E sia perché erano terre più vicine e popoli più affini, sia perché Venezia aveva più largo spirito di romana umanità, essa costruì più durevolmente, creò veramente una civiltà veneziana e italiana in Oriente, legò una sua tradizione levantina alla nuova Italia del sec. XIX. Anche Pisa ebbe un'eccellente posizione in Levante: in certi momenti e luoghi, anzi, pari e superiore a quella dei Genovesi, come a Costantinopoli nel sec. XII. Campo d'azione di questa città fu, però, specie l'Africa settentrionale, meta delle sue giovanili spedizioni nel secolo XI: cioè la regione a ovest delle Sirti, da Tunisi a Ceuta. Il dominio della Sardegna favoriva.
Entro questi limiti geografici si svolse, si espanse, quella che si può chiamare l'attività coloniale degl'Italiani dal secolo XI al XIV. Sono anche Italiani dell'interno. Spirito d'avventura, insofferenza del piccolo ambiente cittadino, richiami del fascinoso oriente, pellegrinaggi che possono anche dare occasione a traffici e imprese di guerra e acquisto di preda, sollecitano anche Veronesi e Piacentini, Lucchesi e Bolognesi e Fiorentini. Ma i più sono Italiani delle città marinare, specialmente del nord, e gente dedita al commercio: per quanto commercio marittimo e guerra e corsa e acquisti coloniali non fossero poi cose tanto diverse e disgiunte, da non formare spesso una vicenda sola. A volte, da questa attività fra privata e pubblica, fra militare e piratesca, nascevano acquisto di terra e signorie, simili a quelle che nascevano in terraferma per opera di feudatarî, uomini di parte, vicarî imperiali e funzionarî di città. Corsari e mercanti insieme furono parecchi di quei privati cittadini che in Oriente conquistarono con proprî mezzi un'isola o una città di terraferma, ne ottennero il riconoscimento dalla madrepatria, vi fondarono una dinastia: i Sanudo a Nasso, i Dandolo ad Andro presso l'Eubea, i Quirini a Stampalia, i Contarini ad Ascalona, tutti Veneziani; i genovesi Gattilusio a Eno, sulla costa di Tracia, a Samotracia, a Imbro, a Lesbo, a Taso, a Lemno, Ghisolfi a Matrega fra Mar Nero e Mar d'Azov, De Marini a Bachtar sul Mar d'Azov, i Senarega a Castel d'Elci sulle foci del Dniester, Cattaneo della Volta a Metelino, Da Castello a Focea e Scio.
Ma accanto a costoro, i numerosissimi nuclei stabili di popolazione, che di solito son parte di una maggiore città, ma qualche volta costituiscono una città a sé, distinta dall'altra, come ad Altoluogo, presso l'antica Efeso, allo sbocco della strada Baghdād-Costantinopoli sull'Egeo, dove, nel'300, è in alto la città turca e lungo la marina la città italiana. Sono le vere colonie della nuova borghesia mercantile, vere propaggini della madrepatria, con istituzioni modellate su quelle di Pisa o Genova o Venezia, con la chiesa consacrata alla stessa divinità protettrice. I coloni vi godono libertà di commercio, esenzione di tributi, redditi fiscali proprî. Spesso, come nella Siria, dove questo complesso di privilegi fu più grande che altrove perché più importanti quelle colonie; spesso, anche una discreta zona di terre attorno, coltivate da indigeni per il possessore italiano. Di solito, sono attaccati alla costa o al vicinissimo retroterra, questi nuclei d'Italiani: e lì, attendono le merci recate dall'interno. Ma spesso, di lì s'irraggiano verso l'interno. Nel '200, a Iconio, nel centro dell'Anatolia, il commercio di alcune derrate è monopolio di Veneziani e Genovesi, i quali si mantennero in strettissimi contatti con gl'imperatori greci, nel sessantennio che essi ebbero laggiù la residenza. E Veneziani, Genovesi, Pisani, Piacentini tentano le vie della Piccola Armenia, dai porti della Cilicia, specialmente da Laiazzo; fanno il commercio carovaniero per l'Asia anteriore e la Persia. Qualche italiano si spinge fino al cuore della Moscovia: e nel 1300, se ne trovano a Novgorod, con i più numerosi mercanti tedeschi. Ma la più grande peregrinazione, nell'interno d'uno sconfinato continente, è della seconda metà del '200, proprio del tempo che segna, sotto molti rapporti, il maggior empito . dell'attività mercantile degl'Italiani. Dopo Giovanni da Pian dei Carpini, umbro, uno dei compagni di S. Francesco; dopo Giovanni da Montecorvino, che rappresentarono la penetrazione diplomatico-religiosa del papato e del cattolicismo romano fra i Tatari d'Asia, ecco i Polo veneziani: Marco Polo, specialmente, totius orbis et Indiae peregrinator primus.
Quadro diverso, a Occidente, nella stessa epoca o poco più tardi. Qui gl'Italiani sono solo mercanti, cambiatori, banchieri. Assai per tempo, se ne vedono in Portogallo e in Spagna, a Barcellona e in Aragona: Genovesi e Toscani, specialmente di Pisa e Firenze. Poi si volsero alla Francia. E la Francia divenne terra di buoni affari per gl'Italiani, Piemontesi, Lombardi e Toscani: prima la Champagne e la Francia meridionale, dove nel secondo '200 mercanti di città guelfe, specie Lucchesi, trovarono buona protezione; poi, nella Francia occidentale, a Parigi. E cominciò ad annodarsi quel legame dei Fiorentini con terra di Francia che poi farà di Firenze uno dei punti d'appoggio della politica e della penetrazione francese in Italia. Lì, campo propizio ai prestiti e alle usure e buona scuola di pratica commerciale. Sul finire del '200, anche l'Inghilterra si apre agl'Italiani, per il commercio del denaro, della lana, delle merci orientali. Intanto, altri Italiani coltivano le Fiandre, altri la Germania. Dalla Germania e dalle Fiandre essi giungono in Ungheria e Polonia, dove s'incontrano con altri Italiani che vengono dal Mar Nero.
Naturalmente la maggiore importanza loro, per numero e funzioni, è nell'Europa occidentale, in certa misura, nell'Europa centrale. Agenzie e agenti, relazioni d'affari e giro di capitali hanno a Lione, a Marsiglia, a Norimberga, ad Augusta, a Troyes, a Bruges, a Parigi, a Barcellona, a Londra, altrove. Si forma una vera aristocrazia, che è denaro e intelligenza insieme, ed esercita azione europea per un paio di secoli e più, avanti che molte porte le si chiudano o essa stessa si logori di fronte a mutate condizioni delle nuove economie nazionali. Essa conta gli Scarampi, i Soleri, i Malabaita di Asti, i Crivelli, i Taverna, i Pozzobonelli, ecc., di Milano; i Ricciardi, i Cenami, gli Arnolfini, i Rapondi, i Bonvisi, i Burlamacchi di Lucca; i Salimbene, i Gallerani, i Tolomei, i Bonsignori, ecc., di Siena; i Bardi, gli Ardinghelli, i Peruzzi, gli Acciaiuoli, gli Albizzi, i Cavalcanti, i Sassetti, i Frescobaldi, poi i Medici, di Firenze. Vengono dalle file del patriziato consolare e, taluni sono nobiltà rurale inurbata, poiché terra ed aree urbane, cresciute assai e rapidamente di valore dopo il sec. XI, hanno non poco concorso alla formazione del capitale; oppure vengono dal piccolo traffico, dal cambio della moneta, dal lanificio. Comunque, sono le potenze finanziarie del tempo, relativamente, e a volte assolutamente, grandi potenze, anche nella politica. La storia ricorda re e baroni: ma alle loro spalle, consiglieri, finanzieri, finanziatori, ecco questi Italiani accortissimi, che sanno adattarsi al luogo e al tempo, essere umili e orgogliosi, violenti e astuti.
Rafforza la posizione finanziaria, il credito e l'influenza politica loro la stretta relazione in cui, a una certa epoca, entrano con la S. Sede. A banche italiane e alle loro succursali all'estero, la curia affida il deposito fiduciario e la trasmissione a Roma delle somme riscosse dai collettori di decime e rendite ecclesiastiche in tutte le parti del mondo cattolico, assai cresciute dopo la riforma gregoriana, che volle essere e fu anche organizzazione fortemente unitaria e monarchica della Chiesa, rivendicazione di molte "libertà" e diritti e censi ecclesiastici. Abbondanti esse sono nel '200, al tempo del grande prestigio internazionale del papato e del grande numero di prelati italiani rivestiti di uffici e prebende in Germania, Francia, Inghilterra. Questo compito di trasmissione appare, già sul principio del '200, assunto dalle società mercantili e bancarie italiane, quelle stesse che con i prestiti sovvenivano ai bisogni delle chiese e contribuivano potentemente alla secolarizzazione e mobilitazione del grosso possesso fondiario ecclesiastico, in Italia e fuori. Roma, così, si avvantaggia dell'organizzazione capitalistica italiana, nel tempo stesso che la promuove. Quelli che in Italia, prima degli altri, instaurarono o resero intimo questo rapporto d'interessi con la S. Sede, furono i Senesi, specialmente con i loro Bonsignori. Fin oltre la metà del '200, i Senesi conservarono questa posizione di quasi arbitri delle finanze pontificie, giocando di destrezza per conciliare il loro ghibellinismo politico con il guelfismo finanziario. Ma, venuta Benevento, i Fiorentini, che combattevano e ormai vincevano in ogni campo i Senesi, li vinsero anche in questo. I banchieri di Firenze, come prepararono la riscossa guelfa per desiderio di più intimi rapporti con la S. Sede, così ne raccolsero il frutto. Allora, s'inaugurò quel primato bancario, che fu pure commerciale e industriale, di Firenze, che durò due secoli, resistendo fortemente anche a fieri colpi di fortuna. Città democratica quanto mai, la più viva mobile agitata piazzaiola città italiana, da una parte, Firenze fu anche città di plutocrazia, rappresentata un po' dai gruppi capitalistici delle Arti maggiori, base della costituzione, più ancora dai capitalisti magnati, gli Scali, gli Spini, i Bardi, i Mozzi, ecc., che sono esclusi dagli uffici o a gran fatica vi entrano, ma hanno banco e giro ampio di denaro, e beni fondiarî che servono a consolidare la ricchezza fondiaria e dar credito all'estero, e relazioni d'affari e di parte con la S. Sede. Firenze rappresenta tipicamente la generale tendenza dei ceti e delle città, che erano interessati al commercio e alla banca internazionale, di accostarsi anche politicamente a Roma. Anche quando i Fiorentini vollero fare, al tempo di Dante, una politica d'indipendenza dalla S. Sede, i mercatores curiae rappresentarono l'estrema punta guelfa, protesa verso Roma. Non contavano molto nel governo legale della città, ma facevano sentire in tanti modi la loro presenza e davano una forte impronta alla politica della città.
Questa operosa presenza, quasi onnipresenza, d'Italiani in tanta parte d'Europa e su tutto il bacino del Mediterraneo, non mai interrotta dopo Roma, rinnovatasi in modo nuovo e libero dopo il Mille, giunta alla sua maggiore intensità e ampiezza attorno al 1300; è grande fatto della storia economica e anche politica europea. Esso concorse tanto a creare la nuova economia e il nuovo capitalismo, quanto a promuovere la nuova forza delle monarchie, certe loro iniziative politiche, la stessa invadenza di alcune di esse nelle cose italiane. Nell'Italia delle città, poi, creò una ricchezza grande che si ritrova nel rinnovamento edilizio loro, nel carattere monumentale che esse acquistarono, nell'elevato tenore di vita della borghesia. Ebbe la sua efficacia anche nella formazione del carattere del popolo italiano. L'abitudine alle iniziative, la necessità di contare essenzialmente sulle proprie forze, rinvigorirono lo spirito individualistico: quello stesso spinto che intanto corrodeva la vita municipale e preparava un nuovo ordine politico e una nuova cultura, incarnandosi in capiparte e signori, in poeti e artisti. I contrasti frequenti con genti diverse e, spesso, ostili aiutava gl'Italiani a ritrovare la loro sostanziale affinità, a sentirsi più vicini e solidali, nonostante le gare, a volte vere guerre, che pur seguitavano a dividerli, specialmente nelle colonie d'Oriente, dove la loro libertà d'azione era maggiore e minore il freno dall'alto. Maggiore invece questa solidarietà, dove questo freno agiva, come fu in Francia. Qui essa si espresse anche in forme associative, in vaste federazioni di particolari associazioni di Astigiani, Bolognesi, Romani, Pistoiesi, Senesi, ecc., stanziati nelle varie città di quel regno. Essi si sentono di più la stessa gente, anche perchè tali li considerano i forestieri in mezzo a cui vivono. Essi sono i "Lombardi", parola che, specie in Francia, seguita a indicare gl'Italiani, quanto meno gl'Italiani del regno, non ancora invalsa la parola "Italiani"; ma anche in Inghilterra e nei Paesi Bassi e altrove. E la "Via dei Lombardi" si trova a Parigi e ad Avignone come a Londra, a Bruges, e anche ad Amburgo.
Cultura di borghesia nell'Italia del '200. - Sforzo di creare nuove istituzioni e difenderle dagli assalti del mondo feudale, più intensa attività economica che mette capo a una nuova economia, ascesa di ceti e strati sociali nuovi, più larga esperienza di mondo, rappresentavano naturalmente anche una nuova cultura, spiriti nuovi e forme nuove. È sorta la nuova architettura religiosa e civile insieme. Gli statuti si arricchiscono di disposizioni di polizia urbana. Il costume si viene raffinando, pur mentre gli odî di parte s'inaspriscono e il diritto punitivo si fa più crudele. L'urbanità prende il posto dell'antico tratto quasi rusticano: ed è quasi cerimoniosità nel saluto, nella conversazione. Si apprezzano le amabili doti dell'intelligenza e lo scherzo arguto, l'arte del cantare e suonare e poetare. È cresciuta la considerazione per il bel parlare in pubblico o in occasioni solenni della vita familiare. La parola adorna ed efficace, si dice, è più efficace della spada. E c'è già la tendenza a molto confidare nei sottili accorgimenti dell'ingegno. Tutto questo nasce in regime di popolo, nei parlamenti e nei consigli, fra capiparte e demagoghi.
Nello stesso regime di popolo acquista un posto centrale lo studio del diritto, che trova nelle università o "studî" la sua sede. Risponde esso al bisogno di una società che muta le sue assise fondamentali, deve regolare i rapporti con l'Impero e la Chiesa, conciliando e rivendicando, costruire nuovi istituti e gerarchie di uffici, innovare nel campo del sistema possessorio e familiare, nel commercio marittimo e nelle questioni del credito, nei rapporti internazionali e del diritto corporativo. Si pensi a tutta la multiforme attività statutaria, del comune, del popolo, delle Arti, già nel'200, persino in piccole terre, non senza ironia della gente dotta in lettere e in diritto. Sono questi statuti, da principio, mera consuetudine scritta, per i giuristi che li guardano un po' dall'alto in basso, essi che attendono a chiosare e glossare i loro testi giustinianei. Ma presto la realtà s'impone. Il nuovo diritto pubblico attira l'attenzione, essendo quello romano spesso ormai inapplicabile. Nel'200, il nuovo diritto statutario è lex, può derogare anch'esso a ogni legge o diritto precedente, si mette a fianco o al di sopra dei canoni, cede solo alle prescrizioni del Vangelo. Questo pullulare di leggi coevo allo svilupparsi della vita di popolo, vuol dire anche litigiosità pubblica e privata, moltiplicazione di tribunali, pullulare di giuristi e notai e avvocati per molte funzioni, e loro straripare anche nella vita politica. Essi interpretano, applicano, creano la legge, ma anche la svalutano nell'opinione pubblica, contribuiscono a turbare il semplice ma fermo concetto antico del giusto e dell'ingiusto, del lecito e dell'illecito. Ma in questa attività di legisti, maestri di diritto o pratici della legislazione statutaria, si deve pur vedere il diritto italiano che nasce, fatto di residui germanici e di più numerosi elementi romani, di diritto scritto e di diritto volgare: il tutto rivissuto, fuso, armonizzato, attraverso la vita della borghesia.
Si aggiunga che nel '200 questi uomini di legge sono, per nove decimi la classe colta per eccellenza. Non solo lo studio e il ravvivamento del diritto romano e la legislazione statutaria sono opera loro. Ma essi sono anche, per la più parte, i cronisti: uomini di legge sono Senzanome cronista fiorentino, Rolandino cronista della Marca Trevigiana, borghese di Padova, fiero nemico di Ezzelino, pur subendone un poco il fascino; Gherardo Maurizio di Vicenza, partigiano e cancelliere di Federico II, apologista di Ezzelino. E si sa quale posto occupi, nella produzione intellettuale del '200, la cronaca, emanazione della città e delle parti, eco delle lotte comunali e delle lotte fra imperatori e papi, fra guelfi e ghibellini, ma nel tempo stesso specchio della vita regionale e italiana, aperta anche, con più o meno chiara visione dei nessi, alle cose di Alemagna o Francia o Inghilterra: a differenza della più antica o coeva storia imperiale o papale, sospesa quasi nel vuoto della sua universalità, e della cronaca monastica, circoscritta alle vicende del monastero. Quanto poveri di prosa romanzesca e. fino al sec. XIII, di poesia, altrettanto ricchi di storia. Sono anche, quegli uomini di legge, i letterati del tempo, i primi poeti volgari, alla corte di Federico II o a Bologna o nelle città toscane; sono i primi intermediarî, come giuristi e come letterati, tra l'antica cultura classica e il nuovo mondo al cui servizio essa è posta: si ricordi Pier della Vigna. Il volgare comincia a essere adoperato come lingua letteraria, subendo naturalmente, nel suo sforzo di nobilitarsi, l'influenza riflessa del latino. Esso prende il posto in parte del latino, in parte del francese e del provenzale, assai diffusi in Italia, presso uomini di lettere e di affari e di corte, insieme con la lirica provenzale e le canzoni di gesta e i romanzi francesi e bretoni. E fa le sue prime prove nella corrispondenza d' affari dei mercanti e negli atti legislativi: cioè per scopi essenzialmente pratici. Ormai il volgare italiano ha vinto, rompendo la crosta latina e quella francese che ne avevano ritardato lo sbocciare e fiorire. Si manifesta, in questo, la nazione italiana, di cui la comune lingua è fattura e fattrice: come si manifesta in altre attività spirituali, in certa religiosità non ascetica ma conciliata con la natura e con la vita civile, quale è la religiosità francescana; in certo concreto filosofare, sostanziato di osservazione del mondo naturale e di tendenze sperimentali, lontano dall'astratta universalità della filosofia medievale e chiesastica, quale è il filosofare di Federico II; infine nell'arte architettonica e figurativa che, dal sec. XI al XIV, riempie di grandi monumenti più o meno anonimi la penisola, da Bari a Milano, o compie le prime gloriose affermazioni individuali con Niccolò e Giovanni Pisano, con Cimabue e Giotto.
Lo studio del diritto romano e statutario, il crescente richiamarsi all'antichità classica, dopo la renovatio del secolo X, il volgare che assurge a lingua letteraria, il nuovo filosofare e, in certi limiti, anche la nuova arte, portano chiari segni, anzi sono il segno di quel particolare carattere secolaresco che la nuova cultura italiana viene assumendo. L'Italia, come è centro della società ecclesiastica cattolica, così alimenta anche per prima un vero e proprio laicato, che si presenta in stato di latente o aperto contrasto con essa. Le grandi correnti teologiche muovono piuttosto dalla Francia e dall'Inghilterra che non dall'Italia, sia pure per il contributo di uomini emigrati lì dall'Italia, Lanfranco pavese e S. Anselmo d'Aosta. In Italia, piuttosto prevalenza di scuole di cultura laicale, cioè di arti liberali e legge civile: fatto segnalato anche da stranieri, insieme con quello della diffusa passione per gli studî, come fatto caratteristico dell'Italia. Al posto di Parigi, Bologna, con Irnerio e successori; e Palermo, emporio di elementi culturali arabi e bizantini sotto i Normanni e, poi, con Federico II officina di vario filosofare, anelante a verità diverse da quelle della scolastica. È stato notato che in Italia dall'epoca barbarica in poi, anche architetti e scultori sono, a differenza degli altri paesi, specialmente secolari: avanti che il sec. XIII porti alle arti costruttive i cisterciensi e poi i "mendicanti". Ora, tutto questo si fa sempre più visibile. Le stesse attività pratiche della nuova borghesia, hanno qualcosa di antichiesastico: il commercio, ad esempio, che fu modo e mezzo di emancipazione dallo spirito della chiesa medievale, come anche dal vecchio stato feudale. Col commercio, anche, la nuova borghesia si avvicinò a gente d'ogni credenza, passando sopra a scrupoli religiosi e a divieti papali, abituandosi a valutare gli uomini come uomini e non come credenza religiosa. Si aggiunga la potente affermazione chiesastica e teocratica in Italia nel sec. XIII, che generava energiche opposizioni, capaci d'investire, con i rapporti pratici, idee e sentimenti. Ne vennero alimentate certa più intima e non sempre e in tutto chiesastica religiosità e certo anelito di diretta comunione con Dio, come si vede in qualche filone della ricca miniera francescana; certe aspirazioni a una riforma della Chiesa in capite et membris, caldeggiata nel '200 e '300 da tanti e un po' praticata da uomini di chiesa e di mondo. Più ancora, si ebbe un orientamento mentale, un senso della vita, una considerazione dei valori spirituali, che non erano quelli rappresentati e avvalorati dalla Chiesa. Si guardava sempre al cielo, come a patria vera: ma con quanta passione, con quanta intima comunione, con quanta rispondenza fra sentimenti e pensieri, si vive ormai anche la vita della patria terrestre!
Vi è poi chi si dà agli studî, dimenticando ormai che essi debbano essere scala per salire alle verità religiose. Vi è chi comincia ad accostarsi ai classici con spirito meno ingombro e qualche desiderio di ritrovarli nella loro genuinità, come ritrovare il genuino diritto romano cercano i giuristi, sotto le interpretazioni ad esso sovrapposte. Nel girovagare di mercanti e nocchieri per terre e mari, già s'intravvede qualcosa più che solo il desiderio di trovare spezie e guadagnare fedeli a Cristo. Vi è chi si lascia prendere tutto dal fascino di misteriosi fatti e rapporti, come la vita animale, le proprietà fisiche dei corpi, l'origine del linguaggio, la espressicne della fisionomia umana, il corso degli astri. Il sec. XIII conta già, in Italia, gli appassionati di scienze esatte e zoologia, gli alchimisti e sperimentatori e astrologi, al seguito di re e signori e capitani di guerra, Ezzelino o Guido da Montefeltro. Sulle vecchie tendenze profetiche si innestano quelle astrologiche e magiche che sono proprie del Rinascimento e accompagnano i primi conati delle scienze fisiche e naturali. Il senso della ferrea dipendenza dell'uomo da Dio comincia a rilassarsi: e appare, divinità nuova, la Fortuna, che sta quasi fra Dio e l'uomo e prelude al riconoscimento dell'uomo come faber suae fortunae. Appare l'empio dubbio o negazione dell'immortalità dell'anima, si esclude la creazione del mondo per affermarne invece l'eternità, si ammette l'equivalenza del cristianesimo e dell'islamismo e del giudaismo, si chiede se la religione sia opera di Dio o degli uomini, si discute sulla storicità della persona di Cristo e sulla sua divinità. Si nota come un progresso nella fiducia dell'intelletto, come una crescente ritrosia a credere ciò che non si giustifica razionalmente o non cade sotto i sensi; l'avanzarsi di quel dubbio che prepara, attraverso lo scetticismo sul sapere tradizionale, un nuovo sapere. Un re già ricordato, Federico II, occupa un posto notevole in questo nuovo orientamento degli spiriti, in questo dubitare e interrogare: come lo occupa nella storia del nuovo concetto dello stato, sorto non solo divina gratia ma anche necessitate cogente, cioè per esigenze naturali degli uomini associati. E accanto a un re, anche un papa, Benedetto Caetani, poi Bonifacio VIII, quale ci lasciano intravvedere gli atti del processo che, lui morto, la curia avignonese ordì contro la sua memoria, sotto lo stimolo di Filippo il Bello e degli altri acerrimi nemici suoi. Senza lo spirito antichiesastico e paganeggiante di un Federico II e la torbida natura di un Bonifacio VIII, Dante Alighieri, cittadino di Firenze e poeta, poteva affermare anteriore alla Chiesa e scaturito direttamente da Dio lo stato, con tutti i compiti deha pace e dell'ordine terreno; affermare la legge umana, cioè naturale, coincidente con la volonta stessa e giustizia divina, e quindi capace di dar essa sostegno alla virtù. Insomma, un principio di base propria, cioè naturale e umana, data alla morale.
Questo sforzo di dare valore proprio alle cose terrene, cioè di emancipare spiritualmente la vita dalla pesante tutela, anche giuridica e politica, della Chiesa; questo sforzo che rivela il precoce carattere secolaresco della cultura italiana e dà una sua fisionomia al popolo italiano ora in formazione, è aiutato dal culto crescente dell'antico, dal culto di Roma. Il culto dell'antico e di Roma, che pur nasceva dalla vita, concorse alla riabilitazione morale della vita stessa. Si comincia con l'esaltazione della romanità, considerata come una cosa divina, frutto di divina volontà, per giungere a investire tutto l'umano. Questa esaltazione la fanno i giuristi, gli uomini colti di nuova coltura, i sostenitori dell'autonomia del potere civile. Federico II è quasi maniaco dell'antichità. Contemporaneo a Federico, ma uomo d'altra famiglia, Boncompagno da Signa fu grande beffeggiatore di chierici e, insieme, preannunciatore di umanesimo e di umanisti, con la loro sete di sapere, le loro vanità da letterati, il loro spirito polemico, la loro mania vagabonda. Più tardi, nel De Monarchia Dante, attaccando il papato teocratico, farà tutta una difesa e apoteosi del popolo romano. Di contro, decretalisti e canonisti, nel sec. XIII e XIV.
A questa nuova cultura - elaborazione di elementi preesistenti o venuti da fuori e creazione - tutto il popolo italiano concorse. Nei secoli XI e XII, specialmente lombardi erano gli architetti romanici. E insieme e dopo, Palermo rappresenta un grande centro d'influenze a cui tutta la penisola si apre: Palermo col suo nuovo filosofare, con la sua poesia volgare, con la sua autonoma elaborazione di elementi di cultura arabi e bizantini che, altrove, stimolano la nuova attività scientifica. E poi, l'Umbria, che dà quella sua vita religiosa in cui trovano sfogo e appagamento tante tendenze d'incerta e inquieta ortodossia, quel suo quasi nuovo vangelo che colora di sè per un secolo tutta la religiosità italiana quei suoi uomini rappresentativi, primo fra essi S. Francesco d'Assisi che è santo italiano per eccellenza e preannunciatore d'italiano rinascimento, e ha in Italia la sua maggiore forza generativa. E Pisa, che ha posizione egemonica nell'arte, specialmente nella scultura. E Bologna, la città di Guido Guinizelli e dei primi grandi progressi della nuova poesia volgare; la città che fu la scuola di diritto per i Lombardi, Siciliani, Toscani, Pugliesi, ecc., oltre che per il mondo intiero. Essa raccolse da tutta Italia, da tutta la tradizione romana e a tutta Italia distribuì per mezzo dei suoi innumerevoli maestri e scolari, che sono poi i reggitori e giudici e consultori e statutarî e legislatori di ogni città e del regno di Sicilia, gli elementi di una comune cultura giuridica, che è poi il nuovo diritto italiano.
E Firenze? Alla fine del '200 è ormai o si avvicina di gran passo il suo momento. Già grande la sua influenza finanziaria, commerciale, politica, da un capo all'altro della penisola e fuori. Essa rappresenta in modo tipico il nuovo capitalismo dai mille tentacoli, costruttore e distruttore insieme, politicamente opportunista, attaccato alla curia romana eppure economicamente rivoluzionario, suscitatore di scrupoli morali entro gli stessi cittadini di Firenze, non ancora riusciti ad adeguare realtà e pensiero. Ma da Firenze, anche, irraggia il nuovo volgare che il Cavalcanti e l'Alighieri e altri suggellano con opere di poesia e prosa, di prosa artistica e scientifica. Esso prevale sugli altri dialetti toscani e, allargandosi con lento vigore su tutta la penisola, prevale su tutti i dialetti non toscani come lingua letteraria e nazionale, simile alla lingua dell'Île de France, ma non aiutata, come questa, dalla forza di nessuna monarchia. È una conquista: ma fatta in virtù di un proprio vigore. Preesiste una non visibile omogeneità e unità: ora si fa più visibile e dinamica.
La figura morale del nuovo italiano. - Impresa difficile, pur conoscendo quali sono i suoi istituti giuridici e il suo diritto, la sua arte, il suo linguaggio letterario, ecc., disegnare la figura morale di questo Italiano, giunto ora a una tappa importante della sua storica formazione. Ma possiamo considerare che la società italiana, plasmatasi in mezzo a un'attività politica e giuridica straordinariamente intense e nella larghissima pratica del commercio e dell'artigianato, sopra un fondamento di vecchia cultura rimasta sempre abbastanza viva e rispondente alla vita, ha ora il suo uomo rappresentativo, l'uomo che dà il carattere di una civiltà in un determinato momento, nell'uomo di legge, e, fra poco, nell'uomo di lettere; non meno, nel mercante capitalista e nel mercante artiere. Relativa agiatezza di vita e raffinatezza di costumi, energica operosità, in patria e fuori , patria, rivolta specialmente alle faccende economiche e civili; crescente autonomia e individualità, di fronte alla consorteria, al comune e alla Chiesa, non disgiunta da un operoso senso religioso; abitudine e attitudine all'iniziativa, con relativo esercizio di responsabilità; spirito sereno e gioviale, tralucente pur di tra le crudeli lotte civili, conciliato anche intimamente con la vita mondana e con le belle e vane cose che l'adornano, sentimento della libertà personale e interna compostezza e fierezza e apprezzamento di sé e certo disdegno della plebe e amore di riputazione e tendenza a cercare sempre più in sé e vicino a sé i fini della vita. Il frequente andare per il mondo ha saturato di esperienze, ha allenato a tutti i climi questo Italiano, già ben predisposto, lo ha abituato a non sentirsi estraneo in nessun luogo e a considerarsi un po' cittadino del mondo, ha arricchito la sua umanità. E poi, una invidiabile ricchezza di risorse e di espedienti in tutti e per tutti i casi della vita, nessuno dei quali lo trova impreparato; attitudini svariatissime, nelle diverse regioni e persone e in una stessa persona. Facile trovare chi sappia, insieme, sbrigare un'ambasciata, redigere uno statuto e governare una terra come podestà o capitano, sovrintendere alla moneta e trattare un'impresa finanziaria, dirigere la costruzione d'un pubblico edificio e bene arringare la folla, conversare con acconci modi e parole e spesso lavorare manualmente con senso d'arte.
Si veniva rivelando agli stranieri questo popolo di Italiani o, meglio, "Lombardi". E anche nei confini della penisola, cresceva il sentimento non solo della comune discendenza romana ma della comunanza di lingua e costumi e, in certi momenti, d'interessi. Il '200 fu tutto di urti con stranieri. E questo aiutò. Innocenzo III, Gregorio IX, Innocenzo IV si richiamarono alla "libertà e felicità dell'Italia"; calcarono la voce sulle differenze fra Italiani e Tedeschi, "razza brutale, con strana lingua e strani sentimenti"; inveirono contro la "detestabile guerra" che, mentre avrebbe dovuto expugnare exteros, metteva Italiani contro Italiani. Manfredi, nell'imminenza della minaccia angioina, parlava agl'Italiani dell'onore che ad essi sarebbe venuto dal vincere Carlo e i Francesi, sebbene anch'egli avesse mercenarî tedeschi al suo servigio. Ma gl'Italiani si mettevano di fronte a costoro, amici o nemici, come a stranieri. Rozzi e grossolani apparivano i Tedeschi; avidi, presuntuosi, vani i Francesi. Sentimento antitedesco o antifrancese, è vero, è anche sentimento di guelfi e ghibellini: cioè espressione di partito o fazione più che di sentimento nazionale. Ma non è solamente questo o lo è sempre meno: ed è anche qualcosa di più, qualcosa in sé stesso. Anche perché più facilmente si trova in quei maggiori centri municipali e di partito nei quali più e meglio si esprime la nuova vita specificamente italiana: come Milano nel secolo XII; così, e più ancora, Firenze, nei secoli XIII e XIV. La quale, al principio del '300, ci mostra documenti di chiara eloquenza, come consapevolezza piena di ciò che quella nuova vita è. Firenze è città guelfa, cioè partigiana, per eccellenza; quella che ora identifica il suo guelfismo con la sua prosperità mercantile, la sua libertà politica, quasi la sua esistenza. Ma essa è anche la città italiana per eccellenza, la patria dei grandi trecentisti che possono veramente chiamarsi i padri della nazione italiana.
È necessario ricordare Dante? Potentemente vivono in lui gli elementi della nuova vita italiana avviata a nazione, pur tra superficiali incoerenze, tra attaccamento a cose ormai tramontate e visioni profetiche del domani. Egli è essenzialmente un poeta, uno scrittore, una coscienza morale. E Dante italiano si andrà a cercarlo, essenzialmente, in questa sfera ideale. Che se poi guardiamo Dante politico, e cerchiamo come egli concepì l'ordine italiano, in sè e nei rapporti con le istituzioni universali del Medioevo, noi troveremo che egli, nimicissimo della teocrazia, vagheggiò, sì, il Sacro Romano Impero, ma considerò l'Italia distinta dall'impero, perché essa e solo essa era l'erede dei Romani e cosa romana tutta quanta e legata da particolari vincoli a Roma. Gl'Italiani erano per lui sudditi dell'impero, sì, ma pure cittadini del regno, anzi liberi cittadini del regno prima che sottomessi all'impero; di quel regno che non era tanto il vecchio regno longobardo e carolingio, di Berengario e di Arduino, insomma il regno storicamente delimitato a una parte della penisola, ma un regno esteso idealmente a tutta la penisola. Sentì insomma potentemente l'unità storica e morale dell'Italia. L'importanza nazionale di Dante è in questo, oltre che nell'opera sua come poeta volgare. Ed è altamente significativo che, pur non ponendosi né risolvendo egli come li abbiamo posti e risoluti noi i problemi dell'unità, dell'indipendenza, del potere temporale dei papi, dello stato laico, ecc.; egli sia apparso poi, quando questi problemi furono posti e si cercarono i precedenti ideali e si tese l'orecchio alle lontane voci presaghe, come assertore di unità patria, d'indipendenza nazionale, di papato spirituale, di stato laico. E agì potentemente come tale; cioè, in un certo senso, fu un assertore. Perciò egli sta come alle sorgenti della moderna storia d'Italia, anzi, possiamo dire, della storia d'Italia: egli più del Petrarca e assai più del Boccaccio, che pure, sotto certi aspetti, sono più modernamente italiani e più di lui sicuri nel maneggio della lingua.
Luci e crepuscolo del papato e dell'impero nel medioevo.
Da Bonifacio VIII a Enrico VII. - Al tempo in cui Dante così riviveva e quasi ricostruiva, idealmente, la vita dell'Italia, l'impero era assente dalla penisola. Prevalevano partiti e forze antimperiali, le città tradizionalmente guelfe o legate al guelfismo prevalevano sulle altre, i vicarî di Rodolfo d'Asburgo avevano scarso riconoscimento, né esso né gl'immediati successori vennero a cercare in Italia corona regia e imperiale. I re di Germania cominciavano a operare nello stretto ambito dei loro paesi d'oltre Alpi, cioè, nel caso degli Asburgo, nell'ambito dei loro possessi ereditarî d'Austria. E come Asburgo e come Austria, gl'Italiani se li troveranno poi nuovamente di fronte. Ma se questi erano momenti gravi per l'impero, erano gravi anche per il papato. Era scemata la sua capacità coordinatrice delle forze politiche della penisola e anche delle altre più lontane, dovuta in parte all'esistenza e potenza dell'impero. Scaduto questo, veniva a mancare una delle ragioni che spesso avevano reso gli stati particolari ben disposti a riconoscere l'autorità del papato anche nelle forme della dipendenza feudale; veniva a mancare un'istituzione affine e perciò, in un certo senso, solidale, egualmente avversa allo sviluppo degli stati nazionali e territoriali. Si aggiunga, per il papato, la nuova e invadente mondanità della Chiesa, di nuovo quasi sommersa dal fiotto del secolo; i fieri dissidî entro la famiglia ecclesiastica (secolari e regolarí), la propaganda anticurialista dell'ala estrema del francescanesimo. E ambizioni temporali di vescovi, a servigio di una famiglia o di un partito; attriti in curia fra collegio cardinalizio e papa, come fra baroni e re; discordie entro il collegio stesso, in cui si rispecchiavano le gare tra le famiglie della nobiltà romana, fra cardinali fautori di Francia e cardinali fautori di parte italiana. Invadenza delle grandi potenze in curia: prima, francese, ora anche aragonese. Non c'è più, ora, l'imperatore: ma altri è sottentrato, con più evidenti fini di sfruttamento politico del papato, che sono anche fini di dominio italiano. È rotta l'unione dinastica del regno di Sicilia e del regno di Germania. Ma un legame quasi eguale si è stretto fra regno di Sicilia e regno di Francia. Di qui un senso di malessere nella stessa curia, che spiega l'elezione di un Celestino V, anche come modo di uscire fuori dalle strettoie dei partiti e delle famiglie che, aspirando al papato, rendevano estremamente difficili le elezioni. Ma la logica delle cose portava allora assai più verso i Niccolò III, gli Urbano IV, i Martino IV, i Bonifacio VIII, tutti papi politici, più o meno legati alle grandi monarchie o a potenti interessi familiari che bisognava promuovere e che si potevano, insieme, utilizzare ai fini dello Stato della Chiesa. Erano tempi di lotta. I re dell'Occidente manomettevano senza freno e senza scrupoli ogni libertà ecclesiastica, in materia finanziaria e giudiziaria. In Roma e nella Campagna Romana, i Colonna sono in ribellione e trovano alleato il re di Francia, hanno qualche intesa con gli Spirituali, che rappresentano la religiosità assoluta in lotta contro il papato politico e proclamano Bonifacio falso papa. I Fiorentini, i guelfi fiorentini anch'essi alzano il capo contro le somme chiavi e si fanno pietra di scandalo. I Siciliani non vogliono piegare a un re vassallo della S. Sede e rimangono fedeli a un re indipendente. Erano tutte questioni particolari e, in gran parte, di fatto. Ma, per la natura dei tempi e dell'uomo che reggeva il papato e anche per l'interesse degli avversarî, sfociarono in un generale contrasto ideale sulla natura del pontificato romano, sui rapporti fra esso e la Chiesa, fra esso e il collegio cardinalizio, fra Stato e Chiesa. E si venne a riaffermazioni solenni di diritti, da una parte e dall'altra; ad alte proclamazioni di principî, a enunciazioni dogmatiche. L'assenza dell'impero, la quasi assoluta indipendenza in cui gli stati particolari si erano messi di fronte a esso, incoraggiavano il papato a elevarsi ancora di più sopra di loro, gli dava il senso d'un illimitato diritto e dovere a farsi guida giudice arbitro nelle loro cose interne. Solo il pontefice a nessuno è soggetto, se non al giudizio di Dio. Posse summi Pontificis est sine pondere numero et mensura, nello spirituale e nel temporale. È il culmine della dottrina teocratica. La letteratura polemica italiana è quasi tutta di parte papale; laddove è francese la letteratura che ora si mette dalla parte dello stato, rivendica la sua libertà, limita i privilegi della Chiesa e, dove li ammette, li afferma per concessione del re, per il bene generale e dello stato, e dal re revocabili se quel bene lo richiede. Merito, in parte, del regno, centro ideale e pratico della vita francese, coordinatore di azioni e di pensieri. Ma in Italia, quella stessa rivendicazione, limitazione, affermazione è, amplissima, in re, ogni giorno e ogni ora; è nella letteratura giuridica, anche se questa conosce più l'impero che il regno d'Italia o, se si vuole, vede il regno come impero. E ormai l'impero mal poteva essere guida e segnacolo di una lotta di tal genere.
Bonifacio VIII uscì logoro e malconcio da questo sforzo, ormai anacronistico. La S. Sede, in seguito al conclave da cui uscì il francese papa Clemente V, si trasferì in Francia, il paese che da secoli offriva e forniva ai papi ospitalità e soccorso di eserciti. Così, anche il papato, come l'impero, si fa assente dall'Italia. Né solo materialmente. Il papato si fa o appare agl'Italiani cosa francese, a servizio d'interessi francesi. Dante si volse contro i papi avignonesi e, come invocò il ritorno dell'impero in Italia, così anche l'elezione di papa italiano e il ritorno della S. Sede. Vana fu questa seconda invocazione. Meno vano fu o sembrò l'appello all'imperatore. E venne Enrico VII di Lussemburgo e riportò agli Italiani "le onorate insegne" di Roma. Ma Firenze si oppose con tutte le sue forze. Essa incarnava lo spirito dell'indipendenza comunale e, ormai possiamo dire, nazionale di fronte ai Tedeschi.
Tutti sanno che vana fu la gran fatica di Enrico VII, l'ultimo imperatore che ancora si presentasse agl'Italiani con qualche raggio dell'antica luce. Procedettero sempre più libere le forze politiche salite in alto nell'età precedente, amiche o avverse che fossero all'impero: cioè il regno di Napoli, pur decurtato della Sicilia, e le signorie. Già l'assenza dei pontefici dall'Italia si era risolta in grande vantaggio di quel re, come utile sostegno dei diritti della S. Sede in Italia. Nel 1309, la curia avignonese aveva fatto Roberto rettore e vicario di Romagna, dove Malatesta, Polentani, Ordelaffi, Manfredi, arraffavano da tutte le parti. Di lì avrebbe potuto anche vigilare i signori dell'Italia settentrionale, specie i Visconti. Roberto aveva da principio trattato perfino con Enrico imperatore. Ma dopo la primavera del '12, anche Roberto, come già Firenze e molte città guelfe del nord, si era gettato contro l'imperatore, si era legato a Firenze, si era messo, nell'assenza del papa, a fare le sue parti. Nell'estate del '12, il papa nominò Roberto anche signore di Ferrara, al posto dell'ucciso Francesco d'Este. E poi i Consigli generali di Parma e Reggio gli offrirono il potere; Genova, lacerata dalle discordie, si diede nel 1316 per dieci anni a Roberto e al papa. Finalmente, nel 1317, il nuovo papa, francese anch'egli, Giovanni XXII gli conferi il vicariato imperiale in Italia. Né mancarono dicerie che si volesse dargli titolo e corona di re d'Italia.
Il papato contro le nuove signorie. - Assente, dunque, il pontefice dall'Italia, cercava di esservi fortemente presente appoggiandosi al re di Napoli, e di fronteggiare così le forze avverse che adesso erano non più l'imperatore ma i signori, quelli dello stato della Chiesa e quelli della Valle Padana. I quali marciavano ormai di buon passo. Era scomparsa la prima generazione dei signori. Ora, Visconti a Milano, Scaligeri a Verona, Bonaccolsi a Mantova, altri minori. Emergono i Visconti di Milano, per merito della grande città e per merito loro, dell'arcivescovo Ottone fondatore, del grande Matteo che, da lontano, si presentava, specialmente agli occhi dei sospettosi Fiorentini, quasi come un "re di Lombardia" (Villani). Sotto di lui, in vario modo, oltre Milano, si trovano Alessandria, Piacenza, Lodi, Bergamo, Pavia, Novara, Como, Vercelli. Non molto meno dei Visconti, gli Scaligeri, che hanno raccolto l'eredità ideale di Ezzelino e tengono sede anche in quella che era sede principale di Ezzelino, Verona, forte città allo sbocco della Val d'Adige, là dove la grande strada transalpina incrociava con la strada pedemontana fra Venezia e Milano. Milano, come Verona, cominciava a configurarsi non come città dominante ma come capitale d'uno stato di più città e relativi territorî. Sempre più si manifestava come la crisi dei comuni fosse crisi di ordini popolari e di stato di città nel tempo stesso. Ma una volta affermatasi anche solo in una città, la signoria, cioè il governo di un solo, aveva mezzi più efficaci che non prima i magistrati comunali, per farsi valere in altre città e vincerne gli spiriti autonomisti.
Questi nuovi signori si erano avvantaggiati anche della venuta dell'imperatore. Molti di essi avevano avuto titolo e ufficio di vicarî imperiali: cosa che ormai cominciava largamente a diffondersi, anche a vantaggio di superstiti comuni e loro magistrati. Era l'unico mezzo per farsi un po' valere, da parte dell'impero: salvare il diritto, poiché il fatto era quel che era. Ciò legava all'impero i concessionarî, già quasi tutti uscenti dal ghibellinismo. Non meno della discesa giovò ai signori la morte di Enrico VII. I più piccoli cercarono un vicino protettore, che li salvasse; grandi e piccoli solidalizzarono, di fronte al pericolo di Roberto e del papa. Il quale non si contentò d'innalzare il re di Napoli, ma fece altro e più. Nel 1317, due legati di Giovanni XXII vennero in Lombardia a "riformare la pace". Trovarono che i Lombardi erano tutti per Matteo Visconti e a lui obbedienti. Sentirono esprimere il convincimento che quella provincia solo con un re non di barbara nazione ma proprio e legittimo, investito di potere ereditario, avrebbe avuto pace e bene. Nonostante queste constatazioni, cominciò l'offensiva avignonese: "vacando l'impero, la sua giurisdizione è devoluta al papa", aveva proclamato una bolla del marzo, intimando, a chiunque non ne fosse investito da lui, di abbandonare entro due mesi l'esercizio del vicariato, pena la scomunica. Nessuno diede ascolto. Anzi, Cangrande si affrettò a giurare fedeltà a Federico d'Austria, aspirante all'impero, per poter fruire del titolo di vicario e togliere ragione all'intervento papale. Matteo fece di più: lasciò, sì, il titolo, ma si fece proclamare dai Milanesi "signore generale della città e del distretto". Dunque, nulla aveva da deporre, nulla avendo dall'impero.
Cominciò una lunga e complicata guerra. Papa, Angioini, re di Francia, signori. Eserciti e armi ecclesiastiche. Venne in Italia, quale legato papale, il cardinale Bertrando del Poggetto. La curia si proponeva tanto di spodestare quei signori quanto di riaffermarsi in Romagna. Teatro della guerra fu, come già nel sec. XII fra comuni e impero, la valle del Po e la Lombardia. Allora, i comuni avevano tenuto testa all'imperatore con l'aiuto del papa; ora le signorie fronteggiano il papato, facendosi esse un po' forti di certo riconoscimento imperiale. Lotta in fondo politica. La S. Sede aveva un bel portare la contesa nel campo religioso: magari in buona fede. Non trovava seguito. Lo spirito realistico e giuridico degl'Italiani e un po' anche, dove era, l'affinato e più spirituale sentimento religioso, di cui l'arte del tempo e le stesse sette dissidenti francescane erano testimonianza, insegnavano a distinguere religione e politica o, meglio, a segnare fra esse un confine diverso da quello che vi segnava la curia romana. E ora, i legisti a servizio dei signori sentenziavano invalide le scomuniche papali; lo stesso predicavano e diffondevano i minoriti, solidarizzando con i signori.. Eppure, non era puramente politico questo contrasto. C'era veramente qualcosa di più profondo. La signoria non significava solo un ordine politico nuovo, ma questo ordine politico portava intrinseci e profondi elementi di opposizione morale alla Chiesa medievale. Se il comune aveva rappresentato l'era della religiosità e della stretta colleganza fra vita civile e religiosa, fra istituzioni politiche ed ecclesiastiche; la signoria rappresentava invece la società civile più svolta e differenziata, con una coscienza di sé ormai viva e una volontà di battere vie proprie e farsi propria legge; con un atteggiamento d'indifferenza religiosa verso la Chiesa, salvo rimanendo il principio religioso; con la tendenza di separare nettamente Stato e Chiesa, anzi subordinare la Chiesa allo Stato, ai fini dello Stato, prevalenti sopra ogni altro fine. Operavano, entro questa società civile, anche esigenze di schietta religiosità, visibili da mille segni anche in uomini che erano all'opposizione verso la Chiesa politica. Operavano a suo fianco, non senza influenza su essa, le frazioni estreme del francescanesimo che, per altre vie e altri fini, giungevano egualmente all'idea della separazione fra Stato e Chiesa, e, implicitamente, poiché confidavano nel braccio secolare per la auspicata riforma chiesastica e religiosa, all'idea della subordinazione della Chiesa allo Stato. Negli anni della lotta fra Legato e signori dell'Italia settentrionale, Michele da Cesena, capo dei minori, deposto e perseguitato dopo che il capitolo generale da lui riunito in quella città ebbe dichiarato ortodossa la dottrina dell'assoluta povertà (1322), trovò ospitale accoglienza presso Ludovico il Bavaro, mentre altri francescani dissidenti la trovavano presso lo stesso Roberto d'Angiò. Il quale prese sempre posizione contro le decisioni papali nella questione della povertà: anche dopo la piena rottura di Michele con la Chiesa e la scomunica da cui il frate ribelle fu colpito. Marsilio da Padova, cresciuto nell'ambiente politico di quella città fieramente anticlericale, nell'ambiente scientifico delle università di Padova stessa e di Parigi, orientato verso la filosofia averroistica e nominalistica, diede nel Defensor pacis (1324) e poi nel Defensor minor certa veste politica anche al programma dei rivoluzionarî religiosi. Si pone il problema dello stato che deve assicurare quella pace, e del suo fondamento. E questo fondamento lo trovò nella universitas civium, depositaria di ogni potere, da esercitare direttamente o per mezzo di persone a ciò delegate. Egualmente, nella universitas fidelium trovò il fondamento della Chiesa, e nel concilio la sua rappresentanza. Ravvicinati così Stato e Chiesa, attribuito a questa un'origine non divina ma umana tolta l'identificazione sua con la gerarchia e col papato, demolita l'onnipotenza di quella e l'assolutismo di questo, cioè la costruzione teocratica, Marsilio si apriva la via a liberare lo Stato dalla Chiesa e a subordinarla allo Stato, negandole non solo giurisdizioni, immunità, libero uso dei beni temporali, ma anche la libera elezione dei sacerdoti, la stessa facoltà d'infliggere scomunica, considerata pena temporale oltre che spirituale, e ogni potere coercitivo contro i peccatori, essendo il peccato da correggere, non da costringere, e gli eretici da punire, in caso, solo come turbatori dell'ordine pubblico, di una legge umana. In quanto offesa a una legge religiosa, solo Dio, nell'altra vita, potrà punirli. Il principe, così, elettivo o ereditario, controlla l'attività della Chiesa; e la Chiesa, assolvendo una funzione dello Stato, si risolve quasi in esso.
La lotta di Lombardia si complicò per l'intervento di Ludovico di Baviera. Vincitore in Germania nella gara per la corona e rifiutatosi di obbedire alla curia che pretendeva di farsi giudice dell'elezione e dell'eletto e vietava a chicchessia di assumere titolo e funzioni di re e imperatore, scendeva anch'egli in Italia con spiriti anticuriali. Era con lui Marsilio, che, scomunicato per il suo libro, aveva trovato rifugio presso Ludovico e ora lo affiancava come medico e come consigliere. A Trento, il parlamento dichiarò Giovanni XXII eretico e violatore dei diritti del popolo; a Milano, Ludovico fu incoronato re dallo scomunicato vescovo Guido Tarlati d'Arezzo; a Roma, raccolse il popolo in Campidoglio, gli chiese il riconoscimento, ottenne dai suoi rappresentanti la corona imperiale, lo convocò poi altre volte, anche insieme col clero, in Campidoglio o in piazza S. Pietro, per riforme invocate dai minoriti, per la deposizione di Giovanni XXII, per l'elevazione alla tiara di Pietro da Corvara, che dall'imperatore ebbe le sacre insegne. Cose più conclusive il Bavaro non fece. Né era facile farle, in mezzo a tante opposizioni che, durante il ritorno verso l'alta Italia, degenerarono in contumelie. Anche i Visconti gli si voltarono contro e il Bavaro, assediata vanamente Milano, se ne dové tornare senza onore oltre Alpi, seguito dal suo fedele consigliere e medico, Marsilio da Padova.
Oscurissimo l'intrigo diplomatico che accompagnò e seguì la spedizione del Bavaro in Italia. Ne tenevano le fila principali i Visconti, il re di Francia e, più di ogni altro, la curia. La quale trattava con tutti. Offriva la corona di Lombardia al re; non rifiutava del tutto il vicariato imperiale al Visconti; d'accordo col re, contro i Visconti e contro Roberto, guastatosi con Filippo di Francia e con la curia, sollecitò la venuta in Italia di un altro personaggio, Giovanni di Boemia figlio d'Enrico VII, che, apparso alla fine del 1330, ebbe grande e rapida, ma effimera fortuna. Contro di lui, venuto in Italia sotto auspici papali e francesi (Giovanni troverà poi ospitalità alla corte di Francia e morirà nelle guerre di quel re), si voltarono signori e città. Il 16 settembre 1332, Scaligeri, Gonzaga, Visconti, Estensi fecero lega a Castelbaldo, "ad onore di Dio e della Chiesa romana, ed a conservazione dello stato presente in Italia": e contavano anche su Roberto d'Angiò e su Bologna. Erano ghibellini e guelfi insieme. Anche Firenze aderì: cioè anche comuni liberi. In lontani paesi, quei fatti si presentarono addirittura come una coalizione di Francia, papa, re di Boemia, imperatore. E di fronte ad essi, Milano. E a soccorso dei Milanesi, ecco gl'Italiani tutti. Certo, la costruzione di Giovanni di Boemia, tirata su in pochi mesi, in poche settimane crollò, anche per ribellione delle città che, in fondo, non volevano essere rimesse nelle mani dei nobili. Era sempre la vecchia fisima degl'imperatori tedeschi, che spesso non avevano nessun sentore della realtà italiana. Fu spazzato via anche il cardinale Del Poggetto, che nelle città emiliane aveva fatto, dopo il fallimento di Lombardia, qualche fortuna.
Nell'Italia settentrionale e anche in Romagna le cose proseguirono il loro corso verso la signoria. La reazione pontificia lo aveva, se mai, accelerato, come lo accelerò la lontananza dei papi, che fu un estraniarsi almeno moralmente dalla vita italiana, un asservirsi a interessi di Francia, un cercare solidarietà di Francesi o Tedeschi. Le nuove forze politiche italiane poterono additare nel papa e nelle sue genti d'arme altrettanti stranieri. E quanto al regno di Napoli, Roberto vi aveva certamente una buona base. Vi si era anch'egli acclimatato come gli Svevi. Era circondato non più da Francesi ma quasi solo da Italiani. I suoi legami con l'oltremonte con la stessa curia avignonese, si erano sempre più rilassati, mentre il re aveva potuto conservare un certo credito e prestigio italiano. Anzi, in mezzo a tanto disordine e a tanta illegalità, quanto ebbero a soffrirne le regioni in cui si veniva formando faticosamente il nuovo assetto politico, Roberto di Napoli poté apparire come ancora di salvezza per tutta la penisola. Qualche poeta o letterato italiano poté immaginare che Roma lo aspettasse; che tutti i "Latini", cioè l'Italia tutta, ormai ridotta in basso stato, scadute le forze, la riputazione, il nobile sangue, sperassero in lui, lo invocassero a signore, ultima e unica speranza. È il tempo che fra le cose possibili o desiderabili comincia a esservi non un imperatore ma un re, un re che neppure sembra sia l'antico, ormai identificato con l'imperatore, ma un re nuovo, tratto da Napoli o creato dal nulla, un re per tutta Italia o per più piccolo territorio.
Decadenza di regni e progresso di signorie nel sec. XIV. - E tuttavia, negli anni che seguirono la discesa del Bavaro, sempre più debole pulsò il cuore del regno di Napoli, ora ridotto solo alle provincie continentali, dopo che la Sicilia si era di nuovo estraniata dalle vicende della penisola. Il distacco dell'isola e poi i vani sforzi per ricuperarla e la preoccupazione di doversene difendere lo avevano ferito profondamente. E il credito italiano che si manteneva ancora in funzione di parte guelfa, in funzione antisignorile e antimperiale, era destinato a consumarsi rapidamente, via via che le signorie dilagavano vittoriose, e la corte di Avignone curava direttamente, per mezzo di suoi legati, il ricupero delle terre ecclesiastiche e trescava con Francesi e con i re dei Romani, magari a danno di Roberto. Sempre più precarî anche i possessi piemontesi del re angioino. Venivano poi illanguidendosi le forze stesse del regno, impari, a lungo andare, ai compiti non locali ma italiani e quasi universali che Svevi Angioini e papi, alti signori, da oltre un secolo gli avevano imposto. Aveva proseguito il processo di sgretolamento dell'autorità regia, mentre clero, nobiltà, municipî si facevano innanzi. Specialmente grave per le conseguenze sue, la nuova politica instaurata dagli Angioini nei rapporti degli ecclesiastici, con la soppressione di tanti limiti alla libertà del foro, al diritto di acquisti fondiarî, alle esenzioni tributarie. Riprendevano vigore le tendenze autonomistiche locali. Le consuetudini cittadine venivano proclamate superiori alla legge del regno. Una quantità di funzioni urbane passavano nelle mani di ufficiali elettivi, i quali non potevano essere, nell'inevitabile gara, se non i nobili. Discordia, guerriglie locali, università che si scindono, quella dei nobili e quella del popolo: il tutto, dovuto più a debolezza del potere regio che non a vera e feconda forza costruttiva di popolo. E intanto, la pressione fiscale non rallentava: donde generale inquietudine, disfacimento di piccole università, brigantaggio. Ai bisogni della corte e all'incerta fedeltà dei baroni, si s0vveniva anche infeudando le città. Nuovo feudalesimo, col risultato che le entrate regie si assottigliavano ancora e la fedeltà dei baroni diventava ancora più incerta. Peggio fu alla morte di Roberto, 1343, quando s'inaugurò una fase d'intrighi di corte, di lotte locali per la corona, di tentativi stranieri - Angioini di Francia e d'Ungheria, condottieri italiani e aspiranti di Spagna -, d'impotenza statale. Ciò significò nuovi e maggiori interventi papali nel regno mal tollerati dalla regina Giovanna, la quale prestò giuramento ai legati avignonesi, ma si oppose che clero e popolo facessero atto di sottomissione.
Presso a poco, la stessa cosa nel regno di Sicilia. Il quale vide, col Vespro, crescere di numero e avvantaggiarsi l'aristocrazia e affievolirsi quel che c'era di regime comunale; prevalere una concezione dello stato che metteva questo in balia dei parlamenti, cioè della nobiltà, e rivendicava alla nobiltà il diritto anche di ribellione al re, se il re avesse violato i loro privilegi; crescere le grandi signorie feudali e scemare il numero delle città dipendenti dal re e i redditi demaniali; passare nel possesso della nobiltà le maggiori dignità e uffici, con tendenza da parte sua a tenerseli ereditariamente. Insomma, il regno di Sicilia subì lo stesso processo di disintegrazione feudale che già aveva subito il regno d'Italia nel IX-X secolo. Resisterono i re, specialmente i primi. Essi si considerarono successori legittimi degli Svevi e attesero a ricollegarsi alla loro tradizione, anziché a quella angioina, come dice Federico III. L'opera legislativa assunse il carattere di restaurazione nel senso stesso degli Svevi. Furono richiamate in vigore le costituzioni di Federico II da cui i Francesi avevano derogato; messo freno agli abusi e sottoposti a sindacato i grandi uffici; data una più rapida giustizia e libertà di pignorare, vendere, donare, lasciare in eredità il feudo o parte di esso; abolita la servitù contadinesca e comminate pene capitali ai padroni che si rifiutavano di dare esecuzione a tale misura; convocati parlamenti annui con nobiltà, prelati, sindaci di città; disposto perché solo i borghesi fossero ammessi agli uffici cittadini. Cioè, si cercò di stabilire un certo equilibrio fra le classi. Ma la lotta per riuscire a ciò, sempre più difficile e impari. I nobili vennero in possesso delle risorse della corona; prevalsero nei municipî; quasi s'identificarono col parlamento; divennero il centro attorno a cui tutto ruotava, per legami di dipendenza, amicizia, clientela. E il re perse di prestigio e autorità di fronte a loro. Sempre più perciò si consolidò l'abito mentale per cui il popolo non dal re ma dai nobili doveva attendersi tutto, e siffatto ordine di cose, imperniato sulla nobiltà, era considerato legittimo. Il pericolo poi di una restaurazione angioina accresceva la debolezza del re, nei riguardi dei nobili. C'era il caso che si gettassero nelle braccia del re Roberto, come fece il conte di Modica della famiglia Chiaramonte, che poi guidò una flotta napoletana lungo le coste dell'isola. In tali condizioni, difficile anche mantenere le vecchie tradizioni di politica africana. Nel 1337, andò perduta anche l'isola delle Gerbe, già acquistata da una flotta siciliana. Finalmente, morto Federico II, con i successori Pietro II, Ludovico, Federico III, nessun freno resse più. Il regno di Sicilia, come quello di Napoli, parve svanire, quasi inghiottito dalle sabbie mobili.
Più vive forze muovono dalla Valle Padana, terreno sostanzioso, che traeva qualche vantaggio anche dai nessi crescenti con l'Europa centrale e occidentale in via di sviluppo, mentre il sud, distaccatosi dal mondo orientale e nordafricano, sempre più s'isolava, almeno come funzione attiva. Mastino della Scala, signore di Verona e Vicenza, mise le mani anche su Treviso, Belluno, Feltre, Brescia, Piacenza, Parma e, di là dall'Appennino, Lucca: dal Cadore, insomma, alle foci del Serchio. Padrone di tante città, ricco di patrimonio familiare, non alieno, come tutti questi signori nati in mezzo alla borghesia cittadina, da speculazioni commerciali, egli dispone di larghissimi mezzi. E si parlò di corona regia che dovesse mettere suggello a tanta potenza, di "re di Lombardia" vicini a nascere. Ma poco durò questa grandezza. Gl'interessi offesi si coalizzarono, si volsero contro gli Scaligeri (1336-41), travolsero la vasta ma incoerente signoria, di cui non rimase che Verona e Vicenza. Fra questi interessi coalizzati, in prima linea, Venezia, già nemica degli Ezzelini; Venezia che vedeva minacciate le strade verso l'interno e sé stessa accerchiata. E ora Venezia fece un passo innanzi verso una politica di terraferma. Cominciò anzi ad acquistarvi terre di proprio dominio: e fu Conegliano, nel 1337 ragione e incitamento poi di altri acquisti. Oltre Venezia, Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano dopo Luchino, che riprende i piani di Matteo sulla Lombardia e oltre. Genova e Bologna cominciano a essere scopo di questa politica viscontea: Genova quasi porto di Milano da un paio di secoli; Bologna, porta della Romagna e Toscana, crocicchio di molte strade, luogo di controllo dì metà del commercio fiorentino verso Venezia e la Valle Padana, grande mercato di milizie mercenarie che lì si vendevano e compravano. La città, già guelfa e datasi al legato papale, poi da lui passata a Taddeo Pepoli, era adesso mal governata dai suoi figlioli: e da essi, Giovanni arcivescovo la comprò.
Da Bologna, il Visconti preme su Toscana e Romagna: che erano terreni accidentati e rotti, con molte città e signori malfermi, con popoli in attesa, sensibili a seduzioni e richiami da fuori. Pisa, umiliata alla Meloria, divisa fra i partiti, sempre timorosa di Firenze; Lucca, anch'essa passata per tante mani di signori e avventurieri, locali e transappenninici, è pur sempre ricca ma debole e, per queste due ragioni, oggetto di cupidige da ogni parte; Firenze, operosa, politicamente ed economicamente presente in ogni angolo di mondo, non è in un momento felice. Ha subito gravi sconfitte a Montecatini e Altopascio, si è vista i nemici alle porte, si sente circondata da un cerchio d'odio da parte delle città, e ha visto anche Genova solidarizzare con Pisa, è minacciata alle spalle verso i monti da un nugolo di signorotti, Ubertini, Pazzi, Tarlati, Ubaldini, ecc., che molto confidano in estranei interventi, si trova malamente armata contro le bande mercenarie che hanno nella Toscana un passaggio obbligato anche verso il sud e un buon campo di ricchi borghesi da mietere. E poi i commerci non vanno più tanto bene. Vì è stata, anche per questo, la grossa crisi bancaria che, cominciata nelle piccole banche, dopo il 1320 è salita su, fino a scrollare le grosse società, quelle che avevano affari di ogni genere in Francia e Inghilterra. Firenze è stata vicina anch'essa alla signoria. Prima, un Angioino, vicario per re Roberto; poi il duca d'Atene. La città prosegue nella sua evoluzione sociale, uno strato dopo l'altro. Ora, siamo agli artigiani minori, che si appoggiano ai nobili. E il duca d'Atene è diventato signore anch'egli, sfruttando e fomentando malanimo popolaresco e nobilesco contro i grassi borghesi, contrasti fra artigiani organizzati e non organizzati. Ma Firenze ha grandi riserve di mezzana e alta borghesia. Essa è troppo "popolo" e "libertà". Essa non è un comune, è il comune: quasi potremmo dire, ormai, un principio. Si considera rappresentante e capo morale di quanti vivono ancora a comune o a comune vogliono tornare. Superato ogni pericolo di signoria, dopo cacciato a furia di popolo il duca d'Atene, prosegue nella sua evoluzione politico-sociale, conciliando ciò che le altre città non avevano saputo conciliare, regime popolaresco e comune. Perciò, ora affronta bravamente il "tiranno", il Visconti, quando, sollecitato e accompagnato dai ghibellini toscani, scende nel 1351 giù per i monti. Il tiranno non passò. Ritentò l'anno appresso, cercò di stringere Firenze anche dalla parte dell'Umbria: ed ebbe in dedizione Orvieto e Bettona. Ma le altre città toscane e umbre, comprese quelle in cui Firenze aveva molti nemici, si collegarono. La repubblica, che odiava i tiranni, trovò qualche aderente fra quelli di Romagna; si volse anche, essa, città antighibellina per eccellenza, a Carlo IV imperatore, ed ebbe segreti colloquî con inviati imperiali venuti in Italia e strinse patti con essi. Finora, a capo di ogni lega contro signori oltramontani era stata Firenze. Ora, piuttosto i Visconti. Firenze alla funzione di avversario primo e maggiore di ogni signoria che dal nord o sud vorrà allargarsi su tutta la penisola. Il Visconti fallì anche questa volta, in Toscana, trovando tuttavia compenso a Genova, che gli si diede ed ebbe da lui governo e denari in prestito per armare galere. Egualmente fallì, l'arcivescovo, in Romagna, ove più forte era la posizione e più energica l'azione dei papi.
Roma sede dell'impero e del papato, "Caput Italiae". - Nell'assenza dei pontefici, si venivano svolgendo anche entro lo Stato della Chiesa i germi della signoria, presenti ovunque fossero vita di comune e potenti famiglie più o meno mescolate alla vita dei comuni. Poco avevano potuto fare, per impedire questa evoluzione, i legati papali, compreso Bertrando del Poggetto. Ed era venuta su una folla di piccoli signori, ora disposti a solidarizzare nel momento del pericolo, ora tendenti a sopraffarsi nella violenta e fraudolenta gara. E realmente, alcuni erano riusciti a stabilire più o meno effimeri predominî: i Malatesta di Rimini, che nel 1350 si presero Ancona, Osimo, Ascoli, Iesi, Senigallia, cioè quasi tutta la Marca; gli Ordelaffi di Forlì, che ebbero Cesena e altri luoghi. Più verso Roma, il prefetto di Vico, impadronitosi di Viterbo ebbe potere su quasi tutte le terre del patrimonio.
In questo tempo, l'urbe era proprio nave senza nocchiero. La politica temporalesca e nepotistica di Bonifacio aveva inasprito i contrasti tra le famiglie maggiori, raggruppate attorno a Caetani e Colonna: quelle lotte che, come avevano reso difficile in Roma l'elezione del pontefice, ora rendevano difficile la designazione e l'azione del governo civile. La venuta di Enrico VII e di Ludovico il Bavaro aveva rinfocolato i partiti o, meglio, fazioni, in cui guelfismo e ghibellinismo erano maschere d'interessi pratici di famiglie e di gruppi di famiglie. Naturalmente, distrutto anche ogni commercio, sviata la corrente dei pellegrini, la città quasi adeguata alla campagna circostante, ove non era che rozza feudalità, contadiname ignaro, vita pastorale. In tali condizioni, ecco un tentativo di dittatura popolaresca: che naturalmente si colorò di antico e classico; v'era sostanza, idealmente parlando, della vita di Roma. Così era avvenuto con Alberico, così con Arnaldo da Brescia, così con Cola di Rienzo: ora che la renovatio, cioè la restaurazione di Roma antica nei pensieri, nelle immagini, nei desiderî, quasi la piena sua riabilitazione morale e storica è in rapido corso. Cola si fece a propugnare un rinvigorimento dell'autorità pubblica per mezzo del popolo, che mise capo nel 1347 a un nuovo governo democratico. Rinnovò il tribunato del popolo e assunse il titolo relativo. E come tribuno, si diede a frenare il disordine, bandire dalla città signori turbolenti, assicurare giustizia. Ma poteva, chi operava da Roma con tanto fervido animo, starsene con la mente chiusa entro le mura? Roma voleva dire il mondo. Cominciava anche a voler dire l'Italia, centro o giardino di qucl mondo. E ora Cola non solo vagheggiò di liberare Roma e restaurare l'antica repubblica, ma anche di rigenerare la sacra Italia, raccoglierla ordinata attorno a Roma. Roma e Italia non si disgiungono mai, nel pensiero del tribuno. Per la salute, la pace, la giustizia dell'una e dell'altra egli lavora; anzi, lavorando per Roma, egli lavora per tutta Italia. L'autorità di cui si fa forte, a lui viene "tanto dal popolo romano, quanto dai popoli della sacra Italia". "Roma e la sacra Italia sono da ridurre a unione concorde, pacifica, indissolubile". È qualcosa di più che non invocasse Francesco Petrarca, che poco si fermava sulla natura giuridica o politica del vincolo che avrebbe dovuto collegare tutti gl'Italiani, pur vedendo egualmente strette da un comune destino Roma e l'Italia.
Intanto, proclamò libere tutte le città e i popoli d'Italia, dichiarò cittadini romani questi popoli, li incitò contro i "tiranni" e contro i "barbari". Già da un pezzo questa parola "Italia" cominciava ad assumere intonazioni nuove: non la Valle Padana o il regno già dei Longobardi, ma la penisola tutta; e non solo un certo paese fisicamente individuato e uno, ma un paese di un certo sangue, e distinto per vicende storiche, per la sua presente infelicità, per la sua lingua, per specifici caratteri di nobiltà, che ne fanno "regione nobilissima d'Europa". Ora, a mezzo il sec. XIV, questa nozione e questo sentimento della individualità e unità della penisola è apertissimo. E l'Italia comincia a essere quel valore morale che mai più si smarrisce. Lo stesso Petrarca, toscano di Arezzo, che vive in questo tempo dividendo la sua dimora tra Francia e Italia e nel 1336, tornato con i Colonna da Avignone, visita Roma, ricevendone impressione incancellabile; nel 1338-40 compone l'Africa, celebrando come grande gesta nazionale la seconda guerra punica, nel 1341 riceve in Campidoglio la corona d'alloro, come poeta e storico.
Cola concepì in modo nuovo anche i rapporti fra Italia e impero. Da tempo, come si veniva affermando che l'impero derivava da Dio, ma era conferito "per autorità del senato e del popolo romano" e si vedeva dai giuristi bolognesi e italiani la prima ed essenziale fonte della sovranità imperiale nella lex regia o de imperio, con cui il popolo romano aveva conferito la sua podesta all'imperatore; cosi anche serpeggiava l'idea che l'imperatore dovesse risiedere a Roma e anche essere italiano. Poteva ciò essere un aspetto della renovatio; poteva essere una reazione alla crescente appropriazione dell'impero che da tempo i Tedeschi venivano facendo, sin da quando quegli Elettori, mettendo il regno di Germania invece del regno d'Italia a fondamento dell'impero, affermavano l'uomo da essi prescelto al trono di Germania essere ipso iure imperatore. Ancor più ora. Due diete di principi, a Rhense e a Francoforte, nel 1338, sancivano che non solo il loro eletto era da considerare legittimo re di Germania senza bisogno di approvazione papale, ma che, essendo l'impero stesso da considerare cosa del re, degli elettori, del popolo tedesco, il re eletto era anche investito di titolo e poteri imperiali. Si finiva, con queste deliberazioni e proclamazioni di diete tedesche, di nazionalizzare l'impero e si faceva della sua autorità sopra i particolari regni e popoli l'autorità di una nazione su altre nazioni. Di qui la crescente ripugnanza degl'Italiani all'impero o, in realtà, al re di Germania e ai Tedeschi. E si profilavano in Italia soluzioni più o meno utopistiche del problema dell'autorità suprema, ma diverse da quelle dell'età precedente e assai significative: un re d'Italia italiano; un re d'Italia che potrebbe anche, dal possesso di quel regno, derivare il diritto all'impero e aver sede in Roma.
Ecco appunto Cola di Rienzo. Egli faceva dell'impero, da effettuare per avventura anche in forma repubblicana, cosa di Roma, anzi di Roma e dell'Italia, quasi del tutto staccate dal vecchio quadro della monarchia universale e strettamente collegate l'una all'altra: collegate già nel creare le fortune dell'impero, Romanorum et Italicorum laboribus propagatum; collegate ora nel conservarlo.
Ma su questi tirannelli romagnoli e marchigiani, su questo dittatore romano e vagheggiatore di una Roma che non era certo quella papale, seguitava a vigilare la curia di Avignone, a cui era impossibile estraniarsi dall'Italia, dalle terre della Chiesa, da Roma, e a cui spesso dall'Italia, dalle terre della Chiesa, da Roma giungevano sollecitazioni e invocazioni di ritorno. Così, nel 1353, Avignone mandò ancora un suo luogotenente in Italia. Ora, più precise e circoscritte le aspirazioni e le attività della curia. Non più la Lombardia, ma la Romagna e Marche e stato della Chiesa vero e proprio, al fine di mettere pace tra le fazioni e ristabilire in dipendenza diretta o indiretta le terre papali. Il Medioevo si allontanava. Calcolo politico più che sogni imperiali animava l'azione del pontificato. L'uomo che papa Innocenzo VI investì di questo compito era il cardinale spagnolo Egidio Albornoz.
Bene accolto fu l'Albornoz da Giovanni Visconti. Gli fece festa, ma senza convinzione, Firenze. Bologna gli chiuse le porte in faccia. Era, insieme con lui, Cola di Rienzo che, dopo la fuga da Roma, si era rifugiato nel 1350 presso Carlo IV imperatore e re, era stato da lui consegnato al papa che pensò di trarre profitto del tribuno ai fini della restaurazione. Difatti, Cola fu ricevuto a Roma, che era ricaduta nel disordine, con grandi manifestazioni di giubilo e di fiducia. E riebbe il potere, questa volta come senatore di nomina pontificia; si rimise al lavoro col consueto sincero e un po' scomposto ardore. Ma la rivolta popolare un'altra volta scoppiò; Cola di Rienzo fu ucciso. E in Romagna e Marche, i tirannelli, l'uno sospettando dell'altro, facevano l'un dopo l'altro atto di sottomissione, rimanendo come vicarî: che era una via di mezzo, oggetto di qualche ironia da parte dei giuristi del tempo. Resistettero i Manfredi di Faenza e gli Ordelaffi. di Forlì. E contro di essi tutte le armi furono scatenate, tutte le condanne pronunciate. In piccolo, una lotta non diversa da quella di venti o trent'anni prima in Lombardia. Ma l'Albornoz, che pure aveva poche forze, ebbe ragione di loro.
L'Albornoz riordinò le terre della Chiesa, pubblicò nel parlamento provinciale delle Marche, il 1357, le Costituzioni Egidiane, riebbe nel'60 Bologna, dopo scaduto il decennale vicariato del Visconti; sgombrò la via del ritorno al papa, sempre più invocato da molte parti. Breve dimora a Roma fece, nel 1369, Urbano V, che poi se ne tornò in Francia, provocando nuove rampogne e invettive di uomini di Chiesa e di uomini di mondo, Caterina da Siena e Francesco Petrarca. Vi ritornò nel 1377, con più ferma intenzione di rimanervi, papa Gregorio XI.
Ma quale ritorno! Col pontefice, bande di mercenarî stranieri che misero a sacco e sangue Cesena. E parecchi Francesi, verso i quali l'opinione pubblica, specialmente nello Stato della Chiesa che già ne aveva sul collo un nugolo, rettori, vicarî, funzionarî di ogni genere, era avversissima. Peggio ancora: nel 1372, quel pontefice aveva capeggiato e animato una grande lega antiviscontea che, sebbene raccogliesse questa volta le forze di molti signori e città dell'alta Italia, pure è da ricollegare un po' all'altra campagna della prima metà del secolo. Ora, tornato in Italia, ebbe guerra con Firenze. Firenze non aveva visto con molta gioia la ricostituzione dello stato pontificio. Poteva Firenze desiderare che il ritorno dei papi assicurasse alla Chiesa Bologna e chiudesse ai Visconti le porte della Romagna; ma assisté con dispetto al ricupero di Perugia da parte della Chiesa. Un forte stato papale ai fianchi non entrava nei suoi disegni. Soffriva poi in sommo grado dei crescenti divieti di esportazione del grano e delle altre derrate verso il territorio fiorentino, che i governatori papali, in pieno accordo con le popolazioni, facevano. Questa guerra fu violentissima e combattuta dai Fiorentini anche con le armi della propaganda. Essi lanciarono eloquenti proclami a principi e a popolo, redatti in bel latino sonante. Toccarono con essi le corde ormai sensibili degl'Italiani quando bollarono la cupidigia papale e la vergogna dei loro mercenarî, e, sollecitando tutti gl'Italiani contro il papa, fecero appello al loro sentimento nazionale, alle loro gloriose tradizioni di latinità, cioè italianità, contro gli oltramontani. Ma difficile a una città di mercanti, che aveva capitali e interessi in tutto il mondo, lottare contro una potenza quale il papato, che era più veramente internazionale dell'impero e che, dichiarando i beni dei Fiorentini proprietà di chiunque se li prendesse, poteva trovare molta gente disposta a obbedire e a seguirlo. Dovettero in ultimo venire a patti, quando videro tutta la loro ricchezza alla mercé del pontefice (luglio '78); dovettero restituire le terre della Chiesa che avevano occupate. Momento grave, per la vita di Firenze. Dopo il danno e l'umiliazione dal di fuori, la rivolta dentro, provocata dai ceti minori, dagli operai non organizzati, fra i quali circolavano miti e speranze di rinnovamento sociale, di spartizione e appropriazione dei denari, delle case e delle terre dei ricchi borghesi. E poi, qualche anno di prevalenza di arti minori, a cui la politica estera era estranea e che male incarnavano l'interesse pubblico, dello stato.
Così i tempi felici, sperati dalle anime religiose che avevano sollecitato il ritorno dei pontefici nella loro vera sede, non vennero. Morto l'anno dopo che aveva riportato la sede in Roma, papa Gregorio XI, il nuovo papa, Urbano VI, che era un italiano, si vide dai cardinali francesi, certo frettolosi di tornare ad Avignone, contrapporre un papa della loro gente, Roberto di Ginevra, il condottiero delle bande bretoni che avevano insanguinato al papa la via da Avignone a Roma. Scisma e guerra. Bande mercenarie da una parte e dall'altra. Ma da parte di Urbano, bande d'Italiani, comandate da Alberico da Barbiano, che, in una battaglia vicino a Roma, vinse le bande bretoni avversarie. Alberico da Barbiano segna l'inizio del tramonto del mercenarismo straniero nella penisola, e anche l'elevazione morale del capitano di bande, che non è più un volgare avventuriero e mercenario e rapinatore, ma un condottiero, un aspirante a signoria, uno anzi che signoria già possiede e la vuole accrescere e la vuole arricchire con i denari delle condotte: quindi qualcosa non più di estraneo e quasi sovrapposto alla vita italiana, ma di organicamente collegato alla vita italiana, politica e culturale insieme, come erano i signori. Anche nel rapporto politico, questa guerra di papi ebbe qualche riflesso italiano. Lo scisma suscitò la questione del regno di Napoli, che gli Angioini di Francia contendevano agli Angioini d'Italia, cioè alla casa di Durazzo. Ora, avvenne che Urbano VI si volse a Carlo di Durazzo; Clemente VII, a Luigi d'Angiò, fratello del re di Francia. E a lui il papa o antipapa, bisognoso di aiuto, di testa sua e senza concorso di corpi consultivi, con una bolla datata da Sperlonga, assicurò titolo regio e un regno da ritagliare sullo Stato della Chiesa, a sud del Po, un regno d'Adria, che Carlo e successori avrebbero dovuto riconoscere dalla S. Sede, come già gli Angioini di Napoli il regno di Napoli. Era, anche questa, una forma di secolarizzazione del patrimonio ecclesiastico, che rispondeva alla coscienza anticuriale e, a volte, schiettamente religiosa del laicato colto, degli spiriti religiosamente elevati. E durante le lotte del '300, negli scritti di politici e giuristi, questa nota antitemporalista, politica e religiosa insieme, è piuttosto frequente. Ma non meno rispondeva a interessi di principi italiani e stranieri, specialmente della corona di Francia, che già da tempo avevano fatto piani di secolarizzazione dei beni ecclesiastici, compreso lo Stato della Chiesa, che avrebbe dovuto essere ceduto in perpetua enfiteusi, "a un gran re o principe". Né dovette mancare il suggerimento di qualche consigliere, come quel Niccolò Spinelli da Giovinazzo, che manteneva strette relazioni con Clemente antipapa e con Luigi d'Angiò.
Signorie e principati.
Primato visconteo. - Negli ultimi decennî del '300, lo Stato della Chiesa è, per lo scisma, di nuovo in alto mare e quasi annullato, per gravissima crisi, il regno di Napoli, in mezzo alle lotte prima tra la fazione dei Sanseverino e la fazione dei potentissimi duchi d'Andria, appoggiati a una vera e propria organizzazione militare che veniva reclutata nel paese e fuori; poi, date le aspirazioni degli Angioini di Francia sul regno, fra partigiani degli Angioini italiani e degli Angioini francesi, del papa italiano e dell'antipapa francese. Con ciò, il regno di Napoli quasi non esiste più come potenza italiana. Ancora più estraneo alle vicende della penisola è il regno di Sicilia, diventato ormai appannaggio della nobiltà, che è poi divisa e discorde: nobiltà antica e originaria da una parte, recente e immigrata dall'altra, cioè latina e catalana, Ventimiglia, Palizzi, Alagona, Chiaramonte, ecc. Vi fu anche in Sicilia, come a Napoli, una fase donnesca, che segnò il predominio assoluto di queste famiglie: precisamente dopo la morte di Federico III (1377) che, lasciando erede la giovinetta Maria, scelse quattro vicarî che governassero per lei, il conte Francesco di Ventimiglia, Manfredo di Chiaramonte, Artale di Alagona, tutore, il conte Guglielmo Perala. Fra parzialità catalana e latina, la giovane signora si appoggiò a quest'ultima, che voleva dire poi la conservazione del regno nella sua indipendenza da Spagna. Regno di Napoli e regno di Sicilia erano ambedue soggetti all'alto dominio della Chiesa: e naturalmente, questi anni e decennî d'impotenza interna e di cupidige esterne segnarono per l'uno e per l'altro regno nuove ingerenze politiche della S. Sede.
Insomma, appariva quasi disfatta l'opera dei Normanni. Dico l'opera politica; poiché nel frattempo erano innegabili certi progressi della società napoletana e siciliana, dovuti anche al nuovo ordine instaurato con i Normanni stessi e ai contatti con la più progredita e dinamica Italia dei comuni e delle signorie. Si svolgeva infatti nel Mezzogiorno, durante il XIV secolo, una certa vita municipale, si elevavano le condizioni giuridiche degl'infimi ceti, si elaborava una cultura giuridica e letteraria paesana, si apriva il paese agl'influssi artistici e linguistici della Toscana. Approssimativamente, par di vedere nei regni di Napoli e Sicilia, con alcuni secoli di ritardo, la vicenda stessa per cui era passata l'Italia longobarda, con la stessa corrosione, dall'interno, del vecchio regno barbarico e la ricostruzione, dall'interno, di una nuova e propria vita italiana. Solo che, nel sud, né questa ricostruzione dall'interno è così rapida e ricca e varia come nel nord e nel centro della penisola; né il regno scompare. Cominciò con lo spezzarsi in due, e di nuovo si resero estranei l'uno all'altro; poi i due regni quasi si dissolsero come forza statale, come credito internazionale, come capacità di agire fortemente ed egemonicamente nella penisola; passarono ambedue dall'una all'altra dinastia straniera e, in ultimo, sotto una dinastia d'origine aragonese ma avviata a naturalizzarsi; finalmente ricostituirono certa unità e personalità giuridica e indipendenza. Laddove nel nord, il vecchio regno è morto per sempre e i pensieri, le immaginazioni, le speranze degl'Italiani sono dalla stessa frammentarietà politica della regione portati a enuclearsi via via, prima che altrove, intorno a un centro ideale che si chiama Italia, creatura di lenta formazione, plasmata dalla cultura degl'Italiani, animata poi dalla nuova società italiana del '700 e '800, sollecitata dalla stessa fermentante e dinamica vita europea.
In tali condizioni, la storia della penisola finisce di spostare i suoi centri: verso la Toscana e la Valle del Po, dove la formazione dei nuovi stati territoriali, a forma monarchica o repubblicana, è in pieno corso. Vi è ancora una miriade di città libere e di piccoli signori. Ma noi li vediamo tutti più o meno ruotare attorno ai maggiori, Firenze, Savoia, Visconti, ormai anche Venezia. Sono questi, ora, i protagonisti sulla scena della penisola. Attorno a loro si formano quelle leghe o taglie, che riempiono buona parte del Trecento, in specie la seconda metà, ora di sole città ora di città e signori insieme; ora regionali, ora quasi nazionali per l'ampiezza loro. Gli scopi delle leghe sono o infrenare questa e quella compagnia di mercenarî stranieri, rovinosi per tutti; o premunirsi contro possibili discese di principi d'oltralpe; o difendersi da qualche signore italiano troppo potente. Giuridicamente, si vuole conservare lo statu quo, mantenere la libertà di ognuno. In effetto, come già le vaste organizzazioni dei partiti, così anche le leghe concorrevano a logorare gli stati più piccoli, a vantaggio degli altri.
Nella regione nord-occidentale, i Savoia avevano proseguito, nel '200, ad allargarsi di qua dalle Alpi, sempre tuttavia con la prevalenza del ramo transalpino sul ramo cisalpino, anche come attività italiana. La formazione di un dominio angioino in Piemonte, coevo alla conquista del regno di Sicilia, aveva per un verso contrariato, per un altro promosso, il crescere dei Savoia: perché gli Angioini diedero nuovi colpi alla vita municipale della regione e vi provocarono anche certa unità antiangioina che aiutò, insieme, le fortune dei marchesi di Monferrato, e le fortune dei Savoia. Vi fu, poi, il crollo dei Monferrato: e anche di questo i Savoia si giovarono. Venne Enrico VII, e i Savoia ne ebbero dignità e uffici: compresa la nomina di Luigi a senatore di Roma nel 1311, con il compito di preparare la via a Enrico verso l'incoronazione imperiale. Scomparve Enrico e fu ripreso lo sforzo contro gli Angioini, in solidarietà con gli altri signori della regione e con i Visconti che, da queste vicende, sono essi pure tratti verso il Piemonte, che era anche la strada del commercio milanese e lombardo verso la Francia. E nel 1339, una lega di Savoia, Acaia, Monferrato, Saluzzo, Visconti contro le terre angioine si risolve in quasi rovina di questa casata e a gran guadagno dei Savoia e dei Visconti. Altra coalizione nel 1345-46 capeggiaia da Amedeo VI, il Conte Verde: e si ebbero due vittorie sulle milizie provenzali e la spartizione di nuova preda. Riuscì agli Angioini, che possedevano i valichi delle Alpi, di ricostituire ancora il loro dominio nel'55: e si ebbe nuova guerra. Ma ormai la solidarietà Savoia-Visconti non reggeva più e la vita politica della regione lombarda e piemontese veniva imperniandosi sulla rivalità delle due potenti casate. E la lega italica del 1372 fra Chiesa, Napoli e Angioini, Monferrato, Savoia, contro Bernabò Visconti, ebbe a capo il Conte Verde. Vi fu, nel 1372, invasione del territorio visconteo, scontri vittoriosi, città messe a sacco, parziale ricostituzione angioina, acquisti sabaudi nel vercellese. Ma i Visconti avevano unità di comando. E si salvarono, proseguirono nell'ascesa: solo che, diventato difficile allargarsi a ovest che si veniva facendo una regione consistente, si volsero piuttosto verso altre direzioni, pur senza perdere di vista il Piemonte, ove possedevano Asti.
Molta riputazione di forza godevano allora in Italia i Visconti: molte città sotto di loro, fra cui Pavia e Milano, già capitali di regno e ora, quest'ultima, fra le più ricche e industriose, anche d'industrie belliche; molti mezzi finanziarî, molte milizie. Non era mancata loro neppure quella specie di legittimazione morale rappresentata dalla lode di un grande e reputatissimo poeta, Francesco Petrarca, ospite desiderato dell'arcivescovo Giovanni dal 1353 al 1361. Bernabò persegue anche, a scopo di accreditarsi e legittimarsi, una politica matrimoniale di vaste linee. Diede a condottieri e principi e principesse italiani e stranieri, a Giovanni Acuto e Francesco Gonzaga signore di Mantova, a Stefano e Federico di Baviera, a Leopoldo duca d'Austria e Pietro II di Cipro, al duca di Kent Edmondo, i moltissimi figli avuti da mogli e concubine. Anche con la Francia cercò annodare vincoli matrimoniali, conchiusi poi per opera del suo nipote e successore. Anche con Federico III di Sicilia, a cui voleva dare una figlia: e poiché quegli morì, cercò di procurare la giovane vedova Maria per un altro suo figliolo. La Sicilia accendeva desiderî e speranze dei Visconti: ma urtò nell'opposizione dei nobili più potenti, e del papa, senza il cui consenso quelle nozze non si poterono celebrare. Mentre contraeva tali rapporti con principi di mezza Europa, egli cercava di tirare a sé gli altri governi della penisola. Parlava a tutti dei grandi pericoli che minacciavano l'Italia, delle ambizioni del re d'Ungheria, del duca d'Angiò, dell'impero, dello stesso re d'Inghilterra. Nel 1380 si fece promotore di una grande alleanza con le città di Toscana, Romagna e Marche. Si offrì, se esse gli davano soldati o denari per ingaggiarli, di prendersi lui sulle spalle il peso dell'impresa, a conservazione dell'Italia e degli alleati, in modo che né società di ventura né straniere e barbare genti potessero invadere l'Italia contro la volontà degl'Italiani. Specialmente premé su Firenze. Ma un'unione di tutti gli stati italiani, se era difficile per la molteplicità e varietà degli stati, era resa ancora più difficile dalla diffusa preoccupazione che essa potesse servire di gradino all'uno o all'altro, per salire in alto e mettere a tutti il piede sul collo.
Venne poi, col 1385, Gian Galeazzo, che precisò ancor meglio le direttive della politica viscontea e si mise con accortezza e audacia sulla via delle realizzazioni.
Anch'egli, come i suoi antenati, guardava alla Toscana, spinto da interessi politici e mercantili insieme. Pisa rimaneva sempre legata a Bernabò e Gian Galeazzo, sebbene ora, sotto la quasi signoria di Pietro Gambacorta, i suoi rapporti con Firenze si fossero addolciti. Nello stesso 1385, il Visconti ebbe in dedizione Carrara. Contemporaneamente riprendeva il progetto del 1380 per una lega: e la conchiuse il 31 agosto a Legnano, rinnovandola nel 1389. Vi entravano Firenze e Bologna, libere Pisa e Lucca di accedervi, come infatti vi accedettero, insieme con Perugia, Siena, Urbino, Forlì, Estensi, Gonzaga, Malatesta, che già formavano particolari leghe ma ora si unirono quasi in una federazione di leghe. Anche ora, la ragione o il pretesto sono le compagnie. Ma Gian Galeazzo i fini maggiori e più positivi della sua politica parve volesse cercarli, anziché nella Toscana, nella valle del Po, specialmente nella regione veneta. Qui, Estensi, Gonzaga, Scaligeri, Carraresi, duchi d'Austria, signori di Treviso, il patriarca di Aquileia, una folla di piccoli feudatarî e di comunità semilibere del Friuli. C'è, al margine, Venezia, ma ancora quasi accampata sulla terra ferma. Principalissima se non proprio unica preoccupazione sua, la libertà delle vie alpine, necessarie ai commerci di cui vive. Perciò, non si disinteressa certo di tutta la regione retrostante. Cerca di tenere in briglia Scaligeri e Carraresi e casa d'Austria, incoraggia gli spiriti autonomistici dei comuni minori contro Udine, capitale della "Patria del Friuli", coltiva l'amicizia dei Carnî e Cadorini, dei Colloredo e dei Savorgnan, cerca di governare il patriarcato per mezzo di prelati suoi cittadini o sue creature: ma non s'impegna molto. Venezia è tutta concentrata nelle guerre con Genova, nella difesa degl'interessi orientali, nelle faccende della Dalmazia che il re d'Ungheria gli ha portata via ed essa cerca di ricuperare, anche per togliere ai Genovesi degli alleati e delle basi navali in pieno Adriatico: tutti problemi imperniati su quello centrale che era dei traffici e del dominio marittimo. In terraferma, per ora, si giova delle guerre altrui e magari le provoca da lontano. Più avviato verso un dominio del retroterra veneziano parve invece, per qualche decennio, Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova che è, dopo Venezia, la maggiore città della regione, ricca di commerci, legata strettamente a Firenze, fornita di uno "studio" che ormai supera quello di Bologna. E poi una regione in progresso agricolo e ricca di vie d'acqua. Nel 1383 il Carrarese fa guerra al duca d'Austria e gli toglie Treviso. Acquista poi Belluno, Ceneda, Conegliano, Serravalle. Sono arrestati così i progressi degli Asburgo nella regione veneta. Ma ambizione del signore di Carrara sarebbe di succedere agli Scaligeri, ormai fermi e ridotti a poco, dopo la troppo rapida fortuna di Mastino. In questo, egli s'incontra con Gian Galeazzo. Nel 1386, alleanza fra Carraresi, Gian Galeazzo, Estensi contro gli Scaligeri che, fra nemici esterni e insurrezione di popolo, crollano: ma il frutto migliore della vittoria, che è Verona e Vicenza, se lo prende Gian Galeazzo. Il quale, poi, volta subito fronte: si mette d'accordo con Venezia contro i Carraresi; e insieme, li abbattono, li spogliano e l'una si prende Treviso, l'altro Padova, Feltre e Ceneda. Così Gian Galeazzo comanda da Vercelli fin quasi all'Adriatico e controlla grandi strade di qua dalle Alpi e attraverso le Alpi. Poco dopo, anche Genova, per patto conchiuso con Antoniotto Adorno, doge, si apre ai Visconti. Ora, datasi Genova a Gian Galeazzo, questi spera di avere da quella mezzi di ulteriore espansione, specialmente in Sicilia; quella, difesa e possibilità di alimentare la propria marineria e i proprî commerci. Ci sono, poi, pensieri e possibilità comuni contro Venezia.
A questo punto, comincia la reazione italiana contro Gian Galeazzo. Firenze, sebbene non presa troppo di mira dal Visconti ma sospettosa di lui, si allea con Bologna, cerca di attirare Venezia, ancora alleata del Visconti. Si delinea una coalizione, diretta da Firenze, in cui entrano tutti i piccoli stati nemici del Visconti e timorosi di lui. Venezia è neutrale, ma sottomano aiuta costoro. È il tempo che la repubblica, in conseguenza degli aiuti militari e finanziarî dati all'Estense, riesce ad acquistare vera preminenza in Ferrara, che è parte della lega, e ottiene in pegno il Polesine di Rovigo, cioè la padronanza del basso Po e basso Adige. L'antagonismo tra Firenze e il Visconti diventa perciò, ora, fatto centrale della politica italiana. Firenze sollecitò in Italia anche il conte d'Armagnac, che mosse contro Alessandria. Ma il 25 luglio 1391, queste bande furono affrontate dai viscontei sotto le mura della città e ripetutamente battute. Grido di trionfo del signore di Milano, annunciando la vittoria delle sue genti, "delle mie genti italiane", contro i Francesi del conte d'Armagnac, discesi in Italia, come sempre, pieni di sprezzante orgoglio per i "vili Lombardi". Ora Visconti e Firenze fanno egualmente la ruota, per ingraziarselo, attorno al re di Francia, che molto gradisce questi lusinghieri richiami. Egli desidera Genova, ha da rivendicare Napoli per gli Angioini, ricuperare per essi o per sé qualche terra piemontese. Altri obiettivi e altre prede gli additano a gara Firenze e Gian Galeazzo. Quella, le ricche terre viscontee, da spartire fra lui e il conte di Savoia o da rimettere in libertà; questi, le terre della Chiesa, quasi abbandonate e già, in altro momento, offerte dall'antipapa Clemente. Alleato col re di Francia, solidale col duca d'Orléans nel circuire la Toscana per averla a discrezione, Gian Galeazzo, a cui la sorte delle armi non andava bene, avrebbe con questi aiuti sgominato la coalizione avversaria. Intorno a tutto questo corsero trattative. Lo Spinelli ne parlò a corte di Francia e ad Avignone. Il re di Francia era ben disposto. Non sentiva più gl'Inglesi da Occidente in questo momento; e poteva rivolgersi verso l'Italia. Nessun diritto a lui sarebbe venuto sulle terre del Visconti; ma il Visconti avrebbe posto le armi di Francia sopra il suo scudo. Fu messo mano a preparare una spedizione dell'Orléans, per terra, verso lo Stato della Chiesa; e una verso Napoli. Recalcitrava l'antipapa. Ma nell'agosto '94, tutto era quasi pronto, per dare nascimento a un nuovo regno in Italia, con la Romagna, Marca, Bologna, Ravenna, Perugia, governato da una dinastia francese e vassallo della S. Sede, posseduto ereditariamente e coordinato col regno di Napoli. La morte del papa, 16 settembre, deviò il corso delle cose.
Il re di Francia allora si lasciò vincere dalle lusinghe dei Fiorentini e dalla loro abilissima diplomazia; e a lui Gian Galeazzo dovette cedere Genova. Ma dal re dei Romani, Venceslao, bisognoso, come tutti, di denari, gli venne qualcosa che, in quel momento, valeva più di Genova: cioè la elevazione di Milano e di venticinque altre città di Lombardia e del Veneto a ducato e l'investitura fattane a lui, a titolo ereditario. Non era il regno d'Italia, indipendente o anche nel vassallaggio dell'impero; ma era il riconoscimento della signoria, la legittimità piena, l'elemzione a un rango altissimo nell'antico regno, maggiore libertà anche dal popolo, che era stato il primo fondamento legale della signoria. Firenze, che teneva gli occhi aperti dappertutto, cercò sventare il colpo, anche mettendo su i principi tedeschi. Ma non riuscì. È un momento in cui Milano vale più di Firenze. Quella, ha più corde nella sua cetra. Ora, anche quella "nazionale", per il vanto che i Visconti si davano di aver tenuto indietro o ricacciato ogni milizia o signore straniero che, "violando la natura", cioè la cerchia delle Alpi data a difesa dell'Italia, cercavano d'avervi dominio; di avere, quando la penisola languiva senz'armi, restaurato l'antica disciplina, mostrato non avere gl'Italiani bisogno d'armi e armati forestieri. Così, poco dopo, un panegirista lombardo di Gian Caleazzo.
E tuttavia, i maggiori stati della penisola sono ormai contro il Visconti. E trovano alleati anche fuori: Isabella di Baviera regina di Francia, i principi tedeschi che rimproverano al loro re il mercimonio dei diritti dell'impero. Gli esuli figli di Bernabò e i Fiorentini conducevano una grande campagna di diffamazione contro il duca. Nel 1398, mezza Italia e il re di Francia erano in lega contro di lui: e questa volta si scoprì anche Venezia. L'irriducibile ostilità di Firenze spinse Gian Galeazzo a cercare anch'egli alleati e sudditi in Toscana e nell'Umbria. Così guadagnò Pisa, Siena, Perugia, Assisi. Mosse contro di lui il nuovo re dei Romani, Roberto, sollecitato dai collegati italiani e dai principi dell'impero. Ma a Brescia, Ottobuono Terzi e Facino Cane, condottiero del Visconti, lo affrontarono e lo ruppero. E il Visconti poté occupare anche Bologna. In questo momento, la morte colse Gian Galeazzo.
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Era appena calato nel sepolcro, che il grande edificio di Gian Galeazzo Visconti scricchiolò tutto, cominciò a sfaldarsi, fu sopraffatto dalle cupidige degli amici e dai rancori dei nemici, condottieri o signori spodestati o gruppi di nobiltà cittadine. E non solo si staccarono le parti lontane, ma anche il nocciolo centrale si dissolse. Tutti i condottieri viscontei vi si fecero una signoria: Gabrino Fandulo a Cremona, Pandolfo Malatesta a Brescia, Giovanni Vignati a Lodi, Filippo Arcelli a Piacenza, Facino Cane ad Alessandria, a Novara, a Tortona, fin quasi dentro Milano, mentre Anguissola, Landi, Scotti, altri feudatarî dell'oltre Po, mal domi e pronti sempre alla riscossa, saccheggiavano quelle terre. Intanto altri sollecitavano altre discese di stranieri.
Insomma, tutte le vecchie e nuove forze della politica italiana, di nuovo in movimento. Quando trovavano un centro in cui convergere, un capo che le dominasse e insieme fornisse loro possibilità d'azione, riuscivano a comporsi in una qualche unità, fondata su quegli elementi di coesione che pure erano nel territorio; quando quel centro o capo veniva meno, ecco tutto si rilassava, ognuno ridiventava centro a sé stesso. Neanche il riconoscimento regio era rimedio sufficiente. Troppo corroso era ogni principio d'autorità. Troppo diffusa la persuasione che la forza valesse più del diritto. Mancava, poi, a questi signori di recente origine, quella consacrazione del tempo, religiosa e umana, che levava in alto il principe, di fronte ai sudditi discordi e alle bande di ventura. Così la fortuna di queste signorie era ancora legata alla persona di chi le incarnava: diversamente da quel che avveniva là dove a centro e sostegno dello stato si era formata una robusta e omogenea borghesia-aristocrazia. Qui, meno bagliori, ma la fiamma non si spegneva, per un soffio del cieco caso. Così a Venezia e a Firenze.
La morte di Gian Galeazzo e il crollo della signoria viscontea coincise con una ripresa dei regni di Napoli e Sicilia. E parve che il sud dovesse riacquistare qualcosa dell'antica posizione di protagonista nella politica italiana.
Questo fu con Ladislao di Durazzo che, alleato di Bonifazio IX, papa romano, contro i papi di Avignone e contro Luigi d'Angiò, ebbe il regno, conquistò Napoli che era sempre più possesso decisivo per tutto il territorio, e prese con grande energia il timone. Compito primo: tenere a freno le case baronali. E questo freno Ladislao lo impose con ogni mezzo, anche con spietata crudeltà. Poi, politica estera. Il regno non voleva rinunciare a tutto. Non tutte spente le tradizioni normanne e sveve e dei primi Angioini. Così, Ladislao aspirò da principio all'Ungheria, dove re angioini avevano regnato fino al 1380; e mise le mani su Zara, che era lì di fronte alla Puglia, quasi alla porta di quel mare. Lo spingevano anche i Fiorentini, che speravano da questa impresa procurar vantaggio ai loro commerci nella regione danubiana e danno ai commerci veneziani. Ma poi il re abbandonò questa troppo fantasiosa politica, rinunciò all'Ungheria e a Zara, si volse a obiettivi vicini. Occupò Roma, e se la tenne per 10 anni. Di qui mosse sulla Toscana che era punto d'appoggio di Luigi d'Angiò nella sua marcia per la riconquista del regno. Ebbe Arezzo, guerreggiò con Firenze, con Siena, con Pisa, con l'Angioino loro alleato. E l'autorità regia riemerse un po' dal pantano, nel sud d'Italia. Ladislao rappresentava e appagava un bisogno diffuso e profondo del popolo meridionale, che ormai era attaccato alla monarchia, pur tra le alterne vicende dinastiche, e si era formato un certo sentimento dell'unità del regno, pur in mezzo allo spadroneggiare di questa o quella famiglia.
Anche il regno di Sicilia, pure al sud, riemerse un po' dal gorgo dell'anarchia, con Martino, nipote del re d'Aragona e marito della giovane regina Maria, il quale accennò a rientrare nel solco dei Normanni e Svevi, si richiamò alle loro costituzioni, favorì le città demaniali, si acquistò anche certa aureola di valore militare, quando un esercito e una flotta siciliana aiutò il re aragonese contro i Sardi ribelli, sconfisse una flotta di Genova venuta in loro soccorso, sbaragliò i ribelli (1409). Ma nel 1409, Martino morì senza figli, la Sicilia andò al lontano re d'Aragona: e fu la fine di ogni indipendenza di questa isola, come già della Sardegna, un secolo prima. Venne a mancare ai Siciliani e anche alla baronia il lustro di una propria corona e di una corte in cui brillare: donde il continuo aspirare loro a una restaurazione come regno a sé. La regione visse senza nessi col resto della penisola: salvo che il suo possesso rafforzò le posizioni della corona aragonese nella penisola, e le procurò un nuovo titolo e punto d'appoggio per tentare poi, di lì, cose maggiori. Qualche anno dopo moriva anche Ladislao re di Napoli, 1414: e un disordine maggiore di prima piombò sul regno, che fu vicino a smembrarsi.
Consolidamento di stati territoriali. - Il sec. XIV è pieno di tentativi di vaste signorie, non più limitate alle città, e neppure alla vicina regione. Frequente lo sforzo, da Milano o da Verona, di superare il Po e valicare l'Appennino: a non contare la vasta influenza, in molti luoghi dominio, di Roberto d'Angiò, dal sud. E tutto ciò, non più sul fondamento dell'antico titolo giuridico di re d'Italia, ma su fondamenti nuovi di forza politica e militare, di partito, ecc. La penisola era ancora tutta materia incoerente e disciolta: comuni indipendenti o solo superficialmente aggregati ad altro maggiore organismo: signorie di una o più città, senz'altro legame fra loro che il comune signore; cittadinanze disposte, per sottrarsi ad altro comune o ad un signore interno, ad accettare un lontano signore che avrebbe lasciato autonomia amministrativa. Tutto mal fermo e fluttuante. Pochi quadri solidamente costituiti. Incerti e mutevoli confini fra stato e stato, consacrati da trattati di labile vita o solo da consuetudine. Ma il tentativo di Gian Galeazzo fu l'ultimo.
Lo stesso vigore con cui esso fu condotto e i suoi larghi successi, logorando sempre più le autonomie urbane superstiti, umiliando piccoli e anche potenti signori come gli Scaligeri e i Carraresi, stimolando il vigore difensivo e la forza reattiva degli altri, agevolò e rese più rapida la formazione di stati regionali come quello dei Savoia, di Venezia, di Firenze, non appena l'iniziativa viscontea venne a mancare. Così, morto Gian Galeazzo, i Savoia strapparono ai Visconti altre terre del Vercellese e Val d'Ossola, mentre altri acquisti nel territorio di Ginevra avevano dato qualche maggiore organicità anche ai dominî transalpini. Ciò avveniva con Amedeo VIII (1391-1431). E nel 1416, vi è anche per lui, come poco prima per Gian Galeazzo, un riconoscimento imperiale, cioè il titolo di duca. Non solo. Ma questo allargarsi delle terre cisalpine verso est, che coincide con l'estinzione del ramo piemontese di Acaia e con la riunione nel 1418 dei due territorî, porta a uno spostamento del centro dello stato, dai paesi di là ai paesi di qua delle Alpi. "Principe di Piemonte" chiama Amedeo VIII il figlio e successore. Questo ormai vasto stato, che sta a cavaliere delle Alpi, ha una faccia rivolta verso la Valle del Po. Rimangono ancora, nella loro indipendenza, i marchesi di Monferrato, Saluzzo, Ceva. Ma ormai sono circondati da terre sabaude. E poi debbono riconoscersi vassalli. Monferrato è anche costretto a cedere Chivasso e il basso Canavese. Così la Sesia diventa il confine: quale rimarrà fino al secolo XVIII.
Anche Firenze si sentì più libera nei suoi movimenti. Ormai, passata la bufera popolaresca, sono al timone Albizzi, Rucellai, Medici, Strozzi, Capponi, Da Uzzano, ecc.; una piccola ma vigorosa aristocrazia di mercanti e banchieri. La politica estera, che aveva avuto ondeggiamenti e rilassamenti al tempo che i minuti popolani avevano avuto la prevalenza, ha ripreso tutto il suo vigore. Nel 1404, Pisa fu acquistata a denaro, cinta d'assedio, costretta a cedere. Così, già da tempo piegate Pistoia, Empoli, S. Miniato da una parte, Arezzo dall'altra, tutta la valle dell'Arno diventa fiorentina, e libere son tutte le vie attorno. E poiché quel porto è ormai interrato, nel 1421 Firenze acquista dal governatore di Genova, che in quel momento era città del re di Francia, il porto di Livorno, con gran dispetto dei Genovesi. Nel 1439, anche Volterra deve piegare: territorio ricco di biade, di bestiame, di prodotti minerarî, utile integrazione di uno stato che aveva a centro una città industriale e commerciale come Firenze. Non grande concordia entro quella aristocrazia, quasi oligarchia, fiorentina. Ma vigile sentimento del comune interesse di fronte all'estero, vigore nel fronteggiare ogni situazione.
Ancor più si avvantaggia Venezia della crisi viscontea, dopo che già essa aveva ottenuto buoni guadagni al tempo di Gian Galeazzo e d'accordo con lui, come íl Polesine, cedutole in cambio di un grosso prestito dal minorenne Niccolò III, di cui nel 1393 ha assunto la tutela, e le città degli Scaligeri e Carraresi. Ora, vi è, sì, la restaurazione dei Carraresi a Padova. Ma nel 1405, di colpo, un esercito veneziano espugnò Padova, prese e sottomise a processo i Carraresi, li fece, senza neanche attendere il verdetto, giustiziare. La vasta regione alle spalle di Venezia è ora sgombra. E la repubblica si trova in contatto diretto, anche dalla parte di terraferma, con lo stato del patriarca di Aquileia. Nel corso del '300 specialmente con i trattati del 1307 e 1335, la repubblica ha assorbito gran parte del marchesato d'Istria: e la signoria patriarcale è ora, nella penisola, una rovina. Alla fine del '300 e sui primi del '400, anche i rimasugli le sfuggono. Muggia, Albona, Buie, Pinguente, via via si ribellano, si associano a difesa delle loro consuetudini di fronte all'antico signore. Viceversa cresce l'Istria veneziana per successivi acquisti fatti dai conti di Segna e di Gorizia, dai Grafenberg e dai Da Porcia, tutti bisognosi di denaro. Solo Trieste, centro e porto naturale del patriarcato e di una vasta regione retrostante; solo Trieste le è sfuggita, datasi ai duchi d'Austria. Nel 1409, Alessandro V libera la repubblica dall'obbligo del censo annuo dovuto al patriarca per le città e terre istriane: ed è come riconoscerle un diritto proprio su quelle terre. Contemporaneamente Venezia acquistava Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Feltre, Bassano, Belluno, quasi circuendo il Friuli patriarcale, già turbato profondamente dalle sue civili discordie. Nel 1409, infine, Ladislao re di Napoli cedeva a Venezia, Zara. Ormai la guerra di Chioggia ha mostrato l'importanza vitale della Dalmazia per Venezia.
Ma su Zara vantava diritti la Corona di S. Stefano, cioè Sigismondo re d'Ungheria. Il quale nel 1410 divenne anche re dei Romani. E come tale, aveva titoli da far valere sull'Istria, già parte del patriarcato e passata a Venezia; poteva rivendicare le città che Scaligeri e Carraresi avevano tenute come vicarî imperiali, avanti che Venezia se le prendesse. S'intromise anche nel discorde Friuli, favorendo la parte antiveneziana, in un momento in cui si delineava un vasto tentativo di restaurazione imperiale in tutta la regione istriana, una nuova avanzata germanica, anche sotto forma d'immigrazione tedesca. Sollecitata dal patriarca, Venezia intervenne. Si combatté nel 1412-13, di nuovo nel 1419. Venezia seppe procurarsi l'alleanza di Napoli e dei Visconti, ottenendo mano libera in Dalmazia e Friuli, caldeggiò un fascio di stati italiani da opporre all'impero. Poiché nel frattempo Sigismondo era stato eletto anche re di Boemia e come tale si trovò subito nei guai della guerra hussita, così Venezia ebbe buon giuoco. E prevalse da per tutto. Ottenuta dai Castelbarco Roveredo, s'insediò nel Trentino. Nel Friuli, ebbe Cividale e Udine, i due centri della regione, discordi essi e causa prima delle discordie locali. Nella Carnia, prese Tolmezzo. In Val Tagliamento, Venzone. E poi, il Cadore, Monfalcone, l'Istria patriarcale: che significava circuire anche Trieste; poter chiudere le vie che scendevano per l'Isonzo e Natisone e Canale del Ferro e Carnia. Intanto, la flotta occupava Spalato, Curzola, Cattaro, Traù, Lesina, Scutari, Dulcigno, Antivari.
Enorme importanza ebbero tali acquisti: né solo ai fini dell'accrescimento territoriale di Venezia, che con essi giungeva alle Alpi e si assicurava una frontiera di meno difficile difesa. Ma se ne risentì tutta la civiltà di una vasta regione, tutto il suo destino nazionale. Dalla parte del Trentino, fu aiutata e promossa la vita italiana della media valle dell'Adige e delle sue città, legatissime alle città padane, ma esposte alla penetrazione dell'elemento tedesco e delle forze politiche tedesche, che già nel '400 tentano di dare l'assalto a Trento. Ancora maggiore l'azione di Venezia nella regione del patriarcato. Nella decadenza del patriarcato, la regione si apriva tutta alle ingerenze e agl'interventi della grande e piccola aristocrazia tedesca, di casa d'Austria, dell'Impero. Il dominio politico di Venezia arrestò questa penetrazione tedesca nella parte più propriamente italiana o portata di per sé a svolgersi nel senso stesso della civiltà italiana; e promosse quella veneziana e italiana nell'altra parte, tedesca e, più, slava. In Dalmazia, finalmente, deciso a favore di Venezia il secolare e alterno conflitto con la Corona d'Ungheria, fu suggellata definitivamente la venezianità e italianità della sua vita civile. La quale si veniva egualmente svolgendo in senso italiano e per l'intima affinità con la vita della sponda opposta e per le influenze che vi penetravano dalla Puglia, dall'Abruzzo, dalle Marche, da Venezia. Non mancavano elementi slavi nei ceti minori e bassi delle popolazioni cittadine per l'immigrazione dei distrettuali tutti slavi. Ma, latino e ormai possiamo dire italiano il nucleo centrale e direttivo delle città, e orgoglioso della sua latinità, anche il popolo ne assumeva la lingua, i costumi, parte notevole delle consuetudini giuridiche. Il suo inurbarsi e socialmente ascendere equivaleva a latinizzarsi e italianizzarsi. E quando nel 1395, in una fase di rapida ascesa popolare, fu tradotto in volgare a Spalato lo statuto, perché anche gl'incolti lo intendessero, esso fu tradotto in volgare italiano. Tutto questo, indipendentemente da ogni dominio politico che venisse dall'altra sponda. Era piuttosto in rapporto con i legami molteplici fra le città dalmate e le città italiane. Numerosi lì anche i Fiorentini. Ma ora nel '400 l'Italia vi è rappresentata specialmente da Venezia. La quale così legò alla vita italiana una vasta regione periferica, al di qua del grande cerchio alpino da Trento a Ragusa; una regione che essa dominò quasi tutta politicamente e tutta suggellò spiritualmente. Lo stesso avevano fatto Pisa e Genova, in Sardegna e Corsica. Grande funzione nazionale di questi stati marinari italiani!
Ma ecco, dopo ucciso dai congiurati il duca Giovanni Maria Visconti, riemergere il ducato milanese, con Filippo Maria, che si impadronì del tesoro ducale, si assicurò i servigi della compagnia famosa organizzata da Facino Cane, spostò la sua residenza da Pavia a Milano, affidò ai suoi capitani, fra cui Francesco Bussone di Carmagnola, il compito di ricuperare lo stato. E lo stato fu ricuperato, le varie signorie dell'ultima ora furono spazzate. Intanto, all'interno, molta cura di tenere a segno i grandi, specialmente forti nell'oltre Po pavese, e d'impiantare su più eque basi, proporzionalmente alle facoltà di ognuno, il sistema tributario. Naturalmente, rinverdirono anche le antiche ambizioni di più lontani sbocchi. E, nel 1421, il Visconti ricuperò dai Francesi Genova. Fossero queste ambizioni veramente grandi e pericolose, fosse l'immaginazione altrui che le faceva parere più grandi del reale, certo Venezia e Firenze tornarono a contrastare il terreno ai Visconti. A fianco di Venezia e Firenze, anche Amedeo VIII di Savoia, anche papa Martino che, composto ormai lo scisma e ripresa l'opera di ricupero dello Stato della Chiesa, temeva per la Romagna. Altro decennio di guerra: 1423-33. E la guerra finì non bene per i Fiorentini, che vi consumarono grandi tesori, dissestarono le finanze, provocarono nuovi malumori fra i contribuenti più aggravati. E ne venne l'impulso ad una maggiore perequazione tributaria: ne venne il catasto, cioè la stima dei beni, messa a fondamento del tributo. Era la tendenza generale: a Firenze, come a Milano, come a Venezia, che ora cominciava a fare un po' da modello per i Fiorentini. La vita comunale si veniva logorando anche qui, sebbene più lentamente che altrove: e si cercavano i rimedî, si studiava Venezia. La quale aveva molti elementi comuni con Firenze, fondamentalissimo quello di una omogenea borghesia o aristocrazia commerciale e finanziaria, che aveva trionfato tanto della nobiltà quanto delle velleità popolaresche. Ma Firenze aveva, a differenza di Venezia, compiuto il suo ciclo, sia che gli oligarchi, per meglio difendersi, tendessero a un governo sempre più stretto che avrebbe poi sfociato in un signore; sia che mezzana borghesia e artigianato, per affrancarsi dagli ottimati, cercassero e trovassero in mezzo a loro un proprio capo, capace d'imporsi agli stessi suoi consorti. L'uno e l'altro. E si ebbe, un primo momento, 1433, la prevalenza di Rinaldo degli Albizzi, capo degli ottimati; in un secondo momento, quella di Cosimo e della sua famiglia, largamente accreditati presso la massa popolare. Questa evoluzione istituzionale, accentuatasi nel tempo e a causa dello sforzo della repubblica per allargare il suo territorio, agevolerà in avvenire questo sforzo. Ma per allora, piuttosto il contrario. I vantaggi della guerra furono tutti di Venezia, che conquistò Brescia e Bergamo, giunse all'Adda, e lì pose stabilmente il confine, vide consolidarsi la oligarchia al governo dominata tuttavia da un alto sentimento dell'interesse generale e, pur con un doge battagliero come Francesco Foscari, ridursi a nulla la sostanza del potere dogale, mentre pure a nulla era ridotta la partecipazione del popolo alla cosa pubblica.
Con ciò, ducato sabaudo, repubblica di Venezia, repubblica di Firenze si costituiscono su vaste basi regionali. Anche il ducato visconteo, pure rinserrato fra Savoia e Venezia, rimpiccolito nel territorio, ha tuttavia le condizioni per una vita a sé. È più piccolo del ducato sabaudo e del territorio di Venezia; ma possiede centralità, omogeneità, compattezza che sono altrettanti elementi di equilibrio. Negli stessi anni, risorgevano a nuova vita anche lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli. Lo Stato della Chiesa aveva proprio corso pericolo di morte. Di nuovo a pezzi, al principio del secolo; Bologna, Perugia, le città maggiori, indipendenti di fatto; Roma, occupata a lungo da Ladislao, poi tenuta quasi in dominio da Braccio da Montone, un signore umbro del nuovo tipo dei signori-condottieri o condottieri-signori. Se lo Stato della Chiesa avesse avuto solo le risorse difensive di cui disponevano i rimanenti stati della penisola, non si sarebbe sottratto a quella condanna a morte che parve incombere su esso. Ma i suoi titoli di diritto erano consacrati dalla religione; avevano qualcosa di assoluto valore. Potevano non salvare, oggi, dalla rovina; ma rendevano possibile, domani, la restaurazione. Come fu ora. Era vivo nei papi il bisogno di tornare a Roma: il bisogno, anzi, di avere un fermo e robusto e proprio punto d'appoggio, non solamente per risiedervi ma per organizzare di lì la resistenza alle forze dissolventi dell'unità cattolica e papale, dare vigore e continuità all'opera di difesa delle "libertà ecclesiastiche". L'ultimo secolo era stato ricco di dolorose esperienze sugli umori nazionalistici delle monarchie e dell'episcopato d'Occidente. Come l'impero si era volto a curare in particolar modo un suo proprio territorio, lo stesso bisogno aveva il papato. Finito, anche per la Chiesa, il tempo della medievale universalità, in cui i legami del papato con Roma erano prevalentemente ideali. Ora, i papi trovano le loro terre premute da ogni parte, da Fiorentini, da Veneziani, da condottieri, da Angioini di Napoli, da Visconti. Specialmente pericolosi appaiono questi ultimi, cioè Filippo Maria, che si presenta come esecutore della volontà del concilio di Basilea contro papa Eugenio e ha al soldo i migliori e più ambiziosi condottieri del tempo, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino. Ora, questi due invadono le Marche e la Romagna. Ma il papa si allea con Venezia e Firenze e cerca di guadagnarsi lo Sforza, investendolo della Marca d'Ancona (marzo 1434): principio della fortuna sforzesca. Più ancora agisce sul papa un fatto nuovo verificatosi nel regno di Napoli: la morte della regina Giovanna II senza eredi e l'apparizione di Alfonso d'Aragona, re di Sardegna e di Sicilia, che, dopo aver aspirato anche alla Corsica, aveva messo gli occhi su Napoli, quasi per riprendere e compiere l'opera iniziata dall'avo Pietro dopo i Vespri. Adottato in un primo momento dalla Regina, Alfonso era stato poi soppiantato da Luigi III d'Angiò. Ora ricompare a farsi valere. Ma contro di lui si voltano tutti i governi italiani. Alla generale levata di scudi contro Alfonso, partecipò anche Filippo Maria Visconti: sebbene, forse, specialmente per riguardo a Genova, sua città, nemicissima degli Aragonesi, che sarebbe stata capace di darsi alla Francia o a Renato d'Angiò, che ora si opponeva ad Alfonso, come erede di Luigi III, se avesse visto il duca incapace di difenderla. E fu evento decisivo della guerra proprio la rotta che le navi di Genova e del Visconti inflissero presso Ponza ad Alfonso. Il re stesso cadde prigioniero. Ma portato davanti al duca di Milano, la scena cambiò. I due principi si sentirono più solidali che discordi: solidali contro Renato d'Angiò che, dati i suoi legami con la Francia, costituiva un pericolo serio anche per il ducato visconteo; solidali contro il papa, contro i Fiorentini, contro i Veneziani, forse anche contro lo Sforza che si era creata una base propria e gettava gli occhi tanto verso le terre viscontee quanto verso quelle napoletane. Nuova guerra: da una parte, Filippo Maria e Alfonso, dall'altra una coalizione, al cui centro stavano Venezia, Firenze e Genova ribellatasi al Visconti. Lo Sforza fu condottiero della coalizione. Risultato: il Visconti ebbe la peggio, fu cacciato dalla Toscana e Romagna, perse altre terre sull'Adda, dové maritare allo Sforza una sua figliola, cioè farlo erede; ma Alfonso riconquistò le provincie del regno, aiutato da quegli stessi baroni che già avevano aiutato il suo competitore, assediò e prese Napoli, vi entrò nel 1442, riprese in mano le redini del governo, riavvalorò l'autorità dello stato.
Ma eccitò subito nuova e maggiore opposizione in Firenze che aveva molti interessi mercantili nel regno e vedeva quel re, signore anche della Sardegna, piazzato proprio a un trar d'arco dalla Toscana e da Livorno; opposizione nel papa che non intendeva rimanere estraneo ai mutamenti dinastici di un regno vassallo e da tenere ben sorvegliato. Nessun dubbio che questo ritorno in forze del regno fece apparire al papa sempre più necessario assicurarsi Roma, tenerla veramente da padrone, sottrarla alle suggestioni e ai pericoli che venivano dal sud. Si vide questo con Eugenio IV e, più, con Niccolò V (1447-55), quando l'opposizione conciliare fu vinta e il governo della Chiesa si raccolse nuovamente in una sola mano. Apparve allora, in persona del cardinale Vitelleschi, un nuovo Egidio Albornoz, che assoggettò Colonna, Savelli, Caetani, Annibaldi, incamerò loro città, distrusse loro castelli, si ebbe dai Romani accoglienze trionfali quasi nuovo padre della città dopo Romolo. L'avversione ai feudatarî e quella ad Alfonso rendevano i Romani ben disposti verso il papa e il suo governo. Ormai cadono a vuoto le esortazioni a indipendenza, gli appelli alla grandezza repubblicana da restaurare: come si vide con Stefano Porcari che nel 1447, alla morte di Eugenio, mentre Alfonso era accampato alle porte, gridò libertà. Così il potere papale rimise radici a Roma, come non mai. Il papato tornò romano, in modo definitivo, e si legò più fortemente che nel passato alla sua sede. E riprese anche la vecchia fatica attorno allo Stato della Chiesa: fatica di Sisifo per un certo verso, ma non tanto che non segnasse, in ogni sua fase, qualche progresso, se non altro per il logorarsi delle forze che le si opponevano; feudatarî e città. Nel 1429, anche Bologna si era sottomessa a papa Martino V, dei Colonna. Col cardinale Vitelleschi, emerse, in questo sforzo di restaurazione, Lodovico Scarampi, patriarca di Aquileia. Sono essi uomini rappresentativi, in questa fase della storia della Chiesa e del papato, che è storia di un principe e di uno stato, storia politica, più che di una religione. Ci vorrà un'altra rivoluzione, un'altra epoca che, senza rinnegare il Rinascimento, riavvalori elementi della vita medievale; ci vorrà questo, per rendere ai papi fisionomia di papi.
Equilibrio di stati italiani. - Interessi e umori antiaragonesi ebbero modo di manifestarsi direttamente nel 1447, alla morte di Filippo Maria Visconti, quando un agente aragonese, approfittando degli antagonismi tra sforzeschi e bracceschi, aveva cercato di proclamare la signoria di Alfonso su Milano. I Milanesi proclamarono allora la Repubblica Ambrosiana, affidarono il potere a un collegio di capitani e difensori di libertà, assoldarono lo Sforza. Si fecero innanzi poi gli Orleans di Francia, per i diritti portati loro da Valentina Visconti; Ludovico di Savoia, che occupò terre nel Vercellese e in Lomellina. E poiché lo Sforza passò al servizio dei Veneziani, i Milanesi sollecitarono Savoia, sollecitarono Aragona. E questi si accordarono, nel giugno 1449, a difesa di Milano, lasciando arbitri i cittadini della scelta del signore. Ma i cavalieri savoiardi furono battutì dagli Sforzeschi; Alfonso ebbe le sue genti battute in Maremma dai Fiorentini e dallo Sforza in Lombardia, mentre i Veneziani gli affondavano le navi nei porti. Parve allora che Venezia dovesse vincere nella gara. Ma lo Sforza, che aveva lasciato Milano per Venezia, ora lascia Venezia per conquistarsi lui quella signoria, combatte tanto contro i Milanesi e il loro capitano Niccolò Piccinino quanto contro Venezia e il suo Bartolomeo Colleoni, lavora di forza e di accorta diplomazia, entra in Milano, assume titolo e potere di duca, riconquista le città del dominio che, naturalmente, con la proclamazione della repubblica ambrosiana, si erano sciolte da ogni dipendenza e rifatte libere, fronteggia la coalizione degli aspiranti delusi e dei loro amici, Napoli, Savoia, Siena, Monferrato, ecc., capeggiata da Venezia, trovando anch'egli proprî alleati, Angiò di Francia, Genova, Mantova, Firenze. Più importante di tutte, l'alleanza di Firenze che segna una vera rivoluzione diplomatica nella penisola italiana a mezzo il sec. XV. Ormai, non il ducato visconteo fa paura ai Fiorentini, ma il regno di Napoli e, più ancora, Venezia che non solo ha ingoiato mezze città del ducato, ma nel 1440 ha messo piede anche di qua dal Po, a Ravenna, cioè padroneggia le bocche del gran fiume e le vie d'acqua che per esso penetravano in Romagna. L'Italia tendeva a equilibrarsi nei suoi varî stati. Di questo equilibrio, Firenze, che malamente può crescere fuori di Toscana, è la maggiore tutrice. Essa diventa l'unità di misura a cui gli altri debbono adeguarsi. Nel secolo XIV e al principio del XV, Venezia e Firenze erano stati solidali contro i Visconti; ora, Firenze e Sforza sono solidali contro Venezia. Cosimo de' Medici è l'alleato di più decisivo valore del nuovo signore milanese. Cade, di fronte alla nuova realtà, ogni pregiudiziale antisignorile dei Fiorentini. Lo storico Guicciardini glorificherà, per questo, Cosimo de' Medici, come salvatore della libertà d'Italia, perché senza di lui i Veneziani si facevano padroni dello stato milanese e quindi di tutta Italia.
Vi è, in questa vita politica del primo Quattrocento, sotto la linea rotta e tortuosa, certa unità, continuità, sviluppo. Grande forza d'impulso era stata, nel '300, la signoria viscontea, specie di Gian Galeazzo. Reagendo a questo e approfittando della sua morte, ecco ascesero, fra gli altri minori, Firenze e, più ancora, Venezia. La rinascita viscontea con Filippo Maria, diede ad Alfonso d'Aragona opportunità e appoggio per vincere gli Angioini e Francia e conquistare il regno, ridargli qualche vigore nella politica italiana. Ma contro Napoli e Milano si levarono allora nuovamente le due repubbliche: la lotta consentì a Venezia nuovi guadagni, che fecero di essa il più potente stato della penisola; accelerò la ricostituzione dello Stato della Chiesa; mise in valore Francesco Sforza e gli procurò i primi acquisti nell'Italia centrale. L'interesse del papa e di Firenze di allontanare lo Sforza e fermare gl'ingrandimenti veneziani portarono il condottiero alla signoria di Milano.
Momenti centrali di questa vicenda furono il crescere della signoria fiorentina, ormai medicea, sulla Toscana e il consolidarsi dello Stato della Chiesa: ambedue, al centro della penisola. Prima, esse fornivano esca a tutte le ambizioni del nord e del sud; non offrivano troppi ostacoli a chi voleva dal nord passare verso il sud, dal sud verso il nord. Ora, non più tutto questo. Acquistano valore pratico, ora, le clausole dei trattati che, da qualche decennio, facevano obbligo ai signori di Milano di non brigare in Toscana e Romagna, o al re di Napoli di non cercare altri dominî italiani fuori dei confini del regno, come è detto nel documento d'investitura del regno stesso, 1443. Con ciò i maggiori stati della penisola, superstiti alla lunga lotta per l'esistenza, s' inquadrano entro confini abbastanza fermi. Diminuiscono gl'incitamenti alle guerre. S'instaurano alcune condizioni di pace più ferma. E per una pace si cominciò a trattare a Roma, nel 1453-54, dai rappresentanti degli stati in guerra. Nulla si conchiuse; ma, fattosene poi promotore il papa, turbato per la caduta di Costantinopoli, si venne alla pace di Lodi, fra Milano e Venezia, 9 aprile 1454, liberi gli aderenti loro di ratificarla o no. E gli altri ratificarono o no; ratificarono di buona o mala voglia, con riserve o senza. Quindi, pace a metà. Ma vi erano interessi perché fosse vera pace: Milano, che aveva qualche timore dell'impero a cui non aveva chiesto né voleva chiedere nessun riconoscimento; Firenze, che viveva di commercio e voleva libertà per terra e per mare; Venezia, che sperava, da un accordo italiano, un comune sforzo contro i Turchi. E a Venezia si trattò; il 30 agosto 1454, vi si conchiuse la "santissima lega", la nota lega italica, che garantiva ai tre collegati principali e loro aderenti il tranquillo possesso dei loro dominî in Italia, li impegnava a mantenere un contingente militare proporzionato alle loro risorse, faceva loro obbligo di aiutare quello dei collegati che patisse offesa da estranei o anche da altro collegato o aderente. Il re di Napoli e il papa, invitati a sottoscrivere, sottoscrissero. Non grande l'efficienza pratica di questa lega, che pure sarà più volte confermata e vivrà alcuni decennî. Ma è da segnalare come risultato di un processo storico che durava da tre secoli: crescente fusione degli elementi frammentarî nell'alta e media Italia, come già nel Mezzogionno, ma senza intervento di forze estranee; loro inquadramento in un certo numero di mezzani stati; delimitazione delle loro zone di influenza o potenza; annullamento di ogni loro possesso territoriale che fosse entro i confini di altro stato. E questi mezzani stati e gli altri minori che gravitano attorno a loro, si raccolgono in una lega che intende alla conservazione dello statu quo, tanto nei rapporti reciproci dei collegati, quanto di fronte all'estero. Tutti gli stati italiani, direttamente o indirettamente, vi trovano posto. E solamente stati italiani, situati intra terminos italicos. Non sono esclusi il principe vescovo di Trento, non i signori del Trentino, il conte di Veglia nel Quarnaro, il conte di Gorizia. Ma esclusi principi spagnoli; escluso il duca di Borgogna, che Alfonso di Napoli avrebbe pure voluto includere fra gli aderenti; escluso, non facendosi nessuna menzione di esso, l'impero. Come dire che gli eventuali legami dinastici dei principi italiani con casati di oltre Alpi erano da considerare rotti, agli effetti della lega; che anche l'impero era ancor di più messo fuori della vita italiana; che anche il regno, divenuto una cosa sola con l'impero, finíva di tramontare. Scomparivano anche i resti della vecchia unità fondata dai Longobardi. E tuttavia, questi stati territoriali, queste paci, questi trattati segnano un progresso della nuova unità, nascente dal di dentro della vita italiana. Una posizione moralmente elevata occupa in essa il pontefice, che, insieme con Firenze, è più di tutti interessato al manténimento della pace. Egli non rivendica più i diritti temporali del beato Pietro su gran parte della penisola, come al tempo d'Innocenzo III; ma si vede chiaro come di una lega o confederazione italiana solo il pontefice possa, eventualmente, essere capo. C'è una specie di primato politico italiano della S. Sede, come di primus inter pares, possibile fattore di coordinazione e di stabilità: e quindi anche ostacolo a ulteriore unificazione.
L'Italia e l'Europa nella seconda metà del '400.
Cultura italiana del Rinascimento e suo espandersi. - Insomma, epoca di faticosa costruzione, il '300 e '400 in Italia, specialmente questa epoca che sta fra l'uno e l'altro secolo. Si edificava in mezzo a violenti contrasti, in mezzo a circostanze mutevolissime, sopra un terreno instabile e seminato di rottami. Mai come in questi due secoli di storia italiana, la vita si presenta visibilmente come lotta per l'esistenza, vittoria dei più forti, spietata soppressione dei più deboli, non il diritto ma la forza elemento decisivo, sia pur in vista di un nuovo diritto da creare e avvalorare. E non teorie o regole tradizionali che presiedano all'azione e la guidino, non preoccupazioni morali, non gran posto lasciato alle forze trascendenti e alle istituzioni che le rappresentano e amministrano. Tutto è calcolo, valutazione del momento fuggevole, controllo e dominio di sé, studio degli uomini per attingere di lì la norma dell'operare, studio delle circostanze, da afferrare o anche creare, in vista di un fine da raggiungere. Costruzione, perciò, essenzialmente individuale. Nelle memorie del tempo, c'è poco posto per masse o collettività, per partiti o altri nuclei organizzati. Neanche per le famiglie, come unità patrimoniale e morale, c'è gran posto. Ma il primo piano della scena lo occupano individui, dai tratti ben rilevati: condottieri, ministri, papi, signori, qualche capopopolo, qualche frate riformatore di costumi o capeggiatore di manipoli crociati o, per un momento, reggitore di città.
Questa realtà del tempo viene specificamente riflettendosi anche nei prodotti dell'attività intellettuale. A essa si adegua il nuovo concetto dell'uomo, ora guardato fuori degli schemi politici e religiosi, valutato in sé, nella sua virtù e non in rapporto alla professione religiosa, alla nascita, alla ricchezza. Non avveniva così delle altre cose? L'arte era stata come liberata da elementi estranei, il bello cercato senza preoccupazioni politiche e morali (il Decameron del Boccaccio, la Primavera del Botticelli). Il sapere era vagheggiato in sé, come avente un suo proprio fine e pregio, come compito primo e vero dell'uomo, sua missione (Petrarca e, più ancora, L. B. Alberti). La natura era stata osservata con mente libera da preconcetti e con persuasione della sua autonomia, come capace essa sola - a parte l'origine prima delle cose e il suggello di Dio creatore - di spiegare sé stessa (Leonardo). Così anche l'uomo. E guardato in sé, l'uomo si presenta agli occhi del tempo piuttosto ottimisticamente, centro o pernio e forza motrice della vita, faber suae fortunae, libero di scegliere e attuare il suo destino, capace di essere quel che vuole. La volontà, vera essenza dell'uomo, quasi sinonima di umanità. Celebrato è l'uomo che si fa da sé, che dal nulla sale ad alta posizione e alla gloria, diventata ora sommo bene. È come se la società italiana, la borghesia italiana nata dalle città, celebri sé stessa riuscita a essere, da nulla che era, tutto o quasi tutto; come se celehri la signoria e il signore, che era pur egli, a modo suo, creatura di quella borghesia e, a modo suo, attuava quell'ideale dell'uomo che si fa da sé. Insomma, orientamento monarchico o oligarchico di pensiero politico. Si presentono i grandi politici del Cinquecento. Questa epoca di formazione dei principati non si può dire che abbia ancora un suo coerente e organico pensiero politico. E tuttavia nei giuristi, nei letterati, negli scrittori d'ogni natura, abbondano pensieri ispirati a un realismo nuovo, elementi di dottrine vicine ad affiorare.
Questa Italia quattrocentesca che ormai poggia sul fondamento di cinque o sei stati indipendenti, assai legati fra loro, ognuno assai sensibile all'azione dell'altro, e ha quindi raggiunto una relativa unità politica, vuole essere anche guardata come crescente unità di cultura. Ne sono concreta manifestazione, pur mentre hanno concorso a promuoverla: il diritto; il linguaggio volgare letterario che nel '300 e '400 penetra da per tutto e si ritrova anche nei documenti legislativi di Sicilia o Dalmazia; le arti figurative e costruttive e plastiche che, sviluppatesi più in una regione o più in un'altra, più o meno legate, nelle varie regioni, a tradizioni locali e a influssi stranieri, subiscono nel corso di quei secoli un processo di assimilazione a cui forse nessun ambiente artistico della penisola si sottrae. Le varie scuole locali o regionali agiscono l'una sull'altra, per il tramite degli artieri che non hanno limiti locali e regionali nella loro attività. Così le varie scuole artistiche rompevano il chiuso entro cui avevano germogliato e diventavano, senz'altro, pittura italiana, scultura italiana. Ora, si aggiunge la nuova cultura letteraria fondata sullo studio dei classici, il più intenso culto per l'antico, l'ideale di Roma. Sviluppo di vita cittadina e borghesia e capitalismo; contrasti fra Stato e Chiesa e reazione alla medievale teocrazia; laicato e tendenza della vita a umanizzarsi e cercare e trovare in sé le ragioni di sé stessa, progressi dell'assolutismo statale; esigenze pratiche di varia natura spiegano questo rinascere. Il quale, in realtà, è manifestazione di una viia nuova, consapevolmente vissuta. E nel Quattrocento già vi è la persuasione che è una nuova età che avanza. Ma il fatto si presenta in un certo senso come ritorno al passato.
È quasi la piena riconciliazione con Roma e in genere col mondo classico, col mondo degli dei pagani, non più "falsi e bugiardi". Poiché dopo Roma si scopre la Grecia, sempre più rivelata, dopo i primi irregolari contatti per tramite delle provincie bizantine del Mezzogiorno, dopo i primi progressi del '300 nella conoscenza del greco, dai viaggi di erudizione in Oriente, dai dotti bizantini venuti per i concilî di Ferrara e Firenze o profughi dopo la caduta di Costantinopoli, dai codici raccolti a centinaia laggiù per opera dei nuovi pellegrini che presentivano l'imminente tempesta turca e correvano a salvare quei venerandi avanzi. Centro di questo interesse è specialmente Roma e la latinità. Si rispecchiava in questa vicenda esterna la vicenda intima della cultura classica e della cultura in genere, che passava dai chierici ai laici o, se si vuole, dai laici riceveva impronta, dai laici aveva assegnati i limiti, i fini, il carattere, dai laici veniva, in certo senso, imposta anche agli uomini di chiesa, come cultura avente valore assoluto. Anche Roma e la civiltà antica sono viste e amate di per sé. Anzi lo sforzo massimo è ritrovarne il genuino volto, sotto le interpretazioni e deformazioni cristianeggianti, dietro l'ingombro delle glosse e dei commenti. E poiché sono viste e amate in sé, sono amate in ogni loro manifestazione: letteratura, arte, pensiero, anche costume e religione. Né solo come oggetto di studio, ma come oggetto degno di imitazione. Roma tornava a essere grande maestra. E tutta la cultura ne fu investita e permeata. Quella visione umana e terrena che attribuiva un intrinseco valore alla vita ne fu chiarita e dilatata. Quella coscienza di sé che la borghesia colta veniva acquistando di sé e dell'opera propria, quella rispondenza fra operare e pensare, fra vita vissuta e giudizio sulla vita, fu alimentata e promossa.
Pareva, questo immergersi tutti nell'ammirazione e nello studio dell'antichità classica, fosse come uno straniarsi dalla vita. E frequente del resto è, nei nuovi umanisti, il senso di tedio e disinteresse per le cose della politica e del mondo esterno e il desiderio di trovare conforti in quel mondo di pensieri e d'immagini che dai classici traeva alimento. Diffusa la contrapposizione dell'antico al presente, guardato quasi con sprezzo. Tuttavia la cultura umanistica nasceva dalla vita, era unita da mille legami alla vita, fioriva in quelli che erano stati ed erano centri di borghesia operosa e innovatrice. Suo oggetto primo era l'uomo e i problemi dell'animo umano, quelli della politica e della convivenza civile; attingeva da questo suo accentrarsi nell'uomo quella unità e organicità che mancava al vecchio enciclopedismo medievale; era la coltura di uomini che vivevano nella pratica della politica e degli affari. Basti ricordare Leonardo Bruni cancelliere e storico della repubblica fiorentina, Giovanni Pontano ministro del re di Napoli, Pandolfo Collenuccio ambasciatore e segretario di principi, Francesco Barbaro politico e condottiero veneziano, Enea Silvio Piccolomini, Lorenzo il Magnifico. Largamente diffusa fra umanisti e gente colta del '400 l'esigenza di un sapere che aderisca alla vita, serva alla vita, e il sarcasmo per l'astratto filosofo, per l'uomo di lettere che sia solo uomo di lettere, aggiustatore di parole, presuntuoso e, nel suo vano affaccendarsi, ozioso; per l'uomo che totus deditus speculationibus ac literarum illecebris, come dice il Vergerio, è poco utile alla città.
Ma qui preme a noi rilevare particolarmente come anche questa società umanistica italiana, dal Petrarca in poi, sia una dalla Sicilia alle Alpi, dalla Corsica all'Istria, con i suoi Aurispa e Panormita, Valla e Pomponio Leto, Biondo Flavio e Guarino Veronese, Vergerio e Cariteo, Bracciolini e Filelfo; legata dagli stessi gusti e ideali, sempre in contatto nelle università e nelle corti o cancellerie, sempre in corrispondenza amichevole o in polemica. Si esprimeva in questa società di uomini la creseente unificazione dello spirito italiano. Artefici e centri di questa unitaria vita della cultura erano stati prima Palermo, Pisa, Bologna, Firenze. Ora, con l'umanesimo, sono Venezia, che dà alimento all'ellenismo italiano, è tramite fra Istria e Dalmazia e Italia, e punto d'irradiazione per la penisola di tutti gli artisti dalmati, diventa una grande officina tipografica; Milano, dove convengono uomini volti a ogni arte e, più ancora, a ogni scienza, Luca Pacioli matematico, Gerolamo Cardano naturalista, Andrea da Imola e Piattino Piatti astronomi, Marco Antonio della Torre anatomico veronese, a non contare Bramante e Leonardo. È ancora Firenze, che dà i primi e maggiori saggi di storiografia umanistica, vanta l'Accademia Platonica, offre i primi documenti letterarî di perfetta fusione di antico e nuovo, genera la grande pittura quattrocentesca, rinnova l'arte del fondere statue equestri, crea la gloriosa architettura dei Brunelleschi, dei Rossellino, degli Alberti, dei Michelozzi, ecc. Infine, Roma.
Roma non è terra ferace, in sé stessa. Poco vi nasce in fatto di cultura e arte. Ma dopo la restaurazione papale, diventa luogo di raduno di umanisti e uomini d'arte di ogni regione attorno. L'umanesimo italiano espugna Roma. Gli artisti italiani maggiori vi lasciano tutti una loro impronta, nel tempo stesso che da essa ne ricevono. Cresciuti spesso nella pratica degli stili e delle scuole locali, qui essi si tuffano nella universalità. È il tempo che dalla Roma papale e medievale, dalla Roma romana o mondiale, nasce la Roma moderna, la Roma artisticamente itahana. Poco connessa, per l'addietro, col resto della penisola, perché fiacca vi era la vita intellettuale, come ogni vita sociale, ora Roma si lega a essa. Dopo Niccolò V, Pio II, Paolo II, Sisto IV, Roma diventa città italiana veramente, la città italiana per eccellenza. Il papato, come ha stabile sede in Italia e si mette a organizzare il suo stato, così assorbe gli elementi tutti della vita italiana. Con ciò, può essere che esso ne scapiti come istituto religioso alienandosi lo spirito di altri popoli che poi lo ripudieranno, opponendoglisi nazionalmente e insieme religiosamente. Ma con ciò sempre più si riavvicina all'Italia favorendo la tendenza degl'Italiani di nazionalizzare il papato, come le altre nazioni la loro Chiesa. Fino al secolo XI i papi sono di frequente romani, cioè di quell'aristocrazia locale che possedeva le fortezze, le terre, i castelli, gli uffici tutti della città e del territorio. Poi, nell'epoca dei grandi contrasti con l'impero per la lotta delle investiture, e più tardi al tempo dello scisma, il papato risplende vieppiù nella sua cattolicità: papi tedeschi, italiani, francesi, inglesi. Ma ora, dal '400, essi sono di tutte le regioni italiane, oriundi di Siena, di Venezia, di Liguria, di Firenze. Alti uffici in curia e cappelli cardinalizî, e quindi possibilità di ascesa al papato vi hanno Piccolomini, Barbo, Sforza, Riario, Aragona, Della Rovere, Cybo, Medici, benché li ottengano anche non Italiani. Tutte le nuove dinastie italiane sono presenti qui a Roma, attivamente, per promuovere i loro interessi a mezzo del pontificato. E dietro il papa ligure o napoletano o toscano o milanese, vengono parenti, amici, mercanti, banchieri. Siamo in una fase di nepotismo. E anche il papato si direbbe un po' cosa di famiglia. Il matrimonio di Maddalena, figlia del Magnifico, con Franceschetto Cybo figlio di Innocenzo VIII, nel 1487, vuol dire il primo approccio mediceo al papato. E la nomina di Giovanni de' Medici a cardinale, poco dopo, come appaga grandemente le ambizioni del padre Lorenzo, così molto rallegra mercanti e banchieri fiorentini.
A mano a mano che questa cultura italiana, fatta di conoscenza del mondo classico, di letteratura umanistica, di storiografia, di arti figurative e costruttive, il tutto animato da un senso nuovo della vita che precede, segue, insomma accompagna la rinascita dell'antico; a mano a mano che questa cultura cresce e si diffonde dai suoi centri maggiori su buona parte della penisola, creandovi nuovi legami spirituali, e fornendo nuovi elementi alla formazione di una nazione italiana; essa tende a dilatarsi fuori della penisola. Fino al sec. XIV, la penisola vive molto d'influssi intellettuali che vengono dal di fuori. I centri della cultura medievale, sia scientifica e filosofica, sia letteraria, sono piuttosto altrove: nella Sicilia arabo-normanna e nella Spagna arabo-cristiano-giudaica; nell'Inghilterra e Francia; un po' anche in Oriente, ricco di elementi artistici. E dalla Francia filtravano influenze filosofiche e letterarie; dall'Oriente leggende, novelle, motivi pittorici.
Ma intanto, l'Italia è già diventata una grande maestra di diritto, quasi mediatrice fra la Roma antica e i paesi dell'Europa, sollecitati dal bisogno di unità legislativa e di più salda autorità regia. Università bolognese, con i suoi mille e mille scolari oltramontani, destinati a essere lì la classe intellettuale e dirigente; maestri e consultori e giudici italiani, nelle scuole e corti e amministrazioni cittadine d'oltralpe, fino in Inghilterra e nei paesi baltici. E poi, prime influenze artistiche e letterarie, dopo quelle rappresentate nei secoli XI e XII dalla diffusione dell'architettura romanica. Nel '300, Avignone diventa centro d'arte nel mondo cristiano: in parte notevole per opera d'Italiani. Viene poi l'umanesimo italiano. A Praga, presso Carlo IV, esso lascia già a mezzo del sec. XIV tracce di sé: e dalle cancellerie di Boemia e Moravia penetra il Rinascimento letterario in Germania. Appaiono poi già nel '300, imitatori spagnoli, specialmente catalani, di modelli italiani di ogni poesia: il che durerà fino al '500. E dopo i poeti e novellieri, gli storici, i nuovi storici umanisti. Storiografo di Alfonso d'Aragona è appunto, nel 1433, Guiniforte Barzizza, che contribuisce a diffondere in Italia la fama di quel re e, quindi, agevolargli la strada di Napoli. In Polonia troviamo nel secondo Quattrocento Filippo Bonaccorsi, toscano e fuggiasco da Roma, precettore dei figli di Casimiro IV, segretario e storiografo e diplomatico. Paolo Emilio e Tito Livio da Forlì sono, alla fine del '400, presso Carlo VIII. In relazione con principi e magnati inglesi, portoghesi, ungheresi, sono il Poggio, il Vergerio, il Biondo. Sono in corrispondenza epistolare, attorno al 1470, il lontano re del Portogallo e Paolo Toscanelli fiorentino, fisico e cosmografo, cresciuto nell'ambiente dell'umanesimo italiano. Anche Maometto II chiama alla sua corte, per il tramite di Venezia, ritrattisti e medaglisti (v. sotto: Gl'Italiani all'estero). Non tutta era per tutti veramente assimilabile, questa cultura italiana, fatta di letteratura volgare, di filologia, di storia, di poesia latina, di arti figurative e costruttive. Ma pure soddisfaceva esigenze varie, suscitava bisogni nuovi, preparava spesso lo sforzo più veramente creativo e proprio delle varie culture nazionali, contribuiva alla formazione delle nazioni e delle monarchie nazionali, le armava di qualche nuova arma, apriva loro una più ampia visuale del mondo, ne richiamava l'attenzione sull'Italia.
Forze europee in movimento attorno e verso l'Italia. - È un tempo in cui tutti i re guardavano all'Italia; traevano l'Italia, poco o molto, nel cerchio delle loro ambizioni e dei loro propositi. Via via che si sentono più sicuri all'interno e acquistano più libertà di movimento per la politica estera, essi si orientano verso il Mediterraneo e l'Italia. Fatto antico, questo: ma ora con ampiezza e urgenza maggiori. Attraverso i valichi alpini si sente la pressione degli Asburgo che hanno ottenuto sul finire del '300 il Tirolo e Trieste: e al principio del '400, con Sigismondo, hanno tentato un grande sforzo di rivendicazioni nell'Istria e nel Friuli e oltre, ai danni di Venezia. Sforzo vano, ma non cadde la speranza e la volontà di ritentare la prova, da parte austriaca e tedesca e da parte ungherese. Intanto, si aveva una lenta infiltrazione tedesca giù per l'Adige: e nel corso del '400, più di un vescovo tedesco saliva sulla cattedra di Trento. Quando poi, nella seconda metà del secolo, Mattia Corvino d'Ungheria, liberata la sua terra, medita il riacquisto della Dalmazia, si lega in parentado con Ferdinando di Napoli sposandone la figlia Beatrice, caldeggia a favore del suo congiunto Federico d'Aragona il vicariato di Milano per poter avere qualche autorità nelle cose di Lombardia, alle spalle dei Veneziani suoi nemici, coltiva amicizie con le città marchigiane e, occupando dopo il 1485 Vienna, la Carniola, la Stiria, si colloca proprio alle porte della penisola. Genti tedesche stanno battendo anche ad altre porte, oltre che di Trento e del Friuli: e sono i montanari svizzeri, che durante la crisi viscontea, al principio del '400, avevano occupato parte della Val d'Ossola e fattone un baliaggio, Valle Anzasca, Valmaggia; infine Bellinzona (1419). Ricacciati indietro, con la riscossa di Filippo Maria, erano tornati all'assalto dopo la sua morte. Aspre lotte con lo Sforza fra il 1477 e il 1483. Il duca e il capitolo della chiesa milanese cedettero al cantone di Uri la valle Leventina. La vittoria delle milizie svizzere a Giornico fu decisiva. Crebbero le ambizioni dei Cantoni, alla vista delle belle terre pianeggianti davanti a essi. Apparve loro possibile ritagliarsi un dominio nel milanese; quanto meno, impedire che altra potenza se ne impadronisse. Anche la Savoia era nella sfera d'espansione dei Confederati svizzeri, specialmente di Berna. E ciò forse tratteneva il re di Francia, che fra gli Svizzeri arruolava le sue migliori fanterie, dal tentare egli la non difficile impresa.
C'è poi la Francia che vanta i diritti degli Angioini su Napoli e non dimentica che una Valentina Visconti aveva sposato un duca d'Orléans, anzi considera lo Sforza un po' suo vassallo per il Milanese. Genova è pur essa sotto la sua mira: Genova chiave di Lombardia, grande porto, fiorente marineria, molti denari, possesso della Corsica, base di operazioni navali su Napoli. Anche gli Aragonesi le tenevano da tempo gli occhi addosso, ma con minore fortuna. Essi facevano paura, con la loro invadenza commerciale, la loro quasi padronanza del Mediterraneo occidentale, le loro ambizioni sulla Corsica. Preferibile il re di Francia; e più di una volta la repubblica di Genova, per sfuggire a più vicino o più pericoloso signore o per mettere qualche ordine al proprio disordine interno, si era data in soggezione al re di Francia. Il quale ormai non è più tanto preso dalle grosse guerre con l'Inghilterra, fatto decisivo per il suo orientamento futuro e anche per i destini dell'Italia. Sicuro perciò alle spalle, può attendere meglio alle cose della Borgogna e dell'Italia. Luigi XI è in stretti rapporti con Francesco Sforza, come già i suoi predecessori con Gian Galeazzo Visconti. Volge il pensiero a una possibile annessione della Savoia: un pensiero che poi non sarà più abbandonato. E sua sorella Iolanda va sposa al duca Amedeo IX, serve fedelmente il reale fratello e, rimasta vedova, presa la reggenza, quasi governa per lui il ducato. Nel 1482, re Luigi assume la tutela di Carlo, nato da quella unione. L'anno prima, aveva annesso alla Francia la Provenza. Ed ora, solo la morte interrompe lo sviluppo di questa politica verso l'Italia.
Vi è poi il Mezzogiorno d'Italia. Verso di esso, da un pezzo regno di Francia e regno di Spagna o rampolli di dinastie francesi e spagnole procedono a gara. Alla fine del '200, il re d'Aragona, quasi avanguardia della Spagna nel Mediterraneo e verso l'Italia, aveva strappato ai Francesi la Sicilia, unita poi alla Spagna. Dopo la Sicilia, gli Aragonesi avevano ingoiato la Sardegna. E dopo, anche il regno di Napoli, in concorrenza con gli Angioini di Francia. Principe colto e amante delle umane lettere, è re Alfonso d'Aragona, di Sicilia, di Sardegna e Napoli, dove ha sede. È sempre mescolato alle cose d'Italia e volge in mente altre conquiste italiane, la Corsica, terre di Toscana e Lombardia. Ma spagnola la sua lingua, la sua cultura, la sua religiosità. Questo Mezzogiorno d'Italia ha appena assorbito e italianizzato un conquistatore straniero, ed eccone altri, e bisogna ricominciare: Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi. Si accentua anche quell'immigrazione di Catalani e Castigliani che era cominciata da tempo in Sicilia e Sardegna, e ora riempie Napoli. Con Ferdinando, che ha ottenuto, dall'eredità paterna, solo Napoli, e ha interesse a bene individuare il regno di fronte a Spagna, la dinastia s'italianizza anch'essa. Ma ormai la penisola si era aperta alle influenze spagnole: e non solo il regno ma anche Roma e oltre Roma. Vi sono prelati spagnoli in curia, cardinali spagnoli, papi spagnoli; legami di parentela stringono la corte di Napoli con quelle di Ferrara e di Milano. Si diffondono, in specie tra le classi superiori, cultura, lingua, gusti e costumi, giuochi, spettacoli, vesti spagnole. E albagia spagnola, spagnola enfasi e altezzosità verso il minuto popolo, spagnolo disdegno verso le attività dell'operosa borghesia e il commercio. I più accettavano con molta indifferenza questa merce forestiera. Ma in taluni non mancava certo rimpianto per il costume proprio e antico, certa coscienza come di servitù e presentimento di servitù maggiore.
Più rapida e rovinosa è la marcia dei Turchi in Oriente, dove essi incidono quasi sulla carne viva di Genova e di Venezia. È storia un po' a sé, questa, non molto legata all'organismo dell'Europa centrale e occidentale. Ma tuttavia i nessi non mancano, per il tramite di Genova e, più ancora, di Venezia che è, insieme, potenza italiana ed europea e potenza levantina o coloniale. Certo, queste repubbliche sono risospinte verso Occidente, sono portate a intensificare la loro attività entro i limiti dell'Italia e dell'Europa. Nel '430 Salonicco che, anni prima, si era data a Venezia per paura dei Turchi, finisce nelle loro mani. La caduta di Costantinopoli (1453) mette in balia del sultano le colonie genovesi del Mar Nero, che debbono pagargli tributo. Subito dopo, Focea con le sue miniere, Taso, Eno, Imbro, Lenno, Chio, cioè isole genovesi o di signori genovesi, non lontane dagli stretti, passano sotto il dominio turco o diventano tributarie del sultano. Fra il 1470 e il 1480, cade la colonia veneziana della Tana, nel Mar d'Azov; cade Pera, davanti a Costantinopoli, e, con molta strage, Caffa, in fondo al Mar Nero, che sono i due centri amministrativi e commerciali dei Genovesi, vere colonne di sostegno di tutto l'edificio della repubblica nel Mar Nero. Nel 1484, Baiazet acquista Licostomo e Moncastro, emporî di Genova nel basso Danubio: e sono per lui due porte per meglio penetrare nei paesi danubiani e quindi nel centro dell'Europa. Venezia si sostiene in Oriente meglio di Genova. Il pericolo turco spinge verso di essa molte popolazioni cristiane delle isole: Egina, le Sporadi settentrionali, Nasso. Anche Cipro, suo protettorato, diviene nel 1473 dominio diretto. E tuttavia si fa difficile la sua situazione nell'Adriatico. Nella prima metà del '400, la Penisola balcanica, caduti i regni di Bulgaria e Serbia, è ormai quasi tutta turca. Anche l'Albania, dopo il 1468, ha il nemico addosso. Scanderbeg frenò, per qualche anno, l'alluvione. Ma morto lui, ogni argine crollò. E, nel 1480, ci fu l'assalto e il saccheggio di Otranto da parte dei Turchi, che ormai si stanno formando anche una discreta potenza navale e sono poi spalleggiati dai piccoli stati barbareschi dell'Africa Settentrionale, mentre già prima erano cominciate le scorrerie e i saccheggi nell'Istria, fino alle porte di Trieste e nel Friuli, oltre l'Isonzo, non bene fronteggiate da Venezia. Il pericolo turco, insieme con l'inimicizia verso i Veneziani, concorse a rendere i Triestini meglio disposti verso gli Asburgo. E quando nel 1470 l'imperatore Federico III andò a Trieste, vi fu chi, dalla città minacciata, si rivolse a lui come a difensore dai nuovi barbari. Cominciavano cioè gli Asburgo ad apparire scudo dell'Europa cristiana; ciò che ancor più li accreditò, ancor più li sollecitò nelle loro tendenze espansive, anche esse rivolte specialmente verso l'Adriatico e l'Italia. Venezia e l'Italia si risentirono anche in altro modo dell'avanzata turca verso occidente. Si fece malsicuro e aleatorio il rifornimento di derrate necessarie, specialmente il grano, per il quale Venezia era tributaria dei Balcani e del Mar Nero, oltre che della Sicilia e della Puglia e della Romagna. Dalla metà del '400 in poi, il sultano poté, nei rapporti e nelle guerre con Venezia, valersi di questo mezzo di lotta. E Venezia dovette spesso cedere o transigere. Altra conseguenza dell'avanzata turca: vasto esodo di popolazioni dall'interno della Balcania verso le coste. Così fu accelerato quel lento cammino degli Slavi della Balcania verso le città costiere e le isole della Dalmazia, che durava da secoli. Non solo: ma per alcuni decennî, e specialmente durante l'invasione dell'Albania, ingrossò anche quella corrente migratoria - Slavi, Greci, Albanesi - che muoveva dalle sponde orientali dell'Adriatieo e dalla Grecia verso la penisola in terra d'Abruzzo, in Puglia e Calabria, in Sicilia.
Insomma, un cerchio di forze in movimento, attorno alla penisola: stirpi ancora disposte a migrare, popolazioni montanare che tendono al piano e alle città costiere, imperi che avanzano dall'Asia verso l'Europa centrale e meridionale e verso il Mediterraneo, piccoli e grandi re d'oltralpe che, raggiunto un certo grado di potenza all'interno, si volgono fuori, anche per consolidare quel che già possiedono dentro. Interessi dinastici e politici prevalgono: ma anche qualche interesse di ceti guerrieri, di contadini in cerca di terra, di nuove borghesie. Si hanno in vista corone regie, territorî da conquistare, antichi diritti da rinfrescare; si vogliono ottenere benefici finanziari, metter le mani su strade e valichi, su porti, su navi per ulteriori imprese, promuovere commerci e industrie.
Certi manufatti di città industriali italiane già sentono un po' il morso della concorrenza straniera: p. es., dei drappi francesi, portati su dalla moda, come le fogge di quel paese. Si sa che nella seconda metà del '400, le monarchie d'Occidente svolgono un'accurata politica economica, che fa parte di tutta la politica di afforzamento dello stato: promuovere industrie proprie, specialmente tessili (lana e seta), ma anche metallurgiche (armi); porre ostacoli alla esportazione delle materie prime e all'importazione di merci forestiere; impedire l'uscita del denaro e incoraggiare quella dei prodotti paesani; dare incremento alla marina mercantile, riservando ad essa il proprio traffico; ecc. Insomma, inizî di mercantilismo.
L'Italia sta prendendo, nelle fantasie d'oltremonte, il posto che già aveva occupato il lontano Oriente. Anche dall'Oriente, nuovamente in mano d'infedeli, tornano a giungere richiami, come al tempo di Pier l'Eremita. E par che il giovane e avventuroso re di Francia non sia insensibile a essi. Ma come muovere in crociata verso l'Oriente, se non si dispone dei porti e delle navi della penisola? Ecco che l'Italia deve anche servire alla cristianità, per combattere il pericolo turco. Insomma, l'Italia non è stata estranea alla nuova vita dell'Europa. Con il diritto romano, di cui ha rinnovato e propagato la conoscenza, aveva concorso a rinforzare le monarchie. Con i suoi mercanti e banchieri aveva dato impulso alla vita economica dei paesi dell'Europa centrale e occidentale. Con i suoi umanisti e storici, aveva messo davanti agli occhi di re e di ceti colti l'alto ideale di Roma conquistatrice e ordinatrice, avvalorato le dinastie, richiamato l'attenzione sull'Italia, come su un paese di desiderabile e facile acquisto. Nel '300 e nel '400, ammiragli genovesi hanno organizzato e comandato forze navali portoghesi, francesi, spagnole; maestri d'armi italiani hanno perfezionato l'artiglieria francese e fatto di essa la migliore d'Europa; marinai veneziani e greci della flotta veneta sono passati a rafforzare la nascente marina turca; piloti e agenti di compagnie commerciali genovesi o fiorentine, operanti in paesi oceanici, si chiedono se, navigando verso ponente, non si debba giungere al Levante, ai luoghi delle spezie, che ora stentano ad arrivare per via di terra, attraverso l'Asia anteriore e l'Egitto. Sono anch'essi, pur volti ad attività pratiche, uomini del Rinascimento, uomini del nuovo clima specialmente italiano. Insomma, l'Italia ha operato e opera come un fermento entro l'Europa circostante. E ora l'Europa circostante, sollecitata dall'Italia, comincia a gravitare sull'Italia con tutto il suo peso, come dieci e più secoli prima, dopo il vasto dissodamento e sommovimento fatto, nel mondo d'allora, da Roma.
Gli stati italiani alla vigilia delle nuove invasioni. - Gli stati italiani in questo tempo hanno proseguito il lavoro di ordinamento interno che è, più o meno, di tutti gli stati d'Europa, in questa fase di trasformazione sociale e quindi istituzionale, nel senso di un maggiore accentramento statale, livellamento di ceti, soppressione di particolari "libertà", impulso di attività economiche, elevazione giuridica e morale del principe.
Era cominciato, questo lavoro, con i comuni e i Normanni e alcune delle signorie feudali più robuste, più isolate, meno esposte all'azione corrosiva dell'urbanesimo e del capitalismo. Era proceduto attraverso crisi istituzionali e interruzioni e ritorni di anarchia. Statuti di città minori soggette sono stati assimilati allo statuto della città principale, come Milano; leggi da valere per tutto il dominio sono state pubblicate; a tutti i sudditi, di qualsiasi città o castello, si è cercato di assicurare il diritto di possedere beni immobili in qualsiasi città o castello del dominio, a deroga degli statuti municipali che tal diritto riconoscevano solo ai cittadini (e Gian Galeazzo, alla fine del '300, sperimentò quanto fosse difficile attuare questa riforma, né si può dire che vi riuscisse); qualche maggiore perequazione o minore sperequazione tributaria è stata instaurata fra cittadini e campagnoli, ecc. Ora, questo lavoro fu un po' accelerato. S'intervenne con maggiore cura nelle cose dell'economia e della produzione, anche perché ogni stato bastasse il più possibile a sé stesso e avesse il massimo di autonomia. Quello che era l'ideale delle città, ora divenne l'ideale del principe. Si trattava anche di evitare l'esodo del denaro fuori dello stato. Così certe industrie furono incoraggiate e protette. Si soppressero o abbassarono parecchie barriere interne. Si diede impulso alle ricerche minerarie e anche, qua e là, alla fabbrica delle armi. Più ancora, forse, si badò alla terra, quella che più aveva sofferto dalla guerra e più poteva avvantaggiarsi della pace. Nuove colture furono introdotte o promosse, prima assenti o limitate a poche zone: gelso, riso, materie di tintoria, fra poco il granturco. Si cercò in certi luoghi, come nel Lazio, di regolare la caotica materia degli usi civici, a beneficio delle comunità. Sisto IV fece qualche sforzo per migliorare le paludi pontine e dare valore all'Agro Romano, mediante canali e strade. Nella bassa Valle Padana, bonifiche, perfezionamenti di razze ovine ed equine. Del resto, i tempi, da qualunque parte si guardino, portavano verso la terra. Le città e la vita urbana erano giunte, per allora, al culmine, in molte zone dell'alta e media Italia: e cominciava, qua e là, un certo deflusso di popolazione. Lo sviluppo industriale, nei maggiori centri dell'industria, si era stabilizzato e in alcuni luoghi già accennava a declinare; gl'investimenti in prestiti all'estero o in commerci lontani diminuivano piuttosto che crescere. I gruppi sociali ascesi con i traffici aceennavano a grandigia: e si aveva quindi non solo la passione del bene spendere, al posto di quella del molto accumulare; non solo il largo impiego di capitali in palazzi, in opere d'arte, in gioielli, in lusso, ma anche l'investimento in terre. Ricchezze di recente formazione, capitali pericolanti o superstiti al naufragio, cercarono di nobilitarsi e consolidarsi in poderi e ville, rifugiarsi in seno alla alma parens. Quali che fossero i moventi, alla fine del '400 si poteva constatare dal Guicciardini che tutta la terra italiana coltivabile, anche le pendici montane, era in vario modo coltivata. L'affermazione non va presa alla lettera. Ma è riconoscimento di un progresso agricolo, a cui certo rispondeva anche un progresso demografìco, anche un qualche maggiore equilibrio fra mondo cittadinesco e mondo campagnolo. Il fatto economico-sociale aveva i suoi riflessi anche nella cultura, nelle idee e negl'ideali. Sorgeva lo studio dei fatti agrarî. Si moltiplicavano le edizioni del manuale di Pietro de' Crescenzî, che era stato il primo rappresentante di una letteratura agraria. La natura vegetale era oggetto di più viva e calda attenzione. Si guardava con altro occhio il contadino, si faceva strada una migliore valutazione, come dell'agricoltura così dell'agricoltore; si riconosceva anche che all'umile campagnolo molti benefici doveva la città e, viceversa, molti dei suoi vizî tradizionalmente rinfacciatigli - avarizia, simulazione, furto, ecc. - il contadino doveva al duro proprietario urbano; si faceva anche qualche lode di virtù contadinesche, persino delle virtù guerriere. Partecipavano a questa gran passione dei campi uomini come Leon Battista Alberti. Era amore di raccoglimento e di meditazione, amore della natura, interrogata e ascoltata, ammirata nell'ordine suo che era riflesso dell'ordine e della perfezione divina.
Ma questo lavoro di consolidamento interno era difficile e lento, in un paese come l'Italia del '400, che soffriva qua di troppo scarso sviluppo economico-sociale, là di troppo sviluppo, nell'ambito delle città. Alcune regioni erano state profondamente sconvolte dalla lunga fase di guerre e di anarchia per cui erano passate: come il regno di Napoli. La popolazione qui si era dimezzata. I continui mutamenti di dinastia, rendendo quanto mai discontinua e incerta l'azione e l'autorità del principe, avevano logorato quei vincoli morali fra principe e sudditi che rendono proficua l'opera di governo. Il frequente e quasi sempre decisivo intervento di potenze straniere, aveva creato negli animi uno stato d'incertezza e di perenne attesa, che doveva rendere difficile la fiducia pubblica e la civile operosità. Aggiungi l'origine spagnola della dinastia: quindi, spiritualmente poco affiatata con la nazione. Ché se, dopo Alfonso, essa si assimilò al paese, non egualmente si assimilò il nuovo baronato. Il quale, vecchio o nuovo che fosse, diviso e lacerato da mille discordie entro di sé, era eguale e concorde nello spirito di ribellione contro il principe, nello spirito di rapina verso il popolo. Scemata era la sua potenza politica nel governo: ma cresciuta la sua autorità sui vassalli, anche perché è cresciuto l'uso del re d'infeudare città, per bisogno di denaro. Facile anche, a questo baronato, trovare aiuti fuori del territorio: nel baronato romano che, avendo molti feudi nel regno, è, di fronte al re, solidale; nel papa stesso che vuol tenere quel re sempre sub ungula. Invano Ferdinando, figlio di Alfonso, tenta di mutare la nobiltà castellana in nobiltà cortigiana.
Né del resto questo era solo fenomeno meridionale. Potente e oppressivo non meno, il baronato sardo, che si può dire in gran parte creato dalla conquista spagnola, dal '300 in poi. Irrequieta, rapace, volta sempre a guerre intestine e a ribellioni contro il governo genovese, la nobiltà corsa, fosse essa di origine locale o pisana o ligure. In Romagna, poi, nell'Emilia e cioè nel Reggiano, nel Modenese, nel Bolognese, l'antica nobiltà feudale, certo depressa ma non spenta, accennava a riprendere vigore, per la stessa precarietà iniziale del regime signorile, per il bisogno del signore di transigere con essa, per la piccolezza degli stati. Male, ormai, organico della società italiana, cioè di un paese dove la nobiltà feudale non aveva mai potuto veramente inserirsi nella vita statale, trovare una sua funzione utile nell'organismo dello stato: a causa o della sua origine straniera o del carattere fortemente borghese della civiltà italiana nel centro e nel nord della penisola, o della piccolezza degli stati e relativa scarsa possibilità di aprire a quella nobiltà un sufficiente campo d'azione, cioè bene utilizzarla, o di tutte queste ragioni e altre, prese insieme.
Altrove, lo stretto legame fra borghesia e principato aiutò l'opera o di distruzione o d'inserzione della nobiltà nello stato. In Italia, la borghesia, nel Mezzogiorno, nelle isole, in molta parte dello Stato della Chiesa è ancora poca cosa: e il principe, come non può sufficientemente proteggerla, così neppure appoggiarsi a essa; nella Toscana, nell'Emilia, in Lombardia, in parte del Piemonte essa ha avuto troppo sviluppo cittadino e municipale, perché possa accostarsi con fiducia al signore. Anche qui, come nel sud, ma per ragioni diverse dal sud, la molteplicità delle dinastie succedutesi al comando, ognuna divorata da quella successiva, aveva reso difficile che sentimenti e interessi di popolo si raccogliessero stabilmente attorno a loro. Tutto quindi era affidato alla personale capacità dei singoli signori: i quali potevano essere anche personalità di alta levatura; ma, attorno a loro, non quel senso di fermezza e certezza che poteva essere dato solo dalla legittimità. Nelle case dei principi italiani manca ancora un sicuro ordine di successione; accanto ai figli legittimi, figli illegittimi, quasi sempre divisi da fieri odî, essi e le madri. Sempre piccola, poi, nonostante l'esercizio del potere, la distanza fra la famiglia del signore e altre potenti famiglie, sino a ieri eguali e solo da poco soverchiate nella gara: quasi sempre con mezzi che avevano lasciato solchi di profondo rancore. Le città dello stato si sentono ancora poco legate al signore, ancora molto estranee le une alle altre. Ancora si fanno concorrenza, ancora sono aperte agl'influssi delle grandi casate che hanno nel territorio il loro centro, ancora sentono la tentazione, a ogni segno di debolezza del signore, di restaurare quella "libertà" che sempre balena davanti agli occhi. Si vede questo nello stesso dominio visconteo, che pure era il più capace di creare suoi proprî tessuti connettivi, alla morte di Filippo Maria Visconti e alla morte di Francesco Sforza. Anche quando la borghesia cittadina non crea ostacoli al signore, non lo sorregge. Sono scaduti gl'ideali civili che facevano capo allo stato di città; e invece, non hanno ancora consistenza gl'ideali civili che trovano nel principato e nello stato territoriale il loro appagamento. Altrove, il senso della grande patria, sia pure vista attraverso il re, comincia a esser vivo e operoso. In Italia invece questa grande patria è, se mai, l'Italia, ma patria tutta ideale, fatta di tradizioni letterarie, di ricordi classici, di sentimento della comune discendenza da Roma e della comune cultura, di radicata persuasione della propria superiorità di fronte agli stranieri. A questa patria non corrisponde l'ordinamento politico. Quindi, nelle città toscane e lombarde, per il momento, anche piemontesi, sostanziale indifferenza per lo stato e le sorti della signoria; certa disposizione ad accettare tutii i governi; crescente considerazione per i sovrani d'oltre Alpi e, qua e là, desiderî affioranti che essi scendano in Italia a castigare questi tiranni e correggere i governi. Concorreva a creare questa diffusa insoddisfazione il fiscalismo grave, che pesava su tutti, specialmente su contadini e borghesia e contrastava con le condizioni generali del lavoro, che non erano di decadenza ma, in molte branche, di ristagno; contrastava con lo sforzo che pure venivano facendo i governi stessi di sollevare e promuovere quelle classi e le loro attività. Ma spesso, con una mano si faceva, con l'altra si disfaceva. Corti e governi costosissimi; bisogni e spese da grandi stati, imposte a piccoli stati dalla posizione centralissima in Europa, dalla fitta rete dei rapporti internazionali, dalla debolezza degli ordini militari loro, che portava con sé un più costoso apparecchio diplomatico. Cominciavano, questi stati italiani, anche i maggiori e più ricchi, come Venezia, ad ansimare di 1atica, via via che il corso della storia li metteva in contatto con più grandi organismi politici d'oltremonte e d'oltremare, senza che fra essi fosse possibile nessuna vera collaborazione.
I rapporti fra questi stati italiani sono quel che di più incerto, mutevole, inquieto e torbido si possa immaginare. Incapaci a sopraffarsi e perciò venuti a una pace che aveva certi caratteri di stabile sistemazione quasi federale, vigilata dal pontefice, tornarono poi presto a gareggiare e insidiarsi, a creare particolari raggruppamenti e in ultimo a combattersi. Si sono moltiplicati i legami fra dinastie e governi della penisola. Rapporti diplomatici quasi permanenti ormai, fra i maggiori di essi. Parentele molteplici. L'Italia è un fascio di stati, e non c'è interesse di uno che l'altro consideri estraneo a sé. Ma è raramente azione concorde, anche se le parole sono tutte un'invocazione di concordia. Gli Aragonesi innegabilmente prevalgono in questo tempo, per titoli regi e per ampiezza di territorî. E Alfonso non distoglie mai gli occhi dal vicino e sempre nemico stato della Chiesa; non ha rinunciato a posarsi sul litorale toscano, utile a protezione del regno da flotte che abbiano a Genova la loro base, volentieri si prenderebbe Genova con la Corsica su cui gli Aragonesi accampano diritti. Ma nel 1458 muore Alfonso. E poiché Sicilia e Sardegna vanno al ramo di Spagna, così il regno di Napoli rimane solo. Equilibrio italiano sempre più perfetto. Ma c'è ora una reviviscenza di pretese papali sul regno. Callisto III Borgia non riconosce il nuovo re, Ferdinando, figlio illegittimo. Considera la dinastia estinta, il regno a lui devoluto, sciolti i sudditi dal giuramento di fedeltà, scomunicati quelli che giurano. Il regno vuol essere riservato a Pier Luigi Borgia, nipote del papa. E allora Francesco Sforza incoraggia e aiuta la resistenza del re; le genti del re, col Piccinino, invadono l'Umbria, occupano città, fino a che la morte di Callisto e l'elezione di Pio II non pongono fine alla lotta.
Dopo il 1463, Venezia è per 15 anni impegnata contro Maometto II che ha invaso la Morea: ma invano il pontefice Pio II aspetta nel 1464 quelle navi e quei guerrieri che tutti si dicevano pronti a mandare alla crociata. Nuovo appello di Paolo II dopo la caduta dell'isola d'Eubea: e combina una lega con Milano, Firenze, Napoli. Ma solo Ferdinando d'Aragona fornì dieci navi all'ammiraglio veneto Mocenigo. Fra il 1474 e il '75, Venezia trattò per rinnovare con Firenze e Milano la lega, alle condizioni stesse del 1454. Ma non approdò a nulla: e seguitò a perdere i possessi levantini, fino alla pace del'79, che fu considerata e detta quasi vergognosa. Intanto Bartolomeo Colleoni, già condottiero di Venezia, che aveva visto salire tanto in alto il suo collega e rivale Francesco Sforza, mise insieme gente e nell'autunno del 1467 marciò su Firenze. Presso Molinella (Imola) fu vinto e disperso: ma si disse da Medici, Sforza, Aragonesi, che c'era di mezzo lo zampino di Venezia, in questa spedizione. Sforza, Medici, Aragona, erano stati fino allora molto uniti. Ma ecco nel 1478 la congiura dei Pazzi e dei Riario a Firenze, alla quale Sisto IV non era stato estraneo: poiché egli è poco amico dei Fiorentini e dei Medici che gli insidiano la Romagna; è invece molto amico dei Pazzi, rivali dei Medici nella signoria e negli affari di banca e assai stretto ai Riario, soci nella congiura, in vista di una sistemazione principesca, con l'aiuto del papa di lor famiglia. E dopo la congiura, ecco Sisto IV in guerra con Firenze; ecco la sua alleanza con Napoli e i suoi intrighi a Milano per impedirle che mandi aiuti a Firenze. E così la triplice Sforza-Medici-Aragona, che dava certa fermezza alla penisola, è scompigliata, mentre Venezia, che prima insidiava i Medici, ora li aiuta. I papalini hanno dei successi, contro Medici e Venezia. Ma l'Aragonese teme di questi successi del pontefice suo alleato. Lorenzo, poi, diffida dell'amicizia di Venezia. Libidine di dominio su tutta Italia, attribuivano a Venezia i Fiorentini che ormai erano diventati i maggiori nemici della repubblica. Al contrasto Milano-Venezia e Milano-Firenze si è sostituito quello Firenze-Venezia, essenzialmente economico e commerciale. E allora Lorenzo il Magnifico entra in segrete trattative con Napoli e va a Napoli egli stesso; l'Aragonese si stacca dal pontefice. Lo Sforza asseconda. Si ricostituisce il gruppo Sforza-Medici-Aragona, che vuol essere garanzia di pace italiana, pur avendo una segreta punta verso Venezia. La quale allora si ravvicina al papa; e il papa, sdegnato di quegli accordi che gli attraversavano certi suoi disegni nepotistici in Romagna, si ravvicina a Venezia. Ma Venezia, anche quando è amica, tiene gli altri in allarme. Essa ha certo molte ambizioni. Tiene gli occhi da per tutto, s'insinua da per tutto. La padronanza del mare le permette di circuire tutta la penisola e tentare tutte le porte, mentre l'ampia fascia delle lagune le dà sicurezza da parte di terra. Ma le fantasie degli altri lavorano. E non c'è oscuro disegno che non si attribuisca a Venezia. Per cui, quando poco dopo scoppiò guerra fra Venezia e gli Estensi per Ferrara, oggetto di antica cupidigia da parte della repubblica, Venezia ebbe alleati il papa e i Riario, nel proposito di spartirsi il dominio estense, già antico pomo di discordia fra loro, per i diritti che curia romana e repubblica egualmente vantavano su Ferrara. Si trattava anche di procurare al conte Girolamo Riario, nipote del papa, uno stato. E di fronte a loro, Sforza, Aragonesi, Fiorentini, Mantova, Bentivoglio signore di Bologna. Guerra generale d'Italia. Vi furono successi iniziali dei due alleati Roma e Venezia (a cui si unirono Monferrato e Genova). Ferrara, investita da terra e dal Po, fu vicina a cedere. Ma allora il papa, temendo che della comune vittoria si avvantaggiassero troppo o solo i Veneziani, si staccò da Venezia, s'intese col re di Napoli, infido amico ma anche pericoloso nemico, perché fra l'altro gli sobillava contro il baronato romano, dipendente anche da quella corona per feudi che possedeva nel regno; e, non avendo potuto ottenere che essa sospendesse la guerra per Ferrara, le si voltò contro, si unì agli altri, si impegnò con le armi e con l'interdetto. Altra guerra quasi generale. Un esercito milanese e napoletano penetrava in quel di Bergamo, di Brescia e di Verona. Una flotta napoletana e pontificia, muovendo da Ancona, minacciò la Dalmazia. Ma Venezia resisté, ricuperò parte delle terre perdute, prese con la flotta Gallipoli e altre città pugliesi, contro gl'interdetti papali ebbe la sentenza favorevole dei suoi legisti, riuscì a trarre a sé qualche membro della coalizione. Insomma, fronteggiò bene "la santissima lega", come fu chiamata, poté riavere tutto il suo, ma dové restituire le città pugliesi, non riuscì a mettere le mani su Ferrara. Solo tenne il Polesine, che del resto già aveva in possesso temporaneo (pace di Bagnolo, 7 agosto 1484).
Pace breve: ché nel regno i baroni, irritati dalle imposte crescenti, persuasi che l'occasione fosse buona dopo tanto travaglio del re, congiurarono e insorsero. Il papa, seguendo una vecchia politica, li aiutò. E così gli alleati di ieri contro Venezia ridiventarono nemici. Roberto Sanseverino, ribelle al re, condottiero dei Veneziani, ebbe il comando delle milizie della Chiesa. Si combatté fino in Abruzzo, dove il conte di Montorio fece insorgere, a favore della Chiesa, l'Aquila. E con Venezia tennero qualche intelligenza i baroni che le promisero, in cambio di aiuti, dono di città pugliesi. Con Ferdinando, invece, stettero Fiorentini e Milanesi che intrigarono per far insorgere le città dell'Umbria; mentre Alfonso, figlio del re, accampava sotto Roma. Parevano ritornati i tempi di Ladislao o, meglio, di Federico II. Anche ora c'è, in quei sovrani, uno spirito di ribellione che cerca giustificarsi nel campo dei principî. Non per caso Lorenzo Valla aveva scritto a Napoli il suo opuscolo contro la donazione costantiniana. Una vena di pensiero antitemporalistico era anche in Gioviano Pontano umanista e ministro del re. Ma si accordarono re e papa, agosto 1486; trattarono re e baroni. Trattative lunghe, tortuose. Fino a che il re ebbe nelle mani, a tradimento, parecchi di quei baroni: li processò, condannò, alcuni uccise, tolse ai loro eredi le signorie, diede gran pubblicità agli atti del processo. Non diversamente operavano altri re di quel tempo: un tempo che vide il duello risolutivo fra nobiltà e regno. Ma il re di Napoli ne raccolse minor frutto di altri. Nei superstiti più fiero odio, propositi di vendetta, attesa di un vendicatore da oltre mare o da oltre monti. Né si può dire che, in cambio, il re si guadagnasse il favore del popolo. Pochissimo aiuto, nella difesa contro i Turchi che avevano assalito e preso Otranto, fornirono nel 1480 le popolazioni del luogo. I borghesi di Aquila e di altre città si diedero al papa o si accodarono ai baroni, contro il re.
Insomma, guerre sterili, come sterili sono ribellioni e repressioni: producono solo sperpero di denaro, impoverimento di finanze statali, e, quasi da per tutto, malcontento di sudditi. Nessuno stato è più forte dello stato vicino o della coalizione che subito si forma, appena principe o repubblica mostri qualche velleità d'ingrandimento. La quale coalizione, alla sua volta, dopo un anno o un mese, si disfà, quando uno dei suoi membri accenni a ottenere per suo mezzo, qualche maggior vantaggio: e un'altra se ne compone. Parola d'ordine è "libertà d'Italia", cioè status quo territoriale. E poiché Venezia pare che più di tutti minacci questa "libertà", così contro di essa si forma una relativa concordia. Ma il timore di Venezia, se poteva tenerli uniti per qualche tempo, se poteva farli assistere con qualche compiacimento all'avanzata turca sopra le terre veneziane di Levante, non li rendeva amici. Quindi, incapacità di fare buona guerra, a causa dell'equilibrio delle forze; incapacità di fare buona pace. E la finissima diplomazia dei nostri principi e governi si esauriva in sé stessa.
In tali condizioni, si capisce come gli argini all'invadenza degli stati d'Europa nelle cose della penisola siano fiacchi. Un po' la perenne preoccupazione di salvaguardare i molti interessi mercantili che Toscani, Lombardi, Veneziani, Genovesi avevano all'estero; un po' speranza di ottenere vantaggi positivi; fatto sta che i governi italiani oltre a fare una politica assai arrendevole, sollecitavano anche l'intervento di questo o quel principe straviero.
Così, contro Venezia, dalla fine del '300, Scaligeri, Carraresi, patriarchi di Aquileia, Visconti, non fanno se non invocare impero e re d'Ungheria. Ai Turchi, nella loro marcia in avanti, Genovesi e anche Anconetani rendono più di un servigio, cercando di stornarli verso i possessi di Venezia o dando una mano contro le navi veneziane. Del resto, tutto l'atteggiamento dei principi italiani in rapporto ai Turchi, nel '400, è piuttosto invitante. Firenze, tradizionalmente legata a Francia, quasi prigioniera di Francia per i molti suoi capitali investiti in quel paese, spesso, nella seconda metà del secolo, si volge a quel re, per averne appoggio. La Santa Sede, sempre alle prese con Napoli, poverissima di forze militari, dichiara che, non ricevendo aiuto da nessuno in Italia, dovrà pure rivolgersi a stranieri e magari tornarsene, come un secolo prima, íra gli stranieri. Nel 1484-85, Venezia, combattendo la coalizione sforzesca aragonese pontificia, eccitò il duca d'Orléans a conquistare il Milanese e il duca di Borbone a ricuperare il regno di Napoli, mentre gli altri aizzavano il re d'Ungheria contro Venezia. Al qual re d'Ungheria, nel 1488, si volgevano anche gli Anconetani, nemici di Venezia e ribelli al papa, alzando le insegne di quel re e mettendosi sotto la sua protezione.
Spesso non si voleva veramente chiamare gli stranieri a conquistarsi uno stabile dominio in Italia. I più deboli potevano confidare in un blando protettorato di lontano principe che salvasse la loro effettiva libertà da più vicino signore. Ma i più forti credevano di potersi servire degli stranieri per poter umiliare i loro avversari e crescere sulla loro rovina. Incapaci essi a risolvere da sé i loro problemi d'ingrandimento o sicurezza, rimettevano le loro speranze là donde potevano attendere vantaggi. In ogni modo essi, l'uno di fronte all'altro, in una gara serrata che impegnava l'amor proprio e la vanità ancora più che gl'interessi, repugnavano meno all'idea di un dominio francese o spagnolo o asburgico in Italia, che non a quella d'un ingrandimento degli altri stati italiani. Non che mancasse la coscienza dell'unità morale degl'Italiani e anche certo orgoglioso sentimento di superiorità nelle lettere e nelle arti, di fronte agli stranieri. C'era anche certo presentimento di un comune destino degli stati italiani, per cui se uno soccombeva, gli altri non ne avrebbero goduto a lungo. Ma tali sentimenti e presentimenti e deplorazioni non si traducevano in pensieri e azione politica.
Così gl'Italiani sono sì, da qualche secolo, governati da principi proprî, anche se di straniera origine; ma, via via che i loro rapporti politici col di fuori si moltiplicano, per iniziativa altrui o propria, si sentono come attratti dagli stati più grandi, si abituano a rimettere in essi le cose loro o a veder essi, comunque, farsi quasi arbitri delle situazioni italiane. È un fenomeno di gravitazione del più piccolo sul più grande. Anche senza preciso disegno politico, gli ambasciatori o agenti diplomatici di Napoli o Firenze o Roma o Milano, contendendosi nelle corti straniere il favore di quei principi, mettevano davanti agli occhi di signori e ministri il miraggio di una grande ricchezza e di una grande debolezza italiana, congiunte insieme. Viceversa, davanti agli occhi degl'Italiani, s'ingrandiva la figura di quei principi francesi o spagnoli o altro che fossero. In essi pare che vedano più giustizia, più grandezza, più possibilità e volontà di operare, più conclusiva attività. E da essi sollecitano quel che la loro piccola patria, impotente o volta ad altro, non vuole o non può dare. Così Pietro Martire d'Angera che, tediato dell'Italia dove tutto è divisione, dove "non si trova di che sicuramente pascere l'ingegno", va in Spagna al servizio di quel re. Erano tempi in cui l'idea di nuove terre da cercare, nuovi commerci da avviare, nuove ricchezze da conquistare circolavano come vene sotterranee spesso affioranti. Era il bisogno di oro come mezzo per fronteggiare crisi monetarie; erano le difficoltà che la conquista turca aveva create ai traffici tra l'Asia e l'Europa e il desiderio di nuove strade; erano la sete di conoscere o le ambizioni dei principi. E i paesi che, per posizione geografica o per presenti condizioni storiche, offrivano più favorevoli prospettive ai progetti di viaggi e di esplorazioni, attiravano: come erano i paesi rivolti verso l'Atlantico. Qui capitò, poco prima del 1480, Cristoforo Colombo, genovese. Aveva fino allora viaggiato il Mediterraneo e i mari portoghesi, a servizio della Casa Centurione di Genova. Ma nel 1479 abbandonò Genova per Lisbona. Per alcuni anni, Colombo visse laggiù la vita dei piloti, dei mercanti, degli armatori, fra il Portogallo, Madera, le Azzorre, la costa della Guinea. Si fece la persuasione che giungere all'Asia puntando verso occidente fosse assai più breve che girando attorno all'Africa. E attorno al 1480, Colombo concepì il piano di una grande navigazione in quel senso. Per circa quattordici anni, perseguì il suo piano. Bussò alla porta di molti re e governi, per avere i mezzi necessarî. Trovò finalmente ascolto presso il re di Spagna; sciolse nell'agosto '92 le vele verso ponente, giunse a certe isole che credé le Indie o il Catai, insomma l'Asia, ne riportò saggi d'oro e spezie. L'anno appresso, già tutta l'Europa era piena della grande notizia, i re guardavano con invidia a Ferdinando, il pontefice tracciava da un polo all'altro la linea di demarcazione fra i possessi portoghesi a est delle Azzorre e del Capo Verde, e i nuovi e futuri acquisti spagnoli a occidente. Prima che il secolo morisse, Amerigo Vespucci fiorentino, Giovanni Caboto genovese, e poi anche cittadino veneziano, avevano compiuto i loro primi viaggi, riconosciuto il vasto continente americano, presone possesso per i re di Spagna e d'Inghilterra.
Non tanto a quei lontani re quanto al più vicino signore di Francia guardavano invece i signori rissosi e sospettosi, i vassalli o sudditi ribelli o scontenti. Le condizioni politiche della penisola peggioravano. S'inasprivano i rapporti fra Venezia e Milano, fra Napoli e Venezia, più ancora fra Milano e Napoli, cioè Sforza e Aragonesi, dopo che il Moro, spinto anche dalla moglie Beatrice e dal suocero, Alfonso d'Este duca di Ferrara, aveva mostrato di volere passar sopra i diritti del giovane Gian Galeazzo, sposo di una principessa aragonese. Nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico. Ed era appena morto, che già si diffondevano voci di una lega tra Firenze, pontefice, re di Napoli, contro il Moro e di minacce veneziane al Moro. Nel 1483 era salito al trono di Francia Carlo VIII, giovane e fantasioso, che, fatto re dopo un lungo lavoro di assestamento interno e quando la Francia tornava a riaffacciarsi sul mondo, a rinfrescare le vecchie ambizioni, a riassumere i vecchi compiti fra politici e religiosi, si lusingava di essere il re di questa restaurata Francia, il nuovo martello degl'infedeli, il nuovo Carlo Magno. Obiettivi territoriali varî erano, più o meno precisi, davanti alla politica francese: la regione renana, innanzi tutto. Sfasciatosi lo stato borgognone, in seguito alle vittorie di Svizzeri e Francesi, una parte dell'eredità era andata al re di Francia che in quel tempo raccoglieva anche altre eredità, quella di Provenza, Angiò, Maine, Bretagna; ma l'altra parte, a Massimiliano d'Asburgo, fatto nel 1486 anche re dei Romani. Si trattava ora, per la corona di Francia, di ricuperare anche questa parte dell'eredità borgognona. Ma la politica francese puntava anche verso le Alpi. E, con Carlo VIII, verso le Alpi più che verso il Reno, sia per i fini imperiali che vagamente balenavano al suo spirito, sia per le minori difficoltà che da quella parte si profilavano. Contro la politica espansiva sul Reno, gravi erano gli ostacoli. Invece, da Milano, Ludovico il Moro, sentendosi minacciato da altri signori italiani, sollecitava il re a una spedizione contro l'Aragonese di Napoli. Ludovico il Moro, dati anche i suoi legami con Genova, era la chiave di vòlta per un'impresa di tal genere: e perciò i suoi richiami dovevano dare nuovo incitamento al re, nuova forza per vincere le opposizioni che trovava attorno a sé contro questi suoi disegni italiani che parevano una deviazione dalla vera politica del regno. Certo è che, nel novembre del 1492, Carlo VIII si accordava con Enrico VII d' Inghilterra, impegnandosi a versargli grossa somma di denaro e a non dare nessun aiuto ai pretendenti al trono inglese (trattato di Étaples); nel gennaio 1493, si accordava con Ferdinando il Cattolico, restituendogli provincie di confine (trattato di Barcellona); nel maggio 1493, si accordava con Massimiliano cedendogli la Franca Contea e l'Artois (trattato di Senlis). Il trattato di Senlis era una specie di spartizione dell'Italia: Massimiliano, mano libera contro Venezia; Carlo, contro Napoli. In quegli stessi mesi (gennaio 1493), si aveva un'alleanza fra il re e Ludovico il Moro: e voleva dire benevola neutralità del signore di Milano. Seguirono preoccupazioni e quasi pentimenti da parte del Moro. Ma ormai il re è tutto volto verso l'Italia. Per l'Europa si è sparsa improvvisa la voce che Cristoforo Colombo aveva raggiunto le Indie e presone possesso per la Spagna. E fu esca al fuoco. Fra il 1493 e il 1494, ambascerie francesi mossero verso le corti italiane. Qui, da per tutto erano persone che facevano buon viso, sia che non volessero scoprirsi contro un sì potente re, sia che veramente ne auspicassero l'avvento. Ora, non tanto i signori quanto i loro nemici interni, ansiosi di scavalcare o prendere vendetta di quelli. Già baroni napoletani erano andati in Francia ad additare a quella corte la via di Napoli. Ora, cardinali come Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere, nemicissimi di papa Alessandro, pure chiamavano. Pier Capponi fiorentino, mandato a Carlo VIII per distoglierlo dalla spedizione, invece se ne fece segreto incitatore, in odio ai Medici. E anche Girolamo Savonarola a Firenze, predicando per la riforma civile e religiosa della città, dell'Italia, del mondo, invocava e profetava un castigatore e correttore. Erano tutti richiami ad alimentare la volontà del re, che era poi il fattore veramente decisivo di questa spedizione. In vista della minaccia francese, il Moro cercò, nel corso del 1493, di ravvicinarsi a Venezia, e firmò il patto per le nozze di Bianca Maria Sforza con Massimiliano d'Asburgo. Solo che, nello stesso tempo, rappacificatisi re di Napoli e papa e accostatasi ad essi anche Firenze, in opposizione a ogni possibile egemonia sforzesca; cacciato da Roma Ascanio Sforza cardinale; il Moro, isolato, non sicuro né di Venezia né di Massimiliano, rinunciò a ogni opposizione a Francia e poté forse anche dire all'inviato francese di fare il suo giuoco. Era anche un modo di stornare il re da Milano, impedire che egli gli lanciasse addosso il duca di Orléans.
L'Europa alla conquista dell'Italia.
Francesi e Spagnoli in gara. - Nel settembre 1494 Carlo si avviò, per il Monginevra, verso l'Italia. E tuttavia grande leggerezza quella di Carlo VIII a metter in moto una macchina che poi piglierà e consumerà nei suoi ingranaggi, per oltre mezzo secolo, le forze della Francia: sarà per essa ragione di debolezza su altri campi, riscalderà i germi della guerra civile. Non è affatto da considerare come fatto nuovo della storia francese, questa intrapresa di Carlo VIII. Si ricordino i primi re Merovingi, e Carlo Magno, e gli Angioini per due secoli, e i progetti di stati francesi da ritagliare sulle terre della Chiesa. Ma l'impresa ebbe felicissimi inizî. In Italia erano tutti gli elementi necessarî per armare eserciti: denaro, attrezzatura industriale, genio inventivo in rapporto alle armi, ingegneria militare ecc. Solo che non erano mai stati rivolti ai fini di un'efficace preparazione bellica, salvo che nella sfera marinaresca. Anche per quel tanto che nei varî stati della penisola una forza militare c'era, essa era svigorita dalla natura dei rapporti fra quegli stati. Così, il non grande esercito di Carlo, fatto per buona parte di fanterie svizzere, passò attraverso gli staterelli subalpini, tutti ligi a quel re, tentò senza insistervi un diversivo sul Milanese, si avvicinò alla Toscana mettendo a sacco le terre e passando a fil di spada abitanti e soldati, ebbe a fianco la flotta genovese che secondava le operazioni di terra. A Venezia la gente si aspettava di vedere da un momento all'altro i vessilli del re comparire sulla laguna. A Firenze, Savonarola e suoi seguaci gridavano che le profezie erano in corso di attuazione, che Carlo era lo strumento del Signore per distruggere i vizi, riformare le cose deformi. E la gente lo seguiva. I vecchi fermenti della vita medievale agitavano la città, come sempre nei momenti gravi, come spesso nei momenti in cui il vecchio spirito comunale risfavillava contro la signoria: era il caso di Firenze. E poiché Piero de' Medici, consegnando ai francesi le due fortezze di Sarzana e Pietrasanta e altre che sbarravano la strada litoranea di accesso alla Toscana, fornì ai Fiorentini nuova materia di malcontento, così il moto antimediceo esplose, Piero fu cacciato; re Carlo trovò i cittadini disposti a pace ma anche disposti a guerra se egli voleva far da padrone; riebbe vita un regime popolare imperniato sopra un consiglio maggiore, aperto a tutti i cittadini, e sopra un consiglio degli Ottanta, eletto dal primo: insomma, qualcosa della costituzione veneta, assai ammirata allora. Intanto Pisa si ribellava a Firenze, acclamando i Francesi come liberatori; e poco dopo altre città del dominio si ribellavano. Nelle terre della Chiesa si scatenava l'anarchia e il papa nulla fece militarmente per arrestare l'invasione. Molti prelati aspettavano Carlo; e il popolo sperava che, riaperte le vie del mare, chiuse ora dalle galere napoletane, potesse cessare la carestia. Inoperoso se ne stette anche Alfonso di Napoli. Confidava in Spagna, aspettava genti dall'Albania, si rimetteva nelle mani della fortuna. E il regno cadde, senza colpo ferire.
Ma ecco, promossa da Venezia, conchiusa a Venezia il 31 marzo 1495, la lega italica, per 25 anni. I governanti italiani si accorgevano che il re di Francia, in cui taluni avevano visto una pedina del loro giuoco, poteva diventar egli l'arbitro della penisola togliendo di mano agli stati italiani, cioè ai maggiori, il maneggio delle cose loro. E corsero ai ripari. Alla lega aderirono, oltre Venezia, lo Sforza, il re di Napoli, il papa. Non tuttavia Firenze. E viceversa, aderirono re stranieri aventi possessi in Italia: quindi Massimiliano d'Austria e Ferdinando d'Aragona, che mandò nel regno il suo Gran Capitano Consalvo di Cordova. E non fu buona compagnia per gl'Italiani: dati i diritti che quelli vantavano in Italia. L'anno appresso si aggiunse anche il re d'Inghilterra. Così Carlo, dopo pochi mesi di allegra e spensierata vita napoletana, in cui il popolo ebbe modo di mutare in odio il primo entusiasmo, dové affrettare il ritorno. A Fornovo, sull'Appennino parmense, si scontrò nell'esercito della lega, comandato da Francesco Gonzaga, mandato a sbarrargli il passo. Esito incerto ebbe la battaglia. Ma i Francesi volevano passare e passarono. Tuttavia fu battaglia notevole, quasi da fare epoca per l'Italia. "Fu la prima battaglia che da lunghissimo tempo in qua si combattesse con uccisione e con sangue in Italia", si scrisse già allora. Quasi tutti italiani i soldati della lega. E in essi si videro quasi altrettanti combattenti per l'Italia. In questo tempo si parla molto d'Italia fra gl'Italiani: "libertà d' Italia", "salvezza dell'Italia", "onore dell'Italia", ecc. "Libertà d'Italia" era stata come una parola d'ordine o bandiera, in tutto il '400: ma piuttosto nel senso di libertà dei singoli stati da ogni egemonia di altro stato italiano. Ora, invece, la parola significa indipendenza di tutti gli stati, di tutti gl'Italiani, da dominio di stranieri, e appare espressione come di un patriottismo italiano. Si fa il processo a questo o a quel principe, colpevole, chiamando i Francesi, di aver tradito l'Italia. Il Moro, che si sente sospettato, protesta "non essersi mai dimenticato d'essere italiano". E "bisogna essere buoni italiani" e lasciare i Francesi in Francia, ammonì papa Alessandro VI ai Fiorentini, di cui si diceva che portassero il giglio di Francia inciso sul cuore.
Ma la lega non ebbe grande vita. Le nocque l'assenza di Firenze, ostinata a rimanerne fuori, specialmente ora che vedeva lo Sforza, e, più, Venezia, mettersi a gara ad aiutare i Pisani ribelli. I rapporti fra Napoli e Venezia erano intorbidati dalla presa di possesso dei porti pugliesi, fatta dalla repubblica, quando i Francesi li avevano sgombrati. Si riacuiva poi il vecchio antagonismo tra lo Sforza e i Veneziani, per la cupidigia d'ingrandimenti territoriali che questi covavano a danno di quello. Venezia era perciò naturalmente portata a riavvicinarsi alla Francia; mentre la Francia, da parte sua, non poteva non valutare l'enorme importanza di una collaborazione di Venezia, per la sua politica che sempre più, oltre Napoli, fissava Milano. Così il fronte antifrancese costruito in Italia al principio del '95 perdeva ogni vigore. Anche gli aderenti stranieri si staccavano dalla lega. Nel novembre '97, la Spagna venne, con Francia, a un armistizio separato, cioè con esclusione degli alleati italiani: e certo, in vista di accomodamenti in Italia, a danno di quegli alleati stessi. Nel febbraio del '98, Carlo VIII preparò anche col duca Filiberto II una cooperazione dei Savoia alle sue imprese di guerra: in cambio, un comando, uno stipendio e, presa Milano, terre per 20.000 ducati di rendita. È il primo segno di una politica francese volta a cointeressare i custodi dei valichi alpini alle imprese italiane della monarchia. Più decisamente ancora procede, dopo l'aprile del '98, nel campo della preparazione diplomatica, Luigi XII, nuovo re. Nel giugno, egli restaurò il vecchio accordo che Carlo VIII aveva conchiuso con l'Inghilterra; nell'agosto, mutò in un trattato di pace e alleanza l'armistizio con la Spagna del novembre '97; nel marzo, approfittava degl'imbarazzi in cui si trovava la Confederazione svizzera per la guerra mossale da Massimiliano d'Austria e conchiudeva con essa un'alleanza, ne otteneva autorizzazione ad arruolare fanterie; nell'aprile del '99, con l'amichevole mediazione del cardinale Della Rovere, vinse le ultime ritrosie di Venezia, a cui non sfuggivano i pericoli della mala compagnia straniera, e ottenne il suo concorso per l'impresa del milanese, in cambio di Cremona e altre terre sull'Adda (trattato di Blois); un mese dopo, guadagnava a sé anche papa Alessandro VI e i Borgia, e otteneva, fra l'altro, libertà d'azione per l'impresa di Milano, concedendo al duca Cesare il ducato del Valentinois e future nozze con una d'Albret, oltre ad aiuti militari e diplomatici per la riconquista delle Marche e Romagne dalle mani dei signorotti locali. Così la Francia, già isolata, costituiva attorno a sé, in Italia e in Europa, una rete di amicizie e solidarietà. Obiettivo primo e massimo, questa volta, Milano, oltre che Napoli: anzi, Milano, prima e più che Napoli, non solo per avere così l'appoggio dei Veneziani, ma anche per l'esperienza fatta che le chiavi del sud erano nella Valle Padana, specie quando non si avesse una propria flotta.
In tal modo Luigi XII, assunto il titolo di duca di Milano, conquistò fra l'agosto e il settembre del '99 il ducato. Il 2 settembre, capitolava la cittadella di Milano. Lo Sforza era isolato. L'alleanza con Massimiliano, impegnato contro gli Svizzeri, poco gli valse. Questi tuttavia accolse ospite il Moro fuggiasco, gli fornì certa quantità di uomini e di artiglierie, rese possibile a lui, assoldate anche bande di Svizzeri, di ricomparire in Lombardia e rientrare in Milano. Ma gli Svizzeri del Moro tradirono e consegnarono al nemico il loro signore: allora tornarono alla riscossa i Francesi. I quali anche si volsero all'impresa di Napoli. Ma qui le cose erano più complicate. L'intervento di Francia nel regno aveva sollecitato già nel '94 un intervento spagnolo. Come un secolo prima l'Aragona aveva rivendicato al suo diretto dominio la Sicilia, togliendola alla dinastia aragonese che la governava autonomamente, così ora la Spagna nutre disegni non diversi per Napoli. Perciò, in un primo tempo, trattato segreto fra i due re, a Granata, per la spartizione del regno: Puglia e Calabria a Spagna; Abruzzo, Terra di Lavoro, Napoli a Francia (novembre 1500). Trattato vergognoso per la corona di Spagna, nella cui fiducia l'Aragonese riposava: ma un po' anche per Venezia e per il papa, che vendettero la loro neutralità, ricevendo in cambio quella il diritto di conservare i suoi porti pugliesi, questo nuovi aiuti d'armi per la Romagna. Re Federico di Napoli che a Consalvo di Cordova, presentatosi come difensore dai Francesi, aveva rimesso non poche fortezze, si vide tradito e perdé il regno. Nel luglio 1501, i Francesi entravano in Napoli. Vi fu qualche mese di condominio franco-ispano. Poi, discordia e guerra. E per un anno o due, i Francesi prevalsero, furono quasi padroni dell'Italia, direttamente o indirettamente, poiché Firenze era ligia a loro, Genova teneva a loro disposizione la sua flotta, il papa aveva conchiuso un vantaggioso contratto con re Luigi, e Cesare Borgia inquartava il giglio di Francia sopra il suo scudo. Poi gli Spagnoli ripresero vigore. La resistenza di Barletta immobilizzò per qualche tempo i Francesi; la vittoria di Consalvo a Cerignola nell'aprile del 1503 e le altre di Seminara e del Garigliano, nel dicembre, li prostrarono.
Così, Francia nella Valle del Po e a Genova; Spagna nel Mezzogiorno. Le due monarchie sono ormai arbitre della situazione. All'equilibrio degli stati italiani si è sostituito l'equilibrio di Francia e Spagna in Italia e, in certo senso, in Europa. Di valore decisivo, per la Spagna, era stato l'antico possesso della Sicilia, vera testa di ponte sulla penisola. Napoli, che era il più vasto stato italiano, e Milano, che era il più reputato dei nuovi principati, sono a terra. E ferito è anche il prestigio, il credito politico dello stato fiorentino, dopo il 1494, anche per la grave crisi morale e istituzionale che prende nome da Girolamo Savonarola. Vi è un momento che anche lo Stato della Chiesa sembra destinato a soccombere. Lì, Cesare Borgia assai sfruttando la necessità in cui si trovavano i due maggiori contendenti, Francia e Spagna, di comprare solidarietà italiane, si buttò, nell'anno 1500, a ricuperare, nominalmente per la Chiesa, effettivamente per sé, la Romagna, di cui il papa lo nominò duca. E sbarazzò quella regione, e poi anche Marche e Umbria, dai signorotti che vi spadroneggiavano. Guardò anche più lontano, la Toscana, dove Siena non gli era avversa, Pisa addirittura gli si offrì. Ma in Toscana Firenze resisté; la stessa amica Francia contrariò, essa che voleva libera quella strada verso Roma e Napoli. E un po' per questa contrarietà francese, un po' perché intanto le azioni spagnole si risollevavano nel regno, dopo Cerignola e Seminara, i Borgia, che ormai pare si fossero fissati nell'idea della Toscana, si raccostarono, pur senza troppo compromettersi, alla Spagna. La morte del papa, la malattia di Cesare, fecero precipitare queste ambizioni dinastiche e procurarono qualche altra ferita allo Stato della Chiesa, poiché i Veneziani, approfittando della crisi borgiana e francese, si presero anche in Romagna, come in Puglia, altre città. Specialmente importante, per Venezia, che cercava anche d'aver Pisa, l'acquisto di Faenza, nel 1503, che era, allo sbocco della valle del Lamone, quasi porta della Toscana: anzi, per Machiavelli, porta di tutta Italia o principio di rovina per Venezia.
E veramente un nembo cominciava ad addensarsi sulla repubblica, dopo tanto suo crescere in mezzo alla rovina degli altri, anzi dopo tanto concorso dato alla rovina degli altri. Grande malumore nella curia contro Venezia. Giulio II salito ora al pontificato pieno di buoni propositi per la religione e per la pace d'Italia, intendeva questa religione e pace innanzi tutto come libertà e forza della Santa Sede, come restaurazione dello Stato della Chiesa, come impedimento a ogni egemonia, in Italia, poco importa se di potentati italiani o stranieri. E si volse subito a ricuperare il suo. Ormai, aut aut: o i pontefici diventavano definitivamente signori del loro stato o lo stato andava definitivamente in pezzi, con tante cupidige che gli turbinavano attorno, incoraggiate dalla stessa secolarizzazione morale che esso aveva subìto, nell'età precedente, per effetto della politica spregiudicata e dei propositi nepotistici dei papi. Così, ciò che Sisto IV e Alessandro VI avevano creduto di fare e in parte fatto per mezzo di parenti, e a vantaggio forse più dei parenti che della Chiesa, Giulio II si propose di farlo direttamente, per dare al papato una "libertà" assoluta contro chicchessia. Egli seguitò, in fondo, l'opera di Cesare Borgia, che aveva cominciato a colpire durissimamente quelle turbolente dinastie umbre, marchigiane e romagnole, a sgretolare quegli staterelli, a instaurare fra le travagliate popolazioni certa fiducia in un forte potere centrale. Così Giulio II fu il primo vero e maggior fondatore dello Stato della Chiesa. Sollecitò energicamente da Venezia la restituzione delle città e castella romagnole, dichiarando che, per tutelare i diritti della S. Sede, si sarebbe rivolto anche a Francia e Spagna. Si mescolò anzi e presiedette nel 1504 al ravvicinamento tra Luigi XII e Massimiliano d'Asburgo, antico nemico dei Francesi, specialmente ora dopo la conquista di Milano, ma non meno e ancor più nemico di Venezia, e ora volto a staccare i Francesi dai Veneziani. Nel marzo 1504, armistizio fra i due sovrani, Valois e Asburgo; nel settembre, sempre con l'intervento del pontefice, patti di Blois, con i quali si riaffermava il diritto del re dei Romani sul ducato di Milano, ma se ne investiva il re di Francia, e si concordava la conquista e la spartizione dello stato veneziano, a vantaggio del milanese e di chi vi aveva diritto, dell'impero, della Chiesa. Venezia, per sventare la minaccia, rese alcune terre al papa: ma le minori, tenendosi invece Cervia, ricca di saline, Ravenna, Faenza, Rimini, che le davano il controllo d'importanti vie d'acqua e di terra. Il papa per allora si accontentò, ma proseguì la sua opera verso altre direzioni. Si fece restituire dai Fiorentini ciò che avevano tolto di terre ecclesiastiche; cacciò Baglioni da Perugia e Bentivoglio da Bologna, i due centri maggiori dello stato dopo Roma, vincendo ogni ostacolo, creando fatti compiuti, con procedimenti rapidi che molto dovettero piacere a Machiavelli.
Coalizione europea contro Venezia. - Per il momento, i patti di Blois non produssero i loro frutti. Ma non cessava l'oscuro lavorio diplomatico contro Venezia. Nel 1507 convegno, di colore oscuro, del re di Francia e di Ferdinando il Cattolico a Savona, poco dopo che il re di Francia, con l'aiuto della flotta spagnola, aveva represso la ribellione di Genova. L'anno appresso Massimiliano, contrariato da questa alleanza, fallitogli il piano di riunire tutte le forze della Germania contro la Francia, cercò compensi altrove, pensò di prendere a Roma la corona imperiale, si volse contro Venezia che non intendeva lasciar libero il passo al suo esercito. Dopo Francesi e Spagnoli, comincia a prendere posto, fra i protagonisti del dramma italiano, la casa d'Austria.
Momento grave per Venezia! Preoccupazioni e presentimenti non lieti, per i commerci, dopo iniziati i grandi viaggi oceanici e scoperte le nuove vie per le Indie e preso possesso delle nuove terre. Ora comincia l'assalto armato dell'Europa. Nel 1508, guerra di Massimiliano, dal Trentino al Quarnaro: guerra che Venezia combatté da sola. Non le mancarono le profferte di aiuto di Spagna e Francia: ma profferte menzognere, dietro le quali i due re si preparavano anch'essi ad assaltarla. Fu, per Venezia, guerra difensiva in Carnia e Cadore, con qualche brillante fatto d'armi sull'alto Piave e molta fedeltà di quei montanari a Venezia; guerra offensiva, pur non con grandissima fortuna, in Val d'Adige, per opera di Niccolò Orsini da Pitigliano e, con assai maggior successo, sull'Isonzo e oltre. Qui, Bartolomeo d'Alviano, che aveva anche difeso il Cadore, occupò Plezzo e Caporetto, espugnò con le forti artiglierie il castello di Cormons, il ponte sotto Gorizia, la città stessa di Gorizia e di lì, su per il Vippacco, marciò sino a Trieste, a Postumia, a Fiume, con l'aiuto della flotta.
Ma queste vittorie, se fiaccarono un nemico, ne suscitarono altri che stavano in attesa e già preparavano le armi. La Francia si fece, non certo per amore di Venezia, mediatrice di pace: e si ebbe un armistizio fra Venezia e l'impero, nel giugno 1508. Ma i maneggi di Massimiliano proseguirono. La diplomazia intensificò il suo lavoro presso tutti i governi d'Europa. La Francia, già mediatrice, si fece alleata di una delle due parti, cioè dell'impero. Il pontefice Giulio II, prima estraneo ai maneggi, poi vi aderì. Così, gli antichi accordi antiveneziani di Blois tra Francia, Austria, Santa Sede, che parevano superati e annullati da successive discordie, ripresero vigore. Altre potenze, grandi e piccine, si accostarono: la Spagna che rivoleva i suoi porti pugliesi, la corona d'Ungheria che ripensava sempre alla Dalmazia, Savoia che vantava diritti su Cipro, il duca di Ferrara che intendeva ricuperare il Polesine, il duca di Mantova che pure aveva da rivendicare qualche cosa. Si ebbe, così, resa possibile e dalla comune avversione e cupidigia contro Venezia e dalla mobilitazione ormai avvenuta di tutta Europa attorno al Mediterraneo e all'Italia, una vasta coalizione (Cambrai, 10 dicembre 1508), quale mai si era avuta, neanche contro gl'infedeli, sebbene essa proclamasse ora di voler intraprendere, viribus unitis, una spedizione proprio contro gl'infedeli, cioè i Turchi. Ma bisognava cominciare, si legge nel proemio del trattato, col mettere a freno i cupidissimi Veneziani e castigarli delle offese fatte alla Santa Sede e alle potenze. Lo stato veneziano era, sulla carta, fatto a pezzi; Venezia, ridotta alle sue lagune; la parte del leone, assegnata a Massimiliano, cioè Rovereto, Verona, Vicenza, Treviso, Padova, il Friuli, il patriarcato di Aquileia. Si mosse prima l'esercito di Francia, dal Milanese. Venezia, che non si perse d'animo e fece vasti preparativi di guerra, lo affrontò. Guerra veneziana, naturalmente, ma combattuta con certo sentimento di fini più che veneziani, contro un nemico ereditario e capace di eccitare oltre Alpe, fra i Tedeschi, una reazione nazionale di popolo e di principi, in odio a Venezia e agl'Italiani. La gravità del pericolo e la pochezza delle forze in confronto alle avversarie, portò i Veneziani a mettere la loro guerra quasi sotto gli auspici dell'Italia, a sollecitare un'ideale solidarietà dell'Italia.
Nei consigli della repubblica, si propose d'inscrivere Defensio Italiae sulle bandiere. Le truppe veneziane affrontarono il nemico gridando Italia Italia, grido di fanterie italiane davanti a fanterie d'altro paese. Ma i Veneziani furono rotti ad Agnadello, 14 maggio 1509. Le città lombarde, appartenenti alla repubblica, furono allora occupate. Anche Verona, Padova, Vicenza aprirono le porte. Si ebbe l'impressione che per Venezia l'ultima ora fosse suonata: e tutti si precipitarono addosso alla preda cui agognavano. Ma Venezia non cedé. Se i nobili di terraferma quasi da per tutto parteggiarono per gl'invasori, specialmente per l'Asburgo; popolo e contadini si mantennero fedeli e, qua e là, insorsero contro di essi, come a Treviso contro i Tedeschi. Attaccate a Venezia si mostrarono le popolazioni delle valli alpine. Anche i comuni di Valcamonica, sopra Brescia, nei giorni dell'invasione offrivano non solo ricchezze ma et sanguinem et animum. Massimiliano assediò Padova, che i Veneziani avevano ricuperata. La più grossa accolta di gente che mai si fosse vista era con lui. "Dall'acquisto e difesa di tanta città dipendeva non solamente lo stabilimento o debolezza dell'impero dei Tedeschi in Italia, ma ancora quello che avesse a succedere della città propria di Venezia" (Guicciardini). Ma Padova si difese bravissimamente. La repubblica scriveva ai Padovani: "Voi tutti combattete per la iustitia per la pace per la libertà de la povera Italia, da' barbari lacerata". Fino a che, 3 ottobre 1509, Massimiliano, disperato di vittoria, levò il campo.
Intanto la coalizione accennava a rilassarsi. Se l'anno prima la troppa fortuna di Venezia aveva moltiplicato i nemici della repubblica, ora la troppa fortuna dei nemici le procurò qualche amico, per paura di una prevalenza asburgica o, più ancora, francese in Italia. Fra questi amici, papa Giulio II. Il quale nel febbraio 1510 conchiuse la pace con Venezia; finì di staccare il re Cattolico dalla Francia concedendogli l'investitura del regno di Napoli, con la sola condizione che non cumulasse quella corona con l'impero o altro dominio di Lombardia e Toscana; si alleò con la Confederazione Elvetica e ne ebbe soldati, nonché il diritto dì vietare arruolamenti per altri, cioè per i Francesi. Così Venezia uscì ferita sì, ma non di ferite mortali, da questo grave cimento. Ebbe qualche arretramento dalla parte di Lombardia, perdé le città di Romagna e Puglia, ma il grosso del suo dominio rimase intatto. E la sua riputazione, in tanto sfacelo di stati italiani, crebbe più che non scemasse. Il papa cominciò a scomunicare e ad attaccare Alfonso d'Este, amico dei Francesi, per togliergli Ferrara e Modena; ed egli stesso partecipò alla presa della Mirandola, entrandovi attraverso la breccia aperta nelle mura. C'era in lui gran tentazione di portare il confine sino al medio e basso Po, includendo tutte le città emiliane sulle quali la Chiesa vantava, in vario modo, diritti, e rivendicandole o dai signori del milanese, indigeni o forestieri, che tradizionalmente le possedevano (Parma e Piacenza), o dagli Estensi a cui papi e imperatori ne avevano data investitura (Ferrara, Reggio, Modena). Reagirono energicamente i Francesi, con le armi e con i mezzi morali. Il re, convocando il concilio di Tours, autorizzò la disubbidienza religiosa al papa e predispose un concilio a Pisa. Il papa allora ricorse a misure estreme, promosse una lega santa (conchiusa a Roma nell'ottobre, in cui entrarono variamente Venezia, la Spagna, gli Svizzeri, l'Inghilterra); gridò il suo Fuori i barbari! Diede a quella guerra quasi un carattere nazionale, di liberazione, di sforzo per arrestare l'avanzata degli stranieri in Italia. Venuto meno il regno di Napoli, impotente Firenze che in altri tempi aveva incarnato la consapevole resistenza della civiltà italiana ai Tedeschi, caduta Milano che si era dato merito di custode delle frontiere, si direbbe che fosse giunto, dopo Venezia, il momento del papato. Non bisogna attribuire a questo atteggiamento un senso che non poteva avere. Ma possiamo bene ammettere che, avendo il pontefice ricuperato il suo stato e volendo assicurarne l'esistenza, ora minacciata specialmente da stranieri, egli considerasse la "libertà della Chiesa" una cosa sola con la "libertà d'Italia"; e la seconda, condizione della prima. Disgraziatamente, per cacciare i "barbari", Giulio II doveva ricorrere ad altri "barbari", spagnoli e svizzeri, cioè tedeschi. E di questi ultimi assoldò 16.000 sotto il battagliero cardinale di Sion, Matteo Schinner; ed eccitò le ambizioni e l'orgoglio nazionale. Era sua speranza, contrapponendoli gli uni agli altri, di logorarli e avere, in ultimo, ragione di tutti? Ma in realtà, la situazione delle cose, il rapporto delle forze erano ormai tali che ogni collaborazione con stranieri si risolveva in accrescimento loro. E ora si vide lo spagnolo Raimondo di Cardona messo alla testa dell'esercito collegato. Si vide dopo la grande vittoria francese di Ravenna (aprile 1512) che pareva dovesse decidere per Francia la guerra, gli eventi volgere, sì, contro Francia, Milano e Genova combattere i Francesi, i pontifici riprendere Bologna e occupare Modena, Parma, Piacenza, città agognate; ma si vide anche un esercito di Svizzeri riportare Massimiliano Sforza nel dominio e gli Spagnoli procedere in Toscana alla restaurazione dei Medici. Il milanese dové legarsi con un patto di perpetua alleanza alla Confederazione Svizzera, riconoscerle privilegi commerciali, cederle il Canton Ticino, oggetto di una contesa ormai secolare. Fu coronato così il tenace sforzo degli Svizzeri di sboccare sul Lago Maggiore e sul lago di Lugano, cioè, in fondo, sulla pianura lombarda. Parve anzi che dopo Francesi e Spagnoli, gli Svizzeri, anche in virtù dei richiami della Santa Sede, entrassero anch'essi nella gara: e non tanto come mercenarî, quanto come parte in causa. Machiavelli era turbato da questo "fiume tedesco", quasi avanguardia germanica, che avanzava. Ora esercitano una specie di protettorato su tutto il ducato. Ma più preoccupanti ancora, come è naturale, apparvero i progressi degli Spagnoli che si erano piantati a Firenze e in altri punti della Toscana, e in Roma stessa, pare si volessero mutare da alleati in padroni. E Giulio II credette di dovere, dopo e insieme al pericolo francese tuttora vivo anche nei riguardi religiosi, parare il pericolo spagnolo, creandogli opportuni contrappesi. Cercò a tale scopo trarre a sé Massimiliano d'Austria, cioè, anche ora, stranieri. Ma poiché Massimiliano non si guadagnava senza aiutarlo nei suoi progetti antiveneziani, così Giulio II si mise di nuovo contro Venezia, promettendo al re dei Romani appoggio per ricuperare Verona e Vicenza e far valere i suoi alti diritti su Treviso e Padova e alleandosi con esso (novembre 1512). Viceversa, Venezia si riaccostò subito alla Francia che era pur sempre la sua alleata naturale, per la comune opposizione agli Asburgo. E si ebbe un nuovo raggruppamento: Santa Sede, Impero, Inghilterra, Spagna, Svizzera e duca di Milano, contro Francia e Venezia. Come già nell'anno 1500, lo Sforza di Milano, preso nella tenaglia francoveneta, perse in un primo momento quasi tutto il ducato (maggio 1513). Ma soccorsero gli Svizzeri che ruppero a Novara i Francesi, costretti perciò a sgombrare l'Italia, e consolidarono la loro quasi padronanza del milanese; mentre gli Spagnoli entravano in Genova e si volgevano contro Venezia, giungevano in vista della città, battevano a Padova le genti veneziane. E solo la mediazione del nuovo pontefice la salvò e portò un po' di tregua.
Francesco I e Carlo V. - Era morto Giulio II, mentre ormai quei "barbari" che egli voleva cacciare dall'Italia, ma che troppo viceversa richiamava alle cose d'Italia, vi spadroneggiavano. E Leone X di casa Medici, che gli successe, si destreggiò tra i varî potentati, specie tra Francia e Spagna. Politica oscillante e ambigua, sia perché difficile la situazione, sia perché troppi e contraddittorî gli obiettivi. Leone X voleva impedire, con l'aiuto di Spagna, una ripresa francese, indebolire la posizione dei potentati in Italia, ottenere dall'uno e dall'altro contendente buoni vantaggi per la Chiesa e per i Medici. I quali erano tornati a Firenze. Ma avevano, e il loro papa per essi, altre e maggiori ambizioni. Leone pensava a Milano per Lorenzo suo nipote, a Napoli per Giuliano suo fratello, quando fosse morto Ferdinando il Cattolico. Anche le città emiliane, che la Chiesa voleva rivendicare a sé, ma, appetite come erano dai signori del milanese o tenute dagli Estensi, non riuscivano a rientrare nell'orbita dello stato ecclesiastico, potevano essere assegnate a un altro Medici. Ardua impresa, questa di poter contenere la forza e l'impeto di grandi monarchie e nazioni ormai lanciatesi nelle gare di primazia italiana ed europea. Cominciò Francesco I nuovo re di Francia, assunto il titolo di duca di Milano, a rimettersi con ardore all'impresa d'Italia. Grande apparecchio militare, preparazione diplomatica, rinnovamento dell'alleanza con Venezia. Gli si contrappose, "a difesa della libertà d'Italia", oltre che a sterminio dei Turchi, una coalizione di Spagna, Austria, Svizzeri. E aderì anche il pontefice, dopo che invano aveva trattato con Francesco per averlo consenziente ai suoi piani nepotistici. Ma il re di Francia vinse, il 13-14 settembre 1515, a Marignano gli Svizzeri stipendiati da Leone X e da Massimiliano d'Austria, e li cacciò dal ducato. Gli Svizzeri persero e la fama della loro invincibilità e le ambiziose speranze sul milanese. Solo conservarono il Canton Ticino. I Francesi si stanziarono nuovamente a Milano; Massimiliano Sforza finì anch'egli la sua vita, come il padre, in prigionia di Francia. Il papa dové venire a patti col re, transigere per la questione delle libertà gallicane, rilasciargli le città dell'Emilia, mettere nella sua protezione gl'interessi medicei che gli stavano a cuore non meno di quelli della Chiesa. Di nuovo l'Italia fu divisa come in due sfere di dominio e d'influenza: il sud, spagnolo; il nord e il centro, francesi. Ma innegabile prevalenza di Francia. E quel re cercò consolidare una posizione così fatta, magari cercando di accontentare, a danno di stati italiani ancora indipendenti, aspirazioni di altri concorrenti. Conchiuse a Noyon, agosto 1516, un trattato con la Spagna, a perpetua pace e difesa dei rispettivi stati; una pace non meno perpetua conchiuse nel novembre con gli Svizzeri, fino allora acerrimi avversarî di una dominazione francese in Lombardia; un accordo fece con Massimiliano a Bruxelles nel dicembre, a cui seguirono conferenze e patti segreti tra Francesco I, Massimiliano e Carlo d'Asburgo, arciduca dei Paesi Bassi ed erede di Ferdinando il Cattolico in Aragona, Sicilia, Sardegna, Napoli. Questa volta si abbozzarono cose grandi: un regno d'Italia, dal Friuli a Pisa e Siena, fatto quasi tutto di spoglie veneziane, per Carlo d'Asburgo; un regno di Lombardia, da Mantova alle Alpi piemontesi, con Milano, Monferrato, Asti, Genova, per la Francia. L'uno e l'altro, feudi dell'impero. Così, pacificati i tre maggiori potentati d'Europa, regolate le loro contese in Italia, grande pomo di discordia, si poteva ritenere assicurata la pace del mondo, e pensare a un'impresa comune contro gl'infedeli.
Nel 1519 avvenne un fatto grande: Carlo d'Asburgo, che già aveva preso possesso del regno d'Aragona ed era stato proclamato anche re di Castiglia, succedeva, col fratello Ferdinando, a Massimiliano suo nonno nei dominî austriaci; e poco dopo, ascendeva al regno di Germania. Così l'Italia, che si era trovata sino allora di fronte ad Austria e Spagna, vedeva ora cumulati in una sola dinastia gl'interessi e i diritti dell'uno e dell'altro stato in Italia. Fra i ministri e consiglieri di Carlo V, vi è un italiano, Mercurino Arborio di Gattinara, avvocato e giurista torinese già entrato a servizio degli Asburgo e salito assai in alto in Borgogna. Nominato da Carlo gran cancelliere dei suoi regni, vincendo l'avarizia dei Fiamminghi e le preoccupazioni nazionali degli Spagnoli che temevano per la borsa e per le cose di Spagna, Mercurino lavorò per ottenere a re Carlo, in concorrenza con Francesco I di Francia, l'elezione a re dei Romani, che voleva dire a imperatore. E gli riuscì, nel 1519, salendo poi anch'egli alla dignità di gran cancelliere dell'impero. Sopravvivevano in lui vecchie idealità: papa e imperatore concordi, pace e religione promosse, il mondo sotto un solo pastore: insomma la monarchia universale. Due partiti erano presso Carlo nel consiglio imperiale, dopo l'elezione del 1519: piena intesa con Francia; guerra alla Francia. E prevalse, per opera del Gattinara che lo capeggiava, questo secondo partito che trovava buon giuoco nelle eguali tendenze che dominavano presso Francesco I. Il gran cancelliere lavorò a isolare l'avversario, trovò l'alleanza del re d'Inghilterra, strinse accordi con papa Leone. Veramente, il regno di Napoli e il milanese nelle mani d'un solo signore; e questo medesimo signore, padrone di tanti regni oltr'Alpe e investito dell'impero, non era cosa che potesse soddisfare il pontefice. Contravveniva alla vecchia politica della Santa Sede, agli accordi recenti di Giulio II con Ferdinando il Cattolico, in occasione dell'investitura di Napoli data al re di Spagna. Ma Leone X dové fare buon viso alla nuova situazione. Anche perché bisognava pure, in Germania, fronteggiare Lutero. Così, nel maggio 1521, a pochi giorni di distanza, da una parte Carlo metteva l'eresiarca al bando dell'impero, dall'altra Leone poneva sotto l'alta autorità di lui Milano e Genova. Al papa erano restituite le città emiliane, Carlo assumeva la protezione dello Stato della Chiesa e dei Medici. Coi denari del papa si sarebbero assoldati Svizzeri per ricuperare il milanese. Vasta guerra. Fra i nemici di Francia, anche il re d'Inghilterra che, interpostosi come paciere, fu persuaso proprio dal Gattinara, inviato di Carlo V, spettare a Francesco I la responsabilità della rottura. Così, il milanese fu ritolto ai Francesi; il 19 novembre, Francesco Maria Sforza, con gli Svizzeri, rientrava in Milano e donava riccamente il gran cancelliere. I Francesi erano per la terza volta cacciati dall'Italia. A questo punto, morì papa Leone. E qualche guadagno di Carlo V andò perduto. Ma le sue fortune non si arrestarono. Nel gennaio del 1522 ascese al papato una sua creatura, un fiammingo già suo precettore e, in ultimo, suo luogotenente in Spagna, Adriano VI.
Vi fu a questa ascesa di Adriano VI una reazione italiana e specialmente romana che è assai significativa. Tutti ormai consideravano il papato cosa italiana, e Roma, città degl'Italiani per eccellenza, legati a essa da interessi ideali e sentimentali non meno che pratici. Ora, vedere sul soglio di San Pietro questo ignoto "barbaro et baylo de l'imperator", come dice il Sanudo, destò un senso di sorpresa e quasi sgomento. Negli ambienti finanziarî, artistici, magnatizî, popolari di Roma e d'Italia, in mezzo alla falange degli uomini che vivevano in curia e della curia, si temé che il nuovo papa non venisse neppure a Roma, che tenesse chiusa la corte, si circondasse di Fiamminghi. Scontenti e attoniti anche gli stessi cardinali, che pure avevano fatto l'elezione. Non si trattava solo di uffici pericolanti. Tenere presente quel senso, allora sempre più diífuso, di una crescente minaccia che si addensava sull'Italia da parte di stranieri. E anche quell'orgoglio e presunzione del mondo letterato italiano, che facilmente si urtava e reagiva a ogni disconoscimento altrui.
Come si temeva, Adriano VI non solo colpì tanti piecoli interessi di una città che, economicamente, era quasi appendice della curia, ma s'isolò, si estraniò da Roma, non si occupò di politica, cosa quasi incomprensibile ai Romani, offese abitudini e sentimenti e gusti profondamente radicati e che costituivano la civiltà italiana del tempo. Fiamminghi, i suoi eamerieri, fiammingo il pittore che chiamò a sé; Spagnoli e Svizzeri la sua guardia; spagnolo il castellano di castel S. Angelo, fiamminghi molti consiglieri e confidenti e dignitarî. Dovettero andarsene a cercar lavoro altrove gli scolari e continuatori di Raffaello, che lavoravano a Roma nelle sale di Costantino, Pierin del Vaga, Giulio Romano, Giovanni da Udine, nonché uomini come il Castiglione e il Sadoleto. Non che Adriano non fosse uomo di rette intenzioni; non che, fra gli Spagnoli e Fiamminghi che circondavano il papa, non fossero persone di buona levatura. Ma apparivano e, nella Roma del Rinascimento, erano inesperti, goffi, di poca agilità mentale, spostati, incapaci di far presa sulla materia circostante, di stabilire quei contatti con gli uomini senza cui un istituto avvizzisce e muore. Si vede chiaro che sono di fronte due popoli, due culture. due mentalità: ciò che fra breve doveva rendere ancora più profondo il fosso fra Italiani cattolici e Tedeschi protestanti. Come si sarebbero intesi, con due diverse professioni religiose, quelli che non s'intendevano ora che almeno la fede li accomunava7 E si spiega come Adriano VI fosse l'ultimo papa germanico e anche l'ultimo papa straniero sul soglio di S. Pietro. Gl'Italiani, urtati in pieno petto dalla invadenza dell'Europa, finirono di nazionalizzare il papato. Fu un mezzo di difesa. Ciò che non volle dire distruggere la sua cattolicità e fare del pontefice il capo di una circoscritta comunità religiosa. Ché anzi proprio allora, di fronte alla crisi della cattolicità che era anche crisi di vita medievale, provocata da forze esterne (Turchi, 1522 caduta di Rodi) e interne (protestanti) s'inizia la serie dei pontefici veramente cattolici, pontefici oltre che principi, eredi genuini e rievocatori dei Gregorio VII e Innocenzo III, armati di tutte l'armi per fronteggiare i pericoli del vasto mondo, animati da un rinnovato ardore di proselitismo verso i nuovi continenti, riusciti quasi ad annullare lo Stato della Chiesa di per sé e considerarlo un beneficio annesso all'ufficio spirituale. Ma gl'Italiani misero una certa ambizione e un certo sentimento d'interesse loro a conservare essi il supremo governo della Chiesa e si strinsero al papato come a una cosa loro, gloria e difesa loro. E l'universalità sua fu l'universalità di Roma, della cultura italiana. La riforma che ad esso chiesero e che i pontefici iniziarono fu fatta secondo questo spirito, non rinnegando ma mettendo in valore, agli scopi della fede, il Rinascimento.
Volendo essere, innanzi tutto, papa, Adriano VI per qualche tempo si tenne imparziale fra le due parti contendenti. Ma poi anch'egli si accostò a Carlo V. Anche Venezia fece alleanza con Carlo V, nel luglio. Per lui parteggiavano, in stato di maggiore o minore autonomia, Sforza dì Milano, Medici fiorentini, repubbliche di Lucca e di Genova, Savoia e Gonzaga di Mantova. Insomma, l'Italia, raccolta tutta attorno a Carlo V, che aveva dalla sua anche il re d'Inghilterra e il fratello Ferdinando d'Austria. Pareva allora che spirito aggressivo, volontà di guerra, ambizioni di primato, pericolo per la "libertà" italiana, fossero più dalla parte della Francia, nazione popolosa, compatta, centrale in Europa, tutta nelle mani del suo re, che non dalla parte dell'Asburgo. Scopo della coalizione veniva proclamata la "libertà d'Italia". E realmente sull'Italia si ostinava lo sforzo dei Francesi. Nell'autunno del 1523, vi fu un tentativo del Bonnivet di riprendere il ducato di Milano. E non riuscì. L'anno appresso, inseguendo un esercito spagnolo e tedesco che aveva invaso la Provenza, Francesco I in persona ritentò. E parve con migliore fortuna. Rimise piede anche a Milano e assediò in Pavia i Tedeschi di Carlo V, guidati da Antonio de Leyva. E qui avvenne, al principio del 1525, la battaglia decisiva. Pericolosa la situazione del re di Spagna e Germania e delle sue truppe in Lombardia. Ma i suoi generali combatterono con risoluta volontà di vincere, consapevoli che una sconfitta avrebbe potuto essere irreparabile. La vittoria di Pavia determinò allora una forte reazione a Carlo V. Balenò il pericolo spagnolo e tedesco. La speranza dei diplomatici di vedere i varî potentati stranieri farsi l'un l'altro contrappeso e l'un l'altro logorarsi, cadde. E tutti sentirono addensarsi sul capo la minaccia di una totale e perpetua servitù. Gli Italiani aprivano gli occhi sulla realtà di questa gigantesca monarchia che si stava costruendo, dall'Italia e dal Baltico all'America. E anche il cauto Francesco Guicciardini riconosceva la necessità, e anche ne ammetteva la possibilità, di tentare un'estrema difesa. C'era pericolo che i rapporti di alleanza si mutassero per tutti in rapporti di sudditanza. Le popolazioni furono gravate di pesanti oneri dai vincitori: né solo quelle dei paesi soggetti e occupati, ma anche quelle dei piccoli stati indipendenti, Lucca, Ferrara, Siena, Monferrato, anche Venezia. Fra generali e ministri di Carlo V c'era diverso avviso, riguardo all'Italia: trattarla come terra di conquista, trattarla col bastone, suggerivano Antonio de Leyva, il Pescara, Carlo di Lannoy viceré di Napoli, Enrico di Nassau ecc., insomma specialmente i generali e, per giunta, di nazionalità spagnola o tedesca. Seguiva diversa sentenza il gran cancelliere Gattinara. E l'imperatore dové imporre silenzio alle due parti contendenti. Il Gattinara consigliava accordi con gli stati italiani, accordi col papa, per togliere così ogni base ai Francesi in Italia od ogni possibilità loro di riscossa.
Fra questi contrasti, prevaleva il parere di quelli che, intanto, avevano l'esercito in mano, cioè i generali. Quindi violenze, estorsioni, taglie, saccheggi. Cosi si riabilitò un poco, nell'opinione pubblica, il ricordo dei Francesi, per alcuni anni impopolarissimi in Italia, come quelli cui si attribuiva la responsabilità prima e massima di avere mosso quella grande rovina di guerre. Speravano i politici in Solimano che avanzava in Ungheria, alle spalle degl'imperiali; ma pensavano anche ad aiutarsi da sé.
Per la libertà d'Italia. - Tornava a galla il vecchio pensiero della lega italiana. Dalla Francia, venivano incitamenti di resistenza e di guerra, e offerte di aiuti. L'unione delle corone di Spagna, Germania e impero, gli ultimi fatti d'Italia e il colpo di Pavia, avevano dato materia di molte riflessioni a quella corte. Alla quale ne venne il primo impulso a quell'orientamento verso l'impero turco che, date le tradizioni francesi, le stesse prime motivazioni dell'impresa di Carlo VIII in Italia, il sentimento pubblico dell'Europa cristiana in quegli anni di gravi minacce turche, fu una vera rivoluzione politico-diplomatica e religiosa. Ma ne venne anche qualche pensiero nuovo in rapporto all'Italia. In Italia bisognava tenere dominio, ma bisognava, per tenervi dominio, incoraggiarvi forze di resistenza agli Spagnoli. Così Francesco Sforza, col suo ministro Girolamo Morone già al servizio di Francia, la repubblica di Venezia, il papa. ripresero più vivo contatto fra loro, ebbero scambî d'idee, vagliarono proposte, abbozzarono accordi. Genova, Lucca, Siena accennarono di consentire anch'esse. Il papa, il nuovo papa Clemente VII di casa Medici, divenne come il centro di questo movimento, si diede ad assoldare Svizzeri per la Lombardia e, al bisogno, per Napoli, mandò a Milano il genovese Domenico Santi per trattare della lega, formulò alla reggente le condizioni per una alleanza contro Spagna. Anima delle trattative era Giovanni Matteo Ghiberti, segretario del cardinale Giuliano de' Medici, acceso dalla passione di unire gli stati italiani e, con le forze d'Italia e Francia, cacciare la Spagna. Raggiunto lo scopo, vi sarà "una perpetua unione di tutta Italia"; vi sarà non dominio francese, ma "lega e amicizia perpetua col regno di Francia". Fra le condizioni poste dal papa alla reggente, per questa lega, vi dové essere, insieme con l'obbligo di un contributo militare francese per cacciare gli Spagnoli dall'Italia e di uno italiano per liberare il re dalla prigionia, anche la rinuncia francese a ogni pretesa sulla penisola. Solo l'indipendenza dell'Italia, si pensava e si diceva da molti allora, poter assicurare la pace.
Insomma, quel tentativo di allontanare, dopo la Francia, anche la Spagna, che Giulio II non aveva potuto neppure iniziare, è iniziato ora, sotto gli auspici se non proprio per impulso primo di papa Clemente VII. Ma può essere che fossero appunto queste condizioni poste dagl'Italiani che rendevano la reggente lenta nel trattare, restia a conchiudere; mentre, viceversa, i diplomatici italiani cercavano di trovare più che fosse possibile in Italia le forze per l'impresa. Si ebbe la cattiva idea di trattare col marchese di Pescara, generale di Carlo V, uno dei maggiori artefici della vittoria di Pavia, spagnolo di origine ma, da una generazione, italiano. C'era, per ragioni diverse, del malcontento in parecchi fra i personaggi vicini a Carlo. Il gran cancelliere vedeva con ira gli eccessi della soldatesca che nessuno frenava. Invano chiedeva che si sottoponessero a processo i responsabili maggiori. Addossava loro la colpa del fallimento della politica conciliativa verso gl'Italiani e la responsabilità dei loro accordi con Francia, si sentì anche lui italiano e balenò anche a lui il pensiero che, cacciati i Francesi, sarebbe poi venuta la volta degli Spagnoli. Il Pescara, "come malcontento dell'imperatore e come italiano", dava materia a sperare che potesse mettersi nel servigio della lega. Il compito di queste trattative l'ebbe il Morone, segretario dello Sforza e più vicino al Pescara, del quale cercò lusingare l'amor proprio offeso e l'ambizione, prospettandogli, oltre che una possibile corona, il regno di Napoli, anche la gloria di andare incontro alle legittime aspettazioni degli Italiani e della S. Sede e di farsi liberatore di questa patria comune. E da allora Milano divenne altro centro di attività diplomatica e d'intrighi, insieme con Roma e, per qualche tempo, più di Roma. Le file dell'accordo, che si complicava con una congiura, le tenne nelle sue mani il Morone. Solo che il Pescara ascoltò ben bene le proposte dei collegati, s'informò come stavano le cose e poi, o non avesse animo da tradire il suo signore, egli che si sentiva più spagnolo che italiano, o non avesse fiducia che quei governi e ministri e italiani tutti potessero condurre bene a termine un'impresa di tal genere, arrestò il Morone (14 ottobre 1525), svelò tutto all'imperatore, lo consigliò anzi ad accordarsi con la Francia per conquistare e spartirsi insieme l'Italia. E intanto attuava per conto proprio quella politica di energiche misure militari che egli caldeggiava, in opposizione a Mercurino da Gattinara.
E tuttavia, anche dopo questo insuccesso, non cessarono le pratiche, per quanto volte più ad accordi diplomatici che ad apparecchio di armi; non caddero le speranze, anzi l'ottimismo di molti: tanto più che, dopo qualche mese, il Pescara venne a morte. Si dubitava assai della sincerità della corte di Francia e della reggente che stava sempre sul generico e intanto seguitava per conto suo a trattare con Carlo V per la liberazione del figliuolo. Che essa voglia semplicemente giovarsi degl'Italiani come di uno spauracchio, per ottenere buoni patti dall'imperatore e poi abbandonare quelli alla loro ventura? Perciò qualche governo italiano teneva il piede in due staffe: anche in quella di Carlo V. La liberazione del re e la pace di Madrid, al principio del 1526, non erano fatti per aumentare la fiducia degl'Italiani nella corona di Francia, pur mentre rendevano più difficile ogni ripresa di buone relazioni con Spagna. Poiché quegli accordi fra l'imperatore e la corte di Francia rispondevano alla politica caldeggiata dall'elemento militare in opposizione a quella del gran cancelliere. Il quale si oppose energicamente tanto alla conclusione della pace, quanto alla liberazione del re; protestò quasi con violenza; si rifiutò di apporre i sigilli agli atti, anzi li consegnò all'imperatore non volendo gli si potesse mai rimproverare una benché minima partecipazione a quella politica. Egli si fidava poco del sembiante pacifico della corte di Francia e molto temeva che riuscisse ad accordarsi con gl'Italiani. I quali questi accordi li avrebbero desiderati. Ma venivano sempre più accarezzando il pensiero di poter fare da sé. Così il Ghiberti, così anche il Guicciardini, allora a servizio di Clemente VII, egli pure grande incitatore di accordi diplomatici e, più ancora, di provvedimenti dl guerra presso l'oscillante, perplesso pontefice che voleva sì la lega, ma temeva di compromettersi contro Carlo V, parlava si di guerra, ma avrebbe volentieri accomodato tutto con una buona pace, trattava sì con la reggenza di Francia, ma anche con Carlo V. Presso l'imperatore si ebbero gravi preoccupazioni per tali maneggi. La posizione degl'imperiali in Italia non era ancora tanto salda da non potersi rovesciare. Gattinara, il gran cancelliere, vedeva avverarsi le sue previsioni e a Carlo V che lo interpellava sui provvedimenti da prendere rispondeva li chiedesse a quei suoi consiglieri che lo avevano condotto a quel punto, dando libertà al re di Francia e pacificandosi con lui. E tuttavia, tornava a consigliare di punire i colpevoli delle rapine, di non lasciare calpestare i diritti dello Sforza, di proteggere la Santa Sede e la religione, di legare alla sua causa i principi italiani. Ma prima che gli effetti di questa azione persuasiva del Gattinara, a cui Carlo V, di per sé, non rimaneva sordo, maturassero, si ebbe la lega di Cognac, 22 maggio 1526, lega santa anche questa, re, Venezia, Fiorentini, lo Sforza, il papa, che ne sarebbe stato il capo. Lo Sforza doveva essere conservato nel milanese; gli altri principi italiani rimessi nello stato di prima. La lega, sebbene rivolta contro Carlo V, gli lasciava aperto l'uscio per entrarvi, se voleva. Ma quando si fosse venuti a guerra con lui, la Francia s'impegnava di dare denari e soldati per collaborare coi soldati dei governi italiani, specialmente alla riconquista del regno di Napoli che era da riconsegnare al papa. Per sé il re di Francia si riserbava solo la sua vecchia contea di Asti e il vecchio protettorato su Genova. Gl'Italiani si premunirono, dunque, anche di fronte al re. Per questo vollero che lo Sforza fosse fra i membri principali della lega. Per questo sollecitarono o accettarono l'adesione del re d'Inghilterra Enrico VIII, utilissimo a tenere in briglia e, al bisogno, anche combattere Francesco di Francia. I collegatì più piccoli non si riscaldarono molto di questa grande alleanza. Ma parve che Venezia e il papa volessero, finalmente, fare sul serio; e poiché la guerra prevista naturalmente venne, combatterla di buona lena. Capivano che si giuocava una carta decisiva. Si vedevano anche superiori all'avversario, quanto a denari e numero di soldati. Nel giugno, occupata Lodi per opera di Malatesta Baglioni e di 3000 Veneziani, l'esercito di San Marco compì il suo collegamento in Lombardia con i pontifici. Davanti a loro, si apriva la strada di Milano che già nell'aprile era insorta contro gli Spagnoli e i Tedeschi luterani ed era stata domata per la lentezza e l'incertezza dei collegati, mentre ancora resisteva nel castello lo Sforza. Non vi sono Francesi tra i collegati. Meglio! scrive, 20 giugno, il Ghiberti: "Non potrei dire quanto più dolce mi pareria la vittoria, se l'Italia sola, avanti che gli altri aiuti venghino, si avesse scosso il giogo". E l'esercito veneto-pontificio avanza su Milano.
Ma, dopo il primo assalto non riuscito, esso si ritirò su Melegnano: né il duca d'Urbino, generalissimo, volle ritentare, mentre i difensori del castello di Milano capitolavano per fame. E la sfiducia cominciò a prendere il posto della fiducia; il pessimismo, dell'ottimismo. Al solito: il desiderio di liberazione che animava una parte non piccola del ceto politico italiano e, vagamente, anche delle masse popolari, c'era. Ma seguitavano a esserci, anche in momenti come questi, gl'infiniti e irreducibili egoismi di che la società italiana era tutta travagliata: che poi voleva dire mancanza, ancora, di un interesse generale che fosse più sentito degl'interessi particolari, di governi, di gruppi, di singoli condottieri, impossibilità di obbedire tutti a un capo che desse unità e impulso all'azione. Dubitavano sempre i governi, anche se alleati, ognuno della sincerità dell'altro, e temevano della possibilità che l'altro si acconciasse strada facendo col nemico o giungesse alla fine della guerra con maggior guadagno. Diffidavano tra loro i capi militari di uno stesso esercito o di più eserciti alleati, per gelosia di mestiere e ambizione di primato. Diffidavano essi dei governi, presso i quali non trovavano, anche i volonterosi, quel calore e prontezza e rispondenza morale necessarî a ben eseguire i piani di guerra; e i governi diffidavano di loro, per paura che le forze armate che lo stato pagava non si volgessero contro il medesimo. E poi chi avrebbe accettato un capitano generale? Ogni collegato voleva conservare la sua autonomia nelle operazioni militari, come nelle diplomatiche. Bisognava conservarsi per ogni momento la possibilità di trattare anche separatamente. Non si sa, ad esempio, che il Morone e il papa, pur impegnati nella lega contro Spagna, non avevano del tutto rotto i rapporti con Carlo V e i suoi ministri in Italia? Che i Veneziani, pur preoccupati della "libertà d'Italia", covavano sempre la speranza di rimettere piede a Ravenna e nella Romagna, che erano del papa? Che Clemente partecipava del generale sospetto che volesse la repubblica indebolire l'Italia, fino a che, questa, stremata, non vedesse speranza di salvezza che in Venezia e a Venezia si gettasse in braccio? Che i Fiorentini avevano, in fondo, quasi più paura di Venezia che di Francia e impero? Francia e impero "sono uccelli che volano per l'Italia e non possono posarvi il piede stabilmente"; ma le signorie veneziane "stanno in Italia e intendono bene il modo di governare", come da Firenze si dice nel 1527 a un ambasciatore della repubblica.
Dal sacco di Roma alla caduta di Firenze. - Si sa quel che avvenne dopo la mancata liberazione di Milano da parte dell'esercito della lega. Non riuscita quell'impresa, nessun'altra ne riuscì: non il tentativo delle milizie fiorentine e papali di togliere Siena al partito imperiale; non l'assedio di Genova che avrebbe dovuto tagliare agli Spagnoli quella via di comunicazione con la Lombardia; non l'arresto e la cacciata delle bande di Giorgio Frundsberg, prima che si collegassero con quelle di Lombardia e poi finché erano ancora nella valle del Po, disordinate, senza artiglieria, senza denari, sempre in subbuglio per le paghe; non in ultimo la difesa di Roma, dopo che quelle bande, ingrossate di disertori della lega e di saccomanni, fino a 20-30.000 fra Tedeschi, Spagnoli e Italiani, inasprite dai disagi dell'inverno e dalla mancanza di soldo e divenute un esercito di ladroni, mossero verso quella città, col proposito di metterla a sacco. Li comandava il principe di Borbone, un fuoruscito francese messosi a combattere il suo re. In realtà esse, come non obbedivano più all'imperatore che certo non è ammissibile volesse un'impresa come quella, così neppure ai loro capi immediati. La lega aveva ancora un esercito non inferiore a quello che marciava su Roma: ma il duca d'Urbino, che lo comandava, se ne rimase inerte; Venezia considerò fortuna che quei ribaldi si allontanassero dal suo stato; il papa aveva qualche settimana prima licenziato molta sua truppa, sia per avarizia, sia per convinzione di non aver più nulla da temere dopo l'armistizio conchiuso col Lannoy viceré di Napoli e generale dell'imperatore.
Il sacco di Roma aggravò naturalmente la paralisi della lega. Mentre il papa era chiuso in castel S. Angelo e invocava disperatamente denari e soldati, nessuno diede denari; e l'esercito della lega comandato dal duca d'Urbino che stava nelle vicinanze e pure avrebbe potuto approfittare del caos dell'esercito imperiale, immerso nella rapina e nelle orgie sacrileghe di Roma, non si mosse: anzi, si allontanò dalla città. Si fece di peggio. I due collegati italiani superstiti subito approfittarono della rovina del terzo: e mentre Parma e Piacenza si dichiaravano libere dalle somme chiavi e Sigismondo Malatesta riprendeva Rimini e i Bentivoglio Bologna e il duca d'Este occupava Reggio e Modena, e Andrea Doria pensava se non fosse il caso di passare a Spagna; ecco che Firenze metteva alla porta il governatore mediceo, e ristabiliva il governo popolare; ecco che Venezia rioccupava Cervia e Ravenna, pur trattando col papa per intendersi con esso ed evitare che i saccheggiatori di Roma si volgessero su Venezia. Insomma, poco mancò che tutto lo Stato della Chiesa non andasse a catafascio nuovamente: anche a non contare quel che gli Spagnoli si presero essi in pegno, quando il papa fu costretto, da castel S. Angelo, a capitolare, sottostando ai durissimi patti che il nemico volle imporgli. È il fallimento pieno della lega di Cognac, per quanto riguarda le cose italiane, dopo tolti di mezzo o umiliati o isolati i membri italiani della lega. Colpa loro e della loro cattiva concordia; ma anche colpa degli alleati d'oltre Alpe. Una pronta azione francese avrebbe dato durata ed efficacia maggiori alla lega. Ma la Francia, larga di parole, fu avarissima di fatti. Non aveva ancora rinunciato ad acquisti proprî. Tenere la Spagna e l'impero lontani dalla penisola non le bastava. Perciò giuocava anch' essa doppio. Trattava con gl'Italiani, ma anche, alle loro spalle, coi loro nemici. Gl'Italiani notavano tutto questo. Il timore di essere lasciati soli e logori di fronte all'imperatore li trattenne spesso dall'impegnarsi. A volte s' impegnarono, pur prevedendo che Francesco I avrebbe finito con l'accordarsi col suo rivale, senza preoccuparsi degl'impegni presi con gli Italiani e delle garanzie date a loro: come fu di Francesco Guicciardini che per la lega lavorò con pieno fervore, sebbene prevedesse alla fine del 1527 quell'abbandono dell'alleato francese. I fatti del 1528-29 non smentirono questi timori e queste previsioni. Si ebbe allora una ripresa francese. Alla fine del maggio 1527, Francia e Inghilterra avevano rinnovato il patto e preso impegni di guerra. Centro di questa nuova iniziativa non è più, come prima, l'Italia, sebbene a essa mirasse pur sempre il nuovo sforzo di guerra franco-inglese. E stati italiani aderirono o rinnovarono l'adesione al re di Francia. Aderì la restaurata repubblica fiorentina. Si aggiunse loro persino Alfonso d'Este. Milizie sforzesche e veneziane si unirono al Lautrec quando nell'estate del 1527 venne in Lombardia, e concorsero ai primi suoi successi. Per merito principale di Andrea Doria, che era al servizio dei Francesi, e della sua flotta si ebbe, nell'agosto, la resa di Genova. I Francesi apparvero col Lautrec al pincipio del 1528, occuparono Abruzzo e Puglia e, col concorso della flotta veneziana, assediarono gl'imperiali a Napoli, distrussero con le navi di Andrea Doria la flotta spagnola nel golfo di Salerno. Insomma, riscossa francese e, al margine, italiana.
Solo che, a questo punto, Andrea Doria, scaduto al 1° luglio 1528 il tempo del suo impegno col re di Francia, anziché rinnovarlo, s'intese con la Spagna. Da Carlo V ebbe garanzie personali e garanzie per la sua città: indipendenza, libertà di commercio, sottomissione di Savona. Fu un disastro, specialmente per l'esercito francese che assediava Napoli e che dové ritirarsi e, alla fine d'agosto 1528, capitolare a Gaeta. Rimaneva a Francesco I l'alleanza di Venezia che combatteva con molto impeto gli Asburgo e, come il re di Francia, eccitava contro di loro la Turchia; rimanevano Firenze e gli Estensi. Ma Francesco I, quando vide i suoi eserciti battuti nel regno e in Lombardia, il re inglese mancare alle promesse, il papa e Carlo V perfezionare nel giugno 1529 a Barcellona la pace già conchiusa alla fine del 1527, impegnandosi Carlo V a rimettere i Medici a Firenze e far restituire dai Veneziani al papa le città di Romagna; Francesco I si accordò nell'agosto con l'imperatore, rinunciando all'Italia e abbandonando gli alleati italiani (trattato di Cambrai o delle Dame). Grande risentimento negl'Italiani, contro quello che chiamavano tradimento di Francesco I; altro credito dato a "proverbî comuni d'Italia", per cui i Francesi sono incostanti nelle guerre, poco conto fanno degli amici quando non ne hanno più bisogno, ecc.; e se ne avvantaggiò Carlo V. Anche a Venezia, che dal 1499, salvo la parentesi della lega di Cambrai, fiancheggiava la Francia in Italia e maneggiava le maggiori fila della politica italiana; anche a Venezia riprese vigore la corrente francofoba. Alla quale corrente se ne contrappose non tanto una francofila quanto di neutralità e di relativo disinteresse delle guerre d'Italia: che era sfiducia di poter mutare il corso degli eventi, e preoccupazione di non poter bastare alle esigenze di due fronti, continentale e coloniale. Venuto Carlo V in Italia, nell'agosto del 1529 dopo le due paci di Barcellona e di Cambrai, col proposito dichiarato di voler pacificare l'Italia, anche ai fini della difesa contro i Turchi, e bandito per l'autunno un congresso a Bologna, Venezia, ormai rimasta sola contro l'imperatore, dopo il perdono concesso allo Sforza di Milano, piegò alla restituzione delle famose città romagnole, causa di tanta discordia con la Santa Sede. Al congresso di Bologna questa pace generale d'Italia fu proclamata nel gennaio 1530. E vi partecipavano, con Carlo V e il fratello Ferdinando, Venezia, Sforza, il marchese di Monferrato, il marchese di Mantova, il duca di Savoia Carlo III, oggetto di particolare favore da parte del sovrano, che nei Savoia voleva creare un antemurale a Francia, una difesa avanzata del Milanese e dell'Italia; e poi Genova, Lucca e Siena, confermate nella loro indipendenza, sotto l'egida dell'impero. Era la fine della coalizione di stati italiani formatasi nel 1526 a Cognac attorno alla Francia, e l'inizio di una nuova alleanza capeggiata da Carlo V, a garanzia dello statu quo italiano contro i Francesi. Carlo V trionfava. Il 22 febbraio papa Clemente impose sul capo di Carlo V, nella cappella del Palazzo del comune, la corona ferrea di re d'Italia; e subito dopo, a San Petronio, la corona d'imperatore. Pareva risorgere, così, il vecchio ma non mai morto regno d'Italia; e insieme con esso, risorgere, proprio mentre in Germania la riforma lo veniva corrodendo come cosa latina e cattolica, il vecchio Sacro Romano Impero. Ma esso, più che sul regno d'Italia o Germania, poggiava sul regno di Spagna. E l'incoronazione suggellava il dominio spagnolo sull'Italia.
Solo una città non volle accettare questa pace e alleanza, come non aveva accettato la pace di Cambrai: Firenze, dove aveva ancora radici profonde l'amore all'antica e da poco rinnovata libertà repubblicana, certa speranza nella Francia, certa persuasione che Carlo V non avrebbe spinto le cose a fondo nei suoi riguardi. Vero è che l'imperatore avrebbe certamente ratificato qualunque accordo Firenze avesse conchiuso con il papa e i Medici. Ma poiché papa e Firenze non si erano accordati, così egli, in base ai patti di Barcellona, aveva mandato il principe d'Orange contro la città ostinata e ormai isolata. E al tempo dell'incoronazione bolognese, gl'imperiali già da oltre tre mesi assediavano Firenze. C'era nei cittadini, in quella parte dei cittadini che si muoveva nell'ambito del programma politico del Savonarola, un'esaltazione quasi religiosa, e la loro guerra la sentivano come guerra santa. Ma con l'aggravarsi delle condizioni della città, tornarono a inasprirsi le passioni e lo spirito di parte. Vacillò la volontà di resistenza. Deficiente l'opera di governo, mal coordinate l'azione diplomatica e l'azione militare, e questa irreparabilmente compromessa dal tradimento del Baglioni. Le speranze di aiuti esterni vennero meno. In ultimo, rotta del Ferruccio a Gavinana. Moriva così un'epoca, un regime costituzionale, ormai logoro come efficienza e credito morale.
Primato intellettuale e servitù politica.
Storia italiana nella storia europea. - Con questi avvenimenti ultimi, si può dire decisa la grande contesa che durava dal 1494. La quale, cominciata come lotta per il regno di Napoli tra il re di Francia e la dinastia aragonese, si era trasformata in guerra europea per l'Italia. Quasi tutta l'Europa aveva mobilitato le sue forze, una potenza dopo l'altra, trovando in Italia il suo maggior centro di attività politica e quasi la sua unità. Entrate nel vivo della lotta, specialmente Francia, Spagna, Austria. Prevalenza francese, fin verso il 1520; poi, sempre più, aiutate dal timore stesso che quella prevalenza suscitava da noi e fuori, Spagna e Austria, divenute una potenza sola, gli Asburgo. E intanto, gli stati italiani venivano sempre più abbassati da protagonisti che erano nel 1400, a personaggi secondarî del dramma o addirittura a comparse, quando non messi fuori della scena. Questa loro lagrimevole sorte non ha bisogno di troppo approfondita indagine per essere spiegata. Nel secolo scorso si parlò di "corruzione italiana", come causa di tanto male politico. Pensiamo che le cose siano state più semplici e, insieme, più complesse. C'era, in Italia, moltiplicità di stati, laddove, altrove, unità nazionale; c'era, nel sud, un regno di discreta grandezza ma travagliato, dopo il sec. XII, dal periodico assalto di conquistatori stranieri e dal relativo mutamento di dinastie e crisi; c'erano, nel centro e nel nord, principati in via di formazione. E tra questi stati, una condizione di equilibrio e di contrasti dinastici e politici che rendevano impossibile tanto la prevalenza di uno sugli altri, quanto la fiduciosa collaborazione, cioè tanto l'unità statale quanto l'unità più o meno federale. C'era, infine, nell'Italia già comunale, una civiltà prevalentemente borghese, assai raffinata, con le relative attività e passività, forze e debolezze, ma certo male armata per la guerra, per la vera guerra, come cominciarono a farla in Italia le vecchie dinastie d'Europa, assai meglio attrezzate.
Ma di questa vicenda europea svoltasi in Italia e per l'Italia, stati e genti della penisola non furono solo oggetto passivo. Vi fu una loro resistenza: debole nei due stati che erano i più direttamente presi di mira, Milano e Napoli; più robusta nello Stato della Chiesa, che, qualche volta, capeggiò gli altri; ancora più nella repubblica veneta, ora contro Asburgo ora contro Francia e tutti gli altri, Italiani e stranieri, coalizzati. E anche in Firenze. Rappresentavano, tanto Venezia quanto Firenze, lo spirito della vecchia Italia comunale in cui popolo e governo erano una cosa sola. Ancora più ci fu una collaborazione di stati italiani alle imprese altrui: alle imprese di Francia contro Spagna, di Spagna contro Francia, di Francia e Spagna contro altri governi italiani. L'alleanza di Venezia fu elemento decisivo nella conquista del milanese, l'anno 1499; papa, Ferrara, Mantova, parteciparono alla lega di Cambrai contro la repubblica di San Marco; il passaggio di Andrea Doria con la sua flotta dal servizio di Francia a quello di Spagna, fece traboccare nettamente la bilancia dalla parte di quest'ultima; la flotta veneziana intervenne attivamente nella campagna del 1528-29. Ancora più vi fu una larga partecipazione di gente e armi italiane a queste guerre, in tutti i campi, specialmente di Carlo V. Gl'Italiani, ancora male organizzati nei loro nuovi quadri politici, colti all'inizio della formazione dello stato territoriale, male adoperati militarmente dai loro governi che diffidavano dei sudditi armati e d'altra parte non avevano tradizioni militari, neanche dove condottieri o figli di condottieri erano in seggio; gl'Italiani furono attratti nell'orbita dell'uno o dell'altro principe straniero e si gettarono a battagliare ovunque e per chiunque. Assai numeroso questo mercenarismo nostrano. Già v'era nel 1300 e 1400, in rapporto anche al disfarsi della vecchia società cittadina, alle esigenze della signoria, alle possibilità del capitalismo. Le guerre altrui ora lo rialimentarono. Ma non fu semplice mercenarismo. Le vecchie passioni italiane, il vecchio spirito fazioso, le vecchie inimicizie familiari, ancor calde sotto la cenere, risfavillarono al vento procelloso. E noi vediamo, nel quadro della guerra europea per l'Italia e della resistenza italiana all'Europa, una vasta guerra civile disciolta in innumerevoli battaglie, scaramucce, duelli, sotto le due bandiere di Francia e Spagna, alla cui grande ombra si raccoglievano fazioni, interessi familiari, individui ambiziosi. A non contare tutta la gente d'arme che fornì ai re di Spagna, per le guerre d'Italia e per quelle di Germania e di Francia e d'Africa, il vecchio regno di Napoli, dove fra dominatori e sudditi c'era un certo affiatamento e nella popolazione era più povertà, più baronato, più inclinazione a duellare e combattere, meno repugnanza anche a quelle guerre d'oltre mare a cui il re la condusse. In un modo o in un altro, Francia e, più ancora, Spagna combatterono le loro guerre e conquistarono successivamente provincie italiane, con forze notevoli fornite dall'Italia: uomini di guerra e anche consiglieri e ministri, taluni dei quali, esperti di cose italiane, assolsero compiti che né Spagnoli, né Francesi e tanto meno Tedeschi avrebbero potuto assolvere. C'era abbondanza e rigoglio di energie umane, nella penisola, non distrutte dalla raffinata civiltà. E possiamo anche chiederci se la debolezza dei particolari stati non provenisse un po' da questa abbondanza e rigoglio, troppo grandi perché potessero essere contenuti, disciplinati, utilizzati entro quei quadri politici; mentre circostanze d'altra natura, estrinseche oltre che intrinseche all'Italia, impedirono che si costituisse uno stato nazionale o si afforzassero gli stati territoriali e si risolvesse qui in ordine e forza ciò che, dentro stati piccoli o deboli, si risolveva in disordine e fiacchezza.
Insomma, elementi attivì di vita italiana, storia italiana, nel quadro della storia europea. Né solo questi elementi che abbiamo ricordati. Resistendo a Francesi o Tedeschi o Spagnoli o anche cooperando con essi, si affinò negl'Italiani il senso della loro individualità nazionale, la coscienza di una civiltà italiana. Si affinò e si allargò. Diede qualche luce in regioni e fra gruppi sociali dove, fino allora, erano state tenebre. Non più solo gente di cultura, ma anche popolo, anche soldati e mercenarî, nei quali prese forza, accanto a un punto d'onore militare, un punto d'onore nazionale, sotto chiunque militassero, anche Francesi o Spagnoli. E grande suscettibilità loro di fronte a stranieri, facile risentirsi di parole che suonassero offesa a loro come soldati "italiani", pronta reazione. Così i Tredici di Barletta, che venivano di Sicilia, Puglia, Napoli, Umbria, Lombardia, Romagna, ma, come gli altri, sentivano di rappresentare qualche cosa oltre la loro persona e la loro qualità di uomini d'arme. E i loro capi, seppure stranieri come Consalvo di Cordova, facevano leva su questo sentimento "italiano" dei loro soldati di nazionalità italiana. Insomma, l'Italia di questi decennî è più "Italia" che non fosse prima: vive più largamente e un po' più addentro nella coscienza degl'Italiani. Non scompaiono affatto i vecchi antagonismí fra gli stati della penisola, ma accennano a passare in seconda linea in confronto ai loro contrasti con i potentati stranieri. È chiuso un periodo storico dominato dalle guerre interne della penisola e se ne apre un altro, destinato a durare, con pochi mutamenti, fino al 1860.
Si delinea così la coscienza di un problema italiano, di fronte alle grandi potenze europee. E negli anni che più aspra fu la contesa altrui e più violento l'urto che gl'Italiani ne sentirono e più decisivi gli eventi, a questo problema si volsero molti pensieri. Si discusse sui mezzi per ovviare ai mali comuni; si deplorò la mancanza di uomini capaci di tirarsi dietro gl'Italiani tutti; si nutrirono anche illusioni tanto che questi uomini sorgessero quanto che gl'Italiani fossero disposti e capaci di seguirli; si cercò d'individuare le responsabilità delle presenti iatture e si rinfacciò ai príncipi di avere tutti fatto tutto per condurre l'Italia a quel punto; si creò, in contrapposizione all'infelice e torbida Italia presente, il mito di un'Italia tranquilla e felice, equilibrata e armonica, come uno strumento quadricorde, anteriore al 1494. E salendo più in alto della contingenza, si apre il dibattito sulla divisione italiana e sulle sue cause: specie sulle conseguenze politiche del potere temporale dei papi e sul valore dello Stato della Chiesa nei rapporti della penisola. Fra Machiavelli e Guicciardini - non serve dire che questo riflettere sull'Italia e sui suoi problemi politici d'insieme è soprattutto dei Toscani, cioè dei Fiorentini, apertissimi a quei problemi per la stessa loro posizione e per i nessi con lo Stato della Chiesa - vi è anzi una polemica a tale proposito. In questo dibattito il Guicciardini vede forse più a fondo; e bene vede, nello svolgimento delle autonomie italiane, la condizione dell'intensa e peculiare civiltà degl'Italiani. Era il momento guelfo della storia nostra che parlava in lui. Ma altro vedeva Machiavelli che a Guicciardini sfuggiva. Sotto alle fantasie del liberatore o redentore, che è ancora un po' l'astratto individuo concepito fuori dell'Italia e delle sue concrete forze, c'è in lui la concezione quasi nazionale dello stato. Poiché egli non solo lo vagheggia come realizzazione dell'interesse generale, gli cerca una base più larga e omogenea che non fosse quella delle repubbliche medievali, gli sottomette ogni persona o classe, gli subordina ogni attività etica o religiosa, cioè l'anima oltre che il corpo, considera il principe come lo stato o l'interesse generale fatto persona; ma ha dinnanzi agli occhi la nazione, cioè l'insieme dei popoli che hanno la stessa lingua, religione, memorie, e vede la coincidenza fra nazione e stato. Coincidenza non dirò necessaria per lui, ma possibile e utile. Secondo lui è condizione di felicità per un paese essere tutto sotto una repubblica o un principe; come condizione di forza per lo stato, riuscire a dare compatto ordinamento a una nazione tutta e l'essere di una sola nazione tutte le genti, regioni e città che lo compongono.
Maturavano così i frutti della nuova cultura, in quel campo che era più vicino alla vita pratica, quasi una cosa sola con essa. Il nuovo concetto dell'uomo comincia a vivere come formato pensiero politico e pensiero storiografico. La tempesta che squassa la penisola promuove quello e questo. Nuova e più vasta realtà, potenti suggestioni tratte dai contatti con le grandi monarchie, esperienze dolorose, tutto concorre a fecondare quella cultura. Era in essa, per effetto dello studio dei classici, che nasceva da esigenze profonde ma concorreva anche a creare false immagini di cose; era in essa qualcosa di superficiale, accattato, fittizio. Idolatria degli antichi, imperfetta fusione e quasi dualismo tra antico e nuovo; falso e inadeguato concetto, nei politici, delle forze che reggono gli stati; letterati e artisti volti a interessi prevalentemente o esclusivamente estetici e culturali, ignari di ciò che davvero fosse il mondo del loro tempo, illusi sulla loro superiorità di fronte ai "barbari". Ora, lo spirito italiano si affina, maggiore consapevolezza acquistano di sé e delle cose gl'Italiani, sono demoliti altri idoli come quello degli antichi e dei Romani, è dato a taluni artisti e scrittori un senso più intimo e tragico della vita, si accelera l'evoluzione della letteratura umanistica nella letteratura italiana, della storiografia liviana o plutarchiana nella nuova storiogiafia a fondo politico, più aderente alla realtà italiana.
Ma anche altri frutti maturavano intanto, che parevano quasi l'opposto: cioè frutti di pura immaginazione, l'Orlando furioso dell'Ariosto e il Giudizio universale di Michelangelo. E poi, già nate o vicine a nascere, le opere dei Raffaello e Sodoma e Sansovino e Palladio e Tiziano. Ma anch'essi, a guardare bene, erano vita e natura, osservate, notomizzate, animate dalla fantasia creatrice. E poi, un altro volto di questa cultura, nel tempo che e il pensiero politico e l'arte ascendevano. Il nuovo senso della vita, come produce il realismo di Machiavelli con la sua ricerca delle cose come sono, e la pura arte dell'Ariosto senza altri fini che l'arte, così produce anche, negli spiriti religiosi, l'anelito a una più pura religione, che è anche una religione più rispettosa delle esigenze razionali, più divina e più umana insieme. Sopravvive ancora qualche elemento di eresia medievale, come esigenza morale più che dogmatica; ci sono elementi ancora vigorosi di francescanesimo e vene diverse di viva religiosità, di cui la pittura del '400, la poesia, il movimento savonaroliano sono testimonianza; c'è l'umanesimo cristiano dei Ficino e dei Pico. Su queste basi, in Italia, si muove una corrente innovatriee, fra sec. XV e XVI, nel tempo stesso che, di là dalle Alpi si preparavano Lutero e Zuinglio e Calvino. Rallentato un poco il legame con la Chiesa gerarchica e reso più personale il legame del credente con Dio; il perfezionamento morale e religioso visto come cosa individuale; l'ideale religioso attuato non nell'ascesi ma nella vita attiva, anche nella vita politica; gran valore riconosciuto più che agli atti del culto, alla fede viva e profonda; il pentimento, frutto anzitutto del dolore del credente per avere offeso Iddio; la legge di natura, scritta nel cuore dell'uomo, e quindi legge divina anch'essa; temperata l'autorità del papa. Nessun dubbio che la mondanità della Chiesa, il diffuso mal costume ecclesiastico, la scarsa rispondenza della gerarchia alle esigenze spirituali dei credenti avevano la loro parte nel determinare questi pensieri e stati d'animo. Ma essi avevano una sorgente più profonda: cioè nella cultura dell'umanesimo, e, insieme, in vene di più viva religiosità che circolavano largamente. Rappresentavano un cristianesimo più fiducioso nelle forze dell'uomo e dell'individuo, più vivo nel cuore del credente. Si trovavano sulla direttiva dello spirito italiano, prima che intervenissero specifiche influenze della rivoluzione ormai maturante oltr'Alpe: influenze che presupponevano menti e animi predisposti.
Sono anni d'intensa vita di relazioni in Europa. Legami politico-diplomatici, alleanze e guerre, eserciti che valicano e rivalicano le frontiere, uomini di attività pratica e di cultura in movimento da un paese all'altro o a servizio di principi stranieri, altri Italiani che trasmigrano dalla penisola a servizio di quegli stessi principi che attendevano a conquistare l'Italia, cresciuto interesse per l'Italia come nei politici così anche nella gente volta agli studî e all'arte, libri e opere italiani a cui si aprono nuove porte. Insomma, più larga e rapida mobilitazione di uomini e idee, crescente forza di espansione e penetrazione delle culture più progredite. Seguitano le influenze umanistiche a irraggiare dall'Italia, si fanno più vive quelle artistiche e quelle letterarie italiane. Si ricordi l'attività di un Fausto Andreolini, di un Paolo Emilio da Verona, di un Polidoro Virgilio, di un Lucio Marineo siciliano, di un Pietro Martire d'Angera, che in Francia, in Inghilterra, in Spagna, fra i secoli XV e XVI, furono poeti, uomini di lettere, storici di quei regni, nel modo che era invalso in Italia scrivere storie. Anche dove eruditi italiani non giungevano di persona, gli eruditi locali li prendevano a modello, sia per la materia, laddove i nostri si erano già occupati di quei paesi, sia solo per il metodo. Specialmente tengono il campo, nella prima metà del '500, Leonardo Bruni, con le sue classicheggianti storie fiorentine, e Biondo Flavio, minuzioso e preciso indagatore di antichità, accreditato specialmente fra i Tedeschi di Germania e Svizzera. Cosi la nuova storiografia aulica e, per l'ampiezza e intonazione sua, nazionale e rivolta a glorificazione del potere regio e dinastico nasce quasi in ogni paese per impulso d'Italiani: anche là dove, alimentando la vita intellettuale di quelle nazioni e indulgendo a borie locali, eccita forze contro l'Italia. Solo la storiografia italiana esce dai luoghi d'origine ed entra nel gran moto della cultura.
Intanto aveva cominciato a diffondersi, dopo l'Umanesimo, la conoscenza della nuova letteratura italiana. Sannazzaro, Baldassarre Castiglione, Pietro Bembo, Pietro Aretino, Ludovico Ariosto penetravano largamente in Francia. I richiami di Francesco I e le vicende della politica spingevano verso la Francia parecchi uomini di lettere italiani, oltre che pittori e incisori e disegnatori. Fu questo il destino di molti Fiorentini, esuli politici: banchieri e mercanti i più, ma affiatati con le umane lettere, a volte letterati e poeti essi stessi. Ve ne sono a Marsiglia, a Tolosa, a Bordeaux, a Montpellier, a Parigi, a Lione, quasi capitale della "nazione fiorentina" all'estero, in questo tempo. Forse nessun paese come la Francia, in ragione stessa della sua vicinanza e affinità, assorbì tanti elementi del Rinascimento italiano, che poi, incorporati e fusi nella cultura francese, daranno la Francia del '600, maestra all'Europa come prima era stata l'Italia. Ma anche altri paesi, oltre la Francia, sebbene in misura minore. In Spagna vi fu tutta una serie d' italianizzanti. E il teatro spagnolo del '5 e '600 assai prese dal teatro italiano. In Inghilterra, che si stava allora affinando, cominciò pure a diffondersi conoscenza e gusto di cose italiane. Influenze varie si facevano sentire dall'Italia sulla Germania, specialmente sui ceti medî delle città bavaresi Norimberga, Augusta ecc., pur con tanti contrasti ideali fra mondo germanico e mondo latino o italiano. Si ricordino le intense relazioni mercantili e la frequenza di studenti tedeschi nelle università italiane. Si ebbe anzi allora, nella prima metà del '500, quando principi e loro funzionarî ebbero vittoria sui movimenti popolari, la fase culminante della recezione del diritto romano in Germania, passato attraverso la pratica delle città italiane e le scuole di diritto italiane, Bologna e, ora, specialmente Padova, che è l'università più frequentata dai Tedeschi e dalle altre nazioni dell'Europa centro-orientale e orientale, e primeggia in questi studî avanti che il primato passi a università francesi, olandesi, tedesche. Con la storiografia umanistica, con la letteratura italiana, l'arte, la nuova arte del Rinascimento. Alla fine del '400, entrava in Francia l'architettura italiana, con fra Giocondo e col Boccadoro da Cortona; influenze della pittura e incisione lombarda e italiana, specie di Leonardo, agivano nei Paesi Bassi; Alberto Dürer faceva nel 1496-1506 i suoi viaggi italiani e sentiva potentemente, come pittore e incisore, Mantegna, Pisanello, altri. In Spagna hanno molto successo, negli anni della conquista del Regno di Napoli, scultori venuti dall'Italia o fattisi sugli Italiani; e la pittura spagnola, che fino allora aveva ricevuto dai Fiamminghi, si apriva alle influenze italiane. Penetrazione certo faticosa; molte resistenze locali; ma al principio del '500 quella si fa più rapida; queste perdono vigore. Credito altissimo, fuori d'Italia, quello delle arti figurative e costruttive italiane. L'Italia politica ormai non aveva più voce: ma ne avevano una potente i Raffaello, i Cellini, i Palladio, i Tiziano, i Sangallo, i Michelangelo: senza contare i nomi di minore risonanza e le minori industrie decorative delle ceramiche e terrecotte che dall'Italia trapiantarono le loro officine nei Paesi Bassi e in Francia. Nelle arti figurative e costruttive, l'Italia è, ora, più che non fosse mai stata e che non sarà in seguito, una scuola per l'Europa colta, specie per virtù di Roma, centro massimo italiano ed europeo, punto di convergenza degli artisti di tutta la penisola, al cui nome la città eterna dà risonanza mondiale. Era convincimento dei nostri, si ricordi Michelangelo, che solo in Italia fosse buona pittura; che anzi buona pittura fosse sinonimo di pittura italiana. E dové essere opinione diffusa anche oltr'Alpe, pur ammettendo ehe di tanti pittori italiani del '500 la fama è qualche volta superiore al merito intrinseco. Anche in fatto di architettura, in gran parte dell'Europa, le linee architettoniche e gli elementi ornamentali del Rinascimento italiano o le une e gli altri insieme, acquistarono quasi la cittadinanza, per opera di artisti stranieri che vennero a studiare in Italia e d'Italiani che andarono a lavorare fuori, in Germania, Austria, Baviera, Boemia, i cui principi ebbero relazioni molteplici con l'Italia. La regione trentina fu quasi tramite e vide perciò accentuarsi nel primo '500, per merito di Bernardo Clesio, vescovo di Trento, il carattere italiano della sua cultura. Da per tutto l'arte medievale era entrata in una fase di movimento e trasformazione, per incarnare ideali artistici nuovi, rispondere a nuovi bisogni pratici, esprimere passioni e ardori alimentati dalle lotte religiose e politiche e nazionali, adornare la vita di borghesie divenute ricche. Ma imbattutasi nell'arte del Rinascimento italiano, del paese dove tali ideali prima si erano affacciati e tali condizioni estrinseche verificate, ne ebbe aiuto a compiere lo sforzo iniziale e anche qualche impronta durevole. Per cui quell'influsso culminò nel '500 e parte del '600, poi decadde, come nella penisola era caduta la fanatica ammirazione dell'antico per dar luogo a più spontanea creazione. Precisamente: in Francia, in Inghilterra, in Germania, l'arte italiana ebbe quell'ufficio che, in genere, l'antico aveva esercitato sulla cultura italiana del Rinascimento. In quei paesi anche l'antico giunse, in parte, per il tramite dell'Italia, come arte italiana. L'Italia ebbe questo compito come di mediatrice fra l'antico e l'Europa. Iniziato esso da secoli, ora tocca il culmine.
È questo il tempo in cui anche l'architettura militare europea, che riceve stimolo dalle guerre continue e dall'uso crescente delle artiglierie, è, per molta parte, italiana, come italiani sono i più accreditati e ricercati ingegneri militari, eredi e continuatori di quelli del '400. Molti, fra essi i Marchigiani, di quella scuola di architettura militare e civile del ducato di Urbino che aveva avuto a capo Girolamo Genga. Poi Lombardi, Veneziani, Toscani: cioè, delle regioni più colte d'Italia. Erano soldati, artiglieri, spesso inventori o perfezionatori di macchine. Portavano con sé quella varietà di attitudini, quella prontezza, quell'ingegnosità nel fronteggiare ogni situazione, che era degl'Italiani del Rinascimento e costituiva la loro superiorità sugli altri. L'arte fortificatoria era nota in Italia, si era allenata nei molti lavori di fortezze commessi dalla repubblica veneta in terraferma e in Oriente. Ora fu diffusa in Europa. E basta solo ricordare Girolamo Morini di Modena, Girolamo Bellarmata esule senese, Iacopo Fusti detto il Castriotto, Pietro Strozzi fiorentino, Gerolamo Pennacchi di Treviso, Antonio Melloni cremonese, Bartolomeo Campi del Valdarno, geniale inventore di ritrovati meccanici ossidionali; tutti attivissimi nelle guerre di Francia e Paesi Bassi, dove parecchi di essi morirono, al servizio di Inghilterra, Spagna, Impero, Francia, e dove promossero poi il nascere di scuole nazionali d'ingegneri militari. Massima, quella francese, che trionferà col Vauban nel'600.
Molto diffusi anche la conoscenza e l'uso della lingua italiana: in Francia specialmente, da Carlo VIII a Enrico II, marito di Caterina de' Medici, esperto a parlare italiano "come se fosse nudrito in mezzo di Toscana". Anche in Polonia, al tempo di Bona Sforza, moglie di quel re, l'italiano divenne lingua di corte. Diffusione e vitalità più antica e più duratura esso ebbe poi in Oriente, nei paesi della colonizzazione veneziana, genovese, pisana. A Costantinopoli, era quasi la lingua degli affari e della diplomazia. E la sua conoscenza, lì, si riconosceva in Francia che fosse requisito necessario e sufficiente per un diplomatico.
Le ultime resistenze italiane. - Con l'incoronazione di Bologna, non cessò, naturalmente, una vita politica italiana e neppure certo sforzo rivolto ad alleggerire la tutela o impedire che essa si allargasse a tutta la penisola. Si può dire, anzi, che comincia ora quel senso di precarietà delle cose italiane e di perenne attesa, che diverrà normale stato d'animo degl'Italiani. Se da una parte l'autorità di Carlo V cresceva sempre più, anche per riflesso delle imprese contro i Barbareschi (Tunisi, 1535); se trovava sempre nuovi punti d'appoggio, col ritorno dei Medici a Firenze nel 1530, e con l'instaurazione di un diretto dominio nel Milanese alla morte di Francesco Sforza nel 1535; se con lui erano ormai non solo papa Clemente, ma anche i maggiori casati della penisola, i marchesi di Monferrato ormai al tramonto, i Gonzaga elevati a duchi e ingranditi del Monferrato, i Savoia che, dopo aver tenuto per Francia e poi tentato di bilanciarsi fra i due contendenti nel 1530, fecero omaggio a Carlo nell'incoronazione di Bologna: dall'altra, vi fu la congiura genovese capeggiata dai Fieschi, nel 1547, contro la dittatura Doria appoggiata a Spagna; vi fu lo stesso anno la sollevazione napoletana contro il nuovo tribunale dell'Inquisizione, voluto da Spagna; vi fu in Toscana il tentativo antimediceo e antispagnolo del Burlamacchi, con marcate simpatie ai protestanti e al protestantesimo. L'opposizione a Spagna, e, in genere, al nuovo assolutismo principesco, dava qualche alimento alle correnti protestanti, come queste correnti a quella opposizione. Del resto, dovunque fosse qualche superstite affermazione di vita comunale, essa significava anche affermazione di una autonoma religiosità.
Vene di protestantesimo sono visibili in Italia già fra il 1520 e 1530, cioè nella fase culminante e decisiva dei contrasti tra Francia e Asburgo. Elementi proprî della vita italiana, nuovi o antichi, preesistevano. E più ancora preesistevano e spontaneamente si generavano, già al principio del '500, aspirazioni a una riforma più o meno profonda e larga della vita chiesastica: come che la Chiesa non "avesse più alcun segno del suo essere evangelico" e dell'antico vigore apostolico, come dicesi in un memoriale a Clemente VII. Vi furono anche rapporti con i paesi luterani e zuingliani e calvinisti, per il tramite di uomini di lettere e di mercanti dei due paesi, di studenti tedeschi assai numerosi nelle nostre università, fors'anche di soldati tedeschi nelle guerre d'Italia. La predicazione di Lutero ebbe risonanze nelle città dell'alta Italia, a Milano, a Pavia, a Bologna, ecc. Principale porta d'accesso, il Veneto, cioè Padova, sede dell'università, dove nel 1528 si dice che ogni uomo di lettere è luterano, e Venezia, centro delle relazioni commerciali con i paesi di Germania. Dall'altra parte della penisola, Napoli. Qui pare che già nel 1528 qualche seme luterano lascino cadere i lanzichenecchi che combattono là contro i Francesi. E nel 1534, si forma un nucleo di simpatizzanti per il movimento evangelico, attorno allo spagnolo Giovanni Valdes. Vi è, a mezzo della penisola, Lucca, un'altra repubblica aristocratica e commerciale come Venezia. A Lucca anche conventi di eremitani di S. Agostino si sono aperti alle nuove idee. A Lucca troviamo Pietro Martire Vermigli, Celio Secondo Curione, Bernardino Ochino, Aonio Paleario: tutti nomi che entreranno nella storia dell'eresia italiana. Si tratta, qui e dappertutto, di borghesi e anche nobiltà e gente di chiesa, specialmente del clero regolare: comunque, di aristocrazia intellettuale, sebbene artigiani e popolani non vi manchino, come non vi mancano rifiuti di conventi, "apostati" o frati sfratati che in gran numero si agitavano fra laicato e chiericato. Grande varietà di atteggiamenti intimi, in questi uomini, nei quali, spesso, fermentava un alto spirito religioso ed evangelico. Si limitavano a caldeggiare riforme morali e disciplinari oppure penetravano nella sfera delle dottrine. Guardavano con simpatia i novatori d'oltralpe, oppure con sospetto. Invocavano le riforme con l'animo stesso dei Lutero e Calvino, oppure come un mezzo per poter combattere Lutero e Calvino. Che era poi il pensiero e il sentimento di uomini come Gian Pietro Carafa che, dal 1520 circa in poi, caldeggiò ogni riforma, partecipò alla fondazione o al riordinamento di nuove e vecchie congregazioni, ma fu acerrimo avversario di eresie e di eretici. Da questi diversi atteggiamenti, il diverso destino di quei riformatori. E tuttavia, anche dove si ebbe un vero protestantesimo italiano, esso si presenta con alcuni caratteri suoi proprî, più o meno latenti o spiegati, poiché esso ha proprî fondamenti e compone in modo proprio quel che prende dagli altri. È restìo ad accettare la dottrina della predestinazione, raramente nega il valore delle buone opere e giunge alla piena giustificazione per la fede. Anzi, elimina il dualismo tra fede e opere, essendo le buone opere implicite nella fede viva. Ci sono in Italia più esigenze razionali che oltr'Alpe, più aneliti di libertà intellettuale, più rispetto dell'umana personalità, più fiducia nelle forze di salvazione del credente.
Ma anche dal campo opposto al protestantesimo, cioè del papato, veniva l'opposizione a Spagna e all'Impero, per quanto essi impersonassero e difendessero, entro e fuori il vasto dominio loro, l'ortodossia cattolica. Ma la Spagna voleva dire, oltre qualche impaccio al nepotismo, pericolo permanente per lo Stato della Chiesa e per la libertà del pontificato; e voleva poi dire incarnazione piena di quell'assolutismo monarchico che si affermava in concorrenza e opposizione all'assolutismo papale. Perciò opposizione all'eresia e opposizione a Spagna procedettero di pari passo, più o meno energicamente e scopertamente. Si vede già con Paolo III Farnese, succeduto a Clemente VII. Con lui comincia il papato a preoccuparsi veramente dei progressi dell'eresia: anche per non dare, con la propria incuria, incentivo o pretesto all'incuria degli altri. Più energicamente procedette Gian Pietro Carafa, divenuto nel 1555 papa Paolo IV. Con lui, anzi, cominciò veramente il martellamento degli eretici.
Nel tempo stesso, i due pontefici tennero testa, come potevano, alla Spagna. Paolo III, pur cauto e prudente, non cessò di lavorare sottomano per fermarne i progressi durante le nuove guerre che si accesero fra le due corone, dopo la morte dello Sforza di Milano (1535) e il passaggio del ducato alla diretta dipendenza di Spagna. Francesco I, che dall'Italia non distaccava mai gli occhi e nel 1533 aveva concluso il matrimonio di suo figlio Enrico con Caterina de' Medici, salutato in Francia come segno e mezzo di unione perpetua dei due paesi; Francesco I assalì nel 1536 il Piemonte e lo occupò quasi tutto, dovesse esso servire come base di operazione o come moneta di cambio per ottenere il Milanese. Poiché il re di Francia puntava specialmente lì sopra, quasi affascinato. Ma anche sulla Toscana, su Napoli, su Genova, sulla Corsica, tutti paesi da cui e verso cui gli venivano anche richiami di Fiorentini odiatori dei Medici, di baroni napoletani ossessionati dalla speranza di riavere i loro feudi e le grandezze di una volta, di nobili famiglie avverse ad Andrea Doria, di Sampiero Corso e altri ribelli a Genova: tutti sempre persuasi di dover trovare in Italia solo gente in attesa e pronta a insorgere. In queste nuove guerre, la Francia trovò i più diversi e contraddittorî alleati: i luterani, coi quali strettamente collaborò specie negli anni 1552-56; e i Turchi, con i quali strinse vera fratellanza d'armi, con particolare danno delle regioni italiane soggette a Spagna o ad amici di Spagna, cioè del Napoletano che ebbe le coste saccheggiate, di Nizza che fu assalita dalla flotta turca e da soldati francesi, della Corsica che fu parzialmente occupata dai barbareschi. Così la Francia concorse ad allargare la breccia che nell'Europa cristiana avevano fatto i Turchi, e nell'Europa cattolica i protestanti. E l'Italia, messa in mezzo a questa cerchia di nemici di Spagna, si sentì anch'essa variamente premuta dopo che da Francesi e Svizzeri e imperiali e Spagnoli, anche da protestanti e da musulmani. Ma la Francia fece anche ricorso a papa Paolo III Farnese, che nel 1545, con la fondazione del ducato di Parma e Piacenza per il figlio Pier Luigi, in una regione da gran tempo legata al Milanese, aveva compiuto un atto di politica nepotistica e, insieme, antispagnola. Più scopertamente e risolutivamente ancora procedé, nei rapporti con Spagna, Paolo IV Carafa, il quale, insíeme con i Farnesi di Parma, gli Estensi di Ferrara, i Medici di Toscana, irritati perché l'esercito spagnolo con Giacomo de' Medici, dopo avere espugnata Siena (1554-55), se la teneva per sé, tentò una coalizione antispagnola che è da considerare l'ultima di questa epoca. Egli era un fiero odiatore di Spagnoli, "già cuochi e mozzi di stalla in Italia, e ora presuntuosi a farla da padroni, eretici e scismatici, seme di giudei e di marrani". Ma anch'egli, non voleva sostituire Francesi a Spagnoli, sibbene tenerli tutti e due lontani o, al peggio, equilibrarli e quindi neutralizzarli in Italia. "Sono barbari tutti doi e saria bene che stessero a casa soa e non fusse in Italia alcuna lingua che la nostra", diceva egli a Bernardo Navagero, oratore veneziano.
Per combattere contro il re di Spagna, Paolo IV non solo si unì alla Francia ma assoldò anche tedeschi; propose anche a Solimano di assalire non più l'Ungheria ma le due Sicilie, fece egli stesso guerra contro il vicereame di Napoli nel 1557. Ma non riuscì a nulla. Nessuna concordia fra i tre alleati Francia, papa, Estensi. Il re voleva l'impresa di Milano e Toscana; il papa, di Napoli, dove il suo casato aveva molti possessi. Dei consiglieri del papa taluni, toscani, volevano buttar giù Cosimo; altri, esuli da Napoli, tornare in patria. Nessuno poi sapeva con quali forze compiere tali imprese. Così il re di Spagna, come aveva già avuto ragione, direttamente o per mezzo dei suoi aderenti, dei moti avversi di Genova, Lucca, Napoli, e tenuto mano alla ben riuscita congiura comro Pier Luigi Farnese, ora si riguadagnò gli avversarî dando Siena a Cosimo de' Medici, salvo le fortezze del litorale senese, e assicurando Parma e Piacenza al figlio di Pier Luigi, Ottavio, isolò il pontefice in Italia, come isolò il re di Francia togliendogli l'amicizia inglese, e lo sconfisse a San Quintino col braccio di Emanuele Filiberto; costrinse Enrico II a rinunciare ancora a ogni pretesa sull'Italia, salvo Saluzzo e suo marchesato. Paolo IV, solo, non poté impedire che nemici e amici gli occupassero terre della Chiesa e fossero a un punto dal rinnovare il sacco del 1527. I Veneziani costituivano ormai l'ultima repubblica veramente libera, dopo caduta nel 1555 Siena. Ma, non ostante le sollecitazioni del pontefice, neanche i Veneziani si mossero. Ai Veneziani basta mettere pace tra Francia e Spagna, tra Spagna e papa, per impedire che anche lo Stato della Chiesa vada in mani di potentati stranieri. Un freddo senso realistico è in essi, che fa singolare contrasto con la veemente e cieca passione del papa.
Ormai veniva a mancare ogni possibilità e ogni base europea e italiana a questa lotta contro il dominio spagnolo nella penisola. Non c'è più, fuori, contrappeso, come è stata finora la Francia. Si è creata una rete d'interessi assai fitta che lega molti dei superstiti governi italiani alla Spagna. La gente d'arme trova nelle guerre di Spagna uno sfogo al suo ancor vivo spirito guerresco, una soddisfazione di amor proprio, un miraggio di fortuna. Parte del commercio e della finanza italiani si svolge nell'orbita della grande monarchia e ne trae qualche vantaggio. Con la Spagna gli Italiani realizzano qualcuno dei benefici del grande stato: cioè vasto campo d'azione, possibilità varie di vita. Nei paesi soggetti, specie nel Mezzogiorno, le popolazioni, un po' per manco di forze di resistenza, un po' per qualche beneficio che ne traggono, si sono ormai adagiate nella nuova condizione di cose. La monarchia spagnola ha ripreso nel Mezzogiorno l'opera interrotta dagli Aragonesi. E meglio di essi riesce nel tenere a segno la nobiltà e attirarla a Napoli e un po' addomesticarla; meglio nel difendere il paese dai Turchi, che erano stati i due più grossi guai della dinastia aragonese negli ultimi suoi tempi. Infine, per un verso la società italiana tutta quanta veniva risentendosi del costume spagnolo, cioè un po' si spagnolizzava, sia pure superficialmente; per un altro, s'italianizzava un poco quella parte della nazione spagnola che aveva più contatti con l'Italia. Soldati delle due nazìoni, militanti negli stessi eserciti; letterati e viaggiatori dell'uno e dell'altro paese; parecchi israeliti spagnoli trasferitisi in Italia; avventurieri e cortigiane spagnole furono il tramite di questa reciproca assimilazione, i rappresentanti quasi di una società italo-spagnola.
L'anno 1559 chiuse la lunga serie delle guerre europee e, in special modo, franco-ispane o franco-asburgiche, di cui l'Italia era stata oggetto, teatro e vittima. Ma la Francia era anch'essa esausta. Le disillusioni susseguitesi l'una all'altra, ormai facevano massa. Nel sec. XV, con Luigi XI, si era vista nella direzione della Borgogna e dell'Italia la linea di minore resistenza; ma ora, la Francia tende piuttosto al Reno, come frontiera orientale. Questo obiettivo, quasi dimenticato durante le prime guerre d'Italia, riprende vigore fra il 1552 e '59 ed è esplicitamente dichiarato dopo d'allora. E poi cominciano o si aggravano i disordini interni di quel regno, si apre la serie delle guerre religiose. Perciò, sosta. La penisola aveva nel frattempo mutato non poco il suo volto politico. Potenza egemonica è Spagna. Qualche anno prima, l'imperatore Carlo V, dividendo tra il fratello e il figlio il vasto impero, aveva assegnato a Ferdinando i possessi austriaci e la dignità imperiale, a Filippo la Spagna, i possessi italiani, le colonie. La Spagna che, dal '300, aveva la Sardegna; dal principio del '400, la Sicilia; ora ha raggiunto il regno di Napoli, causa prima di tante cupidige e di tanta ressa europea attorno all'Italia; in ultimo, il Milanese, piccolo dominio e con cattive frontiere, ma popolato dì città industriose e commercianti, utile anzi necessario per guardare il regno dalla parte dei Francesi, militarmente ben disposto perché equidistante fra il regno di Napoli e i Paesi Bassi spagnoli. L'amicizia di Genova, anzi il patronato su Genova e il possesso delle fortezze nel litorale senese completavano questo sistema spagnolo in Italia, poiché assicuravano le relazioni marittime tra la Spagna e il milanese e costituivano un punto d'appoggio intermedio fra Genova e Napoli, in quell'Italia centrale dove la Spagna non aveva altri possessi proprî.
Bilancio di un cinquantennio (1494-1559). - Si chiudeva in tal modo un'età fortunosissima per la penisola, iniziatasi nel 1494: età, nel giudizio dei contemporanei e dei posteri, rovinosa e di decadenza per la patria italiana, oltre che principio di rovina e decadenza maggiori.
Crollo di dinastie, decadenza di attività economiche, sviamento o dispersione di uomini. C'era, nella vita italiana, qualcosa che veniva ristagnando, come se si affievolissero le intime energie creatrici, per esaurimento o stanchezza, avendo già dato, nel quadro di quegli ordini politici e di quella civiltà, ogni loro frutto. Certe attività economiche, giunte ad alto grado di sviluppo in regime di stato e città o in regime di quasi monopolio italiano in Europa, perdevano del loro vigoroso ritmo in regime di maggior equilibrio politico ed economico fra gli stati della penisola, e in regime di concorrenza, creata, alle industrie italiane, dalla crescente industria di altri paesi e dalla politica mercantilistica dei governi assoluti. Si aggiunsero poi guerre e dominio straniero, saccheggio di città, pestilenze e carestie che erano compagne indivisibili delle guerre, provincie intere disertate di uomini e bestiame. Insomma, distruzione e dispersione di ricchezze, vasta ruberia, l'Italia diventa la terra promessa di tutti gli spiantati e affamati in cerca di fortuna. E poi, correnti di traffico deviate o rotte, focolari vivi di operosità eeonomica profondamente turbati o addirittura spenti, vigorosi nuclei di borghesia assottigliati dalle numerose emigrazioni. Si aggiungano, nel '500, i fatti economici conseguenti alla scoperta dell'America, alcuni avvertiti subito, come lo sviluppo preso dal commercio dei paesi oceanici, specialmente del Portogallo, in concorrenza con Venezia, altri solo più tardi, dalla metà del '500 in poi, come l'afflusso dei metalli preziosi in Europa. Si ebbe uno svilimento della vecchia ricchezza, risentito specialmente dagl'Italiani che avevano capitali investiti all'estero, cioè crediti, e che ora questi capitali realizzarono in moneta priva del vecchio potere d'acquisto. Donde grandi fallimenti di banche nell'Italia del '500. Comunque, decadono realmente l'industria della lana e della seta nelle città toscane e altrove; entrano nella fase discendente i commerci legati a quelle industrie e rivolti verso i paesi del Levante, come sono i commercì veneziani; la marineria mercantile cede terreno, specie nei traffici verso i mari del Nord, per la concorrenza delle altre marinerie, e svigoriscono le colonie degli Italiani ad Anversa, anche per il loro frazionarsi in ragione degli stati o città della penisola da cui essi provengono. Si rompono, in quei paesi e altrove, molte maglie della fitta rete bancaria italiana: e vi sono case che si ritirano dagli affari, investendo nei debiti pubblici o in altro modo i loro denari; altre che emigrano all'estero, a Ginevra o a Lione, a Parigi o ad Anversa. Ragioni economiche, politiche, religiose spiegano questa migrazione, di cui il più cospicuo esempio è dato dai Lucchesi. E segni crescenti anche di emigrazione artigiana, determinata da crisi d'industrie locali, da richiami esteri.
E tuttavia vi è ancora del movimento in questo secolo. Graduale è il decadere, come di cosa che fu ben viva e che ancora conserva ragioni di vita. Qualche attività nuova sottentra alle vecchie. Se come collettività organizzate gl'Italiani decadono, non decade la loro importanza come individui: un po' mercanti, un po' avventurieri, un po' imprenditori e scopritori, a volte veramente geniali. Essi prevalgono su tutti gli altri, ad Anversa, in fatto d'iniziative destinate a creare industrie e attività sussidiarie della funzione commerciale del porto. Genova ha perso il Levante, ma sta guadagnando il Ponente. Economicamente parlando, essa è quasi parte della monarchia spagnola. Molti Genovesi in Spagna. Vi hanno commerci, banche, appalti, fanno grandi operazioni finanziarie; s'inseriscono attivamente nel traffico ispano-americano, ed avviano verso l'America spagnola qualche sottile rivolo migratorio, fatto di mercanti, d'imprenditori e dissodatori, di fondatori di città (Giovanni Battista Pastine, fondatore di Valparaiso); dànno a quei paesi qualche impronta italiana quanto a cultura, entro il quadro della colonizzazione spagnola. Seguita infine e cresce l'afflusso di gente italiana in Polonia, specialmente negli anni che Bona Sforza vi fu regina (1518-56). Anche qui, banchieri, importatori e commercianti di velluti, di damaschi, di seterie, di profumi, di vini; introduttori di alcune industrie, come l'oreficeria; organizzatori di pubblici servizî come le poste; esportatori di grano, del quale si fa da per tutto, anche in Italia, ricerca crescente, specialmente da Veneziani e Genovesi. È il tempo che le città polacche parvero, come allora si scrisse, quasi suburbium Italiae e la polonia Italiam factam esse.
Anche il bilancio politico di questa tormentata epoca non si esaurisce con l'elenco delle provincie venute in mano di Spagna. Le lunghe guerre hanno avuto anche una loro fecondità. Non da per tutto è stato turbato e interrotto il processo di formazione di stati territoriali con proprî governi e dinastie. Le guerre hanno fornito occasioni e creato necessità risoltesi a favore di alcuni di questi stati, che sono un poco figli della tempesta. Il ducato di Toscana, poi granducato, non si sarebbe forse costituito senza il favore e la cooperazione di Spagna che disarmò in questa maniera il papa Medici e tolse a Francia tradizionali amici, proprio nel cuore dell'Italia, cioè Firenze e poi Siena, ultimi rappresentanti di libertà comunali e di spiriti municipali, con relativa incapacità di più larga organizzazione statale. Si portò innanzi, così, l'opera a cui la repubblica fiorentina aveva tante volte e inutilmente messo le mani, disfatta più presto che fatta, cioè l'unità politica della regione: utile a impedire che la Spagna si allargasse ancora di più nella penisola. Anche il ducato di Parma e Piacenza e il più vasto dominio dei Gonzaga, ai quali Carlo V diede e Filippo II confermò il Monferrato, nacquero a freno o a servizio di Spagna, per indebolire o rafforzare la posizione della Spagna in Italia. Ché se questi due staterelli non rappresentarono gran che in quel processo unitario della penisola, in quel crescente adeguamento dell'Italia politica all'Italia della cultura, che sono il fatto centrale e il filo conduttore della storia italiana; più importante fu che Genova poté conservarsi in relativa indipendenza e avere l'appoggio, diplomatico se non militare, della Spagna per ricuperare dalle mani dei Francesi la Corsica, che era un lembo di Toscana e d'Italia quanto a lingua e civiltà. Ancora più importante fu che Filippo II, dopo la vittoria di S. Quintino riportata da Emanuele Filiberto, pattuì a suo favore la restituzione delle terre piemontesi che la Francia aveva occupate nel '36. Compito suo doveva essere custodire i valichi alpini, guardare il milanese dalla Francia, insomma mettere a profitto della corona e della sua politica italiana un paese che, dal tempo degli Angioini in poi, era diventato, più o meno secondo i momenti, campo aperto all'azione francese, e base alle intraprese militari del re di Francia. Ora, col trattato del 1559, Enrico II riuscì a conservarsi solo il marchesato di Saluzzo: cosa che non dové dispiacere alla Spagna, come mezzo di tenere i Savoia più attaccati ad essa; non agli amici della "libertà d'Italia", perché si manteneva un resto di contrappeso alla Spagna nella penisola. Insomma i re in contesa, specie la Spagna, se ebbero quel che ebbero, dovettero transigere sul resto, procurarsi solidarietà, contare sugli amici fatti potenti, oltre che sui sudditi. E ne risultò qualche progresso nell'organizzazione politica della penisola. Tutto era fatto in vista di un interesse altrui, cioè spagnolo. Ma è naturale che, una volta creati o rinforzati quegli organismi politici, essi camminarono per la loro strada; e oltre a risolvere più o meno problemi politico-sociali di carattere locale, oltre a far avanzare l'educazione politica e il senso dello stato nella gente toscana o piemontese, concorsero a tenere a segno gli Spagnoli, a corroderne la potenza e il prestigio, in ultimo a demolirli nel dominio dell'Italia.
E lo Stato della Chiesa? Al principio del secolo, la Francia, alleata coi Borgia, aveva aiutato i papi a rivendicare città e provincie dai tirannelli locali: e Giulio II, il maggiore costruttore dello Stato della Chiesa, aveva bene sfruttato le cupidige italiane ed europee scatenate contro Venezia, per riavere le città della Romagna. Dopo d'allora, altre tempeste si rovesciarono su questo stato, reso mal fermo da organiche incapacità e oggetto di amare ironie da parte del sottile spirito di Machiavelli. Ma la sua debolezza era anche la sua forza. La natura del potere che impersonava quello stato, se rendeva questo poco capace di difendersi con le armi, gli assicurava guarentigie d'altra natura. E ora, nel sec. XVI, vi è come una consacrazione dello Stato della Chiesa, come un'aureola di santità che lo ricinge e lo difende: "beneficio" annesso all'ufficio apostolico, inscindibile da esso e inviolabile. La rinnovata spiritualità della Chiesa e del papato investe anche il suo dominio terreno. Così esso poté assolvere quel compito per cui gl'Italiani del '500 e '600 lo lodarono: essere barriera alla Spagna, cuneo interposto fra i possessi milanesi e quelli napoletani della Spagna.
Ricostruzione cattolica e ricostruzione statale.
La controriforma. - Siamo in piena epoca di controriforma o, meglio, di controrivoluzione; in epoca di riforma cattolica per frenare la rivoluzione protestante. Fatto della cristianità e cattolicità è la controriforma o controrivoluzione: e il fatto trova un riscontro in quel che era accaduto nel sec. XIII, quando egualmente la più viva religiosità aveva creato correnti riformistiche nel senso ereticale e correnti riformistiche nel senso ortodosso: correnti vicine e qualche volta confuse da principio, avanti che incontrassero una linea di displuvio e divergessero. Ma esso ha in Italia uno dei suoi centri vivi, forse il maggiore centro, e, muovendo non solo dal papato e dalla gerarchia, ma dalla coscienza religiosa del popolo italiano o, comunque, trovando una sua intima rispondenza nello spirito del popolo, riflette alcuni caratteri del popolo stesso, è storia del popolo italiano. Come già nel sec. XIII, anche ora gerarchia e papato scendono in campo. Volgono al loro termine le lunghe e complicate guerre; il papato appare sempre meglio più religioso che politico. Il contrasto fra cattolici e protestanti, aspro specialmente oltr'Alpe, ha riacceso, dove non si è avuta piena vittoria del protestantesimo, il fervore dei cattolici. Essi si sono più fervidamente volti verso Roma; e, anzi che considerare il papa come un qualunque principe italiano, ora lo considerano piuttosto come capo della Chiesa e pastore universale. Dopo secoli di sbandamento, o per la servitù avignonese, o per lo scisma e per altre prolungate assenze dalla sua naturale sede, o per il pensiero tutto rivolto allo Stato della Chiesa, o per i nuovi idoli del mondo classico messi sugli altari, o per la necessaria partecipazione alla grande politica dell'Europa imperniata sull'Italia; la Chiesa e il papato rientrano nel loro solco, ristabiliscono quei nessi vivi con i fedeli che si erano per buona parte spezzati, riprendono con nuova energia il lavoro antico di organizzazione interna, di differenziazione del chiericato dal laicato, di accentramento in Roma ecc., accennano a riguadagnare quel credito e quella potenza anche politica e finanziaria che da un pezzo avevano perduti (v. controriforma). Difatti, col sec. XVI, un'enorme massa di ricchezza fondiaria si raccoglie nuovamente nelle mani delle chiese, specialmente nel Milanese spagnolo, nel regno di Napoli, in Toscana: vera manomorta, ormai, in tempi di progredita economia monetaria e di mobile ricchezza quale è il '500 e l'età successiva. E vi sono, nei papi di questo tempo, accenti che ricordano quelli dei papi dal sec. XI al XIII, da Gregorio VII a Bonifacio VIII. Una dottrina del potere assoluto del papato, che possa pretendere dai governi la persecuzione delle eresie e il rispetto delle libertà ecclesiastiche. Ma la vecchia dottrina si concilia con nuove esigenze e si munisce di nuove armi, e, come accoglie e sviluppa la teoria della sovranità popolare, si appropria, adattandola a sé, la nuova cultura.
Di fronte all'azione cattolica, seguaci e simpatizzanti italiani del protestantesimo, come erano variamente disposti verso Roma cattolica, così seguirono via diversa. Non pochi, urtati violentemente, si allontanarono ancora più dalla Chiesa, soffrirono persecuzioni, e taluni il supplizio, fuggirono fuori d'Italia in paesi già protestanti, si immersero ancora più nel protestantesimo.
Questo esodo, cominciato attorno al 1530, cresciuto nel ventennio successivo, raggiunse alte proporzioni col 1555, cioè con Paolo IV. Quasi ogni città contò i suoi profughi. Alcune moltissimi, come Lucca. Avevano già fuori d'Italia relazioni o punti d'appoggio; liquida e mobile molta parte della loro ricchezza. Quindi non difficile, per molti, la fuga e la sistemazione altrove, in Francia, nei Paesi Bassi, in Polonia, in Ungheria, in Svizzera: specialmente in Svizzera e a Ginevra, che da lontano brillava agli occhi dei novatori come sede di un più vero cristianesimo, come la nuova Roma. Lì, o aderirono alle varie chiese protestanti, oppure, insofferenti, svolsero proprie dottrine. Basti ricordare lo Stancaro mantovano, il Blandrata saluzzese, i Socini e l'Ochino di Siena, attivi specialmente in Polonia. Ma i più di questi Italiani, o che non volessero affrontare penecuzioni o che avessero avuto solo superficiali e sentimentali contatti col luteranesimo e con il calvinismo, e si appagassero via via dello sforzo riformatore della Chiesa e dell'alta spiritualità di taluni pontefici e del rinnovato prestigio mondiale del papato; i più rientrarono nelle file dell'ortodossia romana, con maggiore o minore sincerità e convinzione. Certo noi non sappiamo quale direzione avrebbero seguito alcuni di quei rivoli di viva religiosità, alcuni di quegli accesi riformisti, se abbandonati al loro impulso. Non sappiamo se quella filosofia del Rinascimento, che ebbe nel '500 alcuni dei suoi più alti assertori, sarebbe, come la sua intima logica la portava, sboccata a una negazione esplicita, oltre che della filosofia dell'età precedente, che era la filosofia della Chiesa, anche della Chiesa stessa. Ma guardato il problema nel suo insieme, dobbiamo ammettere che il pontificato romano, nella lotta al protestantesimo, si mosse nella direzione segnata dallo spirito del popolo italiano. Qui mancò quella moltiplicità di ragioni e impulsi, anche sociali, politici, razionali, che in Germania, come avevano portato a una semplice ribellione dogmatica, così poi diedero vittoria al protestantesimo. Anzi quelle ragioni e quegli impulsi che lì agirono positivamente, in Italia agirono negativamente, cioè contro il protestantesimo. Saturatasi in Germania di tutti gli elementi della vita nazionale, la protesta assunse un carattere nazionale e tedesco che, se le diede forza fra Tedeschi e genti germaniche, fu causa di debolezza fra altre genti, specialmente fra Italiani. Così germi religiosamente rivoluzionarî che erano nella filosofia del Rinascimento non agirono nel campo religioso e chiesastico: rimaselo filosofia. Filosofia e religione, quasi due sfere ideali distinte. Forza della vita italiana o debolezza? Esigenza viva di unità religiosa, quale i paesi protestanti non conobbero più? Istintivo sentirsi e ritrovarsi degl'Italiani nella Chiesa e nel cattolicismo come in casa propria, da essi creata e fortemente improntata di sé? Certo, questa filosofia, indipendentemente dai suoi possibili sbocchi logici, giustificò poi espressamente l'opposizione dei filosofi italiani, e degl'Italiani in genere, al protestantesimo, nel quale videro una causa di disgregazione sociale, mentre la religione doveva dare unità, una causa di svigorimento dello sforzo umano e individuale verso la salvazione. Nel che si rispecchiava una mentalità, una concezione della vita e di Dio che è della gente e della civiltà italiana, cresciuta con Roma e col cattolicismo.
La Controriforma, o Riforma cattolica, avviata al tempo e anche per opera di Paolo III e Paolo IV, fattasi più risoluta con Pio IV (r559-65) che condusse a compimento il concilio di Trento, in cui ebbero funzione direttiva il cardinal Morone e Carlo Borromeo; raggiunse nel suo sviluppo pratico un alto grado d'intensità con Pio V. I sette anni del suo pontificato furono anni di azione indefessa, spesa attorno alla riforma, al governo dello Stato della Chiesa, alle complicate relazioni coi principi cattolici e protestanti. Pio V a Roma; l'arcivescovo Carlo Borromeo, il maggiore esecutore e perfezionatore del concilio e dei suoi deliberati, a Milano.
Mentre si svolgeva la controffensiva cattolica contro la Riforma o rivoluzione protestante e a ripristino delle "libertà" e prerogative della Chiesa, si svolgeva anche quella cristiana contro l'Islam. Anch'essa aveva in Roma il suo centro ideale e la sua forza motrice più operosa, più sollecita dei fini religiosi e universali che erano da raggiungere. Interessi a combattere i Turchi e i loro stati vassalli nordafricani non mancavano in Italia. Tutti i governi e i popoli italiani, anzi, sentivano la minaccia e il danno che venivano da quella parte ai loro territorî e ai loro commerci marittimi. E da questo comune danno e pericolo, potevano anche nascere o riprendere vigore antiche idee di accordi e leghe fra gli stati della penisola. Si ricordi l'idea, piuttosto nuova, di una vera e propria confederazione a difesa dagl'infedeli, come fu quella caldeggiata nel 1560 in uno scritto dell'istriano e padovano Girolamo Muzio, apparso poi nel 1572. Ma, a parte la costruzione del Muzio, il pensiero di una unione di forze, sia pur solo a scopi temporanei, era diffuso. A Roma vi si batteva e ribatteva. Solo mancava la fiducia reciproca degli stati italiani e la buona disposizione a unire le forze. Mancava specialmente nei due maggiori potentati della penisola: Spagna e Venezia. Nessuno voleva impegnarsi a difesa dell'altro. Ognuno temeva che da un comune sforzo l'altro più di lui si avvantaggiasse. Ma la minaccia incalzava. Selim II, nuovo sultano dopo la morte di Solimano il Magnifico, non dissimulava la sua intenzione di assaltare Cipro, baluardo veneziano e cristiano nel mare di Levante. Quindi, Venezia era turbata e invocava aiuti tempestivi. Emanuele Filiberto, da Torino, s'adoperava per un accordo fra i governi, nella speranza di avere il generalato dell'impresa e potere poi far valere i suoi titoli di diritto sul regno di Cipro: e fu fatica vana, perché né Spagna né Venezia intendevano per ragioni diverse vederlo investito di così alta dignità. Ma chi si assunse veramente la fatica di creare un accordo, di suscitare una lega cristiana contro i Turchi, fu il pontefice Pio V, che riuscì per mezzo di un suo diplomatico, il De Torres, ad avvicinare Spagna e Venezia. E la lega fu conchiusa. Nell'agosto 1571 si riunirono nella rada di Messina le navi di Spagna, con don Giovanni, generalissimo; quelle di Venezia con Sebastiano Venier; quelle del papa con Marcantonio Colonna. E di lì sciolsero le vele verso Lepanto. Ma non mancavano navi del granduca di Toscana, non navi del duca di Savoia Emanuele Filiberto, che di quella lega avrebbe voluto essere generalissimo, anche per rinfrescare e far valere suoi diritti sul regno di Cipro. Insomma la lega cristiana era, essenzialmente, una lega italiana, sotto la guida morale del papa e l'alto comando dello stato più grande e potente della penisola, la Spagna. Veneziano, poi, era il nerbo delle forze navali, allestite anche dalle città istriane e dalmate, da Traù, Cattaro, Sebenico, Cherso, Lesina, Arbe, ecc. E la vittoria si dové specialmente a queste forze, al settantenne ammiraglio e provveditore generale della flotta, Agostino Barbarigo. Anche scrittori e poeti glorificarono Lepanto, 7 ottobre 1571, come vittoria italiana. Non grande frutto portò questa vittoria: e, pare, più per colpa di Spagna che di Venezia. Certo, fiacca fu, dopo Lepanto, l'azione di don Giovanni e di Spagna, assillati dal timore che la repubblica troppo guadagnasse. Venezia era il solo stato italiano che rimanesse chiuso a ogni influenza spagnola. E che la minaccia turca seguitasse a premere su essa non era male accetto a quella monarchia, come non male accetto agli Asburgo austriaci, che pure sentivano anch'essi il morso dei Turchi. Tuttavia, dopo Lepanto fiaccò per sempre la capacità offensiva dell'impero turco. Esso farà altri acquisti, ma solo in Oriente e vincendo a gran fatica la resistenza di Venezia, subendo ritorni offensivi di questa, vedendo ancora quelle flotte padroneggiare i mari di Levante e spingersi fin sulle soglie dell'impero.
Funzione universale e nazionale del papato e di Roma papale. - Questa varia attività riformatrice e guerriera della Chiesa trova una sua espressione sintetica nella nuova vita del papato, alla fine del '500, tornato a riafferrare molte di quelle leve di comando che aveva perdute, religiose e anche politiche; tornato anche a innalzarsi davanti agl'Italiani. Si difende bene, nel complesso, dall'invadenza spagnola, sebbene il re cattolico Filippo II lavori molto a Roma, egli che svolge una politica mondiale e possiede stati in Italia, specialmente il Regno, vassallo della S. Sede, vulnerabile perciò da parte della S. Sede, ora come da secoli. L'ambasciatore veneto nota che i cardinali, ormai, non si dividono più secondo Francia e Spagna, ma secondo le grandi famiglie che si spartiscono i seggi cardinalizî e si contendono il papato. Anche ad essi o a molti di essi sta a cuore che al papato non salgano creature di Spagna. "Italia andrebbe in preda a' barbari, che sarebbe una vergogna", dice nel conclave del 1590 il cardinale Morosini.
L'uomo che energicamente rappresentò sul soglio pontificio il papato della Controriforma con la sua viva aspirazione all'indipendenza da ogni potere politico e da ogni stato egemonico in Italia e in Europa, con la sua volontà di assolutismo entro la Chiesa di fronte a vescovi e cardinali, con il suo anelito di grandezza, fu Sisto V, che attuò una feroce giustizia nello stato per estirpare la delinquenza dilagante, costituì un buon corpo di milizie e una flottiglia di galere capaci anche di affrontare i barbareschi, accumulò denaro come mezzo di politica indipendente, raccolse nelle sue mani la trattazione di tutte le questioni generali e di governo, fu intollerante di ogni legame che vincolasse i cardinali col mondo esterno. Nel tempo stesso, battaglia contro il mal costume del clero, più intimo collegamento con i vescovi, più intensa attività del collegio cardinalizio mediante la creazione di quindici congregazioni per più proficua divisione di lavoro e migliore utilizzazione di competenze, una politica rivolta a conciliare i cattolici francesi e unirli attorno al re, a un re, impulso dato all'opera dei missionarî nei più lontani paesi. Fra i quali, italiani in gran numero, francescani o gesuiti; e taluni, veri intermediarî fra quel mondo e l'italiano, anzi destinati a occupare un posto cospicuo nella storia di quei paesi.
Sisto V ebbe anche grande ambizione d'ingrandire e abbellire Roma. Lo sforzo edilizio dei papi era, dopo Giulio II, rallentato. Sisto V lo riprese. E distrusse terme, templi, teatri, e adoperò marmi, colonne, capitelli, per la nuova Roma papale. Sorsero ponti, chiese, fontane, obelischi sulle vaste piazze, acquedotti colossali, che segnano di archi la Campagna convergendo verso l'urbe. La fabbrica di S. Pietro, spinta innanzi alacremente e ormai compiuta, rappresentava un secolo d'arte costruttiva italiana, da Bramante a Bernini, e il papato della Controriforma che comunicò all'opera il suo rinnovato spirito. Architettonicamente parlando, Roma già comincia a prendere la fisionomia che poi ha conservata, come la prendono Napoli, Palermo, altre città italiane. Sorgeva il Barocco, lo stile italiano del '600, che trovò così grande applicazione. Col papa lavorano ad abbellire Roma tutte quelle famiglie dell'aristocrazia romana che viveva attorno al papato e del papato, contendendosi le proficue dignità civili ed ecclesiastiche di Roma e dello stato, i vescovadi, le abbazie, le commende, i priorati, tutti i ricchi benefici dell'Italia e un po' del mondo cattolico, i cappelli cardinalizî e la sedia papale, ma gareggiando anche nel fasto, nella costruzione di grandi palazzi e giardini incantevoli e sontuose ville nei dintorni. Al posto degli Orsini, dei Colonna, dei Savelli, dei Frangipane, dei Caetani, di feudale e medievale memoria, i Farnese, i Barberini, gli Aldobrandini, i Vitelleschi, i Pamfili, i Borghese, i Chigi, i Boncompagni, ecc., molti dei quali di origine borghese e mercantile, che dai predecessori hanno raccolto, oltre che la posizione attorno al papato, anche molta parte della ricchezza immobiliare, e ora son carichi di uffici, dignità, regalie, rendite, fin alla testa. Accanto ad essi, nella loro clientela, col loro favore, un'altra aristocrazia minore si forma, originaria di Roma o immigrata, per virtù dei particolari nepotismi che cominciano a fiorire, all'ombra del grande nepotismo dei papi. Gran corrente migratoria verso Roma, nel sec. XVI, per cui rimase quasi sopraffatto il nucleo antico della popolazione locale. In grande maggioranza, formata da Italiani. È cominciato nel '400 l'afflusso. È cresciuto poi: con Leone X e Clemente VII e successori, Roma si era riempita di Fiorentini; Paolo IV vi richiamò Napoletani che occuparono molti impieghi; con Pio IV, dei Medici di Marignano, Milanesi in gran numero con quasi tutti gli uffici in mano; la caduta di Siena, nel '55, vi spinse diecine di famiglie senesi; poi, molti Genovesi, banchieri o gente d'affari. Roma è il maggiore mercato monetario, ora. Tener presente che gl'Italiani venivano ritirando nel '500 i loro capitali sparsi per l'Europa: e Roma era uno dei luoghi di più sicuro investimento. Ma a Roma va gente d'ogni condizione e professione. C'è posto per tutti. Non sempre e in tutto, anche durante la Controriforma, molta edificazione spirituale. Tuttavia la povera Italia, dice il Soranzo, ne ha sollievo. Roma dà da vivere e vive essa stessa: dato che la città non ha risorse proprie.
È fatto di grande rilievo questa vicenda del papato, in rapporto a Roma e all'Italia. Esso si è saldato alla sua sede tradizionale con legami che prima mancavano. La Roma papale si viene sempre più avvicinando alla vita delle popolazioni italiane, e queste a quella. Pontefici come Gregorio VII e Innocenzo III potevano agire in ogni paese dell'orbe cattolico, che era ancora un'indistinta unità. Pontefici come Pio IV e Pio V, Sisto V, Clemente VIII, Paolo V, pur dopo rinfrescata la loro spiritualità e quindi universalità, difficilmente si concepiscono fuori di Roma e dell'Italia. Roma esce dal suo medievale universalismo teorico e isolamento pratico e assume una concreta funzione in rapporto a un determinato paese che è l'Italia. Quí il papato si è costruito una base salda come non mai aveva avuto. Qui ha il più delle forze politiche e religiose interessate alla sua grandezza. Qui sono nati i teatini nel 1524, i barnabiti nel 1533, i gesuiti nel 1539, i somaschi nel 1541, i carmelitani nel 1562, i padri della dottrina cristiana nel 1571, i preti dell'oratorio nel 1575, ecc. Qui, nel tempo stesso, quei mezzi di cultura che sono condizione di prestigio e di forza.
Nelle lotte teologiche a cui dànno luogo la Riforma e la Controriforma, la gerarchia italiana fa blocco: e non solo di fronte ai protestanti, ma, in certi casi, anche alle gerarchie degli altri paesi cattolici. Nel concilio di Trento, non mancarono manifestazioni di opposte schiere: Italia! Francia! Spagna! Si parlava dai prelati italiani di morbo gallico da curare, di lebbra spagnola da sanare, alludendo a tendenze non perfettamente romane di quei paesi, a ritrosia loro di riconoscere incondizionatamente il primato papale. E viceversa, quanti Italiani vedono male il dominio o la tutela degli Spagnoli fanno qualche affidamento sulla Santa Sede, cointeressata a tenerli a freno. Nella stessa avversione al protestantesimo, c'è anche attaccamento a un'istituzione che si considera innanzi tutto, italiana. Il papato non è solo cattolicismo, ma è anche, non poco, Italia. Le esortazioni di T. Campanella agl'Italiani a starcene noi "nell'antica chiesa nostra e in quella credenza con la quale i nostri padri han tirato a sé il mondo con i stupendi miracoli" sono, è stato già osservato, voti quasi più di patriota italiano che di credente. E realmente, si ha qui una delle forme che assume nel '100 e '600 il patriottismo italiano, anche in scrittori d'intonazione civile e secolaresca, come Traiano Boccalini. Il papato deve servire all'Italia. È lodato o biasimato secondo che cura o no, a giudizio loro, quello che si considera bene o libertà dell'Italia. Cioè l'Italia, politicamente divisa, ma unita nella cultura, priva ancora come è di più intimi e proprî centri, si appoggia, nel lento maturare della sua coscienza nazionale, al papato. Come aveva tratto nel suo cerchio ideale Roma antica, così ora Roma papale, nella quale vedeva, accanto a una funzione cattolica, anche una funzione nazionale e italiana. Vi è chi sogna, fra il '500 e il '600, una monarchia universale del pontificato romano: ma in essa, come già prima entro l'impero, fisionomia e compito specifico devono essere riservati all'Italia.
Insomma, quasi una nuova fase, nella storia del papato in Italia e dei suoi rapporti, ideali e pratici, con l'Italia, quale essa viveva nei pensieri, nei sogni, nella fantasia degl'Italiani colti. Vi fu una rispondenza d' interessi pratici che aiutò il papato a combattere e in parte vincere la sua battaglia contro il protestantesimo, in Italia e fuori. Rispondenza, tuttavia, mista a contrasti gravi, quali non erano mai esistiti. E si allude a quella specie di nuovo Medioevo che il papato e la Controriforma cercarono di risuscitare, alla nuova rivendicazione di ogni "libertà" ecclesiastica, alla nuova affermazione del potere assoluto della Chiesa, al controllo della cultura, allo sforzo di restaurare l'antica filosofia della Chiesa, in un paese che aveva vissuto e propagato il Rinascimento e la sua filosofia, ricca di spunti immanentistici, concentrata sull'uomo, affisata sull'intimo e intrinseco delle cose, arte, stato, natura, ecc. E questa filosofia della Chiesa, altre filosofie non tollera. Come tutte le filosofie, è totalitaria: investe, oltre che le materie di fede, tutta la vita. E tutta la vita, la Chiesa della Controriforma vuole controllare e dirigere e informare di sé. Il protestantesimo si può, alla fine del '500, considerare vinto in Italia. L'esteriore ossequio alla Chiesa è ormai totale. Ma la Chiesa non si contenta più di esteriore ossequio. Vede il pericolo di quella nuova filosofia che si volgeva con passione alla natura, considerava eterna e incorruttibile e fondamento universale delle cose la materia, non contrapposta allo spirituale e al divino ma contenente in sé il divino, come tutto quel che esiste nel mondo. Esaltava la dignità dell'uomo e delle sue opere, la sua perfettibilità e la sua capacità di progresso in genere, il suo potere di foggiarsi da sé il suo destino, sul valore decisivo non della nascita o fortuna, ma delle opere e della virtù o della volontà: il tutto, in opposizione alle tendenze dualistiche della filosofia scolastica. Umanità e divinità si sono sempre più ravvicinate. Nello svolgimento della propria umanità l'uomo attinge la divinità. Tutto ciò che è umanamente degno attua una maggiore divinità nell'uomo. Il culto esterno poco conta. Le religioni positive si equivalgono, secondo i pensatori italiani del Rinascimento. Conseguenze pratiche: tolleranza e libertà di coscienza e pensiero. Le quali, nell'età precedente, erano assai largamente praticate, quasi in ogni campo: in alcuni, non libertà ma licenza sfrenata. Ora non più. E tolleranza e libertà, perciò, stanno assurgendo a dottrina. La svolgono i rifomati fuori d'Italia, in confronto anche alle altre Chiese riformate: ed è uno dei contributi del protestantesimo italiano; la svolgono i filosofi italiani del Rinascimento - Bernardino Telesio, Francesco Patrizi, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, la cui attività intellettuale, tra fieri contrasti e tragiche persecuzioni, cade appunto in questo tempo. Essi non sono protestanti. I piìi accettano il cattolicismo, riconoscono l'alto valore sociale e umano della Chiesa e del papato, ma certo non aderiscono intimamente alla dottrina della Chiesa e del papato della Controriforma. Uomo più degli altri rappresentativo, Giordano Bruno, fra quelli su ricordati; rappresentativo del Rinascimento, in quanto amore di sapere, passione per il vero, sforzo di penetrare nell'intimo delle cose, astraendo da autorità tradizionali, da regole assolute, da canoni critici e affidandosi ai mezzi della ragione, ai lumi naturali, all'osservazione, all'esperienza. Oggetto primo e massimo del loro interesse, la natura, gli uomini, la storia, considerata e cercata in modo e per fini diversi da quelli degli umanisti. Oggetto di filosofica riflessione, per essi, non tanto i libri dei filosofi quanto le cose concrete, le stesse attività pratiche, il modo di vivere.
Gli stati italiani nella corrente della controriforma. - L'età della Controriforma fu anche età di restaurazione e instaurazione statale, sotto forma e per mezzo di assolutismo principesco e accentramento di poteri. Ciò che si verifica nel governo della Chiesa, col potente sussidio di ordini religiosi, si verifica anche nel governo degli stati italiani, tanto di quelli soggetti a Spagna, quanto di quelli sorti ex novo o restaurati dopo gli scompigli guerreschi. Era ripresa di un lavoro che durava da secoli, in rapporto al decadere dell'aristocrazia e allo scompaginarsi della vita municipale; e lo rendeva più urgente ora il bisogno di sanare i mali delle lunghe guerre, di rimettere il freno a forze eslegi, di restaurare le finanze, di aumentare le risorse del principe. Né ciò solo in Italia, ma più o meno da per tutto, compresi i paesi volti a protestantesimo, il quale anzi concorse fortemente a rafforzare i poteri del principe. L'assolutismo degli stati italiani è un po' riflesso di quello straniero, spagnolo prima, francese poi: come è anche un'arma per difendersi dalla loro invadenza. Efficacia formativa sull'assolutismo italiano ebbe anche il papato della Controriforma che, se per un verso tendeva a limitare il potere dei principi secolari, per un altro verso operò quale incentivo di assolutismo principesco, sia per la reazione difensiva che esso suscitò, sia per l'esempio che fornì agli altri come papato e come Stato della Chiesa.
Come Stato della Chiesa, Roma non poco si adoperò per mettere ordine e rendere effettiva e ferma l'autorità del centro: sebbene in questo campo essa operasse assai meno efficacemente, profondamente e durevolmente che non nell'altro, più appropriato alla sua natura, della chiesa, della religione, della vita morale. Comunità e baroni furono costretti a nuove imposte. Piccoli staterelli feudali furono rivendicati e incamerati. E incamerata anche, ai danni dell'Estense, la città di Ferrara: grosso colpo che ebbe larga risonanza e portò al Po i confini dello Stato della Chiesa. Le condizioni effettive, la sostanza vera di questo stato non sfuggivano agli osservatori attenti. La sua esistenza era certo meno travagliata e insidiata di una volta. Ma quanto più esso veniva tutto nelle mani della chiesa, tanto più si risentiva di quella concezione teorica, ravvalorata dalla Controriforma, per cui lo Stato della Chiesa doveva servire alla Chiesa, essere strumento della Chiesa; sempre più si risentiva di quella situazione per cui, di fatto, in quello stato, la Chiesa erano la gerarchia, il chiericato e le famiglie da cui essi uscivano.
Ma lo sforzo costruttivo del principato si vide, in tutta la sua genuinità, negli stati secolari di nuova formazione. Qui maggiori l'impulso, la fiducia, la necessità stessa di lavorare a risanamento delle molte piaghe, ad affermazione del potere del principe di fronte alla nobiltà che aveva ripreso certo, sia pur effimero vigore, a tutela di una certa libertà di fronte al gran monarca protettore, che era la Spagna. Si vede questo nel piccolo principato dei Farnese, dove si diede grande opera a unificare lo stato, eliminando autonomie, facendo dei magistrati municipali strumento del principe, abbassando i feudatarî e allacciando le loro terre al grosso del territorio statale. Di qui la reazione nobilesca di cui fu vittima Pier Luigi Farnese. Ma i successori proseguirono. Fu tolta ai Fieschi la signoria di Borgotaro, sopra un'importante via di transito; ai Gonzaga, Poviglio; ai Dal Verme, Romanese; ai Pallavicino, Cortemaggiore. Anche il vecchio stato Pallavicino, con capitale Busseto, che tagliava in due la signoria Farnese e quasi la separava dal Milanese, cadde, quando nel 1587 si estinse il ramo di Busseto e Alessandro Farnese fece occupare il piccolo stato, a danno dell'erede adottivo: donde una fiera e lunga contesa. Rudi colpi furono dati a tutte più o meno le grandi casate piacentine, che erano fra le più turbolente in Italia, e ai loro diritti fiscali e giudiziarî sulle popolazioni rurali. E i feudi caddero l'uno dopo l'altro.
Più ex novo ancora, sebbene non fra tanti contrasti, dové costruire Cosimo de' Medici, figlio di Giovanni dalle Bande Nere e successore di Alessandro, primo duca. Molteplicità e varietà di elementi componevano lo stato; v'erano città già inimicissime di Firenze; famiglie che non perdonavano la morte della repubblica, e, se esuli, tessevano intrighi contro di loro. Ma Cosimo aveva veramente qualità di costruttore; e, non meno, aveva di fronte forze stanche. Molti sono quelli, popolo delle città e sudditi del territorio, che hanno visto con gioia crollare la repubblica e assai sperano da un principe. La maggiore e più diffusa aspirazione è di un governo che sia comune a tutti. Cosimo poi è ritornato in Firenze non servendo una fazione, non lusingando e corrompendo la plebe, ma per diritto proprio: ciò che significava indipendenza da chicchessia, e capacità di agire senza pastoie. Infatti, si sbarazzò anche di quelli che lo avevano esaltato e che s'illudevano di poter costituire una ristretta aristocrazia di governo a fianco del principe. Mostrò favore al minuto popolo, che acquistò certa fiducia di vivere sicuro dalle ingiurie dei nobili. Esercitò una giustizia severissima, con tutti. Aiutò, inoltre, l'attività mercantile di tutti i sudditi, nel paese e fuori di esso: e aiutò, fra l'altro, Pisa a risollevarsi dal regime di oppressione precedente e ricostituirsi una sua vita industriale, già annullata a beneficio della dominante. Utilizzò persone di ogni parte del territorio e allargò a molte famiglie pisane, aretine, pistoiesi, pratesi, volterrane, cortonesi, sangeminianesi, ecc., il diritto di cittadinanza fiorentina, cioè l'esercizio degli uffici statali. Emanando norme per tutto il territorio o rendendo obbligatorie quelle della metropoli o imponendo disposizioni di diritto romano come diritto comune, cercò di togliere tante di quelle disformità che la repubblica aveva mantenute, ma che rendevano dillicile e tarda l'opera del principe. Ricercò operai, costruttori, gente di mare; e ne ebbe dal Ferrarese, dal Mantovano, dal Piacentino, dal Bresciano, dal Veronese, dalla stessa Venezia. Come volle essere forte per terra e tenne molta gente d'armi tratta specialmente dal Senese, così esser forte sul mare, su quel mare che aveva davanti, e farsi una flotta, migliorare le basi navali, ridare vita all'arsenale di Pisa. Sua ambizione, d'intesa con la Spagna che contribuisce alla spesa, sbarazzare il Tirreno dalla pirateria. E fonda, perciò, l'ordine di S. Stefano, militarmente operoso. Vagheggia anche ingrandimenti territoriali, nella regione toscana. Ha avuto Cosimo I il possesso di Siena, raddoppiando così il territorio dello stato fiorentino; e comprato o acquistato in vario modo castelli e feudi dai Malaspina di Lunigiana, dai conti di Noceto, da altri, come poi faranno anche Francesco I e Ferdinando I, suoi successori, semplificando molto la carta politica della Toscana e allargando gli sbocchi sul mare, assicurandosi vie di transito, piantandosi a Pontremoli, porta della regione nell'alta Val di Magra. Ma adocchia Sarzana allo sbocco di Val di Magra, genovese; adocchia Lucca, ricchissima. Dalla Corsica, che fu già pisana, e che ora potrebbe dargli anche titolo regio, viene a Cosimo più di un richiamo. E quando Sampiero ribella l'isola e la porta a Francia, il duca offre a Filippo II le sue galere per cacciare il ribelle e tenere egli la Corsica per sua maestà. Ma Filippo II teneva Genova in protezione e non voleva urtarla. E poi, questi principi italiani non bisognava lasciarli crescere troppo. Sono fedeli e obbedienti, ma non si sa mai! Intanto, i Medici si sono ravvicinati a Francia, iniziando quella politica di cui più tardi Maria, andata sposa a Enrico IV, sarà intermediaria. Non che Cosimo voglia fare una politica antispagnola: ma gli piace che la Spagna abbia bisogno di lui e del ducato. Perciò solletica il re cristianissimo: vorrebbe che il Turco tenesse sempre in timore il re cattolico. È in grande intimità con i papi e molto lavora presso di loro e vi ha sei o sette cardinali parzialissimi. E nelle corti italiane si sussurra di una dignità e titolo di re di Toscana che il papa sarebbe disposto a dargli. Perciò tutti gli altri principi tengono gli occhi aperti. D'altra parte, non è facile di questi Medici, che hanno anche molta dose di taccagneria e di spirito mercantesco, fare dei re. E già con Francesco I, il tono del principato si abbassa.
Non meno assidua attività svolge più a nord Emanuele Filiberto di Savoia, che, nato principe e poi spogliato di tutto, soldato, capitano, generale per mezza Europa, era rientrato nella sua vita di principe, sotto nuovi auspici, l'anno 1559, quando aveva ricuperato lo stato. Da principio, veramente, parte dello stato, essendo Torino, Savigliano, Pinerolo, Chieri, Chivasso e qualche altra piazza rimaste in pegno ai Francesi; Asti e Vercelli agli Spagnoli. Ma poco dopo, la situazione interna di Francia aveva offerto a Emanuele Filiberto l'occasione di riavere il suo. 8 agosto 1562: accordo di Blois. Ai Francesi rimasero tuttavia Pinerolo e Savigliano: di che gli Spagnoli non si dolsero, perché diede loro motivo di rimanere ancora ad Asti e Santhià. Lo stato sabaudo era ancora arretratissimo come ordinamento interno ed economia. Rada popolazione, quasi solo di contadini e signori; migliaia di feudatarî grandi e piccoli, di cui i Luserna, i Piossasco, i San Martino, i Collegno ecc., cioè i maggiori, alleati più che sudditi, uniti ora non tanto nella dipendenza dal comune sovrano quanto nei due partiti guelfo e ghibellino che ancora tenevano il campo. E in basso, gente povera e avvilita da tante traversie sofferte, che a osservatori del tempo appariva, salvo nella regione più vicina alla Svizzera, restia a qualsiasi onere militare, e da non poterci contare veramente. Su una creta di tal genere cominciò a lavorare il giovine duca, con una tenacia da Testa di ferro. Si propose specialmente di fare del suo popolo una milizia, fedele e sempre pronta. Intendeva bene quanto fosse precaria la situazione dello stato, in mezzo a due potentati che erano sempre in attesa di riacciuffare ciò che avevano lasciato: e si premuniva dal pericolo. I tratti di questo principe sono quelli di una personalità magnificamente temprata, ricca di equilibrio e di slancio. In lui, spirito di comando e volontà inflessibile, amore della sua terra e sentimento del bene pubblico. Ascoltava tutti, ma risolveva da sé: tratto comune di questi principi che si sentivano circondati da gente ancora malsicura, legata alla sua parte o, spesso, a signori stranieri, più che al proprio signore. Intanto, non staccava gli occhi dal Monferrato, che una sentenza di Carlo V aveva assegnato nel 1536 ai Gonzaga signori di Mantova. E lavorava per guadagnare terreno fra quelle popolazioni. Stuzzicò il loro malcontento, diede ospitalità ai fuggiaschi, tutelò davanti all'imperatore i diritti di quei vassalli. Mise in movimento anche i tribunali cesarei. Per ora, quest'uomo cresciuto fra le armi, le armi vuole riposte nel fodero. Certo, se farà guerre, ne farà per il Monferrato, che rende oltre 100.000 scudi annui, che integra il Piemonte dal punto di vista militare, che apre altre vie verso il mare. E sul mare Emanuele Filiberto tiene sempre gli occhi. Si è fatta una flotta, ha creato la prima flotta dei Savoia. I Genovesi sospettano che egli voglia tentare un colpo su Savona, malcontenta di loro. Ma il duca alza gli occhi persino su Genova, che non è solo un bel porto, ma ha banchieri e denari in quantità. In attesa che Genova maturi, il duca nel 1575 e 1576 compra Oneglia da nobili genovesi e il contado di Vado. Saranno agevolati i trasporti verso il mare e cresceranno le rendite dello stato, cioè la sua forza militare e la sua indipendenza. Poiché i Savoia più che ogni altro principe italiano vedono le finanze proprie, l'economia del paese essenzialmente da questo punto di vista. Ma più urge ricuperare le terre di Piemonte tenute da Francesi e Spagnoli. E l'occasione buona fu quando Enrico III, tornando dalla Polonia in Francia, passò per le terre di Emanuele Filiberto. Il quale, allora, in cambio di aver bene assicurato al re le strade, ottenne che s'impegnasse a ridargli le sue piazze, Savigliano e Pinerolo: il che fu nel 1574. Donde anche l'allontanamento degli Spagnoli da Asti e Santhià, non avendo più essi pretesto per rimanervi. Anche il marchesato di Saluzzo è in mano dei Francesi. E vuol dire le porte del Piemonte in mano di stranieri, per le valli della Maira, Stura, Varaita; vuol dire gli stranieri nel cuore del Piemonte. Ed Emanuele Filiberto trattò per acquistare questa vecchia signoria feudale. Era disposto a comprarla, a dare in cambio terre sue d'oltralpe. Capiva che ormai l'avvenire della casa era non di là ma di qua dalle Alpi. Il vecchio rapporto Savoia-Piemonte si era rovesciato. E la Savoia cominciava a provare un senso di scontento e disagio, nel nuovo organismo di cui non era più il membro principale. In questa occasione, il duca Emanuele Filiberto giocò un po' sulle discordie della corte francese, sull'antagonismo fra i capi civili e militari cui era affidato il Saluzzese. Ed era ormai giunto alla meta, cioè a un'occupazione provvisoria, quando la morte lo colse. Sapeva che né Francia e meno ancora Spagna lo avrebbero voluto vedere più grande di quello che era: ma la sua diplomazia aveva lavorato a coltivare da ogni parte buoni rapporti: con Ferrara, che era d'accordo con lui contro le pretese di Cosimo a un primato; con Venezia, che poteva servire da sbocco del commercio piemontese giù per il Po ed era un pungiglione sull'altro fianco di Spagna. Anche con la S. Sede coltivò buoni rapporti: e la S. Sede lo avrebbe anche visto volentieri, nel 1571, alla testa delle forze navali cristiane e italiane che dovevano compiere la gesta di Lepanto. Alla curia egli si sentiva unito dal comune vanto di essere tutori di "libertà italiana". Alla sua morte, il nunzio pontificio a Torino scriveva alla curia: "è mancato il moderatore a questi tempi di tutto il mondo, et particolarmente il procuratore della quiete d'Italia, solo con l'ombra dell'autorità et prudenzia sua". Ciò derivava dalla sua equidistanza tra Francia e Spagna. Giusto calcolo politico, in un momento come quello e con uno stato in via di ricostituzione. Ma tale atteggiamento si colorava d'italianità. Del resto, orientatosi il casato verso l'Italia, trovato qui il suo centro, si capisce che venisse assumendo quel colore. È pienamente formato il senso che, come le popolazioni cisalpine sono il nerbo dello stato sabaudo, così esse dovevano anche dargli il loro suggello morale. Era appena tornato nei suoi stati e il duca già emanava un decreto che sopprimeva il latino nell'uso delle curie e dei notai e adottava l'italiano (febbraio 1560). Significava incanalare anche la cultura piemontese, oltre che la politica, nella direzione della nazione italiana. E come tutto quel che fece questo principe ebbe quasi un carattere indelebile, per la serietà e l'animo religioso con cui egli operò, per il suo spirito realistico e il senso di orientamento proprio del costruttore, così indelebile fu anche questo atteggiamento "italiano" da lui assunto. La storia del vecchio casato feudale cominciava a confluire nel corso della storia d'Italia.
Insomma, certo vigore di governi restaurati; certa aspirazione a grandezza; certa volontà e sforzo di dare compiutezza territoriale allo stato; certo superstite ardore battagliero di questi principi. Inclinatissimo alla milizia è, oltre che Emanuele Filiberto, il duca Guglielmo Gonzaga, suo grande avversario. È passato, anzi, da parte di Francia a parte di Spagna appunto per avere maggiore occasione d'imprese militari, come ne aveva il vicino duca di Parma Alessandro Farnese. Be mito di artiglieria e arnesi di guerra, appassionato allevatore di cavalli è il duca d'Este. E poi, sollecitudine di giustizia il più possibile eguale per tutti e a volte con qualche studio di esercitarla più rigorosa ancora verso i grandi. Cura speciale rivolta ai problemi economici e finanziarî e alle attività produttive paesane, aiutate tanto per via diretta quanto coi divieti d'importazione di merci e d'esportazione d'oro o di materie prime e derrate; politica demografica e di popolamento o ripopolamento, essendo ormai idea corrente che lo stato e la sua forza sono, essenzialmente, fatti di uomini. Provvedimenti per ovviare alla crisi bancaria e alla mancanza di credito. Richiami e favori agl'israeliti che assai crescono di numero e spesso accaparrano ogni commercio in molti luoghi dell'Italia settentrionale e centrale (Livorno, Mantova, Ferrara, Torino, ecc.), anche in città" del Milanese soggette a Spagna, la quale espelle gli Ebrei del sud ma nel nord li protegge. Tendenza ad allargare l'azione dello stato a tutti i campi della vita civile, a perfezionare gli organi di governo, a elaborare istituzioni che siano come tessuto connettivo entro gli elementi in vario modo sottoposti all'autorità del principe. Fa qualche progresso l'idea dello stato come funzione pubblica e interesse pubblico. Si attua meglio l'ideale del "principe universale", come lo chiama il Botero, sostituito al "capo di parte"; che è poi l'ideale dei ceti medî e minori che, in regime assoluto, di crescente burocrazia, riempiono gli uffici in numero crescente.
Declinano invece o accelerano la loro discesa i comuni, tanto come condizione giuridica di autonomia, quanto come spirito cittadino, come culto delle memorie locali, come apprezzamento degli scrittori e delle opere che meglio avevano rappresentato la vecchia vita municipale. Così a Firenze. Declinano i parlamenti e simili corpi consultivi: e si sa la sorte delle congregazioni in Val d'Aosta, in Piemonte, al tempo di Emanuele Filiberto; si sa che nel regno di Napoli, sotto Filippo II, sempre meno frequenti sono i parlamenti e con sempre minori prerogative. Decadenza dei parlamenti è anche decadenza di nobiltà, dopo l'effimera rifioritura autunnale che si era avuta nella prima metà del '500, in connessione con il disordine politico. Essa è fatta ormai cortigiana, diminuita di potenza politica, di ricchezza, di credito. Estinte molte delle grandi famiglie, sostituite da troppa gente di piccola origine che ha comprato a contanti titoli e distinzioni. Tuttavia, dànno ancora alimento, a questa vecchia e nuova aristocrazia, le frequenti infeudazioni di città a cui ricorre specialmente la Spagna nell'Italia meridionale per far quattrini, senza per questo rinunziare a troppe prerogative della corona; e anche la grande padronanza che, specialmente nell'Italia spagnola, il ceto nobiliare ha delle amministrazioni comunali, ove riscuote dazî, elegge sindaci, giurati, ufficiali, maneggia il patrin10nio delle università, ecc. In Sicilia, robusta cittadella dell'aristocrazia che di lì vigila a difesa delle istituzioni isolane, cioè, in fondo, a difesa dei privilegi feudali e proprî, diventa la deputazione del regno, sorta come balìa temporanea del parlamento, ma diventata nel 1567 corpo stabile, con funzioni amministrative, con certa capacità d'imporsi tanto al re quanto al popolo. Donde certa solidarietà popolo-Spagna. Sempre vivi in questi ceti, da per tutto, desiderio di primeggiare, passione per le armi, a volte qualche non ignobile ambizione di gloria militare. Ciò specialmente nel Mezzogiorno e in alcuni stati del nord, cioè là dove la nobiltà, anziché essere tutta di recente origine borghese, come in Toscana, bene conservava vecchi fermenti di vita cavalleresca, come nello stato estense. E le occasioni di dare sfogo a questi ardori non mancano del tutto. Se le guerre in Italia sono finite, ci sono quelle dell'impero e della Spagna. E larga è la partecipazione d'Italiani, anche in formazioni regolari, organizzate dai viceré e governatori spagnoli o inviate dal papa, dagli Estensi, dai Farnese, dai Gonzaga, dai Medici, alle guerre del re di Spagna o a quelle dell'imperatore contro Turchi e Fiamminghi e Barbareschi d'Africa e Indî americani, nella seconda metà del '500 e nella prima del '600. Nel 1595, ne vanno anche, dalla Toscana, in aiuto di Stefano Báthory principe di Transilvania, per la fortunata campagna di quell'anno contro gl'infedeli. E non contiamo tutti quelli che individualmente se ne andavano alla ventura per arruolarsi in questo o quell'esercito, magari col Turco, che realmente reclutava molta gente, volontarî o prigionieri di guerra o uomini razziati lungo le coste e fatti "rinnegati".
Gli stati italiani in contrasto con la Controriforma. - Tutto questo colora di buona luce questa fase di vita italiana, che segue alle guerre di predominio e conquista. Essa è, per parecchi stati italiani, fase di operosa gioventù, d'illuminata attività costruttiva; anche per il governo spagnolo nelle sue provincie italiane, è l'epoca migliore. Gli storici siciliani giudicano buono per l'isola il tempo di Filippo II, quando fu dato impulso a opere pubbliche civili e militari, per una più efficace difesa dai Turchi, e si favorì il sorgere d'istituti d'istruzione. La Sardegna stessa, pur resa quasi estranea all'Italia - a differenza della Sicilia che all'Italia si legò più strettamente - ebbe a lodarsi di Filippo II. L'attività dei principi e governi, italiani e stranieri che fossero, si svolse anche verso una altra direzione. Piegate ormai le forze interne di opposizione al principato, assicurato anche un minimo di libertà di fronte alla Spagna, rimaneva ancora un'opposizione, che era interna ed esterna, locale e internazionale, da fronteggiare; ancora una libertà da difendere: l'opposizione della Chiesa, la libertà dalla Chiesa, ricostituita anch'essa, armatasi nuovamente di tutte le sue pretese. I governi italiani hanno fatto proprio, in parte, il programma della Controriforma, ne hanno accettato la parte morale e dogmatica; anche perché essi vogliono, in cambio, utilizzare la Chiesa ai fini politici, considerarla e adoperarla come instrumentum regni. Non pongono grandi ostacoli allo strabocchevole crescere di chierici e frati e congregazioni religiose. Se vogliono la Chiesa strumento dello Stato, sono anche disposti a mettere il braccio dello Stato a disposizione della Chiesa o guardare con larga tolleranza le sue iniziative. Non è solo un esteriore avvicinamento, sulla base di un calcolo. Vi è ora una dottrina politica che cerca di temperare il crudo realismo della ragion di stato, subordinandola a ragioni morali e religiose o conciliandola con esse. Come, dieci secoli prima, i regni barbarici si erano aperti all'influsso della Chiesa, così ora gli stati usciti dalla prima spregiudicata fase costruttiva e dal travaglio delle guerre, durante le quali la ferrea legge della forza aveva imperato e la "ragion di stato" aveva servito a giustificare ogni atto, non solo praticata ma anche messa sugli altari. Un pensatore politico italiano che, ora, rappresenta questo tentativo di conciliazione, questo sforzo della Chiesa di permeare moralmente lo Stato, rispettandone le esigenze, è Giovanni Botero, uomo certo della Controriforma, ma anche uomo di questa età di ricostruzione statale, attivo segretario di Carlo Borromeo, spettatore dell'opera di Emanuele Filiberto, fiero del suo Piemonte, "propugnacolo" o "bastione d'Italia".
Ma c'è un'altra parte del programma della Controriforma che i governi non sono egualmente disposti ad accettare nella sua integrità, cioè le esigenze civili e politiche di supremazia chiesastica sui poteri statali, di esercizio pieno delle libertà ecclesiastiche, d'ingerenza nella vita del laicato: esigenze che taluni dei papi cercano di far valere, talora con meticolosità di giuristi, come fu con Paolo V, simile in ciò ai grandi antecessori del XII e XIII secolo; specialmente in Italia che era e doveva rimanere la base ferma del papato, il mezzo necessario all'azione sua mondiale.
Le reazioni più o meno energiche e costanti, più o meno coronate di successo. Esigenze di ordine pubblico e di giustizia, bisogni finanziarî, ragioni di prestigio imponevano restrizioni all'attività del foro ecclesiastico sui laici, intervento di tribunali civili contro ecclesiastici e per cause ecclesiastiche, vigilanza sull'aumento delle proprietà ecclesiastiche, limiti alle esenzioni fiscali, controlli al tribunale dell'inquisizione, consenso dei governi alle esecuzioni degli ordini papali nel territorio dello stato. Reagirono, così, al tempo di Pio V, di Gregorio XIII, di Sisto V, di Clemente VIII, molte municipalità; e memoranda fu la resistenza del senato milanese al suo arcivescovo Carlo Borromeo, prima che il governatore spagnolo prendesse esso la direzione della lotta. Reagì la Spagna, e nel Milanese e nei regni di Napoli e di Sicilia, dove era un'antica tradizione contro la giurisdizione ecclesiastica. E se con gli Angioini, poi con Ferdinando il Cattolico, c'era stato qualche allentamento di freni, ora Filippo II tornò a essere fermo e battagliero, vietò si pubblicassero decreti tridentini, tenne testa a richieste fiscali e giudiziarie: come in Spagna, così nei possessi italiani. Reagirono Savoia, Genova, Lucca, Venezia; anzi, Venezia ingaggiò vera battaglia, di grande significato e di grande risonanza. Frequenti cagioni di urti fra Venezia e Roma erano state, per gran tempo, Ferrara e Comacchio e Ravenna e le città della Romagna. Alla fine del '500, quando Clemente VIII incamerò Ferrara, i Veneziani sostennero la causa dello spodestato Cesare d'Este. Non meno, era cagione di urti la politica ecclesiastica della repubblica, assai ferma, costantemente, nel limitare gli acquisti e la libera disposizione d'immobili, nel subordinare la costruzione di nuovi edifici del culto al consenso della repubblica, nel proibire gli appelli a Roma, nell'escludere da pubblici uffici quanti avessero legami con la curia, nel sorvegliare i processi di eresia. Tutto ciò costituiva certa garanzia anche di libertà intellettuale. Avrebbe potuto la repubblica lasciare rovinar l'università di Padova, frequentatissima più forse di ogni altra università italiana e straniera? Venezia è, insomma, nella seconda metà del '500, l'anticuria, più di ogni stato italiano. Da una parte, sempre in armi contro i Turchi; dall'altra, sempre vigilante di fronte alla Chiesa. Si ritrovava qui, intatto, il vecchio laicato italiano, formatosi nelle città, quello dei Machiavelli e Guicciardini, esperto nel distinguere religione e politica, fermo nell'avversare tutte le contaminazioni teocratiche. Con questa differenza, in rapporto ai secoli XIII e XIV: che allora, il comune aveva contro di sé gran parte del clero cittadino, più legato a Roma che alla città. A Venezia invece, il clero è solidale con la repubblica; e talora solo il clero regolare, gesuiti e cappuccini, obbedisce al papa. Si sostiene ora più che mai che i privilegi della Chiesa e dei chierici, essi dicono ora più chiaramente ancora che non avessero mai detto, non sono privilegi di diritto divino, conferiti dai concilî o dal volere del papa, ma sono una concessione del principe; non riguardano la sfera spirituale ma la temporale, nella quale il principe è sovrano, salvo il rispetto della legge divina. Questo dice a Venezia, al principio del '600, Paolo Sarpi, teologo e avvocato della repubblica, quando, per un incidente di foro secolare da applicare a certi chierici colpevoli di reati comuni, scoppiò, fra 1605 e 1606, la famosa controversia. Non fu, questa contesa, senza qualche pericolo per la curia. né senza qualche incrinatura morale dell'edificio che essa aveva innalzato: pericolo di appiccare un grande incendio, di spingere Venezia verso i protestanti, di provocare interventi di Francia e Spagna, di eccitare altri principi italiani che egualmente avevano velleità giurisdizionaliste. Carlo Emanuele di Savoia, ad esempio, simpatizzò per Venezia. E fosse questa simpatia, fosse il timore che il conflitto desse occasione a interventi di Spagna e Francia, pensò a una intesa di stati italiani non ligi alla curia, anzi per fare qualche rimostranza alla curia, e intanto impedire quegli interventi. E molto si adoperò a tale scopo. Ma l'accordo dell'aprile 1607 fra repubblica e curia tolse motivo a ogni estranea intromissione.
Fu, giuridicamente, pace di compromesso; sebbene, moralmente, vittoria di Venezia, come ammise lo stesso papa Gregorio XV, successore di Paolo V, la quale vide rafforzata la posizione degli stati e la loro opposizione alla curia. Nell'Europa fra XVI e XVII secolo, la repubblica di San Marco fu ciò che, nell'Europa del 1200, Federico II. Napoli e Venezia: i due stati d'Italia che con maggiore energia e continuità hanno per secoli fronteggiato la Chiesa, dando vita a opere di pensiero che arricchirono la vita del laicato e ne afforzarono la posizione di fronte alla curia. Nel regno, i proclami e le proteste di Federico II e Pier della Vigna, la Istoria del Regno di Napoli del Giannone; a Venezia, oltre gli scritti legali pubblicati nel fervore della lotta, la Istoria del Concilio tridentino di Paolo Sarpi. Questo libro proseguì nel campo storico la lotta già combattuta nel campo giuridico e dogmatico. Per cui, l'azione politica del Sarpi e l'opera sua di storico del Concilio sono una cosa sola. E con l'una e con l'altra, Sarpi e Venezia furono al centro di un vasto movimento, operarono da leva per scalzare certe posizioni del papato, agirono largamente sul mondo: con tanto maggiore efficacia, in quanto si muovevano nell'orbita esternamente ortodossa. Rappresentavano l'opposizione di alcuni principi cattolici che la stessa lotta contro il protestantesimo aveva rinvigorito. Così Roma vide restaurata l'unità della sua dottrina in parte dell'Europa, ma anche colpita quell'unità come organizzazione giuridica. Inizio di non lontana decadenza della politica del papato, proprio nei tempi stessi che esso registrava una sua grande vittoria.
Giordano Bruno e Paolo Sarpi: pensiero filosofico, pensiero politico e scientifico. Maturavano i írutti del Rinascimento. Epoca ricca di uomini così fatti, questa fra il '500 e il '600; uomini legati di spirituale parentela, uomini di una civiltà, di una nazione, capaci di accrescerne il patrimonio ideale e cementarne la vita unitaria. Ricordiamo ancora Tommaso Campanella e Galileo Galilei, che vissero anch'essi pericolosamente, in una temperie avversa, pur mentre rispecchiavano esigenze profonde, e rappresentavano tendenze destinate a trionfare. Campanella congiurò, in Calabria, contro gli Spagnoli. Ma più che congiure antispagnole, perseguì grandiosi piani di rinnovamento sociale, di ritorno degli uomini alla natura, di uguaglianza fra di essi, salvo le distinzioni fatte dalla natura stessa, senza povertà e senza ricchezza e relativi mali. Scrisse La città del sole, tutta senso panteistico; poi si volse a vagheggiare una teocrazia papale, cioè un governo unico del mondo, spirituale e politico insieme, impersonato dal pontefice che lo avrebbe esercitato per mezzo dei principi, rimedio contro guerre e scismi e mali dell'umanità; in ultimo, abbandonati i piani politici, sognò una grandiosa azione di propaganda e riconquista puramente religiosa, da svolgere egli personalmente, per ricondurre i protestanti alla Chiesa, per costringere gl'infedeli a riconoscere la vera fede. Rileviamo qui, non la filosofia di Campanella ma la tragedia di questa vita, il suo cozzare ora con Spagna ora con Roma. Echi e risonanze di Controriforma, sono in questo frate e filosofo. Subì anch'egli il fascino della restaurata Roma papale, si riscaldò per l'unità religiosa, parve vagheggiasse la teocrazia. Ma della vita egli riconobbe l'intrinseco valore e i nobili fini; l'uomo lo vide, essenzialmente, nel mondo, con i suoi problemi politici, sociali, morali, e lo esaltò come creatore e dominatore, in virtù del suo pensiero; nel papato vide anche un mezzo d'indipendenza italiana, un fattore di grandezza per l'Italia, da lui glorificata nelle tradizioni marinare di Genova e Pisa e Venezia, nei suoi scopritori di nuovi mondi, Colombo o Galilei. Il quale ultimo era altra natura, altra cultura; ma portò ad altissimo grado tendenze e attitudini che erano anche di Campanella: l'apprezzamento del sapere non solo in sé stesso, ma anche in vista dei fini che se ne possono trarre; il desiderio e la fiducia di meglio conoscere la natura, per poterla mettere a servizio dell'uomo. Oltre che ai fenomeni del cielo, anch'egli si volge ai fatti della terra, di più pratico interesse.
Questa manifestazione sintetica del Rinascimento italiano, che fu il pensiero filosofico e la scienza della natura, giunti a maturazione nella seconda metà del '500 e al principio del '600, ebbe grande vigore espansivo: sebbene fuori d'Italia fosse cominciata certa reazione alle influenze intellettuali italiane. La nuova Francia letteraria ormai aspirava a piena emancipazione; contro Machiavelli, in Francia e in Inghilterra, si muoveva una guerra che pareva crociata e che investiva tutta la vita italiana. In tluesta avversione a Machiavelli, che si risolveva poi in accentuata avversione a Maria de' Medici, colpevole, come la si accusò, di avere messo Machiavelli invece della Scrittura nelle mani dei suoi figli, si trovavano concordi cattolici e calvinisti e la Francia quasi ritrovava la sua unità. E tuttavia, la poesia di Torquato Tasso agiva fortemente sulla poesia tedesca; la nuova architettura della Controriforma, che aveva a Roma i suoi primi monumenti, s'imponeva rapidamente da per tutto, specie nei paesi cattolici; la musica italiana, dopo Palestrina, cominciava la sua marcia per il mondo. In Inghilterra, Shakespeare attingeva a piene mani dalla novellistica italiana, oltre che dalla tradizione classica, per il suo teatro, accostandosi al mondo italiano anche pel tramite d'Italiani vissuti in Inghilterra, come Giovanni Florio, di origine fiorentina. Così anche il pensiero filosofico italiano, che alla fine del '500 già penetrava in molti paesi: in Germania, e anche in Francia e Inghilterra. Il suo sviluppo, anzi, si ebbe fuori d'Italia più che in Italia; nel modo stesso che anche le scienze fisiche trovarono altrove, più che in Italia, quella vita economica e sociale in sviluppo, quella libertà di movimento che sole potevano consentirne gli ulteriori svolgimenti e le pratiche applicazioni.
Poiché, si giudichi come si vuole quest'epoca della storia d'Italia; nonostante i vantaggi che, col mantenimento dell'unità religiosa e con i freni posti a certa dilagante corruttela letteraria, vennero all'Italia dalla vittoria di certe forze di conservazione e restaurazione; si deve anche ammettere che, nell'epoca della Controriforma, della Chiesa dominata dalla gerarchia e da ordini internazionali, si venne facendo più diffficile in Italia la vita della cultura. Anche in quanto la Controriforma fu non imposizione dal di fuori ma atteggiamento spontaneo dello spirito italiano ed europeo; anche in quanto fu, sotto certi rapporti, svolgimento dell'età precedente, sintesi di Medioevo e di Rinascimento; essa, poiché rappresentò, oltre che una concezione di vita, anche interessi di classi e ceti e governi, finì con l'agire come forza a sé, con l'imporsi alle forze stesse che avevano concorso a generarla, col deviarle e mortificarle.
La dominazione spagnola.
La Spagna, gli stati italiani e il movimento antispagnolo fra '500 e '600. - La politica di assestamento e rafforzamento interno degli stati italiani, specialmente di alcuni di essi, non è sempre fine a sé stessa. Fra l'altro, è un mezzo per assicurare lo stato nei rapporti internazionali, per togliere a Spagna ogni occasione o pretesto d'interventi e rimaneggiamenti. Buone erano le relazioni con Madrid. Ma bisogno di vigilare e guardarsi c'era. Largo ossequio al potente sovrano; e si sovviene ai suoi bisogni con prestiti che servono anche a legare maggiormente i principi a Spagna, come sempre il creditore al debitore; si mandano a Madrid i figliuoli per fare la loro educazione e crescere nel reverenziale ossequio di Spagna; si seguono costumi e fogge e spesso linguaggio di Spagna; s'interpella quel re, quando si deve maritare una figliuola, perché assai importa a lui quali legami i principi italiani hanno con altri sovrani d'Europa e fra loro. E tuttavia, Medici, Savoia, oltre che Estensi, vecchi amici di Francia, mantengono buone relazioni con la vicina corte, principesse italiane vanno in Francia, francesi in Italia. E una delle ragioni per cui Filippo II non consentì a Emanuele Filiberto di assumere il generalato delle forze cristiane nella guerra che condusse alla vittoria di Lepanto, fu il timore che, assente il duca, si facessero sentire influenze francesi in Piemonte, per il tramite della moglie Margherita di Valois che avrebbe assunto la reggenza e che era considerata poco meno che un agente di quella corte a Torino. Anche i rapporti fra le corti italiane, nonostante le controversie per titoli e primazie, sono buoni: parecchi legami familiari; certa solidarietà politica. La presenza di Spagna crea, in Italia, una specie di fronte unico, impone a tutti dei problemi comuni, crea, accanto all'eguale condizione di tutela, un'eguale opera di prudente difesa. Condizione di cose, questa, che dà qualche motivo di preoccupazione alla corte e ai governatori spagnoli: i quali vogliono sì pace fra gli stati italiani, ma non troppi legami; credono utile un po' di zizzania, ma non che dai contrasti emerga la superiorità dell'uno o dell'altro. Statu quo, equilibrio, tutti direttamente legati ad essa, questo vuole la Spagna. Perciò essa non è senza qualche preoccupazione per le cose della penisola, dove i principi sono stretti da molti parentadi, hanno larghi mezzi finanziarî e, persuasi di esser capaci di difendersi da sé e poter seguire quella bandiera che a loro piace, "non sono più tanto ossequienti e obbedienti come una volta".
Soffiava certo vento di fronda nelle corti italiane. Cresceva, sul finire del '500, il desiderio d'uscire di tutela. La rafforzata situazione interna stimolava più di un principe a una politica propria, o addirittura a una politica d'iniziative. Ne diede il primo esempio Carlo Emanuele I, succeduto al padre. Del resto, anche Sisto V, uomo pure di grandi pensieri e progetti, si proponeva di mandare un esercito in Francia, mettere fine al disordine, chiamare a quel trono proprio Carlo Emanuele. Ma mentre era in attesa, approfittò anche il duca di quel disordine francese e, camminando a modo suo sopra le direttive del papa, forte dell'amicizia del re di Spagna, del quale aveva sposato la figlia Caterina, assaltò all'improvviso il marchesato di Saluzzo (1588), espugnò Centallo e Carmagnola: in due mesi ebbe in mano tutto il paese. L'impresa era contro Francia che minacciò e, impotente essa, sommosse gli Svizzeri contro i Savoia; ma non piacque neppure al re di Spagna che non aveva mai voluto fare gran cosa per liberare il Piemonte da quel resto di occupazione francese (ed Emanuele Filiberto se ne lamentaval); non piacque agli altri signori italiani, anche se amici dei Savoia. Saluzzo in mano dei Francesi, costituiva quel relativo equilibrio fra le due corone nella penisola, che era ritenuto fondamento della "libertà d'Italia". Fu considerato come un servigio a Spagna, che sarebbe rimasta sola padrona in Italia e forse avrebbe potuto ottenere dal parente austriaco quel che ambiva, cioè il vicariato generale dell'impero in Italia, con relativa dipendenza dei feudatarî dell'impero. C'era il caso che anche Savoia cadesse in maggiore dipendenza.
Si aggiunse poi la nuova situazione di Francia, l'ascesa di Enrico IV, la fine delle guerre di religione, l'assoluzione del re dalla scomunica, nuovi legami politici e matrimoniali con governi italiani. Fatto interno della Francia e dovuto a interne cagioni: ma in Francia, raramente accade che atteggiamenti religiosi o chiesastici non siano anch'essi determinati da preoccupazioni di politica estera. E ora, si trattava di rompere il legame fra Roma e Spagna, di togliere a questa il monopolio nella difesa del cattolicismo e la forza che da esso le veniva, di riprendere con l'appoggio della Santa Sede la posizione europea perduta. A questo mutamento, anche la S. Sede concorse. E si sa quel che fece in tal senso Sisto V: anche qui, per ragioni religiose ma anche politiche, per ristabilire cioè in Europa e nella penisola l'equilibrio perduto e alleggerire la pressione spagnola sull'Italia. E in Italia si ebbe subito il senso che era finita ogni ambizione di dominio universale della Spagna. Chi non aveva iniziative politiche da attuare, come Mantova, Parma, la Toscana, si sentirono più sicuri e avvertirono la possibilità, ora che la Spagna era meno sicura di sé, di rimettere in valore la loro amicizia e guadagnare in autonomia. Chi queste iniziative preparava o desiderava, ne trasse conforto ad accelerare i tempi. Così la S. Sede. Gli Spagnoli non potevano più dettare patti a Roma, ora che vi era una Francia cattolica fortemente unita. E si ebbe, con Clemente VIII Aldobrandini, l'incameramento di Ferrara, alla morte del duca Alfonso II senza discendenza maschile (1598). Quanto a Carlo Emanuele, egli proseguì per qualche anno la guerra con la Francia; poi, inferiore di forze, s' indusse alla pace di Lione (1601), cedé le sue terre sul Rodano e la Saona, ritenne quasi tutto il marchesato di Saluzzo. Vantaggiosa per la Francia, questa soluzione. Si era assai attenuata la smania francese di aver dominio in Italia. Rimanevano le aspirazioni al confine alpino, alla libertà di accesso in Italia, al possesso di qualche base di operazioni nella penisola, specialmente nella valle del Po, ad amicizie e clientele italiane, fra i piccoli stati, da tenere svegli contro Spagna e al bisogno coalizzare contro di essa, come fu il programma a cui Enrico IV attese, dopo pacificatosi coi Savoia. La visione di nuovì obiettivi, verso il Reno e i Paesi Bassi, e il consolidarsi dei Savoia ci spiegano questa evoluzione della politica francese. Ma anche Carlo Emanuele I, benché riluttante a quella pace e a quel cambio, ne ebbe vantaggio. Liquidava tutta una serie di questioni. Era più sicuro in casa propria. Poteva riproporsi più vicini e concreti obiettivi. Iniziava una politica di riavvicinamento con la Francia che gli avrebbe dato più libertà nelle cose italiane. Poiché la nuova situazione europea suggeriva al più degli altri governi italiani pensieri e speranze di maggiore pace, rimanendo neutrali fra le due potenze. E anche il duca di Savoia si prevedeva e auspicava dagli altri che seguisse tale politica. Ma Carlo Emanuele ormai capisce che l'antagonismo Francia-casa d'Austria non basta più ad assicurare l'indipendenza degli stati italiani.
Pensiero non di lui solo, in questo tempo. Ma se altri principi, come Ferdinando de' Medici, ne traeva motivo per avvicinarsi all'impero e sollecitare una più attiva partecipazione sua alle cose italiane, per potere controbilanciare gli altri due; Carlo Emanuele, da quella rinnovata vitalità della Francia e dal nuovo antagonismo fra le due case si attendeva maggiori probabilità di movimento, più facili occasioni di avvantaggiarsi. Politica, nelle linee generali, essenzialmente antispagnola: poiché solo essa dopo il riacquisto di Saluzzo, offriva possibilità d'ingrandimento. Perciò fece qualche passo verso Enrico IV, mentre Enrico ne faceva verso di lui: pur nel tempo stesso che al figliuolo il duca raccomandava di bene intendersi con i principi italiani, come i più vicini per ogni pericolo che minacciasse e i più interessati alla conservazione dello stato sabaudo di fronte a potenze straniere. Si doleva perciò del conflitto scoppiato fra Roma e Venezia, in cui vedeva solo il vantaggio di Francia e Spagna; lavorava per legare matrimonialmente la sua casa con Modena e Mantova e Toscana; cercava trarre nel fascio di questi stati Venezia e Genova. Ma le sue direttive e pratiche, verso i principi italiani e verso la Francía, non si contraddicevano, nei segreti pensieri del duca. Per la difesa da Spagna o da altri, si poteva ben contare sulla solidarietà degli altri principi italiani; ma per una guerra offensiva, solo sulla Francia. Quelli, utili per la conservazione, questa, per l'accrescimento dello stato; quelli, per assicurare la pace, questa, per rendere possibile la guerra. Perciò, trattando con Venezia, per vincerne la ritrosia a un'alleanza, insiste sul carattere difensivo dell'accordo, anzi sul bisogno di pace che ha l'Italia. In realtà, l'accordo coi principi italiani era impresa disperata. Lega suonava, al loro orecchio, quasi sinonimo di guerra; lega voleva dire iniziativa e direttiva e superiorità di qualcuno. E questo li adombrava. Sapevano dei grandi pensieri del duca. Temevano il carattere offensivo della lega, la conquista del Milanese. Ma se il Milanese dovevano averlo i Savoia, dice il duca di Mantova al principio del '609, "egli e li altri principi d'Italia sarebbero stati tutti uniti con Spagna, come quelli che vogliono eguale e non superiore". Se mai, sarebbe bisognato che anche il papa entrasse nella lega e avesse il Milanese per suo nipote. Tanto più, quindi, Carlo Emanuele stimò conveniente allearsi lui col re di Francia. E si ebbe il trattato di Bruzolo (24 aprile 1610) che fu di alleanza offensiva e difensiva: azione sul Milanese, da cedere poi al duca, che avrebbe in tal modo ceduto la Savoia. In questo trattato presero forma concreta quelle tendenze della politica francese verso l'Italia che da Francesco I si venivano elaborando: quella forma, che, con pochi mutamenti, è rimasta fino al 1859. L'inizio dell'impresa era fissato per il maggio; a metà maggio, Enrico IV cadeva ucciso.
La morte del re diede a qualcuno in Italia motivo di tranquillità, come se fosse assicurata la pace e si togliesse al duca di Savoia un'occasione di pescar nel torbido. Ad altri diede motivo di turbamento: potevano essersi compromessi con la Francia; avere dato pretesto ai governatori spagnoli di appesantire la loro mano, e compiere altre prepotenze. Realmente, gli Spagnoli vedevano all'orizzonte qualche segno di tempesta e prendevano le loro precauzioni. Il conte di Fuentes, che governava il Milanese, si era impadronito nel 1602 del marchesato di Finale; aveva rivendicato alla Spagna Novara; aveva preso in protezione il principato di Monaco, e lì, come a Portolongone, a Piombino, allo sbocco della Valtellina, altrove, costruito fortezze. Tanto che anche l'impero, da cui non solo Spagna teneva il Milanese, ma anche dipendevano parecchi di quei piccoli signori feudali, che ora Spagna teneva nella sua tutela, aveva motivo di malcontento. Ancor più gli stati italiani indipendenti: specialmente Venezia. C'è una corrente antispagnola che tende a crescere. E non perché sia francofila. Si guarda tutta la storia italiana dell'ultimo secolo e se ne ricava l'esperienza che chiamare uno straniero per cacciare un altro è sostituire un padrone a un altro. Solo la concorde unione dei principi e popoli di tutta Italia può dare rimedio. Francia e Spagna sono messe sopra un medesimo piano. Ambedue sono "stranieri". Un dominio straniero, solo perché tale, è portato a rovinare i suoi sudditi. L'avversione a governi stranieri sta diventando motivato amore per l'indipendenza.
L'iniziativa sabauda al tempo di Carlo Emanuele I. - Questa situazione di Spagna in Italia al principio del '600 e questo atteggiamento di opinioni dànno luce all'ardita politica d'iniziative del duca Carlo Emanuele. La morte di Enrico IV contrariò in un primo momento i piani del duca. Egli si vide in gran pericolo. Si era alienata la Spagna, e non poteva più contare sulla Francia. Qui, Maria de' Medici, più disposta verso Spagna che verso il duca. Privo di ogni punto d'appoggio, pensò all'Inghilterra, gran nemica di Spagna e già legata ai Savoia. Ora, dopo che per oltre un secolo i Savoia erano caduti nell'orbita francese, quei legami ricompaiono. "Quel re mi aiuta e non vuole la mia oppressione ma la mia libertà", dice Carlo Emanuele all'ambasciatore veneziano. Inizî di politica che si svolgerà e darà frutto con Carlo Emanuele II e Vittorio Amedeo II e poi nel 1860. Ma ecco che morti poco dopo Vincenzo I e Francesco II Gonzaga, Carlo Emanuele invase il Monferrato e l'occupò in nome della piccola Maria nata dalle nozze di una sua figliola con Francesco Gonzaga. Ebbe contrarî Spagnoli e Francesi uniti insieme e spalleggiati dall'imperatore e da quasi tutti i governi italiani: Toscana, Farnese, Lucca, oltre che il card. Ferdinando Gonzaga fratello di Vincenzo, messosi ora alla testa dello stato. Contro lui, come disturbatore della pace, vi fu anche chi vagheggiò una lega difensiva fra Roma, Firenze, Mantova e Venezia. Al che qualche voce rispondeva che la pace non era poi sempre questo gran bene; che vi è pace e pace, la pace desiderabile di chi comanda e la pace indesiderabile di chi soggiace; che l'assalto al Monferrato poteva anche non essere opportuno ma pur sempre rappresentare "un principio di rivoluzione nelle cose italiane, sommamente auspicabile". Così Alessandro Tassoni. Il duca, forse più valente guerriero che diplomatico, se pure quella vittoria poteva essere data dalla diplomazia, dovette pochi mesi dopo rendere le terre occupate (accordo di Milano, 18 giugno 1613). Ma all'intimazione di disarmare entro sei dì, rispose rimandando il Toson d'Oro al re e preparandosi alla guerra, che realmente si accese fra lui e gli Spagnoli.
Era una guerta offensiva e conquistatrice, in realtà; ma si presentava anche ed era difensiva e di conservazione: combattuta poi senza intervento di stranieri alleati. Si poteva anche prospettare il Milanese, secondo l'idea assai diffusa, come centro, chiave, quasi condizione della monarchia spagnola. Caduta quella, la monarchia sarebbe caduta. Quindi perfetta coincidenza fra interesse suo e interessi italiani. E il duca tornò al pensiero di una solidarietà dei principi italiani con lui e si fece banditore di una guerra per l'Italia. Rivolse appello a principi e cavalieri e popoli d'Italia. I quali non risposero all'appello. Quasi tutti avevano impegni come di vassallaggio verso Spagna e temevano un ingrandimento dei Savoia o d'altro principe italiano non meno di ogni ingrandimento spagnuolo. Perciò Medici, Lucca, Parma, Urbino mandarono uomini e denari alla guerra contro il duca. "L'Italia studiava di vincersi da sé stessa", commentava Battista Nani, storico veneziano. Ma parteggiò per lui il duca di Modena, suo parente. E poi Venezia. Anche Venezia è in brighe gravi con gli Asburgo. La Spagna preme la repubblica dal Milanese e occupa il regno che domina l'accesso dell'Adriatico; sulla frontiera alpina e l'Isonzo, si accampano l'impero e gli stati austriaci, tradizionalmente ostili, per i diritti che quello accampava sulle città dello stato veneto e per la tendenza di allargarsi nell'Istria e Friuli, di accrescere gli sbocchi sul mare, di togliere a Venezia l'esercizio della primazia o esclusivo diritto di giurisdizione sull'Adriatico. Questo diritto la repubblica esercitava di fatto e affermava di diritto, come sopra un territorio proprio, non concessole da nessuno, non usurpato a nessuno, ma raccolto naturalmente dopo la decadenza dell'impero greco e custodito, difeso, con sangue e denaro. Così essa più volte, nella seconda metà del '500, ebbe a difendere, diplomaticamente, questo suo diritto di fronte all'impero e agli arciduchi che lo infirmavano teoricamente e si adoperavano a turbarlo praticamente, giovandosi degli Uscocchi, grossi nuclei slavi fuggiaschi davanti ai Turchi e trasferitisi o trasferiti dall'imperatore sull'Adriatico, sulla costa dalmatica e croata. Insomma, crescente inasprirsi dei rapporti di Venezia con l'impero e, direttamente o indirettamente, con la Spagna. La stessa costruzione della fortezza di Palmanova, alla quale Clemente VIII augurò fosse propugnacolo d'Italia, fu oggetto di rimostranze austro-spagnole. Il rinato antagonismo con la Francia portava Asburgo austriaci e spagnoli a unirsi più strettamente, rompendo, se era possibile, l'interposto diaframma veneto.
Perciò fu facile ristabilire fra i Savoia e Venezia l'antica armonia che pure era stata turbata per un momento dall'invasione del Monferrato. Ma poco il duca poté avere da principio, oltre le buone parole e i tentativi veneziani di mediazione tra Spagna e duca, non ostante che Carlo Emanuele prospettasse le favorevoli circostanze d'Italia, la diffusa avversione al dominio spagnolo, l'amicizia inglese per lui, la forza del proprio esercito. Bisogna osare e volere, diceva. "Nelle imprese si vuole prima il volere e poi il potere". Chi vuole può. Si muoverà egli per primo e occuperà piazze milanesi; è pago che i Veneziani seguano. E mossici noi, gli altri seguiranno... Ma Venezia temeva "di riporre la quiete propria e comune in groppa al suo ardentissimo genio..." Così combatté per conto suo la sua guerra: guerra svoltasi nel basso Friuli, nella valle dell'Isonzo, davanti a Gorizia e Gradisca, che fu vanamente bombardata per un mese dai Veneziani, e su fino a Pontebba e Tarvisio; guerra di minute e non risolutive fazioni, ma che, iniziata proclamando di voler essere custode d'Italia e vindice della sua libertà combattuta contro quel nemico, in quelle posizioni, per quegli scopi di difesa di un confine che non era solo di due stati ma di due stirpi e civiltà, con la coscienza di questo suo valore, si può chiamare, in un certo senso, guerra "italiana", anticipazione di eguale guerra che tutta la nazione italiana poi combatterà. E per conto suo combatté il duca Carlo Emanuele, pure con poco successo. Gli Spagnoli irruppero nel Piemonte, dirigendosi su Vercelli. Ma egli, puntando su Novara, li costrinse a retrocedere, quasi esitando, tuttavia, egli fino a ieri alunno di Spagna, davanti a un'azione veramente offensiva. Dovette poi accorrere alla difesa di Asti, investita dagli Spagnoli venuti alla riscossa. E fu difesa valorosa.
Ma, intanto, mediatori, negoziati, conclusione di un accordo ad Asti (22 giugno 1615) piuttosto vantaggioso per lui, pur conchiuso con la speranza che a Madrid non l'approvassero, e allora i mediatori, compresa Venezia, si sarebbero schierati dalla sua parte. Come realmente avvenne. E allora la guerra riarse, nel 1616, anche per volontà del nuovo e battagliero governatore di Milano don Pietro di Toledo. Ma questa volta, con più stretta solidarietà ira Piemonte e Venezia. Il senato veneziano diede grossi sussidî finanziarî. Si poterono assoldare Francesi che vennero col Lesdiguières. Altri aiuti diede il re d'Inghilterra. Col grande navigatore inglese Gualtiero Raleigh, il duca combinò anche un colpo di sorpresa su Genova. E il Raleigh si riteneva sicuro di poterla pigliare anche con la forza, se la sorpresa fosse mancata. Ma il re inglese, o che in ultimo non si sentisse di romperla con Spagna o, come pare, non si accordasse col Raleigh, per la giusta spartizione della pelle dell'orso, negò il consenso e mandò l'avventuroso navigatore a conquistare la Guiana. Certo, mancò anche questa volta grande risolutezza offensiva da parte del duca: sia ciò dipeso dalla maggiore energia del Toledo che assediò Vercelli, o dalla preoccupazione di non eccitarsi contro ancora di più i governi italiani con una guerra risolutamente di conquista, o dalla scarsa coordinazione militare fra i Savoia e Venezia. Ce ne fu, vera collaborazione militare, più da parte austro-ispana: punte offensive del Toledo sul territorio veneziano; partecipazione del duca d'Ossuna viceré di Napoli alla guerra di Gradisca; raduno di mercenarî e navi a Napoli e Brindisi e operazioni navali nell'Adriatico, fronteggiate fiaccamente dai capitani veneziani, per cui gli altri poterono proclamare vittoria. E tuttavia terre di Lombardia furono occupate dai Piemontesi e parve un momento si dovesse marciare su Milano. Dalla Toscana, cessarono i contributi medicei al governatore spagnolo. In Italia, fra gli avversarî di Spagna, fra 1616 e '17, ottimismo, fiducia, incitamento al duca d'inviare una flotta a ribellare Napoli, incitamento a Venezia a non attardarsi nel Friuli, incitamento al papa e agli altri principi di unirsi. "Su su Italiani, su principi, su popolo, all'armi, all'armi, alla difesa, alla difesa d'Italia, della nostra patria. Unione, unione; lega, lega difensiva e offensiva... !".
La realtà non rispose. Le azioni risolutive non vennero. La sutura fra i due alleati non si ebbe, quando nell'autunno 1617 si posarono le armi. Piccoli furono i guadagni territoriali di Savoia. Ma ve ne furono d'altra natura: una grande risonanza del nome suo e del casato, una quasi popolarità per tutta la penisola, che è fatto assai significativo ed espressivo della condizione di spirito degli Italiani. Fra gli stati indipendenti e anche fra le popolazioni soggette, manifestazioni d'interessamento o anche di opposizione, per il piccolo signore che affrontava il colosso e riusciva a trattare da pari con il potente monarca. Augurî di vittoria si levarono, vi furono desiderî di seguire quella bandiera, si acclamò per le vie il nome del principe. In Carlo Emanuele si vide e lodò il principe guerriero, cioè il vero principe, quello che nel capeggiare il popolo in armi trova il maggiore titolo di lode e quasi la sua ragion d'essere. Si vide l'opinione dell'invincibilità di Spagna morta per merito suo. L'atto di ribellione a Spagna fu salutato e vantato come rivendicazione dell'onore italiano, documento di valore italiano. Carlo Emanuele, con la difesa di Asti, "aveva giovato per tutti i secoli a tutta Italia", disse a Roma l'oratore veneziano a quello del duca di Savoia. Si augurò a lui di divenire un giorno "il redentore della sua franchezza" e il restauratore della sua grandezza. E in quel discutere di Spagna e Francia e Italia e "libertà d'Italia", e in quel cercare di configurarsi quel che sarebbe potuto essere l'assetto della penisola, quando questa si fosse liberata dagli stranieri, qualcuno, pensando a uno stato unitario, scrisse: "se s'avesse da dar il principato d'Italia a un solo, chi dubita che toccherebbe al signor duca di Savoia?".
Seguirono altre guerre di Carlo Emanuele. Scoppiata la guerra dei Trent'anni, egli pensò subito a soccorrere i Boemi. E in questo senso, svolse trattative diplomatiche; concepì una vasta cooperazione con Olanda e Venezia e Francia e Inghilterra; tramò per abbattere il De Luynes, ministro di Francia, contrario a questi disegni; s'intese con Venezia e riuscì finalmente, dopo il "sacro macello" e l'occupazione spagnola della Valtellina, grande strada alpina utile a congiungere Asburgo austriaci e Asburgo spagnoli, a intendersi con Luigi XIII e con Richelieu, col quale, nel 1624, la politica francese riacquistò energia nei rapporti di Spagna. Obiettivi varî e non tutti conciliabili erano davanti ai suoi occhi: Milanese, Genova, Monferrato, Ginevra, Bugey, Gex e altri territorî francesi. E fu guerra combattuta dalle Alpi al mare di Liguria, con una spedizione franco-piemontese su Genova, caposaldo spagnolo in Italia, militarmente e finanziariamente, che avrebbe dovuto essere fiancheggiata da una spedizione navale sotto il duca di Guisa; e con un'invasione spagnola in Piemonte, che fu respinta grazie specialmente alla valorosa resistenza della piccola fortezza di Verrua, ma che distolse le forze franco-piemontesi dall'obiettivo di Genova, e, insieme con la mancata cooperazione navale, concorse al fallimento di quell'impresa. Fino a che, nel 1626, all'insaputa di Savoia e Venezia, Francesi e Spagnoli si accordarono. Si riaprì poco dopo, con la morte di Ferdinando e di Vincenzo II Gonzaga, la questione del Monferrato. Era ormai una questione europea; anzi, dopo la ripresa francese, era uno dei nodi della grande contesa fra Borboni e Asburgo. Opinione corrente, che il possesso del Milanese fosse condizione di superiorità in Italia e in Europa per chi lo possedesse: ma il Milanese, ora che lo stato sabaudo era in forze, si poteva conservare o con l'alleanza dei Savoia o con il possesso del Monferrato. Qualche decennio prima, era stata costruita dai Gonzaga, con spesa che sarebbe stata ingentissima anche per paesi come Francia e Spagna, la grande fortezza di Casale. Ma si era detto da taluno, anche vicino al principe: a che cosa questa grande fortezza servirà? Le grandi fortezze sono utili ai forti; ai piccoli portano piuttosto danno, perché svegliano le cupidige dei maggiori, esigono la loro collaborazione per la difesa, portano più servitù che libertà.
Accadde quel che i pessimisti temevano e prevedevano. Il regno di Francia, che già teneva gli occhi sul Monferrato, più ve li tenne, dopo la costruzione di quella fortezza, come li teneva sulla fortezza di Pinerolo: quella vestibolo, questa porta del Milanese e dell'Italia. Vi era in Francia una famiglia Gonzaga, discendente da un fratello di Federico primo duca, che si era stabilito lì, ammogliato lì con l'ereditiera del ducato di Nevers. Ora vigila sulle cose di Francia Richelieu. E accade che, trovandosi Vincenzo Gonzaga in punto di morte, 24 dicembre 1627, la giovane Maria, nata dalle nozze Gonzaga-Savoia, è tratta di convento e sposata segretamente al giovane figlio di Carlo di Nevers. E i Gonzaga-Nevers entrano nel possesso del Monferrato e di Mantova.
Allora, il duca Carlo Emanuele, tradito dall'alleato francese nel '26; insidiato sempre dalla Francia, anche nelle sue aspirazioni sul Monferrato, concordò col governatore spagnolo di Milano la spartizione di quel paese (dic. 1627). Casale sarebbe spettato alla Spagna, ma il duca poi confidava di riuscire a impedirgliene il possesso. Nel marzo '28, truppe sabaude e spagnole irruppero. Gli Spagnoli puntarono su Casale. Monferrini e Casalesi si difesero bravamente. Molte terre e fortezze caddero, ma resistette Casale. Reagì la Francia e, nell'inverno 1628-29, Luigi XIII, sollecitato anche da Urbano VIII, invocato come difensore della "libertà d'Italia", valicò le Alpi contro Savoia e Asburgo, forzando le chiuse di Susa, e il 6 marzo costringeva il duca al patto di Susa. Con esso, Carlo Emanuele otteneva qualche terra del Monferrato, ma s'impegnava di unirsi al re, gli lasciava in pegno Susa, accordava la liberazione di Casale dall'assedio. Era un ritorno all'alleanza francese. E nell'aprile, anche Venezia, di fronte al blocco Austria-Spagna, si alleava al re. Ma, partito il re, Carlo Emanuele tornava agli Spagnoli. Di nuovo i Francesi, col Richelieu, invadono la Savoia, scendono in Piemonte, mandano aiuti a Casale. La quale nel frattempo subiva un secondo assedio. Dove era fallito Gonzalo di Cordova, si cimentò Ambrogio Spinola. Ma anch'egli logorò soldati e riputazione attorno a Casale, vi si accorò e vi morì. Viceversa, dall'altra frontiera alpina, mal difesa dai Veneziani, irrompeva un esercito d'imperiali comandato da Rambaldo di Collalto, che, entrato a Mantova il 18 luglio '30, la saccheggiava. Moriva in quei giorni Carlo Emanuele, stanco, amareggiato, con lo spettacolo del Piemonte nuovamente devastato dalle guerre. Seguirono tregue e il trattato di Cherasco: diviso il Monferrato tra Gonzaga e Savoia; ma i Francesi ebbero Pinerolo, tennero guarnigione nella fortezza di Casale e in altre piazze del Monferrato, cioè ricinsero come d'assedio il duca di Savoia e lo separarono dal Milanese.
Principio di nuova eclissi dello stato sabaudo: ma adesso, alcune vie sono tracciate, alcuni capisaldi sono costruiti. Vi è uno stato di buona consistenza politica e militare, organicamente e costituzionalmente solido, non per accidente e circostanze esterne e mutevoli. Vi è forza di popolo, legami tra il principe e i sudditi. Altrove, vengono cadendo, sono cadute le buone attitudini alla milizia e lo spirito battagliero della nobiltà: qui, sono stati educati e adoperati. Saldo punto d'appoggio, dentro. E verso di fuori, una politica lungimirante, che comincia a maneggiare parecchie pedine e cerca solidarietà anche lontane, fuori del cerchio obbligato Francia-Spagna, Borbone-Asburgo: cioè Inghilterra e anche, nel 1622-23, Olanda e Danimarca. La riputazione del duca come avversario di casa d'Austria, è tale che nel 1618, dopo la defenestrazione di Praga, i ribelli in cerca di un re si volsero anche a lui. E poi, si è cominciato a tessere una tenue trama con la penisola, con gl'Italiani, che vedono lassù ai piedi delle Alpi qualcosa che in Italia non era mai stata: una monarchia non nata dalla conquista e poggiante sulla conquista, non collegata con possessi ultramontani e corone imperiali, non di malferme basi giuridiche e militarmente affidata a volatili eserciti mercenarî, non vassalla della S. Sede, ma organicamente legata con un popolo, tutta limitata entro una provincia italiana, giuridicamente quasi perfetta, militarmente forte di forza propria. Cioè gli elementi della vita italiana si erano arricchiti. L'Italia aveva, nel regno di Napoli, la tradizione della resistenza statale alla chiesa; in Firenze, l'officina grandissima della cultura e dell'arte nazionali, in Venezia, l'attività levantina e la politica non solo italiana ma europea. Aveva Roma, cioè la Roma classica ridiventata cosa viva nel Rinascimento, e la Roma papale che nel '500 aveva assolto anche un certo compito "nazionale", oltre quello di aprire nuove porte nel mondo all'attività degl'Italiani. Ora, appare uno stato bene attrezzato per i nuovi tempi, moralmente intonato ai tempi. I suoi legami maggiori sono con quella parte dell'Europa che è in sul crescere, Francia e paesi del nord-ovest. Questo stato non ha primati intellettuali o economici. Anzi, da questo punto di vista, è arretrato. Né per questo da molte parti d'Italia si guarda al P1emonte. Ma ha un primato politico. L'equilibrio in cui la vita italiana si era arenata senza più forza d'impulso nel sec. XV e senza capacità di resistenza a Francia e Spagna, sta per finire. Quindi, da questo punto di vista, si delinea il fallimento di uno dei capisaldi del programma spagnolo in Italia.
Ancora tra Francia e Spagna. - Insomma, una ripresa di agitazioni e guerre nella penisola, in seguito tanto al risorgere politico della Francia e alle nuove lotte Borboni-Asburgo, che trovano anche ora in Italia uno dei loro campi, quanto alla formazione di un valido stato subalpino, che cerca nella partecipazione attiva a quelle lotte la sua difesa e il suo ingrandimento. Possiamo anche dire: una ripresa, a distanza di un secolo, dello sforzo degli stati italiani contro la Spagna, condotto, questa volta, dai Savoia con qualche cooperazione di Venezia, qualche morale favore e solidarietà di popolo italiano, e risoltosi, a differenza di un secolo innanzi, con un successo dei Francesi.
Francia e Savoia: quella stimolò e anche aiutò questa nell'iniziar la sua politica di energiche iniziative antispagnole; ma questa, anche, concorse a che la Francia riguadagnasse terreno di qua dalle Alpi, pur dopo che le aveva tolto la base di Saluzzo, e dal Piemonte iniziasse il suo nuovo sforzo di penetrazione nella penisola. Era, fra esse, un misto di solidarietà e di contrasto. Quindi, data la disparità delle forze loro, dato anche il crescente indebolirsi delle posizioni spagnole in Italia, solidarietà pericolosa, che poteva risolversi per i Savoia e per tutta la penisola in una servitù nuova al posto dell'antica, specialmente quando quel principato non fosse tenuto da una mano robusta e si rallentasse il ritmo dell'organizzazione interna. Si vide già con i due trattati segreti di Cherasco, 1631: alleanza tra il re e il duca in caso di guerra in Italia, e comando supremo degli eserciti affidato a quest'ultimo; ripartizione delle conquiste in ragione di un terzo a Savoia e due terzi a Francia; restituzione di Pinerolo al re, in cambio di terre del Monferrato. Luigi XIII dichiarava apertamente che si voleva garantire il passaggio per l'Italia, "per procurarvi la pace e dare assistenza ai suoi alleati". I quali alleati erano, oltre i Savoia, i Gonzaga-Nevers. Ma la diplomazia francese lavora attivissimamente per allargare il cerchio delle amicizie e clientele, includendovi l'ambizioso duca di Parma e quello di Modena, ricondurre Venezia alla vecchia alleanza, coltivare le simpatie che ha a Roma e gli spiriti antiasburgici di papa Urbano VIII, da cui nel 1629 le son venute calde sollecitazioni a valicare le Alpi per soccorrere Casale e tener testa agli Spagnoli alleati con Carlo Emanuele nella spartizione del Monferrato. Sono tutti principi e governi che hanno vecchie tendenze antiasburgiche o si agitano e si arrabattano nella loro piccolezza, o per arraffare un pezzo di Milanese o per ricuperare Ferrara, che è l'"idea fissa" del duca di Modena. Ma la Francia vuole cacciare gli Spagnoli dall'Italia e vincere su questo scacchiere, come su quello di Germania, la sua grande battaglia con gli Asburgo e togliere loro Paesi Bassi e possessi italiani. Nel 1633, Vittorio Amedeo I, irritato contro Francia, pensa e propone al papa una lega italiana. L'anno appresso, alla vigilia della ripresa della guerra, nuova proposta a Roma, in questo senso, anche da parte del granduca di Toscana. E questa volta, il papa non pareva contrario; non contrarî i duchi di Modena e Parma. Si confidava anche nell'assenso di Venezia. La lega doveva rappresentare l'interesse dei principi italiani, a difesa contro chicchessia, Francia o Spagna. Ma la Spagna s'intromise a Roma e tutto fallì.
Grande disorientamento e complicazioni portò questa nuova presenza di Francia nelle cose d'Italia. Grande incertezza e varietà, se non di propositi, d'idee su ciò che convenisse fare. Nel 1635, diede esca all'intrigo diplomatico anche una congiura a Napoli per cacciare la Spagna con l'aiuto di Francia. La corte di Torino si interessò di quel che accadeva in quel regno. Il cardinale Maurizio, mandato a Roma, maneggiò alcune fila. Non estranei i Barberini. La Francia, naturalmente, non mancava. Se l'impresa riusciva, Vittorio Amedeo I di Savoia avrebbe avuto Napoli; Maurizio suo fratello il Piemonte; Mantova e Parma, il Milanese; casa Barberini uno stato nel Napoletano. Poiché si sa che Urbano VIII inseriva, entro la sua politica rivolta a combattere una monarchia universale, aspirazioni nepotistiche. Insomma, cose grosse. Solo che, anche questa volta, rimasero allo stato di progetto e intrigo diplomatico. Solo il re e i ministri di Francia riuscivano intanto a conchiudere qualcosa, per obiettivi più vicini e precisi; non ad attrarre Modena, che anzi si collegò con la Spagna; non il papa, come capo dei fedeli; non i Medici, premuti dai Presidî; ma sì Savoia, Parma, Mantova.
Nel 1635, trattato di Rivoli, che prospettava la conquista, sotto l'alto comando del duca, e la spartizione del Milanese tra Francia e Savoia. E cominciò la guerra la quale tuttavia il Créqui, generale francese, ruppe di sua iniziativa senza attendere gli ordini del Savoia. Egli volse poi su Valenza che era chiave delle comunicazioni tra Genova e Milano, invece che su Novara e Milano, come era nel programma del duca. Tuttavia, riuscito vano il tentativo di Valenza, l'esercito passò il Ticino, vinse a Tornavento e, per opera precipua di Vittorio Amedeo, a Mombaldone. La morte del duca, come non pose fine alla guerra di Lombardia, così non al progettare e complottare, sebbene Maurizio e Tommaso si voltassero alla Spagna contro la nuova servitù francese. Grande centro, pro o contro Francia, pro o contro Spagna, è Roma. Morto nel 1642 Richelieu, governa la Francia, ora, il Mazzarino, il cui compito, agli occhi del ministro che lo ha tirato su al grande ufficio, è probabilmente proprio questo: guadagnare, lui italiano, gl'Italiani, distruggere le loro prevenzioni antifrancesi, aprire alla Francia tutte le porte dell'Italia.
Ma il Mazzarino non metteva grande impegno in queste campagne italiane. Sono un diversivo, servono a procurare qualche alleato, a creare imbarazzi alla Spagna. E poi né egli si fida dei principi italiani, né essi di lui e della Francia. Tutti, per motivi diversi, erano infidi. Quindi, poche forze militari francesi; assoluta impreparazione militare degli alleati italiani e di tutti i principi italiani, dimostrata anche dalla minuscola ma rumorosa guerra di Castro, tra il Farnese e papa Urbano VIII (1641-1643). I loro soldati proprî erano poca cosa; sempre più difficile ingaggiare mercenarî, sempre più infide e indisciplinate queste milizie condotte a prezzo. Ora si ebbero nell'Italia settentrionale successi e insuccessi da una parte e dall'altra. Anche gli Spagnoli poterono mettere piede in Vercelli.
La Spagna possedeva ancora certa forza di resistenza, data dall'organizzazione difensiva del Milanese. Aveva, poi, in questo suo dominio, sudditi più o meno soddisfatti ma non ribelli. E nel resto della penisola, essa poteva contare su molta gente interessata a sostenerla perché troppi denari aveva dati a credito a quei monarchi o aveva investiti in imprese varie nei loro paesi, troppe pensioni e stipendî arretrati aveva da riscuotere. Attaccati a Spagna, infine, erano tutti quelli che non volevano disordini e alee di guerra. La forza maggiore di quel dominio, in Italia, era proprio in questo suo rappresentare la pace, contro velleità tanto di principi italiani quanto di principi stranieri. Laddove la Francia voleva dire la guerra. Essa era l'elemento rivoluzionario, di fronte all'ordine di cose stabilito in Italia. Chi voleva innovare in Italia si appoggiava alla Francia. Così il principe Tommaso, dopo passato alla parte di Spagna, ritorna a Francia ed è messo a capo dei Francesi in Italia eventualmente anche per guidare una flotta contro il regno, notoriamente malcontento, inquieto, gravatissimo. Si conta su Urbano e i Barberini, sulle discordie fra S. Sede e la Spagna. Nel 1644 muore Urbano; a Napoli qualche complice è arrestato; il nuovo papa Innocenzo X Pamfili inclina alla Spagna: e tuttavia il lavorio seguita. Agenti segreti francesi stanno in contatto coi cardinali francofili a Roma. Famiglie baronali romane che hanno feudi nel Mezzogiorno, fonte prima di tutti i torbidi del regno, sono tramite fra Roma e Napoli. Da queste conventicole di romani, napoletani, francesi, savoiardi, esce un memorandum che il cardinale Grimaldi protettore di Francia manda in Francia: il regno vuole scuotere il giogo spagnolo, ma non ne vuole uno di Francesi. Nel paese, ove tutte le grandi famiglie sono rivali, non si può scegliere un principe. Bisogna trovarlo fuori. L'impresa è facile. Le fortezze sono mal ridotte, la Spagna non ha gente da mandare. Insomma, è l'idea e aspirazione più diffusa: non cambiare padrone. I dominî spagnoli in Italia sistemarli con dinastie autonome o ad ingrandimento di stati italiani. La letteratura spicciola del tempo, di argomento politico, risuona continuamente di questa voce. Ed ecco il momento di Tommaso che accetta le proposte di Anna d'Austria regina di Francia: avrà quella corona, solo dando alla Francia il porto di Gaeta e un porto adriatico: se diverrà anche duca di Piemonte, darà alla Francia la Savoia e Nizza. La flotta francese col duca punta sui Presidî, prende Talamone, ma fallisce davanti a Orbetello. Si perde tempo, sorgono i primi dissidî, milizie e flotta franco-piemontese sono battute dai rinforzi spagnoli. Nel '46 la flotta è rifatta, ma questa volta sotto il maresciallo di Milleraye; e occupa Piombino e Portolongone.
Gran lavoro, in questo tempo, a comporre e ricomporre in modo nuovo la scacchiera politica italiana, sulla base di volontà o ambizioni o velleità o interessi di principi e loro diplomatici e agenti: ma lavoro a vuoto. Tutte le combinazioni erano possibili o, meglio, potevano venire in mente e formare oggetto di discorsi, intrighi, piani, trattati. Mancava un'opinione pubblica, cioè un interesse collettivo che si manifestasse con sue proprie voci e desse concretezza ai piani dei diplomatici. Abbondavano tuttavia discussioni e polemiche per le stampe. Le quali anzi si riaccesero con la guerra. E chi sta per Francia o Spagna, ma come il meno peggio; chi per un' Italia che non sia né francese né spagnola ma degl'Italiani e dichiara che il momento sarebbe buono tanto per liberarsi da Spagna quanto per impedire che la Francia ne prenda il posto. Bisognerebbe agire. Come? Gli anni precedenti molti occhi si erano volti ai Savoia. Ma ora i Savoia sono in crisi. Il pensiero va perciò piuttosto a un accordo fra i governi, a una lega o addirittura a una federazione: lega o federazione che potrà anche agire d'accordo con la Francia, ma avere il fine della conservazione della libertà e indipendenza. Così gli scrittori. Ché viceversa il mondo dei politici, mancasse possibilità o volontà di vincere gli antagonismi, le gelosie, i particolarismi delle dinastie e dei ceti e gruppi, andava per tutt'altra strada. Il pericolo o male maggiore si seguitava a vedere, come nel '400 e '500, più nel possibile crescere di un principe italiano sopra gli altri che non nel conservarsi di Spagna o nel sottentrare di Francia a Spagna. E per evitare questo pericolo o sfogare rancori contro i principi italiani, sì, era possibile che una lega si conchiudesse. Come si vide con la lega di Parma, Modena, Venezia, Toscana, cioè di quasi tutta l'Italia indipendente, contro papa Urbano VIII per la guerra di Castro: lega d'Italia o per la pace d' Italia, che, del resto, si sciolse subito anch'essa. L'Italia si formerà per altre vie, per sintesi di elementi ideali innanzi tutto e non per somma d'interessi dinastici. Era tuttavia l'Italia un riconoscimento implicito degli stati italiani, "tutti assieme come un corpo, i membri del quale hanno consenso l'uno con l'altro", come scrive nel 1649 l'oratore veneziano Piero Basadonna riferendosi all'opinione degli Spagnoli. I quali non erano paghi di sentirsi sicuri di fronte a ognuno di quegli stati di per sé, ma volevano sentirsi sicuri di fronte al tutto. Quindi, una vera e propria politica italiana, dei governi spagnoli, cui non manca una sua unità.
RANDE LETT-I-J 32esimo 41
Decadenza e progresso della vita italiana nel '600.
Il punto morto della vita italiana. - Siamo in un punto morto, nella storia degli stati italiani, come un fiume che a mezzo corso ristagni. È logora la monarchia spagnola come grande impero mondiale e come potenza italiana, nonostante i puntelli che ancora aveva in Italia. Chi in Italia aborriva dalle guerre, chi vedeva nel gran re essenzialmente il re cattolico, baluardo della religione, stava per la conservazione della Spagna. I minuscoli stati superstiti che si sentivano minacciati dai più grandi, gli oppositori dei Savoia, facevano affidamento sulla Spagna. La nobiltà, in generale, spagnolizzava. Anche le plebi napoletane e siciliane invocavano la protezione del lontano re, sulle cui terre non tramontava mai il sole. Chi temeva i Francesi, per la "volubilità, insaziabilità, leggerezza di quella nazione", come diceva il papa stesso Urbano VIII che pure coi Francesi solidarizzò contro gli Asburgo, se ne stava attaccato agli Spagnoli. Anzi, la rinata invadenza francese nella prima metà del secolo, fece rinverdire qualche fronda della corona spagnola in Italia: la stessa Venezia si ravvicinò ad essa, dopo il '30. Ma erano appoggi statici questi, senza sviluppo e senza domani. Erano vecchi interessi di conservazione, erano aspirazioni al quieta non movere. In ogni modo, non forza propria di Spagna. Questo declinare di Spagna, come risorse militari e finanziarie, come prestigio e credito, non sfuggiva affatto agl'Italiani contemporanei, che ne traevano timori o speranze. Le guerre del Piemonte l'avevano, anche senza grandi sconfitte e perdite, ferita a fondo. La gran macchina spagnola si veniva deteriorando, la sproporzione fra le risorse finanziarie che diminuivano, e la grande politica a cui la Spagna si sentiva obbligata dalle sue tradizioni di potenza e di prestigio, si risolvevano in crescente fiscalismo e sfruttamento dei sudditi, senza il corrispettivo di utili funzioni. Insomma, quel governo si era fatto un cattivo governo, oppressivo e, insieme, accidioso e impotente.
Come Spagna, erano variamente in crisi gli stati indipendenti della penisola. Né solo i piccoli stati della valle del Po, quello farnesiano di Parma e Piacenza, quello estense di Modena, quello gonzaghesco di Mantova e Monferrato, viventi ogni giorno più di vita anacronistica, nel cozzo di grossi stati, essi minuscoli stati, senza armi proprie, ormai senza denari per assoldarne, senza autorità per servirsi bene dei mercenarî, senza fini concreti su cui veramente puntare. Né solo, dico, i piccoli stati; ma anche i relativamente grandi. Batteva il passo il ducato di Piemonte, retto da una donna, lacerato da discordie dinastiche e da guerra civile, padroneggiato dai Francesi quasi come un secolo prima, arrestatosi sulla via dei progressi civili e della riputazione italiana su cui l'avevano messo Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele. Meglio e peggio la repubblica di Venezia. Difende sì con le unghie e coi denti i suoi ultimi possessi di Levante; dà prova, in questa difesa, di energia, orgoglio, patriottismo e vigore militare. E si sa come, nella lunga guerra di Candia, i suoi ammiragli ritrovassero il vecchio spirito aggressivo fin quasi davanti a Costantinopoli. Tuttavia, questa attività si manteneva con crescente sforzo e inadeguatezza ai fini cui mirava: quindi poco meno che sterile. Tutta Europa cominciava ad affacciarsi su quei mari e veniva a mancare la ragione del conservare quei lontani possessi, nati e cresciuti ai fini del commercio e della navigazione. In ogni modo, affaticata in Oriente, Venezia non riusciva più a seguire le vicende della penisola, a conservare un certo controllo degli eventi che erano decisivi per la valle del Po e per i suoi stati stessi di terraferma: in un momento in cui decadeva, sì, la Spagna, ma si riaffacciava con proprî fini l'Asburgo austriaco.
Peggio è per il granducato di Toscana che con Francesco I già ha perduto non poco di quel che aveva guadagnato con Cosimo I, e con Cosimo II quel che aveva un po' riguadagnato con l'energico Ferdinando I. Ferdinando II (1626-70) cercò di rimettere un po' d'ordine: ma vendette le navi da guerra al re di Francia e annullò la marina, cioè ogni possibilità di fare una qualche politica nel Mediterraneo. Peggio con lo Stato della Chiesa, che ha, sì, incamerato Ferrara e poi Urbino, ma ogni giorno vede aggravarsi le sue tare organiche, per il suo carattere di mero strumento o d'interessi familiari o d'interessi universali e trascendenti che aveva assunto. Viene anche a mancare nell'amministrazione quell'energia che avevano spiegata nel '500 alcuni grandi papi sotto l'assillo della minaccia o veneziana o francese o spagnola o nell'ardore della Controriforma. Il papato come tale viene di nuovo scadendo da quell'alta posizione di che aveva goduto allora. Arginato il pericolo protestante, riguadagnate molte posizioni perdute, svanito quel senso di minaccia mortale, che aveva stretto tanta parte della cattolicità attorno al suo capo, con rinnovato spirito di dedizione, e quasi dato vita a una nuova teocrazia medievale, siamo ora agl'inizî di una nuova discesa. Finisce, con l'avanzarsi del secolo XVII, quella specie d'internazionalità politico-religiosa del mondo cattolico - e anche di quello protestante - che si era formata in mezzo alle guerre di religione e di cui il papa era il naturale capo. Ora, si ricostituiscono i quadri politici distinti dai quadri religiosi, i credenti ritornano cittadini e sudditi, l'assolutismo si rinforza a spese anche della Chiesa e del papato. I valori della fede passano in seconda linea o vengono ben distinti dagli altri, quando si vede non solo un Richelieu e un Mazzarino, ma anche un Urbano VIII, che pure nei loro stati combattevano gli ugonotti e perseguivano eretiei, allearsi con luterani o indulgere politicamente ad essi. S'intravede il passaggio a un'altra età che sarà di lotte schiettamente politiche ed economiche, come già il sec. XV e il XVI, chiusa la parentesi religiosa. Ora, tutto ciò si riflette negativamente sulla posizione morale del papato; e la posizione morale del papato si riflette sull'efficienza del principe temporale e sullo Stato della Chiesa. Del quale, già alla fine del '500, l'oratore veneto Paruta aveva schizzato un quadro assai oscuro. Nel '600, esso peggiora, quanto a ordine interno, prosperità economia, capacità militare. Roma è sempre un grande centro politico: ma d'intrighi più che di operosità conclusiva. Agenti di principi italiani e stranieri che cercano parentado con famiglie papali, fiduciarî di baroni napoletani, informatori segreti di ogni corte grande e piccola, avventurieri, venditori di fumo, ecc., fanno capo a Roma.
Insomma, quasi tutti quegli stati e anche quelle dinastie, dal più al meno sono in declino, sia in modo assoluto, sia riguardo ai tempi e al cammino fatto da altri; sono in declino anche quelli che, nella fase della prima formazione, avevano esplicato una seria e benefica azione di governo, assolto necessarî compiti, perfezionato l'amministrazione, ecc. Dappertutto, rilassatezza di attività e di energie. E tutti sanno come in questo tempo non poco si allentasse la vigilanza e resistenza di fronte alla Chiesa e alle sue prerogative; di fronte alla sterminata falange degli ordini religiosi, monasteri, confraternite, persone dedite a vera o fittizia vita clericale, tutti rivendicanti "libertà", cioè esenzione da ogni aggravio; di fronte alla grossa manomorta ricostituitasi come forse neppure nei secoli IX e X, pur essendo quasi scomparse le ragioni che allora le avevano permesso di svolgere un'azione sociale non infeconda. Tutti sanno che, disarmato delle grosse funzioni politiche il baronato, dove esso era ancora potente e infido, come nel regno di Napoli, mancò poi quasi ogni capacità di frenarne lo spirito di sopraffazione e di rapina verso i vassalli, sfrondare la selva dei minuti privilegi che erano il corrispettivo della fedeltà, ricondurre nella diretta amministrazione dello stato le città e le terre che ancora tenevano. Ché anzi, come dilagò l'uso di vendere uffici, titoli, privilegi, così anche feudi di città e terre. A metà del '600, quasi tutte le città del Mezzogiorno erano infeudate. Tutti sanno che il fiscalismo dei principi si aggravò più o meno dappertutto, in rapporto e ai crescenti bisogni di una politica che era imposta spesso da circostanze estrinseche, e all'aumento dei gruppi privilegiati e relativa diminuzione d'imponibile, e al dissesto dei patrimonî delle famiglie principesche, allo sfarzo delle corti. Crebbe anche l'irregolarità e arbitrarietà dei pesi fiscali, pur senza che crescesse il vantaggio del principe per gl'imperfettissimi modi delle riscossioni, per essere dazî e gabelle quasi tutti appaltati o concessi in garanzia ai creditori: ciò che rendeva più odioso e intollerabile il tributo. Tutti sanno infine come fossero dissestate le comunità, impoverite dai riscatti, spogliate spesso dei beni pubblici dai baroni, scarse di risorse fiscali per le esenzioni dei più ricchi, cariche di debiti, disertate dagli abitanti; come fiorisse o rifiorisse il brigantaggio nello Stato della Chiesa, in certe parti della Toscana, nell'Abruzzo, in Campania, in Calabria. La coscienza di questi mali nei governi non sempre mancava. E neanche qualche buona intenzione di curarli: feroce giustizia contro i banditi, leggi per proteggere le comunità dalle usurpazioni baronali, e per ridare loro l'amministrazione di sé, ecc. Ma chi ne curava l'osservanza? I governi erano nuovamente impigliati nella rete degl'interessi particolari: rete che essi stessi con una mano scompigliavano, con l'altra ricostituivano, come espediente di governo. I compiti o ingerenze e interventi dello stato sono cresciuti più che non si siano perfezionati gli strumenti dell'azione: quindi carattere arbitrario, oppressivo dell'azione stessa e, insieme, scarsa efficacia sua. Si può anche aggiungere: quegli stati italiani sempre più inadeguati ai tempi, per difetto organico o creato ogni giorno più dalla nuova vita statale dell'Europa. O, per essere troppo piccoli e impediti di crescere, per necessità si afflosciavano moralmente e si corrompevano; o, essendo, come il dominio di Spagna, dominio di nazione in decadenza e dominio straniero, erano volti anch'essi, a somiglianza di quello papale, più fuori che dentro, erano solleciti anch'essi d'interessi che di troppo trascendevano le provincie italiane a loro soggette. Ed è dubbio si possa identificare o, quanto meno, i Napoletani e Siciliani potessero e fossero disposti a identificare la difesa della monarchia di Spagna, la difesa degl'interessi dinastici degli Asburgo, con la difesa dei proprî beni e onore e libertà. Quindi il venire meno di ogni fondamento morale di quel governo in Italia; la concreta coscienza che esso era straniero all'Italia.
Quegli stati si risentivano, naturalmente, anche delle condizioni generali dell'economia italiana. La quale attraversava una fase che qui è di vera e propria e definitiva decadenza, lì è ristagno con caratteri più o meno di temporaneità, altrove si presenta come faticosa crisi di trasformazione, come sforzo di adattamento dell'economia a nuove e meno favorevoli condizioni generali. I traffici oceanici avevano non poco soppiantato i traffici mediterranei. Commercianti e industriali italiani avvertivano l'impoverimento del mercato turco: senza contare la concorrenza altrui, dato che si erano fatti assai attivi Greci, Levantini, Ebrei di origine spagnola, trapiantatisi in Levante. Le guerre di religione, specie dei Trent'anni, venivano impoverendo la Germania a cui faceva capo non piccola parte del commercio dell'Italia settentrionale, con danno specialmente di Venezia che vide peggiorare ancora la sua posizione in confronto di Genova, più vicina alle nuove vie di traffico e ai paesi della nuova ricchezza. Circostanze diverse, ma eguali negli effetti: i progressi industriali dell'Inghilterra e quelli di Francia, entrata, dopo gl'inizî del sec. XV e dopo la restaurazione della forza monarchica, nella fase mercantilistica, con incoraggiamenti di ogni genere alle industrie paesane, vecchie e nuove. Così molta parte della clientela francese, e anche di altri paesi vicini alla Francia e della stessa penisola, fu sottratta alle industrie lombarde e veneziane. In piena decadenza, anzi dissolvimento, sono le colonie italiane nei Paesi Bassi: e solo rimane certa varia attività di singoli. Lione, Marsiglia, Parigi non sono più centri di lavoro bancario italiano. Gli stessi Genovesi si vengono ritraendo dalla Spagna e molti di essi preferiscono gl'investimenti nei Monti o Debiti pubblici italiani, specie a Roma. Anche in ltalia, una crisi bancaria, che fra il '500 e il '600 ha mandato all'aria grandissimo numero d'istituti di credito a Firenze, a Venezia, a Genova, altrove. Quindi, dispersione di capitali, sfiducia, tendenza al tesaurizzare, ristagno più che mancanza di denaro, difficilissime le condizioni del credito, usura. Quindi, più fiacca vita di borghesia, più lenta ascesa di elementi sociali che prendano il posto di quelli scomparsi, abbassamento anche del credito e prestigio e coscienza di sé della borhesia, la mercatura attività non degna dell'uomo nobile, le classi tendenti ad accentuare il distacco e l'isolamento l'una di fronte all'altra.
Vi è ancora una nobiltà feudale, in parte di antica origine, specie nel sud, più ancora di origine recente, per compra di feudi, per diplomi principeschi, specie nell'Italia settentrionale e centrale. È una nobiltà spagnolesca, fastosa, tutta presa dalla smania di primeggiare in pubblico anche se in privato sente il morso della miseria, lontana dagli uffici o dalle cure del patrimonio e da ogni interesse, "addormentata nei piaceri della vita allegra", come dice il Vico. Ormai essa si ritira anche dalla milizia e perde questa che era stata la principale sua funzione. Tutto sommato, una classe che si sta esaurendo e sgretolando: debiti, alienazione parziale dei feudi e quindi frazionamento dei feudi stessi, rovinosi litigi giudiziarî dei feudatarî con le comunità o con la camera regia o ducale o granducale, incameramenti di feudi, ecc. Seguita sempre a fabbricarsene, di questa nobiltà feudale; ma più cresce di numero e più è svalutata come qualità. Accanto, o più in basso, c'è un patriziato urbano, nato dalle attività mercantili, dalle professioni, dai legati, ecc., delle città libere o di più recente formazione. Pur essendovi patrizî investiti di feudo e feudatarî ammessi al patriziato e ambiziosi di entrarvi per l'autorità che esso procurava nelle cose cittadine, pure l'una e l'altra classe si tenevano distinte e in posizione di antagonismo. Il patriziato, grande e piccino, prevaleva negli uffici di corte e nell'amministrazione delle comunità: anzi monopolizzava quasi le amministrazioni, e costituiva circolo chiuso, con tendenza a estinguersi come tutti i circoli chiusi. Grandemente scaduta è, in molti dei luoghi dove era ascesa, la borghesia degli affari, dei commerci, della banca, delle industrie tessili o metallurgiche. Altrove si sostiene, sia pure con più ristretto mercato italiano o regionale.
La vita urbana ha perso dappertutto l'antico fervore. Non si fanno più guerre fra città e città: ma dappertutto, il campanile è più che mai in piedi: rivalità, superbia di precedenza, sforzo delle minori di adeguarsi alle maggiori quanto a titoli, baruffe per la ripartizione dell'imposta globalmente assegnata alla provincia o al regno, per gli alloggiamenti militari, ecc. E a volte sembra che l'ambizione delle città si esaurisca nell'ottenere una distinzione, che sia come titolo di nobiltà per le famiglie private. E come le città, così i minori corpi costituiti, le corporazioni mercantili e artigiane, le confraternite, ecc. La tendenza di tutti gli organismi e gruppi a chiudersi in sé, è sempre viva: anzi, nel ristagno di tante attività, delle linfe vitali, si manifesta più visibilmente. Ogni città, feudale o regia, ha o vuol avere una fisionomia propria, in virtù di privilegi sollecitati per sé. La comune dipendenza quasi si direbbe fosse incentivo al particolarismo. Estranee le une alle altre anche le 100 baronie. E divisa in gruppi ostili la poca borghesia, anche entro la stessa città, divisi e suddivisi in una miriade di corporazioni gareggianti fra loro i ceti mercantili e produttivi. Fra aristocrazia e borghesia, quasi rotti i ponti, con dispregio grande di quella per questa e sue attività. Fra aristocrazia e borghesia da una parte, plebe dall'altra, un pozzo profondissimo. E anche la plebe, nell'ambito stesso di un medesimo stato non ha egualmente nessi e coscienza di unità. È divisa quella rurale, come divisi i feudi. Nulla di comune fra la plebe rurale e quella delle città che ha regime di favore: e l'economia della prima è non poco subordinata alle esigenze della seconda, all'esigenza cioè del pane a buon mercato. Una massa compatta di plebe è solo a Napoli, calata qui da ogni parte del Regno ma presto unificata nella sua napoletanità e bene individuata e staccata dalla provincia stessa da cui proveniva. Insomma, una società frammentaria, più forse che prima non fosse, per effetto dell'azione dei governi che amano piuttosto sciogliere che rafforzare i nuclei organici, e speculano finanziariamente sull'amore dei titoli di distinzione, per effetto del più debole ritmo della vita italiana, della scemata ricchezza, dello scemato lavoro, dell'immobilizzazione di tanti capitali in opere di lusso, della deviazione verso gl'investimenti puramente feneratizî, poveri di effetti sociali, sterili o quasi dal punto di vista politico.
Insomma, i segni del ristagno, più visibili e certi che non quelli del progredire. Si avvertono a pieno gli effetti non buoni di tutti quegli avvenimenti che dalla fine del '400 hanno mutato assai la faccia dell'Europa: scoperta di nuovi paesi fuori del cerchio d'azione delle città e degli stati italiani, spostamento di vecchie vie di traffico, formazione di nuovi centri di vita economica in concorrenza coi precedenti, dominio straniero e, per di più, di una nazione in decadenza. E pensiamo anche, se vogliamo, a un rilassarsi delle vecchie energie e del vecchio spirito d'iniziativa, che aveva un tempo dato a mezza Italia un celere ritmo di vita, una rapida circolazione di elementi sociali, una loro unità pur negli accesi contrasti. O meglio: quelle esterne circostanze avevano prodotto, in un paese giunto al fastigio di una determinata civiltà essenzialmente cittadina, un rilassamento di energie, di spirito d'iniziativa, di forza creatrice.
Comunque, si può ammettere che l'Italiano del '600, l'Italiano della dominazione spagnola e della Controriforma, l'Italiano medio vivente in Italia, abbia meno di questa energia e spirito d'iniziativa, meno forza creatrice. Ciò è visibile anche nel complesso dell'attività intellettuale, oltre che nell'attività politica ed economica. È caduta la grande poesia e la grande arte e la vigorosa speculazione dell'età precedente. Il pensiero politico e la storiografia non hanno mantenuto le promesse del tempo dei politici e degli storici del '100. Nelle stesse scienze fisiche e naturali, al primo slancio sottentrò un certo languore, la tendenza a limitarsi al mero sperimentalismo e alla pura osservazione, catalogazione, raccolta di fatti e materiali scientifici. Questo ci dà ragione del minore apprezzamento che si cominciò a fare, fuori d'Italia, della scienza e della cultura italiana, pur essendo notevole l'influenza degli studî fisici e naturali italiani in Europa, grande l'eco degli studî e scoperte nel campo della fisiologia e medicina e astronomia anche fra '600 e '700. L'omaggio che all'Italia seguitò a farsi, fu più al suo passato che al suo presente. L'Italiano all'estero ebbe, tutto sommato, una statura minore che nell'età precedente, pur seguitando in lui a manifestarsi l'intelligenza e destrezza e versatilità proprie della sua stirpe giunte a un alto grado nell'età del Rinascimento. Certo, il giudizio sugl'Italiani tende, all'estero, a farsi peggiore. Si parla dell'Italia come del paese del machiavellismo, nell'interpretazione che di Machiavelli hanno data specialmente i paesi protestanti, ma anche paesi cattolici dove si voleva reagire a influssi della cultura italiana. Appare anche l'Italia del brigantaggio, l'Italia del dolce far niente, l'Italia tutta pompe e feste e carnevale. Indebito questo giudizio negativo, chi guardi tante serie manifestazioni della vita italiana anche allora, chi guardi la sostanza della vita italiana stessa. E Milton, tornato in Inghilterra dopo una dimora di alcuni mesi in Firenze, Roma, Napoli, Venezia (1638), proclamava ai suoi concittadini di aver sempre ritenuto per conto suo, ma ora avere conosciuto per diretta esperienza, che l'Italia non era già, come essi credevano, un asilo di facinorosi ma albergo di umanità e di civile sapere. Ma quel giudizio negativo sull'Italia del sapere e sull'Italia morale, rispecchiava, pur deformandoli o per troppo superficiale osservazione e intelligenza di cose italiane, o per spirito nazionalistico, quasi per desiderio di rivalsa contro la non più accetta influenza straniera, alcuni elementi o aspetti veri della vita italiana in questa fase che si può veramente chiamare di transizione: in quanto sta sfaldandosi, esaurendosi, un dete: minato tipo di civiltà, imperniato sullo stato cittadino e su certi ideali, e ancora una nuova Italia non è sorta, attardata come è dalla sua stessa stanchezza, dal peso delle sue tradizioni, dal dominio straniero che presto esaurì le iniziali possibilità di bene, sia che esso peggiorasse, sia che altro e meglio la vita italiana richiedesse.
Le attività dell'Italia secentesca. - E tuttavia sono visibili, in questa "decadenza" italiana, i momenti del progresso, del lavoro positivo che la storia compì, del lento e inconscio adeguarsi anche degl'Italiani alle esigenze di un'età che è orientata verso i grandi stati. L'Italia ristagna: eppure nel suo stesso ristagno vi sono le condizioni del nuovo avanzare. Decadenza di piccoli stati, rovina della vecchia nobiltà feudale, esaurimento dei chiusi circoli del patriziato cittadino sono decadenza, rovina, esaurimento di vecchie forme di vita: dànno qualche impulso a pensieri, sentimenti, aspirazioni di più ampie e proprie organizzazioni statali, ad attività e ideali della borghesia. La decadenza dell'aristocrazia rimette in circolazione molta ricchezza ferma, alimenta nuove formazioni sociali. Si assiste al frazionamento dei grandi feudi e al sorgere di nuovi centri abitati in essi. Pur con linee quanto mai accidentate e irregolari, con rapide discese a cui rispondono egualmente rapide ascese, si ha nel '600 aumento di popolazione; un'agricoltura che, accanto a zone di desolazione e di abbandono, ne presenta altre in sviluppo; un grande accrescimento di proprietà privata a spese dei demanî regi, comunali, feudali, magari per usurpazione; grandi quantità di terre soggette a servitù di pascolo e di semina, ora chiuse e sottratte al disordinato sfruttamento, avviate, nell'energica ripresa del '700, a più intensa produzione. Se per un verso muore l'antico operoso orgoglio municipale, nella generale decadenza della vita cittadina, muore con esso tutto quel mondo di ricordi, pensieri, sentimenti che avevano a centro la piccola patria che "un muro e una fossa serra". I comuni, a forza di essere spogliati delle antiche funzioni e di vivere sotto tutela, si vengono organizzando come enti amministrativi e si abituano all'idea di una distinzione d'interessi locali e generali, di amministrazione e politica. Le città combattono a spada tratta per la loro libertas di fronte al barone feudale. Essa soddisfa interessi e ambizioni e vanità di nuclei del patriziato e della borghesia municipale che in quelle amministrazioni sono appollaiati. Ma crea anche dipendenza diretta dal principe. E ogni volta che le comunità sono rivendicate dal principe, egli acquista o riacquista qualche prerogativa nuova nei confronti della comunità; ogni volta che le ridà in feudo, concede al barone qualche prerogativa di meno. Vi è, anche, un processo di formazione di nuovi elementi di borghesia, in sostituzione o integrazione dell'altra: nuovi proprietarî, agenti e fattori rurali dei grandi signori assenteisti, accaparratori ed esportatori di grano, appaltatori di gabelle, prestatori di denaro in piccolo e in grande ai principi e alla nobiltà e ai comuni, funzionarî della crescente burocrazia, legisti e avvocati che sono già ora l'alimento più importante della borghesia meridionale, specialmente napoletana. È formazione piuttosto lenta; questa borghesia contiene molti elementi parassitarî; le manca ogni consistenza spirituale e sentimentale di sé e coscienza politica; il suo ideale di vita è fuori della propria classe, è nella nobiltà. E appena un mercante arricchito o un legista può, sollecita carte di nobiltà e compra un feudo. Tuttavia è rivelatrice di un non interrotto processo di ricambio, nell'organismo sociale italiano.
Anche chi guarda all'arte e alla cultura, non deve dimenticare nel '600 la musica italiana; un certo serio sforzo di originalità che fa la pittura col suo amore di cose vive, con l'osservazione di aspetti nuovi della vita, con i suoi centri pittorici nuovi, come Bologna e Napoli. E nel campo del pensiero politico, qualche problema nuovo, come quello della "ragion di stato", dei rapporti tra morale e politica ecc. E la storiografia, se pure guarda, forse più di prima, quasi solo all'esterno della vita storica, al viluppo politico e diplomatico, all'intrigo delle corti, ai fatti militari, tuttavia apre gli occhi sopra una più vasta realtà europea, s'interessa delle vicende di tutto il mondo. Da non dimenticare anche, pur mentre la cultura italiana perdeva in profondità e si ritirava da posizioni avanzate che prima aveva raggiunte nel mondo, quel che essa conquistò in estensione entro la penisola.
Difatti, elementi suoi penetrarono in zone che fino allora erano rimaste chiuse ad essi. La conoscenza dei grandi scrittori si diffuse, a modo suo, in mezzo al popolo. Ariosto e Tasso scesero fino all'uomo del popolo, al contadino e al pastore; l'arte, la letteratura cosiddette popolari attinsero largamente alla grande arte e alla grande letteratura. È il tempo della produzione letteraria dialettale che, raccogliendo gli echi, gli spunti, i motivi della produzione letteraria in lingua italiana, concorre a diffonderla, metterla in circolazione, farla penetrare laddove non sarebbe tanto facilmente penetrata. E ne veniva una maggiore unità spirituale nel popolo italiano. Unità linguistica promovevano gli scrittori, già grande, come in pochi altri paesi d'Europa, pur con tanti secoli di vita municipale, con l'attuale segregazione fra provincia e provincia, con la scarsezza degli scambî economici e culturali fra i varî stati. E di questa unità linguistica è specchio, nel '600, il Vocabolario della Crusca, che è il linguaggio fiorentino e toscano, ma nel tempo stesso italiano, è il linguaggio delle persone colte, il linguaggio scritto. L'unità che secoli innanzi si aspettava da una corte, venne invece da spontanea opera di popolo e di scrittori. In fondo, quella che già nel '500 era contro i sostenitori fiorentini di una teoria troppo fiorentina della lingua, aspirazione dei, chiamiamoli così, provinciali italiani, che cioè si dovesse dare diritto di cittadinanza italiana anche alle lingue delle regioni; quest'aspirazione era nel fatto appagata. Lo stesso si dica di ogni altra manifestazione del costume, che si viene pure unificando, magari sotto forma di spagnolismo o francesismo. E realmente, c'è nel '600 l'una e l'altra cosa. Prima, più l'una, poi, più l'altra. E gli scrittori animati da preoccupazioni nazionali se ne dolevano, come segno di servitù già in atto, come preparazione di altra e maggiore servitú. Sebbene poi anche si notasse la superficialità di questi influssi e la persistenza di caratteri proprî del popolo italiano.
Da questa unità di cultura e di civiltà, vista nei suoi elementi sostanziali, di questa morale personalità degl'Italiani, della quale essi erano pienamente persuasi, desumevano gli scrittori politici e pubblicisti del '500 e '600 la convenienza d'intese fra i principi, di accordi fra gli stati indipendenti, anche di durevoli patti per formare fronte unico di fronte agli stranieri, e dare "libertà" all'Italia, a tutta l'Italia: "poiché tutta l'Italia è patria all'Italiano", scrive il Boccalini. Nota frequentissima, questa, specie nella prima metà del '600, da doverla considerare come manifestazione di una corrente diffusa di opinione pubblica. E non è solo nota antispagnola o antifrancese. Di questa libertà si parla come di "libertà nazionale". Nessuno vorrà supervalutare questi pensieri e parole, che pure ricorrono in decine di scritture. La loro rispondenza con le azioni era scarsa, qualche volta nulla; pur essendovi uomini per i quali quei pensieri sono stati i pensieri di tutta la vita. Ma se anche non c'era in essi un programma di azione, c'era la coscienza dell'individualità nazionale italiana, la persuasione che il dominio straniero rappresentava un danno e un'ingiustizia, la visione di un assetto variamente unitario rispondente all'unità storica della gente italiana, qualche volta l'esortazione agl'Italiani di "fare da sé", unico modo di fare. Di altri elementi si arricchirà la coscienza politica degl'Italiani nel '700 e '800. L'idea democratica darà un maggiore contenuto all'idea di nazione e d'indipendenza nazionale. Ma ogni età ha i suoi compiti, nei limiti ad essa segnati dalle condizioni storiche, dalle possibilità, ecc. Ora ci sono più idee correnti che non profonde convinzioni fuse con la coscienza morale: ma anche quelle idee correnti hanno il loro valore, entrano nella trama del "Risorgimento", che è cosa del sec. XIX ed è cosa presente e immanente a tutta la storia italiana, dalla caduta di Roma e dalle invasioni in poi.
Lotte sociali e movimento antispagnolo nell'Italia meridionale. - Nell'Italia settentrionale c'è ancora, parte di più vasto conflitto di casa d'Austria contro i protestanti e contro i Borboni, guerra di Spagnoli e di Francesi, con qualche partecipazione di elementi italiani. È assente o quasi Savoia, dopo la morte di Vittorio Amedeo I e gl'insuccessi del principe Tommaso, e durante la fanciullezza del duca Carlo Emanuele II; si è ritirato dall'agone il duca di Parma, che era stato guadagnato a Francia ma immobilizzato subito, alle spalle, dallo spagnolizzante duca di Modena. Ora è il quarto d'ora di quest'ultimo, circuito, adescato, lusingato con promesse d'ingrandimenti. Modena torna un po' a essere ciò che era stata nel '300 con Renata, cioè un centro d'irradiazione della politica francese in Italia. Anche a Firenze, donde due regine erano andate in Francia, Luigi XIV dà una sua nipote in moglie al granduca. Insomma qualche successo, se non proprio delle armi, della diplomazia francese. Incoraggiavano la Francia anche i mali umori serpeggianti contro gli Spagnoli in mezzo alle popolazioni italiane soggette a loro. Se ne hanno segni in Lombardia; più, nel Mezzogiorno, anche perché qui le aspirazioni a mutamento potevano concretarsi nel pensiero di una propria vita statale da restaurare. Era questo l'ideale di non poche famiglie della nobiltà, illuse dalla speranza di potere o afferrare per sé quella corona o tornare, con una dinastia propria, di origine francese o spagnola o magari sabauda, nell'antica prosperità e potenza. Così, durante l'intrigo romano-franco-sabaudo del 1635-36, si ebbe, in collegamento con esso, la congiura che prende il nome da Giovanni Orefice, duca di Sanza, di nobiltà recente, che mirava a fare del Regno un regno a sé. Una parola, poi, si sente circolare a Milano o a Napoli, attorno alla metà del '600: "repubblica". Ed è forse un'eco di quel che era accaduto nei Paesi Bassi, ribellatisi a Spagna e fattisi indipendenti: per quanto, in Italia, manchino aspirazioni, propositi, volontà, capi radicali. Piuttosto un vago sogno ondeggiava davanti agli occhi di molta gente, specie dei ceti di mezzo e anche della plebe: potere ritornare a certe condizioni di vita, a certo regime, a certi privilegi del tempo di Carlo V. Erano miti, come quello dell'età dell'oro, pur con qualche contenuto serio: poiché, un secolo prima, il dominio spagnolo era il dominio di una grande monarchia, ora scaduta, e diventata tutta passività per i sudditi. Gli stessi viceré avevano píù di una volta, adoperando il pugno di ferro contro i nobili e dando qualche protezione al popolo, alimentato questo stato d'animo popolaresco e borghese. Ma ora, il governo spagnolo aveva rimesso dell'antica energia. E la mala amministrazione locale, che era poi l'amministrazione della nobiltà grande e piccola, trovava nei governatori e viceré spagnoli tolleranza, protezione, a volte complicità. Poteva perciò succedere che il malcontento popolaresco contro il cattivo governo investisse, insieme, nobiltà e funzionarî spagnoli; che le agitazioni di plebe e gente di mezzo, iniziate contro la nobiltà, finissero con l'assumere anche carattere antispagnolo.
Di queste agitazioni, vere rivoluzioni, se ne ebbero tanto in Sicilia quanto nel Mezzogiorno a metà del Seicento. Palermo diede il segnale, maggio 1647. Insurrezione plebea, da principio, per il prezzo del pane, o, meglio, per il peso o misura del pane venduto sul mercato, rimpicciolito per non aumentarne il prezzo. Ma dopo qualche dì, le maestranze, coi loro consoli, si unirono al popolino, contro gabelle e gabellieri, contro l'amministrazione cittadina ove la nobiltà prepoteva. Capitano generale del popolo fu gridato l'Alessi, artigiano, che disciplinò il movimento. Il viceré, marchese De los Velez, cedette alle richieste; ma ciò non tolse che il movimento prendesse carattere antispagnolo o almeno antigovernativo e il viceré dovesse allontanarsi dalla città. Né solo erano plebe e artigiani. L'Alessi si rivolse anche a borghesi e legisti, per consiglio. E fra essi, uomini di lettere, legati a tradizioni di autonomismo siciliano. Era l'elemento colto, che portò nel movimento una sottile vena di pensiero politico, in fondo al quale era l'immagine di una Sicilia indipendente, con Palermo capitale. L'iniziativa palermitana destò ora larghi echi nell'isola. Moti a Corleone, Randazzo, Castelvetrano, Termini, Siracusa, Patti, Girgenti, Catania, Cefalù, ecc.
Nel luglio, fosse questa spinta palermitana e siciliana, fossero i fermenti locali ormai in pieno vigore, anche Napoli eruppe. Ed egualmente, sul principio, plebe; egualmente contro le gabelle che erano, nel crescente impoverimento della città e della regione, di crescente gravezza. Rimedio primo contro le gabelle, abbassare quei nobili che concorrevano, nelle deliberazioni amministrative della città, con cinque voti, mentre uno solo ne aveva il popolo; accrescere questa partecipazione del popolo, indurre il viceré a riconoscere vecchie immunità da gabelle e privilegi popolari. Perciò il movimento si volse presto anche contro i nobili, contro i cavalieri annidati nei seggi e sempre pronti a votare quelle imposte che essi non pagavano. Di questo movimento, il popolano Masaniello portava la bandiera. Ma la direzione e ispirazione vera era piuttosto di uomini della borghesia, di uomini di legge, "versati nell'istoria", esperti a maneggiare e far valere i titoli di diritto che il popolo vantava o accampava, persuasi di un'antica millenaria partecipazione del popolo al governo della città. Avanti a tutti, Giulio Genoino, avvocato. Masaniello ebbe una settimana di dittatura; poi, siccome c'era in lui la maschera non la sostanza del dittatore, e l'incapacità di fare da sé, senza la guida di Genoino che gli stava alle spalle, fu abbandonato dal popolo e ucciso.
La lotta, da principio e nelle intenzioni del popolo, era più contro le gabelle che contro la Spagna; più contro il viceré che contro il lontano re. Ma la distinzione era difficile mantenerla a lungo. I nobili una volta erano stati castigati dalla Spagna, ma ora non più. O se aveva castigato i grossi e pericolosi baroni, aveva dato e dava mano libera alla minore e innocua nobiltà. Ora Genoino anche alla Spagna chiedeva più giustizia per il popolo, più freni per quella nobiltà che, dando voti, comprava privilegi. Si proponeva d'instaurare un reggimento a popolo e nobili, parificati sotto lo scettro di Spagna. C'era una coscienza, nel popolo meridionale, di ciò che esso e il Regno avevano fatto per la Spogna, di ciò che avevano dato di denaro e di soldati per sostenere la monarchia nelle sue guerre. Così, sia per logica estensione, sia per l'azione di altri fermenti locali, specie dell'aristocrazia maggiore e migliore che Genoino stesso avrebbe desiderato prendesse parte più attiva alla cosa pubblica, sia per le influenze esterne franco-romano-piemontesi, il movimento popolare contro gabelle e nobili, cioè "malgoverno", divenne anche movimento contro la Spagna: non esclusa in questa evoluzione l'opera dello stesso Genoino, a cui si attribuisce la paternità di un Discorso al popolo napoletano per eccitarlo a libertà, tutto esortazione a sanare quella disunione che era causa della comune rovina.
La cooperazione di nobili e popolo non si ebbe. Il movimento napoletano prese carattere insieme antispagnolo e antinobiliare. Il popolo si organizzò militarmente, ebbe un suo "generale dell'artiglieria del popolo" in Ottaviano Marchese; il comando supremo se lo dovette assumere, volente o nolente, Francesco Toraldo principe di Massa, vecchio soldato per Spagna. Le provincie fecero subito eco: odî, rancori non vi mancavano, se anche stessero "per il timore sepolti sotto le ceneri del silenzio". Si azzuffarono contadiname e vassalli e baroni; baroni e nobiltà cittadina e nobiliter viventes, cioè mercanti ricchi, dottori, legisti, fisici e altri "leggitori di libri"; famiglie e famiglie di nobili. Movimento, nel complesso, arruffato, senza una chiara linea unica, senza una forza che guidi e freni gl'impulsi particolari, cioè di piccoli gruppi familiari e di famiglie singole. Ma visto nell'insieme, e non nei dettagli locali, esso è movimento di contadini e di elementi di borghesia contro baronato e nobiltà. È visibile, al centro della scena, tanto nella capitale quanto nelle provincie, gente mezzana, borghesi o civili che hanno titoli dottorali, cioè rappresentano la cultura e vogliono salire a nobiltà; nobili dissidenti e tenuti lontani dai posti lucrosi, che tendono a far massa con l'elemento civile; artigiani e piccoli borghesi che gridano contro i privilegi dei nobili e arrancano per ottenerne anch'essi qualcuno. Si ondeggia fra un ideale di giustizia distributiva, conforme al pubblico interesse, che è sulla bocca di tutti, e l'aspirazione a prendere posto fra i privilegiati. Da questi ceti di mezzo escono i capi: anche se non vi mancano baroni e nobili, ambiziosi di primeggiare, fiduciosi di sfruttare contro i ministri spagnoli il movimento. Napoli assunse in questa occasione una posizione di primato; o meglio, conservò la posizione che aveva di capo del Regno. Il popolo napoletano si considerò investito di autorità su tutto il Regno. Alle provincie si chiesero uomini e denari per la resistenza e la guerra. Da Napoli giunsero alle provincie decreti di esenzione dalle gabelle, per il popolo. Quando a Napoli si vuole la repubblica, la magica parola serpeggia per tutto il Regno. E la repubblica napoletana manda ordine di cacciare gli ufficiali regi; manda ufficiali che incuorano tutti a sbarazzarsi per sempre del dominio dei baroni e dei tributi ai regi, con l'aiuto dei valorosi napoletani. In ogni terra, si costituiscono uffici a nome del senato napoletano. Odio alla nobiltà: alla nobiltà in genere, ma più ancora a questa o quella famiglia locale in specie; alimentato in larghissima misura da motivi d'interesse privato e familiare; tanto che spesso nobili si trovano a comandare i rivoltosi e le loro bande. Il contenuto della parola "repubblica" è probabilmente questo: regime senza nobiltà, più che senza Spagna, sebbene contro Spagna e suoi funzionarî fosse egualmente grande avversione, e i nemici della nobiltà dessero addosso anche ai regi e i nobili finissero quasi tutti con lo schierarsi per Spagna e il re.
Di fronte a tutto questo, nobiltà e baronato, fra cui, pure, non mancavano vecchi avversarî di Spagna, gente che sperava potesse questo movimento dare occasione e forza a liberarsi di Spagna e teneva pratiche con agenti francesi o di Savoia, rifattisi vivi al primo scoppio dei moti; nobiltà e baronato cominciarono a ravvicinarsi alla Spagna. Avvenne questo a Palermo, donde molti nobili, di fronte alla bufera, erano usciti. Qui anche la plebe si trovò a fianco della nobiltà e ambedue a fianco degli Spagnoli: quella plebe che si era mossa contro le gabelle, ma che poi era stata riguadagnata, dopo che il movimento si era allargato ad altri e superiori obiettivi. L'assalto al quartiere dei conciatori, centro della rivolta, fu dato dalla plebe, capitanata da signori. La conceria fu saccheggiata, l'Alessi ucciso (22 agosto). Nell'agosto, la rivoluzione era finita. Il popolo di Palermo conservò per qualche anno il diritto di eleggersi due giurati o senatori popolari. Ma presto i nobili li misero alla porta. E alla testa del comune di Palermo, solo titolati. Non cessò, tuttavia, certa vitalità delle maestranze. Viceré, inquisitori si diedero attorno per rappattumare popolo e nobiltà.
Anche a Napoli e nel suo regno, se i rivoltosi della provincia seguirono il popolo napoletano e gli obbedirono, i baroni obbedirono agli ordini del viceré e mandarono e condussero gente armata per il blocco della città, seguiti da molti nobili locali che misero a tacere i loro risentimenti antibaronali, e da bande di malandrini reclutati comunque. Cominciò la reazione e repressione, a Napoli e nelle provincie, alla quale diedero mano anche i "civili", cioè elementi della borghesia, i "viventi nobilmente" ecc., spaventati di quel che succedeva. Nell'ottobre, giunse la flotta spagnola, con don Giovanni d'Austria, e si mise mano a rioccupare Napoli, dopo quattro giorni di disperata resistenza di popolo che arrestò o rallentò i progressi spagnoli. A questo punto, ormai spiegatasi gran parte della nobiltà per Spagna, il Toraldo, sospettato, fu ucciso e sostituito con Gennaro Annese, "mastro fuciliere di scoppette". Partigiani di Tommaso di Savoia, vecchio candidato, che subito dopo il luglio si era offerto a Mazzarino di condurre un esercito a Napoli; partigiani del duca di Guisa che vantava discendenza angioina; partigiani di un diretto governo della Chiesa, fanno qualche propaganda in mezzo al popolo. Prevalse il Guisa. Ambizioso di corona regia, non potendo avere quella di Francia, si volse a Napoli. E alla fine del '47, giunse con alcune navi, si fece fare capitano generale della reale repubblica di Napoli e spogliò l'Annese che allora si raccostò agli Spagnoli. Ma la flotta fece poco: le fortezze erano sempre di Spagna e non si poteva procedere a sbarchi. Dai rivoltosi, poco amici di Francesi, non si ebbe l'appoggio che ci si riprometteva. Mazzarino e il Guisa procedettero con poca o nessuna unità. Quegli lavorava per la Francia, voleva innanzi tutto cacciare di lì gli Spagnoli e togliere loro "la più bella gioia di quella corona", come scriveva lui; corteggiava baronato e nobiltà che era con le armi in mano e pareva l'elemento decisivo, considerando "il punto principale quello di guadagnare la nobiltà" e facendo larghe promesse di speciali distinzioni a ognuno, "dopo lo stabilimento di cotesto regno". E tuttavia, presto doveva disilludersi anche sulla nobiltà. Si mise allora a coltivare anche il popolo e gli uomini a esso accetti, come il cardinale Filomarino arcivescovo di Napoli: e da una parte, lusingò i nobili con la speranza di onori e pensioni, dall'altra fece omaggio di parole alla repubblica. Il Guisa, invece, o per calcolo politico o per fantasia e spirito romantico cercava la sua base nel popolo che lo aveva levato su, si associava alla scarsa simpatia popolare per i Francesi, dichiarava non essere egli di quella nazione, ma lorenese e, in ultimo, italiano.
Insomma, le cose a Napoli non si mettevano bene. L'offensiva popolare del febbraio contro le posizioni spagnole fallì. Il card. Mazzarino, allora, sembrò volesse entrare più di proposito nell'impresa: cioè dirigerla, sostituirsi al popolo. Promise armi, denaro, grano: ma, scriveva al card. Grimaldi che lavorava per lui a Roma e Napoli, darli solo se poteva "tirare il popolo da quella chimera di repubblica a un dominio stabile e sicuro". Tutto andò fallito, perché in aprile gli Spagnoli presero i quartieri popolari, arrestarono il Guisa. Ma il cardinale non si ritrasse. Si volse nuovamente a Tommaso di Savoia che già aveva tenuto pratiche nel Regno e vi aveva partigiani. Si rivolse a tutti gli esuli napoletani, promosse la diserzione di quei meridionali che militavano in Fiandra per la Spagna, ora attratti dalle notizie di rivoluzione che giungevano di laggiù, li imbarcò a Tolone sulla flotta di Tommaso. Ma intanto, il nuovo e abile viceré, l'Oñate, era riuscito a gettare qualche ponte verso il popolo. La flotta di Tommaso di Savoia occupò Procida, sbarcò presso Salerno 2000 uomini, occupò Vietri. Ma presto l'impresa si rivelò vana. E Tommaso in agosto si rimise in mare per Portolongone. Il popolo napoletano era stanco e si veniva placando. Ma per qualche mese esso era stato il protagonista del dramma napoletano. E aveva mostrato energia, spirito combattivo. La Spagna riebbe il sopravvento con l'aiuto della baronia e nobiltà e, quasi dappertutto, anche dei borghesi. Ma ciò non ostante, si dovette accorgere che il popolo aveva più vigore della nobiltà, sulla quale del resto anche Mazzarino si era ricreduto: "piena di vanità e alterigia", povera di cervello e di concordia.
Quindi la Spagna accennò un'altra volta alla vecchia politica dei viceré tipo Ossuna, cioè carezzare il popolo, specie il basso popolo, metterlo su contro la nobiltà, accontentarlo, se non in quanto domandava privilegi ed esenzioni, in quanto domandava che i nobili fossero assoggettati al peso dei tributi, e questi tributi non andassero tutti a loro vantaggio, con danno della corte, e il popolo non fosse da essi taglieggiato come prima. I ministri regi procedettero quasi sempre con spirito di vendetta contro i nobili, ritenuti causa dei passati tumulti, per la loro superbia e il loro malgoverno: con grande sdegno e mormorazione dei nobili che vedevano dominare i civili. Era avvenuto e si svolgeva uno spostamento dí ricchezza: gente di piccola e mezzana origine che nulla contava politicamente, era salita in ricchezza, cultura, funzioni nella società civile. E costoro vogliono salire ancora, si domandano perché gli altri debbano essere in alto, perché essi debbano pagare tasse che poi vanno per buona parte a finire nelle tasche degli altri, perché debbano cavarsi la berretta davanti agli altri, perché in chiesa debbano starsene appartati dagli altri. Viceversa, ulteriore sgretolamento di nobiltà baronale e cittadina, anche se ora vittoriose; dissidî interni fra i due corpi della nobiltà e dentro ciascuno di essi; elementi della nobiltà che si accostano ai ceti di mezzo fra nobiltà e borghesia, fra nobiltà e popolo, ove prevale l'elemento intellettuale.
In Sicilia questi malumori contro Spagna seguitano a serpeggiare anche dopo la repressione. Per un paio d'anni, rumori, congiure, tentativi varî, più presto scoperti e repressi che tentati. E ora non più plebe: ma altri elementi, quelli che avevano nel '48 seguito la plebe ed erano veramente stati sconfitti, cioè artigianato, borghesia, anche gente di baronato e nobiltà, staccati dalla loro classe per ideali più alti, o solo ambiziosi di capeggiare qualche cosa. Così, dopo la venuta in Sicilia del card. Trivulzio, mandato a governare e pacificare l'isola. E vi fu la cospirazione del calabrese Vairo, antico soldato. Si trattava di muovere il popolo contro nobili e card. Trivulzio, unirsi con Napoli che era ancora in movimento, cercare anche la solidarietà dei Turchi, creare un reggimento popolare con un doge, Francesco da Monreale, prigioniero del S. Uffizio, già segretario dell'Alessi. Anche qui, dunque, si parlò e si pensò di repubblica, nel senso di regime popolare e siciliano, anzi propriamente palermitano. Ancora alla fine del 1649, tramarono borghesi e nobili, capeggiati da Antonino Lo Iudice, avvocato di gran nome, dall'avvocato Giuseppe Pesce, dal conte di Mazzarino, dal duca di Montaldo, già viceré di Sardegna poi staccatosi da Spagna, dal marchese di Geraci ecc., qualcuno già solidale con l'Alessi. Tutto fu scoperto, e vi furono arresti, fughe, arrivo della flotta da Napoli con Giovanni d'Austria nuovo viceré. Complici furono arrestati anche a Messina, che nel '47 aveva rifiutato di associarsi a una rivolta iniziata e capeggiata da Palermo, ma che non era affatto tranquilla neanche essa. Anche qui, i soliti malumori di popolo contro nobiltà, con diffusi fermenti antispagnoli. In più, segrete sobillazioni francesi, che non mancano ormai in nessun luogo della penisola, per preparare i colpi di mano o le offensive di guerra.
Così la Spagna superò anche questa crisi, la più grave da che essa dominava in Italia e dovuta, per giunta, essenzialmente alle forze locali. Superò la crisi, sebbene ne uscisse ancora più scossa e logora. I viceré poterono giuocare sulla scarsa coerenza o discordia altrui, sulla solidarietà che queste discordie creavano fra essi e certi elementi della vita meridionale, specialmente nobiltà e plebe, e, di volta in volta, di questa o quella città. Se ne ebbe ancora un saggio a Messina un paio di decennî dopo. Messina era, a differenza di Palermo, una città di commercio. Qui non baronato ma patriziato mercantile, come poteva essere nelle repubbliche marinare e nei superstiti comuni. E questo patriziato mercantile dominava e rappresentava la città, difendeva tanto il suo predominio sulla minuta borghesia e sul popolo, quanto le prerogative della città di fronte al governo, che si risolvevano poi in una posizione di privilegio della città di Messina di fronte alle altre città del Regno, come era in materia di tributi, in certi monopolî commerciali (esportazione della seta siciliana), ecc. Quando perciò nel 1670-72 borghesia e minuto popolo, in occasione di una carestia, se la presero con gli accaparratori e con gli amministratori e invasero il palazzo senatorio, costrinsero i senatori alla fuga, buttarono all'aria le scritture, ottenendo nel senato un numero di proprî rappresentanti eguale a quello dei nobili e ricchi, essi ebbero il favore del governo, che, forse anche imbaldanzito dei successi del '47-8, cercava sfrondare le troppe prerogative delle città maggiori. E quando poi il contrasto fra viceré e senato messinese si accentuò, la Spagna poté contare sul favore di molta parte del popolo e sul favore di molte città, specie di Palermo: forse, anche per profonda avversione ai Francesi, divenuti alleati e quasi signori di Messina. Per cui, quando la flotta francese apparve in rada a Palermo e si azzuffò con la flotta spagnola, la città si armò, le maestranze ripresero possesso delle artiglierie che erano state tolte a loro nel '47, e le spinsero a braccia sui baluardi della città che essi consideravano cosa propria: ma per cannoneggiare i Francesi. Fatta la pace, e riconsegnata Messina agli Spagnoli, crollò tutto il corpo dei privilegi di quel patriziato e di quella nobiltà: al posto del senato soppresso, una ristretta magistratura; abolita l'università degli studî, mentre quella di Catania ebbe titolo di università di Sicilia; equiparata Messina alle altre città nei tributi; costruita una cittadella, bruciate le pergamene coi vecchi privilegi. Eguale diminuzione di diritti municipali fu fatta a danno di Catania, Siracusa, Augusta ecc. Era un altro colpo al regime municipalistico, a base di privilegi di ceti e di città, e un altro spiraglio aperto o preparato all'ascesa di mezzani ceti borghesi: sia pure ottenuto tutto con la depressione e, per un certo tempo, quasi rovina di un'operosa e ricca città.
Logorio del regime spagnolo e ripresa di vita italiana. - Tolti questi scatti di energia, che ogni tanto rivelano la tenace vitalità della vecchia monarchia, sono da rilevare i molti segni del crescente logorio suo, nei paesi italiani ad essa soggetti: che sono poi anche, un po', i segni della vitalità italiana, in via di rinvigorirsi. È già significativo il fatto che moti, a fondo sociale, di Palermo, di Napoli, di Messina, tendessero tutti, più o meno, ad allargarsi in senso anti-spagnolo, anche da parte delle masse, per quanto esse, senza vere direttive politiche, aperte alle più varie suggestioni, gravate dal peso dei ceti locali privilegiati, finissero poi sempre col riadagiarsi nella fedeltà a Spagna e magari spalleggiarla. Le provincie italiane, poi, rendevano sempre meno alla Spagna; sempre più il loro gettito fiscale si disperdeva senza vantaggio dello stato. Già vi erano provincie profondamente rovinate dal malgoverno e dall'abbandono e dal fiscalismo. E poi, gran parte delle imposte, come quelle del focatico e quelle sui feudatarî, erano vendute o affidate, per la riscossione, a baroni ricchi, a capitalisti, a Luoghi pii che avevano anticipato il denaro alla corte. Ciò che dei pesi pubblici e dei beni demaniali andava al fisco era sempre meno, in confronto di ciò che andava ad appaltatori, gabellieri, creditori: sebbene le imposte non diminuissero affatto, tutt'altro. Venduti gran quantità di uffici e giurisdizioni; vendute quasi tutte le 2000 fra città e borgate che il Regno contava; vendute le dogane regie, i dazî di transito. Quindi un groviglio di amministrazioni particolari, mentre si svuotava e afflosciava la finanza pubblica. Il controllo statale su queste particolari amministrazioni è di fatto quasi nullo, perché i controllori sono creature dei controllati. Il regno di Napoli, riferisce nel 1673 un inviato, sebbene gravatissimo non dà più nulla, tolte che siano le spese per le guarnigioni, per le galere, per i tribunali, per le ambasciate di Roma, Venezia, Parigi, Vienna. Lo stesso, quello di Sicilia. Quanto al regno di Sardegna, esso è tutto alienato e con quanto si prende dai concessionarî a stento si pagano soldati e magistrati. Da Messina e altre città litoranee, è avvenuto, dopo la rivoluzione, uno spostamento di popolo verso l'interno. Si sarebbe dovuto procedere, per gli effetti fiscali, a un nuovo censimento. Ma i viceré, o corrotti dai baroni che avevano accolto i profughi, o in tutt'altro affaccendati, non fecero più censimenti, dopo il 1678. E neppure si videro più, dal 1674 in poi, quei visitatori generali che il re prima inviava ogni 6 anni per sorvegliare la condotta dei viceré, giudici militari, funzionarî demaniali ecc., riferirne al Sovrano Consiglio d'Italia, porre limiti all'autorità dei viceré. I quali viceré, che prima duravano in ufficio 3 anni, ora durano fino a 7, rendendo quasi illimitata la loro autorità. Anche i reggenti che, due per la Sicilia, due per Napoli, due per Milano, sedevano nel Consiglio d'Italia a Madrid per vigilare sugli abusi, e che prima si cambiavano ogni 3 anni, non si cambiano più, con danno della giustizia e del governo. Anche nel Milanese si osservavano questi segni come di distacco del paese dal suo governo, di corruzione degli organi di collegamento e controllo. Viceré e governatori, burocrazia, camarille locali, appaltatori, ecc., al posto del re.
In che misura questo sottentramento di forze italiane o operanti dall'Italia non sia fatto meramente negativo, non solo decadenza della monarchia spagnola in sé e negli organi in cui s'incarnava, ma anche fatto positivo e progresso della società italiana, o, quanto meno, si risolva in un impulso alla società italiana e in sua propria azione, è difficile dire. Certo, esso è anche fatto positivo e progresso della società italiana e sollecita in modo diretto o indiretto questo progresso, in corrispondenza a tutta una ripresa di energie spirituali italiane e a una più favorevole situazione politica internazionale che ha notevoli e benefici riflessi in Italia. Insomma, si ha l'impressione che il momento culminante di quella crisi della vita italiana all'inizio dell'età moderna, stia per essere superato, più o meno, nei varî ambienti. A Milano, fino a metà del '600, si constata una diminuzione continua di lanifici. Ma nella seconda metà del secolo, le condizioni sono meno sfavorevoli, se appaiono tante nuove iniziative industriali per questa e per altre industrie, anche di stranieri, inglesi o francesi. Il Piemonte accenna anch'esso ad affrettare il passo: e si rivolgono cure al porto di Nizza, per farne un emporio internazionale, si lanciano idee d'istituti di credito, affiora qualche idea di libertà economica e di critica alla politica mercantilistica. Debole vita economica ancora nel paese: ma molta gente, nobili specialmente, ha denari assai investiti fuori dello stato. E, dentro, molti progetti di trattati con l'estero, di compagnie commerciali, ecc. Si guarda con molto interesse a Inghilterra, Olanda e Francia, con le loro società di commercio e di navigazione.
Si avvertono anche i segni di un'attività agricola che prende lena: certo, anche per effetto del processo di appropriazione privata di terre comunali, soppressione di usi civici, chiusura di terre aperte, ecc. Si sta rinnovando poi quella stessa trasformazione del feudo in allodio che già alla fine del Medioevo. Nel regno di Napoli, specie con Filippo IV, si ampliò il cerchio delle persone che potevano vantare diritti successorî, crebbe la facilità di vendere e rivendere il feudo: ciò che assimilava, appunto, feudo ad allodio e accresceva l'interesse del concessionario alla coltivazione. In Toscana, le descrizioni che ci fanno del granducato gli ambasciatori lucchesi sono meno nere che fino allora. Si nota che cresce la produzione del grano e del vino e se ne può esportare; che i denari ritirati dai traffici e andati alla terra cominciano a dare i loro frutti, come dànno i loro frutti gli studî della scuola di Galileo per la sistemazione delle acque e la bonifica del terreno, in Val di Chiana, in Val d'Arno, in Maremma. Si mise mano anche a lavori, specie nelle terre private dei Medici, assai cresciute dal '500 in poi, ma pessimamente tenute.
Con i segni del più alacre fare, anche quelli del più alacre pensare e aderire col pensiero alle cose, cioè della cultura che si ravvicina alla vita. Giovan Battista Vico vede una manifestazione di ripresa intellettuale nell'amore che si risveglia del semplice e schietto scrivere italiano.
È un nuovo gusto e, in quanto sincerità, è anche un nuovo atteggiamento morale. Da questo punto di vista, è da salutare la fondazione dell'Arcadia come data importante della vita italiana: non per i prodotti specifici, che non potevano esserci, della sua attività in quanto Arcadia, ma come principio di rinnovamento del gusto, aspirazione a maggiore sincerità, tendenza a orientare la poesia e le lettere verso il vero o verosimile, fare che esse servano non solo a dilettare, ma a educare. I problemi pratici urgono e penetrano di sé, avvivano di sé il mondo della cultura, più che non fosse avvenuto nell'età precedente. Ma ora un po' quei problemi si sono aggravati e gl'Italiani più illuminati si sentono al bivio del "trasformarsi o perire", un po' sono cresciuti i ceti e gruppi interessati a risolverli in modo nuovo, un po' si avvertono suggestioni e stimoli di altri paesi che si sono messi a camminare di più celere passo. E poi, come nelle fasi di ristagno le varie attività tendono a dissociarsi e disintegrarsi, così nelle fasi di maggiore fervore quelle attività si ravvicinano, si fecondano a vicenda, tendono a comporsi in unità, l'unità stessa dell'uomo. Così si presenta sempre più nella sua gravità, specialmente in certe regioni, come quelle rette da Spagna e in particolar modo il Mezzogiorno, il problema della vita clericale, con lo strabocchevole numero dei chierici di tutti gli ordini e sessi, con le loro immunità, le loro manomorte, l'azione mortificante sulla vita civile: e col chiudersi del '600, è già in corso, da parte di giuristi e scrittori del regno di Napoli, quell'attacco in ordine sparso contro l'abuso clericale, come fonte di malessere sociale e d'ingiustizia, che fra qualche decennio Pietro Giannone unificherà, coordinerà, ridurrà a sistema, metterà sopra un saldo fondamento storico oltre che razionale. Anche l'erudizione storica, che già vantava Biondo e Sigonio, ma che solo ora comincia, in Italia, a celebrare i suoi fasti parallelamente alle scienze fisiche e naturali; anche l'erudizione storica obbedisce un po' a preoccupazioni pratiche, a desiderio di elevazione della coscienza. L'amore della verità, l'apprezzamento dei fatti come unica scala per giungere a essa, l'osservazione e lo studio delle cose visibili e tangibili, cominciano a diventare il normale atteggiamento e orientamento degli animi e delle menti. Nella seconda metà del '600, in Italia vi è una discreta letteratura agraria. I cereali, la vite, l'olivo, gli agrumi, il gelso, i boschi, la meteorologia applicata ai campi ecc., formano oggetto di molti scritti. Insomma, è già cominciato quel movimento d'idee che nel '700 avrà a vivo centro la terra e dalla terra e dai bisogni degli uomini viventi su essa e di essa trarrà ispirazione a nuove vedute economiche e sociali e politiche. Si riflette in esso, tanto il crescente interesse delle menti per problemi di carattere pratico, di pubblica utilità, quanto l'inclinazione degli spiriti, sempre più spiegata, verso studî positivi, non di speculazione ma di osservazione e di esperienza. Opera certo sempre il vecchio fermento galileiano, nel campo delle scienze fisiche, mediche, naturali: e ora esso si ravviva, esce fuori dallo stretto campo delle scienze e investe un poco tutta la cultura. Si comincia a essere stanchi, come del troppo e freddo e artificioso poetare, così del troppo speculare in astratto, del troppo procedere per leggi e norme fisse e, perciò, ormai svuotate di ogni sostanza, del troppo impero di autorità, si chiamino esse Aristotele, si chiamino, che è quasi lo stesso, gesuiti, diventati quasi padroni e arbitri nel campo degli studî. Discredito delle "dottrine degli antichi filosofi", che non davano risposta o la davano non più soddisfacente a tanti problemi vecchi e nuovi; rigetto delle spiegazioni scolastiche dei fenomeni naturali; bisogno di costruire con l'aiuto dei sensi e del ragionamento, inducendo e deducendo, e di guardare i fenomeni naturali senza troppe preoccupazioni morali, religiose, metafisiche, cioè estrinseche alla natura e ai suoi fenomeni; derisione per i filosofi che sostenevano per vere le conoscenze meramente intellettuali, laddove era da credere solo a ciò che si vede e si tocca; apprezzamento grande del sapere che si acquista vedendo, osservando, prendendo contatto con gli uomini, ecc. Lorenzo Magalotti, fisico e naturalista toscano, viaggiatore appassionato, ma "non per copiare epitafî e contare scalini di campanili", esperto di ambienti intellettuali stranieri, assetato d'idee e di cose viste, derideva "certi uomini di lettere, con tutta la scienza e l'erudizione dei quali io non farei a baratto con alcune poche notizie acquistate alle tavole rotonde delle camere locande che ho girato". Da posizioni mentali, da esigenze spirituali non diverse era nato Bacone in Inghilterra, con la sua passione di raccogliere fatti ed elaborarli con l'intelletto, di essere cioè formica e ragno insieme; era nato Galileo in Italia, anch'egli non pago di opinioni altrui, formatosi non tanto alla scuola degli altri quanto di sé, allo studio diretto dei classici e dei filosofi antichi e della natura. Ed è visibile, in Italia, alla fine del '600, una tendenza a tornare a Galileo.
Tutto questo ci spiega tanto il credito che acquistano vecchie filosofie a fondo materialistico e naturalistico, quanto l'aprirsi delle correnti del nuovo pensiero europeo svoltosi, fuori d'Italia, sul tronco dell'italiana filosofia del Rinascimento e anch'esso piantato sull'osservazione ed esperienza e sulla spregiudicata elaborazione intellettuale. Quindi da una parte Epicuro, Lucrezio, Democrito, ecc., che circolano in mezzo a fisici, naturalisti, matematici, medici, cioè in quell'ambiente che era già molto imbevuto di galileianismo. Dall'altra Newton, Leibniz e, più ancora, Gassendi e Cartesio. L'Italia si apriva a essi. Ormai gl'Italiani venivano uscendo da quell'isolamento, sia pure relativo isolamento, in cui il dominio spagnolo e gli organi della Controriforma, timorosi di male dottrine e di avversa propaganda, li avevano tenuti. La repubblica delle lettere anziché l'Italia ha per capitale la Francia, la nazione a cui ora il vento gonfia le vele, con i suoi Re Sole e la sua dominante cultura: cultura aulica dei Corneille e Boileau e Bossuet e Fénélon; e cultura libera e di opposizione cattolica o protestante, che nella seconda metà del secolo e specialmente dopo il 1685 emigra largamente in Olanda, in Prussia, ecc. Napoli e la Toscana furono le regioni che forse prime e più d'ogni altra si aprirono a queste influenze. Nella seconda metà del '600, molti seguaci ha a Napoli Gassendi. E dopo Gassendi, Cartesio. Specialmente la gioventù si attacca loro, quella gioventù che in libri napoletani del principio del '700 ci è rappresentata come scettica, mal disposta verso poeti e oratori, storici e grammatici, e solo incline alla filosofia e alle scienze al modo di Cartesio. E da Napoli andò a Pisa A. Borelli, grande cartesiano d'Italia. E a Pisa fece scuola, contribuendo a fare di quell'università alla fine del secolo un covo di novatori. Per opera di questi maestri e degli esempî d'oltr'Alpe, si accentuarono certe reazioni, certi aspetti negativi della nuova cultura: la poca considerazione e quasi disprezzo degli antichi, il discredito di ogni forma di sapere tradizionale e storico, l'apprezzamento solo di quel che si trae dal proprio pensiero, l'ambizione di trovare da sé per via così di ragionamento come di esperienza, lo svalutamento di ogni moto inconscio e della fantasia, cioè della poesia, ecc. Tutte cose che in Francia toccavano il colmo, ma anche in Italia si diffusero; sebbene, per intenderci, in Italia i toni assai si smorzassero e venisse temperato il rigetto della tradizione e il disprezzo degli antichi; temperata, con la tradizione galileiana, la tendenza cartesiana; accettato con discrezione il concetto moralistieo e utilitario dell'arte.
Naturalmente, vi fu subito reazione. Reazione di varia natura. Vi fu quella della scuola e dei gesuiti e dell'ordine politico, solidale col vecchio modo di pensare, incline a vedere negli studî scientifici un nemico (la Spagna avversava nelle università italiane questi studî, solo lasciando aperta la strada degli studî legali): reazione veemente, sebbene ora non ardessero più roghi come al tempo di Bruno, e stimolo a nuova e maggiore azione. La Chiesa si sentiva colpita non solo indirettamente in quanto legata a una determinata filosofia, ma anche direttamente, poiché l'incredulità e lo scetticismo passavano dal campo del sapere tradizionale al campo della religione. E molto si lamentava sul finire del '600 l'incredulità degl'Italiani, a causa o del commercio con gli stranieri da parte della troppa gente che girava il mondo o delle scienze sperimentali che applicavano alle cose soprannaturali i metodi adatti ai fenomeni esterni. E vi fu, più importante, quella che si armava un po' delle stesse armi dei novatori: quella che ebbe in Vico il suo maggiore rappresentante. E col Vico abbiamo la critica di Cartesio, che è la critica anticipata dell'illuminismo. La sua voce allora non destò grande eco. Solo in seguito l'Italia l'avrebbe ascoltata e riconosciuta sua. E realmente, Vico è da considerare voce della filosofia italiana, dello spirito italiano, nutrito di concretezza e di senso storico, diffidente della pura logica, solito a riferire la cultura alla vita civile come a sua misura, a contemperare ed equilibrare opposte esigenze, a svolgersi e arricchirsi senza rinnegare nulla di sé. Vico parlò essenzialmente come filosofo di fronte a filosofi.
Più sonora fu la nota, diremo così, nazionale, nella reazione degli uomini di lettere e degli eruditi: anche se essa in taluni nascondeva spirito di conservazione e attaccamento al vecchio. Ma in altri si accoppiava a desiderio d'innovare e progredire. Di fronte alle critiche malevole di letterati francesi alla letteratura italiana, i confratelli italiani si risentivano; di fronte alla penetrazione dei prodotti letterarî francesi o anche solo alle intenzioni e iniziative francesi di venire a dissodare il terreno italiano, come terreno di nessuno, essi si sentivano animati da spirito di emulazione, invogliati a fare essi quel che facevano o volevan fare gli altri. In Francia vi era il Ménage che lavorava a scrivere sulle origini della lingua italiana: e ciò stimolò il Dati fiorentino a tentare lui l'impresa, perché la sua città e l'accademia, che pure era in ottima relazione col Ménage, avesse l'onore del primato. E vi fu come una gara. Questa questione della lingua italiana e della superiorità della lingua italiana o francese allora riscaldava non poco gli animi da una parte e dall'altra delle Alpi. E dal contrasto nasceva maggiore attaccamento degl'Italiani alla loro lingua e un altro stimolo ad abbandonare il latino per l'italiano. Quindi, pur mentre in quel tempo studio e conoscenza di classici, già decaduti, tornavano a essere apprezzati e promossi, si diffondeva sempre più l'uso di scrivere in italiano anche da parte di chi prima usava il latino. E ciò, in nome di bisogni nuovi dello spirito che si volgeva alla geografia, alla storia, alla letteratura italiana; in nome delle scienze che difficilmente potevano adattarsi a quella lingua; e anche per certo orgoglio d'Italiani, e per "decoro della nostra Italia" che trovava appagamento nel possesso pieno e nell'uso di una lingua propria.
Né la contesa fra Italiani e stranieri era solo per la lingua, e solo in questo campo gl'Italiani si sentivano stimolati a fare e innovare. Al Menzini l'Arte Poetica (1688) è suggerita da certi versi di Boileau. Egli vuol tener su il prestigio degli scrittori italiani. Contro il padre Bouhours, il Fontanini fa nel 1701 l'apologia del Tasso. Al Muratori, che gli preannuncia un'opera educativa dei giovani e rivendicatrice dell'onore italiano contro i Francesi (cioè quella che sarà qualche anno dopo l'opera Della perfetta poesia italiana), lo Zeno risponde approvando. Qualche anno dopo, il desiderio di non rimanere indietro ai Francesi, il tedio di vedere sui teatri italiani quasi solo drammi francesi, spingeva il Martelli ai suoi tentativi di tragedie italiane. Insomma, la polemica era aperta, con tanto maggior fervore da parte degl'Italiani in quanto parecchi degli avversarî francesi erano gesuiti. Da una parte, piuttosto spirito aggressivo e di denigrazione; dall'altra, sforzo piuttosto di difesa. Ma si tendeva anche ad affermare primati, ad additare ciò che i Francesi dovevano all'Italia quando movevano i primi passi e imitavano o copiavano versi e prose e opere intere d'Italiani. Nell'attrito, si riscaldava il letterario amore pei l'Italia, nel tempo stesso che si gettavano le basi della storia letteraria italiana. Anche nella più grave attività erudita, vi furono contatti e scintille fra Italiani e stranieri. Sul finire del secolo, parecchi eruditi olandesi, tedeschi e, più, francesi, vennero in Italia, visitarono biblioteche, entrarono in corrispondenza con gl'Italiani. L'opera loro in Italia era sentita come una muta accusa e un muto rimprovero. E poi, quelle esplorazioni le potevano fare essi con onore loro e dell'Italia! E alcuni, realmente, si misero all'opera, tenendo d'occhio tanto quel che si era fatto in Italia dopo il '400, quanto quel che si faceva in Francia e altri paesi, specialmente dal Montfaucon e dal Mabillon, la cui azione più che di vero insegnamento fu di esempio e stimolo. Sorgeva così il proposito della storia monastica d'Italia, il proposito dei fasti episcopali d'Italia o Italia sacra, il disegno delle antichità italiane nel Medioevo, delle cronache medievali italiane, degli annali d'Italia. In questo tempo, è rallentata la ricca produzione storiografica italiana sui fatti del vasto mondo. Viceversa, si comincia a coltivare intensamente la materia storica italiana, a lavorare in profondità il suolo della patria. Il sentimento nazionale, finora quasi solo letterariamente atteggiato, comincia ad approfondirsi e sostanziarsi, comincia a diventare eccitatore di azioni. Quel che si fa viene sempre più riferito sentitamente al bene e all'onore di una patria che è di tutti gl'Italiani. In questo, il Muratori, che alla fine del '600 è già al lavoro, merita lode di uomo altamente rappresentativo. Non gli riuscì, ai primissimi del '700, di attuare la sua vagheggiata Repubblica letteraria, cioè lega di tutti gli uomini di lettere e studio italiani, volta a promuovere lettere e scienze e filosofia in Italia, agevolare i rapporti fra i cultori dell'arte e del sapere, rialzare la riputazione del paese, fronteggiare Francesi e Tedeschi e mettersi al loro livello dove il nostro era più basso. Si contrappose a questo disegno, un po', quell'ideale cosmopolita della cultura che già si era affacciato nel '400 e di nuovo riemergerà nel '700, proprio di tutte le epoche di crisi politica e sociale, in cui si rallenta il legame del cittadino alla sua patria o alle istituzioni che la incarnano. Ma sorse qualche anno dopo, per opera anche del Muratori, Fontanini, Vallisnieri, ecc., e sotto la direzione di A. Zeno, il Giornale dei letterati italiani del Maffei, che si proponeva di difendere il lavoro intellettuale degl'Italiani e metterlo in valore. In ogni modo il Muratori fu gran dissodatore, grande ricercatore e ritrovatore dell'Italia agl'Italiani, che da allora in poi se la videro davanti agli occhi con le sue ossa e la sua polpa, con tutte le sue cronologiche e geografiche determinazioni. Certo, molte cose mutavano o si preparavano in questo campo dei sentimenti e delle idee fra il '600 e il '700.
Nuovo e più favorevole assetto europeo. Albori di Risorgimento. - Intanto anche i quadri politici, italiani ed europei, venivano mutando e fornivano più favorevoli condizioni a questa nuova e promettente vitalità. Mutavano, innanzi tutto, a vantaggio della corona di Francia. L'epoca della ripresa italiana era anche l'epoca in cui, mentre la Spagna ogni giorno declinava come forza politica, come capacità amministrativa, come credito morale, si alzava ogni giorno più in Italia la Francia, dopo i lenti ma continui progressi del sec. XVII: fosse la politica italiana di quel re fine a sé stessa, cioè perseguisse obiettivi territoriali nella penisola; fosse essa mezzo per altri fini e obiettivi da raggiungere altrove. Ed è vero l'uno e l'altro. Dopo la pace dei Pirenei, quasi tutti gli stati indipendenti italiani, volenti o nolenti, erano entrati nell'orbita di Francia: così Parma e Modena. Così Mantova, il cui duca pose l'erede minorenne sotto la protezione di quel re. Così Carlo Emanuele II, marito della francese Maria Giovanna di Nemours: sebbene egli rodesse il freno, deplorasse la sua forzata immobilità e preparasse la riscossa, e, non potendo più contare sulla Spagna e fare il vecchio giuoco, cercasse attorno a sé altri e nuovi appoggi che lo aiutassero a "tirer cette couronne de l'oppression de voisine." farlo considerare dagli amici e temere dai nemici, come scriveva l'agosto '64 nel suo Memoriale, riferendosi all'Inghilterra. E sull'Inghilterra, che allora era già presente nel Mediterraneo e vi cercava basi navali e sbocchi al suo commercio, il duca raccolse più di una speranza, ne coltivò l'amicizia, trattò per mettere a sua disposizione i porti di Nizza e Villafranca, vincendo i suoi scrupoli di cattolico. E la Francia, attenta; la Francia sempre pronta a far balenare davanti agli occhi del duca lo specchietto del Milanese. Mentre teneva fortemente il Piemonte, Luigi XIV circuiva Genova, per staccarla da Spagna e farne base di ogni impresa nella valle del Po: con grande preoccupazione del duca di Savoia che non voleva vedere quel re mettere piede in riviera e nelle Langhe. Inviati e ambasciatori francesi in Italia pare si proponessero non solo di tenere alto il prestigio del loro re, ma di umiliare i principi italiani. Questo proposito è più che mai chiaro anche a Roma dove si ebbe la misura piena dell'orgogliosa prepotenza e delle fantasiose ambizioni di quel re. Le istruzioni di Luigi XIV al duca di Créquy, ambasciatore presso la Santa Sede, non lasciavano dubbî. E si ebbe così la contesa per i Corsi, dopo atti di violenza commessi da quei mercenarî del papa nel palazzo Farnese, sede dell'ambasciata, in seguito a zuffe tra essi e Francesi. Riparazioni al re erano certo dovute. Ma l'ambasciatoie ne chiese tali e tante e così lesive dell'onore della S. Sede, che non poterono essere concesse. E allora l'ambasciatore abbandonò Roma, il re fece imprigionare e poi espellere il nunzio, ordinò di occupare Avignone, preparò una spedizione nello Stato della Chiesa, imponendo alla Spagna e alle corti italiane di dargli il passo nei loro stati, tanto che il papa Alessandro VII, non ostante l'opera mediatrice della francese duchessa di Savoia, dovette consentire all'accordo di Pisa (febbr. 1684), all'invio in Francia del cardinale nepote che doveva leggervi - in francese - una dichiarazione del papa sull'assoluta involontarietà di quelle offese da parte sua, all'erezione di una piramide in Roma, nel quartiere dei Corsi, per eterno ricordo del bando perpetuo inflitto ai colpevoli. Disse poi, a sua giustificazione, che voleva allontanare ogni pericolo di guerra, in un momento in cui i Turchi minacciavano a Oriente. Ma anche dopo, quando re Luigi, nella questione del giansenismo, parteggiò per il papa, egli lo fece dall'alto del suo trono, diede lezione di dogmi, trattò Roma come uno staterello. Durante, poi, le dispute per gli articoli della Chiesa gallicana, agenti, ambasciatori e legisti di Francia sostennero che la città di Roma era una repubblica composta di tutte le nazioni e che bastava essere cattolici per esserne membri e poterne essere capi. Solo più tardi il re, arrendevole, restituì Avignone, cedette in altre quistioni, diede opera perché il parlamento, acerrimo assertore del gallicanesimo, attenuasse lo zelo.
Si ebbe poi la politica aggressiva di Luigi XIV contro i Paesi Bassi spagnoli e, per conseguenza, contro l'Olanda che in essi vedeva un suo baluardo. E si ebbe la coalizione europea contro Francia, nel 1673; la Spagna quasi in prima linea nell'organizzare la resistenza; Asburgo spagnoli e Asburgo austriaci di nuovo solidali e l'impero di nuovo in guerra aperta con Francia, come non accadeva dal 1544. E di fronte a questo grande cerchio, la Francia fare o tentare diversioni in Italia, progettare una spedizione nel Milanese, inviare nel 1676 il marchese de Billard a Torino e, poiché trovava i ministri di Carlo Emanuele restii a guerra o a quella guerra, lusingare il giovane e bollente figliolo suo Vittorio Amedeo, volgere la flotta sulla Sicilia, un po' soffiando sulla ribellione dei Messinesi e un po' accettandone le offerte, signoreggiare temporaneamente la città, per poi abbandonarla alle vendette degli Spagnoli.
I quali si difendevano come potevano, pur avendo perso la primazia nel sistema delle forze antifrancesi d'Europa e d'Italia. Ora, facevano essi, sovente, appello ai principi italiani, sollecitavano accordi fra loro e con Spagna. Nel 1670, suggerivano al duca di Savoia una lega italiana; nel 1675, tentavano altri assaggi per una lega coi principi, "per la pace d'Italia". Nulla si conchiuse, sebbene in quegli anni i governi italiani vivessero nell'incubo di una Francia sempre più potente e invadente. E nel 1674, vi fu un convegno a Venezia di molti inviati di stati italiani, per consigliarsi sui modi d'impedire la iattura di un nuovo dominio che sarebbe stato peggiore del vecchio, data la maggiore vicinanza e, attraverso il Piemonte quasi vassallo, continuità territoriale della Francia. Si temeva per Mantova, non diventasse una base francese e non richiamasse, per giunta, anche i Tedeschi. Grande e diffusa era l'aspirazione a uno stato di neutralità d'Italia, riconosciuto dalle potenze europee. In tanta molteplicità di contrasti europei, in tanta differenza di forze fra le grandi potenze e gli stati italiani, questi sentivano quasi tutti cadere le superstiti ambizioni o velleità di approfittare delle guerre altrui, intromettervisi, cercare di trarne vantaggio. E un'Italia fuori della mischia, sicura in una neutralità assicurata dall'Europa, pareva, ai più, l'ideale.
Ma la Francia seguitava a crescere, in Italia, dopo le paci di Nimega e di Saint-Germain-en-Laye, che le procurarono notevoli acquisti territoriali nei Paesi Bassi e sul Reno. Essa era giunta ormai al culmine, come potenza militare e riputazione. Molti stati tedeschi, anche di principi elettori, si legavano a re Luigi. Per il capo del Re Sole, passavano molti disegni, vaste fantasie: l'Oriente, il regno dei Romani per il delfino, Francesi e Tedeschi associati ai fini di una nuova crociata. In attesa che tutto questo maturasse, si ebbe l'8 luglio 1681 il trattato segreto col duca di Mantova, preparato da abili agenti, con una lunga opera di lusinghe e corruzione esercitata sul debole, scialacquatore, indebitato duca Ferdinando Carlo. Il quale trattato autorizzava il re di Francia a occupare la cittadella di Casale, in cambio di una somma di denaro, di una pensione annua e, in caso di guerra, del titolo di generalissimo del re. Dopo di che, una colonna francese, attraverso la Savoia e con l'aiuto della duchessa reggente, ma con accorgimenti che seppero di frode nei riguardi del duca, occupò Casale: nel tempo stesso che, sul Reno, veniva occupata Strasburgo. E fu minaccia di ancor maggiore servitù per i Savoia che già, cinquant'anni prima, avevano dovuto cedere Pinerolo alla Francia; minaccia per il Milanese, ormai anch'esso rinserrato fra Mantova e Casale; minaccia per Genova, che aveva alle spalle quella gran fortezza francese e di fronte la flotta, ancora dominante nel Mediterraneo, del re di Francia. Il quale nel 1684, adducendo una vera o presunta parzialità della repubblica per la coalizione europea strettasi contro di lui, fece dalle sue navi bombardare la città e impose al doge di umiliarsi ai suoi piedi. Genova non era solo un porto: era una ricca tradizione levantina, era la Corsica. A Versailles non sono dimenticati né i tempi in cui Genova aveva nel re "il suo vero e legittimo signore", prima che Andrea Doria lo "tradisse"; né quelli in cui la Corsica si era data, con Sampiero da Bastelica, a Enrico II, ed Enrico II l'aveva ceduta a Genova. E il rappresentante francese, che nel 1682 aveva preso sede stabile a Genova, sorveglia attentamente quel che avviene in Corsica. Gli agenti francesi in Italia fanno sempre posto, nelle loro relazioni, alle cose dell'isola: paese ricco, si dice, che i Genovesi hanno rovinato.
Le cannonate contro Genova segnarono il massimo di preminenza francese in Europa e in Italia. E segnarono anche il principio della riscossa. Si costituì, vinta la stanchezza seguita alla pace di Nimega, la nuova e maggiore coalizione che raccoglieva impero, Olanda, principi della Germania staccatisi dalla Francia e ravvicinatisi all'impero, Inghilterra. L'Inghilterra, anzi, col suo nuovo re, Guglielmo d'Orange, animato da un potente spirito antifrancese, ne fu la maggiore forza animatrice. Il re di Francia ritornò allora ai progetti di Richelieu e Mazzarino in Italia, tanto più in quanto era ormai maturato il proposito di raccogliere per il nipote l'eredità spagnola. Sebbene la sua azione politica e bellica gravitasse specialmente sul Reno e sui Paesi Bassi, pure mandò a Torino e alle altre corti italiane il visconte di Rébenac, esortò alle armi e alla concordia, parlò d'ingrandimenti territoriali e di libertà d'Italia. Tutti rimasero freddi. Anzi Vittorio Amedeo II, che già aveva avuto qualche trattativa con i collegati, quando re Luigi gli chiese a garanzia la cittadella di Torino, ruppe con lui e si accostò alla coalizione. Egli osservava attentamente le cose dell'Europa, dalle quali, solo, poteva venire qualche rivolgimento alle cose d'Italia. E mentre gli altri, da quella grande massa di contrastanti interessi volteggianti attorno e sopra la penisola, erano tratti a vagheggiare disinteresse e neutralità, esso fu spinto a più energica azione, come chi, volendo a tutti i costi avanzare, si getta nella corrente che può, sì, travolgerlo, ma può anche condurlo in porto. La coalizione affermò ben presto la sua superiorità e nel maggio del 1692 l'Inghilterra, con la battaglia di Hogue, strappò alla Francia il primato marittimo. Il duca, invece, trascurato dagli alleati, fu battuto, perdette Savoia e Nizza e Susa. Tuttavia, occupò parte del Delfinato, bombardò Pinerolo. E poiché il re voleva staccarlo dalla coalizione e riprese per mezzo del Rébenac i colloquî del 1690; così il duca, che non voleva neppure troppa vittoria dei collegati in Italia e temeva che la fortezza di Casale, assediata da loro, cadesse nelle loro mani, fece accordi segreti col governatore francese della piazza e ottenne, con accorgimenti e simulazioni, che essa fosse resa ai Gonzaga, antichi signori, anziché alle forze della coalizione. Per sé con ulteriore accordo, ebbe o riebbe Pinerolo, vecchia spina francese nel cuore del ducato sabaudo; riebbe Nizza e Savoia e Susa. S'impegnò di ottenere dagli alleati la neutralità dell'Italia o, non ottenendola, di unirsi a Francia col patto d'acquistare il Milanese e di cederle la Savoia, quando, alla morte di Carlo di Spagna, mancassero figli a raccoglierne la successione. Gli alleati dapprima rifiutarono di concedere o riconoscere questa neutralità italiana. Ma di fronte al rafforzarsi dell'accordo franco-sabaudo, finirono col cedere. Incaricarono anzi Vittorio Amedeo di trattare la pace che fu conchiusa il 7 ottobre 1696 e stabilì lo sgombro dell'Italia e il rispetto della neutralità. Alla fine del '97, poi, pace generale a Ryswick: che segnò la ritirata di Luigi XIV.
Cominciava il tramonto dell'egemonia francese; cominciava ad attuarsi un maggiore equilibrio in Europa. Questo maggiore equilibrio era una condizione di fatto, data la molteplicità delle forze entrate sulla scena europea con funzione di prim'ordine: specialmente l'Inghilterra, dopo la seconda rivoluzione e l'ascesa di Guglielmo di Olanda su quel trono; e l'Austria, dopo le grandi vittorie sui Turchi, la riconquista dell'Ungheria, quasi la nuova giovinezza degli Asburgo austriaci, che li porta anche a rinfrescare titoli di diritto dell'impero sugli stati italiani, a covare ambizioni di acquisti o riacquisti territoriali italiani. Ed era, l'equilibrio, anche un'aspirazione viva, ormai quasi una dottrina, un mito, messo in valore specialmente dall'Inghilterra, perché specialmente rispondente all'interesse di un paese che, non avendo e non potendo avere aspirazioni di predominio continentale, intendeva anche che nessun'altra potenza tale predominio conseguisse, col risultato di limitare sul continente la sua libertà commerciale; all'interesse di un paese che, avendo aspirazioni di predominio marittimo, cercava di mantenere nell'Europa le condizioni più favorevoli all'acquisto e conservazione di tale predominio. Fra tali condizioni, in primissimo luogo, questa: che le regioni e i piccoli e mezzani stati del Mare del Nord, dell'Atlantico, del Mediterraneo, non fossero assorbiti dagli stati più grandi; che essi fossero messi nella possibilità, necessità, convenienza di conservarsi o diventare indipendenti di fronte a tali più grandi stati dell'interno, e di rimanere aperti alle influenze di quella nazione che fosse più forte sul mare. Insomma, sorgeva, nei rapporti dell'Italia, un'età in cui la vecchia e non mai spenta aspirazione a una maggiore indipendenza avrebbe trovato in Europa forze interessate, entro certi limiti, a soddisfarla; una età in cui il vecchio e fatale processo di unificazione o, quanto meno, specialmente nella frammentaria Valle Padana, di più coerente assetto politico-territoriale, che servisse di freno alla troppa invadenza delle grandi potenze europee nella penisola, avrebbe ricevuto qualche impulso e acceleramento, sempre da quelle forze europee che tale invadenza avevano interesse a contenere. Ciò si vide, già sul principio del '700, con la guerra per la successione spagnola. Era in giuoco, direttamente, mezza Italia. Ma la penisola fu premuta da tutte le parti; i mari attorno battuti da tutte le flotte; gli stati indipendenti, tutti minacciati di rovina, fossero essi neutrali, come Venezia, partecipassero essi alla lotta, come Farnesi, Estensi, Gonzaga, Savoia. Particolarmente difficile la posizione di questi ultimi, presi tra la Spagna padrona di Lombardia e la Francia irrompente dall'ovest. L'unione delle due corone poteva significare la servitù completa. "Niun mezzo per bilanciare le forze, niuna speranza per la mia Casa: ero circondato, avviluppato da ogni banda, perdevo ogni mio credito e la riputazione che la postura dei miei stati dava alla mia amicizia". Ma capì che il momento poteva anche essere buono, per lui: "Ce sont des occasions que les siècles entiers ne presenteront peut-être jamais": così egli scriveva. Intensissima, in quegli atti, l'attività della diplomazia sabauda, sollecitata dal principe a fare il possibile e l'impossibile, affiancata dalla volontà e capacità di lottare anche con le armi.
Vittorio Amedeo si unì da principio con i Borboni ed ebbe il comando di tutte le forze franco-ispane che dovevano operare in Italia. Ma presto si urtò con i suoi alleati. E allora, prima si fece in disparte, lasciando che il Vendôme seguitasse solo nella campagna contro gl'imperiali comandati da Eugenio di Savoia; poi, timoroso che la fortuna dei Borboni in Italia si consolidasse troppo, si alleò con gli Asburgo (1703). Si ebbe allora l'invasione del Piemonte, l'assedio di Torino, la tenace resistenza del duca e della fedele città, la vittoria degli Austro-piemontesi: tutti fatti che non solo decisero le sorti dell'eredità spagnola in Italia ma concorsero anche alla vittoria della coalizione negli altri scacchieri della guerra, dato l'accanimento con cui Luigi XIV s'impegnò contro il duca di Savoia e le molte forze che concentrò contro di lui, sottraendole all'altro fronte. Dell'importanza del compito assolto nel quadro degli eventi d'Europa, Vittorio Amedeo ebbe piena consapevolezza: crebbe la riputazione sua e del casato in Europa: e l'Inghilterra cominciò a fare molto assegnamento su di lui e a considerare con favore la possibilità d'ingrandirlo e rafforzarlo. Nettissimo, poi, si delineò il predominio sabaudo sugli stati indipendenti italiani come non mai. Di essi, durante la guerra e nelle trattative dei congressi, nessuno tenne alcun conto. Li taglieggiarono, violarono la loro neutralità, disposero come vollero dei loro territorî. Balenò in quelle corti la visione di un avvenire in cui i Savoia li avrebbero spazzati via tutti. E questa non lieta visione ebbe la sua efficacia nell'indurli ad accostarsi all'Austria, come sola capace di fornire loro protezione. Nessun dubbio che l'ascesa dei Savoia promosse, per opera degli stati italiani, le fortune dell'Austria nella penisola; come del resto le fortune dell'Austria promossero l'ascesa dei Savoia, resero la stessa Francia, oltre che l'Inghilterra, ben disposta verso di essi. Alla conclusione della pace, se l'Austria si ritagliò, nell'eredità spagnola d'Italia, la parte del leone, cioè Milanese, Napoli, Sardegna, e poi, in cambio, Sicilia, Vittorio Amedeo acquistò terre di Lombardia nel Vercellese e Pavese, terre del Monferrato che lo avvicinarono alla Liguria e al mare, la Sardegna: che volle dire anche titolo regio. Non era tutto quello che il nuovo re aveva sognato. Eppure, in quegli anni, apparve più che mai chiaro agli occhi suoi e dei suoi ministri il fine ultimo della politica sabauda: che era quello di chiudere le porte d'Italia a Francesi e Tedeschi e rendersi signori col tempo di gran parte della penisola. Riserbava il nuovo regno a questo alto destino la possibilità in cui si trovava di partecipare proficuamente alle grandi competizioni europee, d'ingrandirsi nella Valle Padana e nella Liguria, di far coincidere interesse dinastico e interesse nazionale. Dopo qualche anno eguali interessi europei di equilibrio italiano fra Asburgo e Borboni tolsero di mano all'Austria Napoli e Sicilia, restaurarono nella sua antica indipendenza questo regno duplice e uno. Tutto ciò mentre la vita propria della penisola, la vita della nazione italiana, le sue energie morali e intellettuali, le sue forze di lavoro, come abbiamo già detto, accennavano a nuovo vigore o, meglio, cominciavano a mostrare visibilmente i frutti dell'intimo, lento, silenzioso travaglio di trasformazione, compiutosi nei due secoli precedenti, nei secoli del riposo e dell'apparente stasi. Nuova fase di vita interna, italiana; nuova fase di rapporti Italia-Europa e di vita internazionale: capace anch'essa, alla sua volta, d'influire su quella vita interna e riscaldarla del suo calore, comunicarle qualcosa del suo più celere ritmo. Albori di Risorgimento, che è, insieme, Italia ed Europa.
L'Italia dal 1713 al 1789.
Alla guerra di successione spagnola, terminata nel 1713, seguono in Italia in breve tempo tre altre guerre che dànno luogo a nuovi trapassi di dominî: questa travagliata crisi politica dell'Italia della prima metà del Settecento, accelera un processo di esaurimento, per cui antiche dinastie si estinguono, come quelle degli Estensi, dei Gonzaga, dei Farnesi e dei Medici, antiche famiglie dell'oligarchia dominante, come a Lucca e a Venezia, s'impoveriscono economicamente, moralmente e fisicamente; e il loro esaurimento si accompagna a quello delle loro repubbliche. Per fortuna d'Italia, quel processo di esaurimento si risolve in un processo di selezione: la nazione vive per nuove energie politiche, per nuovi gruppi sociali attivi di pensiero e di opere e in nuovi e rinnovati centri politici. Nel 1713, è vero, l'Italia continuava a essere sotto il predominio straniero, poiché l'Austria si sostituiva alla Spagna; ma proprio allora si affermava il principato sabaudo, ed esso era attratto sempre più verso una politica italiana.
Nel 1720, un nuovo assetto fu dato all'Italia, in seguito a una guerra provocata dalla Spagna per riprendere i dominî italiani. La Spagna aveva fatto le spese della guerra di successione spagnola. Il malcontento fu rinfocolato dall'ambizione della regina Elisabetta Farnese, seconda moglie di Filippo V, e dall'attività febbrile, intrigante del ministro Alberoni, devotissimo alla regina, a cui doveva la sua fortuna. Ai figli appunto di Elisabetta Farnese, don Carlos e don Filippo, confidava il ministro di potere far conseguire in Italia i dominî che erano stati spagnoli. L'Alberoni pertanto cercò di isolare politicamente l'Austria: brigò in Francia, in Inghilterra, in Svezia e in Turchia. Ma gl'intrighi diplomatici, di cui egli credeva di essere maestro, non furono fortunati; né la vecchia Spagna, esausta, trovò in sé forze sufficienti per tenere testa alla coalizione che si formò non appena scese essa in armi, sbarcando milizie in Sardegna e in Sicilia (1717). Presso Capo Pachino la flotta spagnola era distrutta dall'inglese (1718). L'Austria fu sollecita a mandare soldati in Sicilia, che, senza curarsi delle guarnigioni sabaude, combatterono le milizie spagnole sbarcate. Aveva essa intenzione di unire al Napoletano la Sicilia. E realmente col trattato dell'Aia (1720) riuscì a conservare la Sicilia; Vittorio Amedeo II dovette accontentarsi di avere in cambio di quell'isola la Sardegna col titolo regio; la corte di Madrid fu accontentata col riconoscimento di don Carlos alla successione del ducato di Parma e Piacenza, di cui egli prese possesso nel 1731, alla morte del duca Antonio Farnese. Così l'Austria raggiunse in Italia e in Europa la sua maggiore espansione e il suo maggior prestigio. Potenza tedesca, essa esercitava la sua azione politica nell'Europa centrale; potenza danubiana, essa proprio in quegli anni (gli anni delle vittorie di Eugenio di Savoia sui Turchi), si spingeva fino a Belgrado; potenza dominatrice in Italia, si estendeva dalle Alpi alla Sicilia. Ma forse la sua grande espansione in Italia fu elemento di debolezza più che di forza, e a ogni modo di diversione e di consumo di energie, che essa avrebbe potuto raccogliere e spiegare più proficuamente, sia come potenza tedesca, sia come potenza danubiana. La guerra, infatti, di lì a poco seguita, e che ebbe inevitabilmente un teatro d'azione in Italia, determinò il declinare della potenza austriaca in Europa. L'occasione fu data dalla guerra di successione polacca, in seguito alla morte del re di Polonia Augusto II (1733). Sosteneva la Francia un suo candidato; Austria, Russia e Prussia sostennero invece la candidatura di Augusto III di Sassonia. L'Austria sul fronte polacco aveva forti alleati, ma essa si trovò isolata sul fronte italiano contro la lega dei Borboni di Francia, di Spagna e di Parma, alla quale aderì il re di Sardegna Carlo Emanuele III, succeduto al padre Vittorio Amedeo II nel 1730. Né l'Austria poté difendere e conservare l'Italia meridionale e la Sicilia, poiché non aveva propria flotta, né poteva contare sulla flotta inglese, essendosi l'Inghilterra, allora governata dal Walpole, disinteressata della questione polacca, e avendo lasciato che la Francia agisse liberamente in Italia. L'esercito di Carlo Emanuele III ebbe una parte principale nella guerra. Nel 1733, il re entrava in Milano, e l'anno seguente vinceva in due battaglie gli Austriaci a Parma (giugno 1734) e a Guastalla (19 settembre 1734). Nello stesso tempo gli Austriaci erano sconfitti nell'Italia meridionale a Bitonto (maggio 1734) ed erano nel '35 scacciati dalla Sicilia.
Quando, di lì a poco, si avviarono le trattative di pace a Vienna, l'Austria non possedeva più in Italia che alcune fortezze nella Lombardia; ma ebbe diplomaticamente buon giuoco, accontentando i Borboni e isolando il re di Sardegna. Il quale perciò dovette accontentarsi di Novara e Tortona e dei feudi delle Langhe: piccola cosa dopo grandi sacrifici e grandissime speranze. Il candidato fallito alla corona polacca, Stanislao Leszczyński, otteneva a titolo vitalizio il ducato di Lorena, che dopo la sua morte sarebbe passato alla Francia. Stefano di Lorena, che perdeva l'avito ducato, otteneva la Toscana, dove nel 1737 moriva l'ultimo dei Medici, il granduca Giangastone. Carlo di Borbone era riconosciuto nuovo re di Napoli e della Sicilia.
Le condizioni politiche dell'Italia uscivano migliorate dal nuovo assetto per il trattato di Vienna del 1738. Da due secoli, la dominazione straniera aveva premuto da nord e da sud; ora essa era ridotta e limitata nella sola valle padana; il regno di Napoli, ricostituito con la Sicilia e con una propria dinastia, diventava un centro importante della vita politica italiana; i mari d'Italia non erano più di stranieri, Spagnoli o Austriaci. La nuova dinastia che ebbe la Toscana, era, sì, straniera e assai legata all'Austria, ma essa sentirà presto il fascino di quel paese di sì insigne bellezza e civiltà, e vi metterà radici, e darà una certa floridezza al granducato.
La potenza dell'Austria fu ancora scossa di lì a qualche anno, quando, alla morte dell'imperatore Carlo VI (1740), si accese la guerra per la successione di Maria Teresa. Ma le sue posizioni italiane furono salvate dall'alleanza con l'Inghilterra e con il Piemonte. La flotta inglese nei mari d'Italia portò un aiuto decisivo: nel 1742, essa impedì, con la minaccia dì un bombardamento a Napoli, che Carlo mandasse un esercito in aiuto all'armata franco-ispana che combatteva nella valle padana; nel 1743, da Minorca la flotta inglese tagliò la via alla squadra spagnola, che trasportava un esercito in Italia, e la costrinse a rifugiarsi nel porto di Tolone; finalmente, nel 1746, bloccò sia pure con minore fortuna, il porto di Genova, insorta contro gli Austriaci. La guerra fu dura assai per il Piemonte, che tuttavia la sostenne gagliardamente. Nel 1742, Carlo Emanuele III si spinse verso l'Emilia e occupò Modena, ma fu costretto a tornare indietro per opporsi all'invasione francese nella Savoia. L'anno seguente, tornò nell'Emilia, e a Campo Santo sul Panaro combatté i Franco-Ispani, senza però riuscire a vincerli pienamente. La sua azione militare su quel fronte era inceppata da nuove minacce d'invasione da parte dei Francesi. I quali, realmente, nel 1744, penetrarono nel Piemonte per la Valle di Stura, ma si arrestarono a Cuneo, che eroicamente resistette (1745). La situazione militare era difficilissima per Carlo Emanuele III, e a tempo venne in suo aiuto un esercito imperiale al comando del generale Botta Adorno. Genova, che era stata base di operazione francese, fu occupata dagli Austriaci. Alle prepotenze compiute da costoro a Genova, il popolo insorge. Lo scatto spontaneo e violento del popolano giovinetto (Balilla) che lancia un sasso all'Austriaco, bene impersona la fierezza di quel popolo contro la prepotenza straniera e la condotta paurosa dei governanti. Gl'insorti cacciarono gli Austriaci dopo cinque giorni di lotta (5-10 dicembre 1746). Nel 1747, la Francia preparò una quarta spedizione, stavolta attraverso il Monginevra per la Val di Susa. All'Assietta cinquanta battaglioni furono arrestati e sbaragliati da dieci piemontesi e quattro austriaci (19 luglio 1747). La vittoria dell'Assietta affrettò le trattative della pace, che fu firmata ad Aquisgrana nel 1748. Per essa, in Italia, avvennero i mutamenti seguenti: l'Austria cedette il ducato di Parma e Piacenza a Don Filippo di Borbone-Farnese, cedette al re di Sardegna il territorio fino alla sponda destra del Ticino, e alla destra del Po il territorio fino a Voghera compresa.
Il trattato di Aquisgrana assicurò agli stati italiani la pace per mezzo secolo quasi, ma non all'Italia tutta: la Corsica sanguinò allora per lunghe ed aspre lotte per la sua indipendenza. La questione della Corsica aveva per la Francia in quel momento un'importanza capitale nella sua politica mediterranea. Nel 1756, la Francia con un colpo ardito aveva strappato Minorca agl'Inglesi, e aveva sbarcato un esercito in Corsica in aiuto del pericolante dominio genovese, ottenendo la facoltà di disporre dei porti della Corsica nella guerra che allora combatteva contro gl'Inglesi. Così Minorca, Tolone e la Corsica costituivano nel Mediterraneo un formidabile triangolo strategico francese che svalutava Gibilterra inglese. Nel trattato di pace seguito con l'Inghilterra nel 1763, la Francia era costretta a restituire Minorca, ma non dimenticò la Corsica. Nel 1768, Genova patteggiò a Compiègne la cessione della Corsica alla Francia. Non patteggiarono i Còrsi; essi resistettero magnificamente, condotti da Pasquale Paoli. Ma nel maggio del 1769, a Pontenuovo, furono vinti, e la Corsica divenne dominio francese. Provvidero tuttavia i Savoia a rendere meno formidabile la posizione della Francia nel Tirreno, occupando a tempo (1757) la Maddalena, di cui il Nelson, alcuni anni dopo, doveva mettere in valore tutta l'importanza strategica.
L'Italia del Settecento, a considerare le condizioni interne dei singoli stati, non procede nel suo sviluppo in modo uniforme: alcuni degli stati sono in decadimento, come la repubblica di Venezia, la repubblica di Genova e lo Stato Pontificio; altri si rinnovano con le nuove dinastie degli Asburgo-Lorena e dei Borbone-Farnese; il regno di Sardegna, in pieno sviluppo con Vittorio Amedeo II e con Carlo Emanuele III, rallenta il suo progredire con Vittorio Amedeo III. Comunque, gl'Italiani partecipano a quel movimento di pensiero e di opere che caratterizza l'Europa del Settecento. Movimento di ceti colti, solidali spesso con i principi nello sforzo riformatore. Si poté così riprendere l'antica opera di affermazione dello stato di fronte ad ogni corpo privilegiato e ad ogni privilegio e dare nuovo impulso allo sviluppo economico del paese, in rispondenza alle esigenze tanto del principe quanto delle classi produttive. La pace quasi mezzo secolo goduta dopo il 1748 favorì in Italia questa operosità riformatrice, particolarmente notevole in Toscana, in Lombardia, a Parma, ma estesa, più o meno, a gran parte della penisola. Insieme con l'attività pratica, fu intenso il movimento intellettuale che la illuminò e guidò. La cultura si rinnovava, sotto la pressione delle nuove esigenze e anche per l'influsso della cultura europea, pur conservandosi fedele a certe tradizioni spirituali italiane. Nella prima metà del Settecento essa si volse specialmente ai problemi della scienza economica, e combatté pregiudizî, propugnò la libertà del commercio e dell'industria e la soppressione della manomorta nella proprietà fondiaria; nella seconda metà del secolo quel movimento del pensiero scalzò le basi di vecchi sistemi giudiziarî, abbattendo resti barbarici della giustizia penale. E allora risonava più alta la voce della coscienza nazionale e della coscienza civile con Giuseppe Parini e con Vittorio Alfieri. Nel 1777 l'Alfieri pubblicava il Filippo, e l'anno dopo il Trattato della tirannide e i tre libri sul Principe. Sono questi i primi albori del Risorgimento nazionale. Essi illuminano il paese ancor prima che il Bonaparte scenda in Italia. La generazione che a Napoli intellettualmente si forma, a metà del Settecento, alla scuola di Antonio Genovesi, sarà quella dei primi martiri del Risorgimento nella Partenopea; il pensiero per essi diventa azione.
E vi è qualcosa nel rinnovamento italiano del Settecento, non così appariscente come il fatto politico, né spirituale come la cultura, ma non meno efficace, ed è il ritorno degli Italiani all'amore verso il lavoro della terra. Il bisogno di produrre accelera la soluzione della crisi, che verso la fine del Seicento si risolve in una ripresa di attività sulla terra, e che determina l'ostilità contro la manomorta ecclesiastica, e ne apre le prime brecce. In due regioni si colgono i segni di questo rinnovamento agrario, che è civile risorgimento, nella valle padana e nella Toscana.
L'Italia durante la Rivoluzione e l'Impero.
Lo spirito delle grandi masse italiane alle notizie della Rivoluzione francese, si dimostrò ostilissimo. Le notizie raccolte dalla viva voce degli emigrati, e ripetute da quanti ne compiangevano le sorti, colpivano la fantasia e soprattutto la coscienza religiosa del popolo, e diffondevano tra gl'Italiani l'idea che la libertà politica bandita dai rivoluzionarî fosse empietà religiosa. Ci volle più di mezzo secolo prima che tale pregiudizio fosse sradicato. Come il popolo, così il clero e la nobiltà, erano ostili alla Rivoluzione per gli stessi motivi religiosi oltre che per la paura della perdita di ogni privilegio. Tuttavia, tanto fra il clero quanto fra la nobiltà non pochi fecero buon viso alle nuove idee. Erano uomini colti, vecchi giansenisti, lettori e seguaci degli enciclopedisti, insomma tutti quelli che nella seconda metà del secolo avevano partecipato al movimento delle nuove idee, seguito con interesse le riforme, sperato in una riforma religiosa. A costoro si unirono studenti e insegnanti delle università specialmente di Napoli, di Pavia e di Bologna, e nuclei più o meno numerosi di borghesia. In verità povera di numero e di capitali era la borghesia industriale e mercantile italiana della seconda metà del Settecento. Tuttavia il movimento di affari sviluppatosi durante le guerre di successione; le riforme economiche dei principi, con l'abolizione di sistemi corporativi e di monopolî e la tendenza della legislazione verso la libertà del commercio; il fervore di attività agricole determinatosi in talune regioni, avevano arricchito di elementi nuovi la borghesia specialmente agraria, infuso in essa una nuova energia e un nuovo animo. Tutto questo specialmente nella valle del Po. e in Lombardia più che altrove, dove molteplici erano i contatti di ogni genere con la Francia. Nel complesso le città erano preparate ai nuovi eventi. E la Francia rivoluzionaria non mancò di esercitarvi larga propaganda. Era la vecchia politica di espansione verso l'Italia, e che ora spiegava la bandiera della libertà, eguaglianza e fraternità. Così furono provocati movimenti a Nizza e in Savoia, e nel 1792 Nizza venne occupata. Altri tentativi furono fatti in Piemonte l'anno appresso. Ma Vittorio Amedeo III seppe validamente opporsi, dal '92 al '96, all'invasione della Savoia. La campagna delle Alpi è una bella pagina di valore militare e di fedeltà dell'esercito e dei sudditi sabaudi. Intanto, anche a Napoli, a Bologna, era scoppiato qualche tumulto, a cui seguirono arresti e condanne di morte.
Erano queste le condizioni dello spirito pubblico italiano, quando il Direttorio decideva l'impresa d'Italia e, nel marzo 1796, ne affidava il comando a Napoleone Bonaparte. La campagna d'Italia si svolge in due fasi: nella prima, il Bonaparte vince il re di Sardegna e lo costringe a cedergli la Savoia, Nizza e alcune fortezze; nella seconda vince gli Austriaci e segna con essi il trattato di Campoformio (ottobre 1797). L'Austria rinunciava alla Lombardia ed era compensata con la repubblica di Venezia. La vecchia repubblica, neutrale per non far torto all'Austria e alla Francia, finita la guerra, era soppressa dalla Francia e dall'Austria. Durante la campagna contro gli Austriaci, una spedizione del Bonaparte sulle terre dello Stato Pontificio aveva obbligato il papa, con la pace di Tolentino, a rinunziare alle Legazioni di Ferrara e di Bologna.
Dopo l'occupazione francese della Lombardia profondi mutamenti politici avvengono in Italia, a cui concorrono gl'Italiani stessi. Nell'ottobre del '96, patriotti emiliani, convenuti a Modena, decidevano con il consenso del Bonaparte, di convocare un congresso a Reggio. E qui, nel novembre, fu proclamata la Repubblica Cispadana, in gran parte formata dal territorio del ducato di Modena. Nel luglio del '97, il Bonaparte consentiva che la Lombardia si unisse alla Cispadana, formando la nuova Repubblica Cisalpina. Nello stesso anno, la repubblica di Genova era democratizzata, cioè sostituita da un governo democratico sotto il protettorato francese. Nel '98, Carlo Emanuele IV, succeduto a Vittorio Amedeo III, era costretto a rinunciare al Piemonte a favore della Francia. Nello stesso anno era abbattuto il governo temporale e istituita la Repubblica Romana. Contro di essa aveva voluto scagliarsi il re di Napoli Ferdinando IV, ma, costretto a precipitosa fuga, fuggiva in Sicilia; e nel gennaio 1799 a Napoli era proclamata la Repubblica Partenopea. In quello stesso mese erano democratizzati la repubblica di Lucca e il granducato di Toscana.
Così, alla fine del marzo 1799, eccezion fatta del Veneto in dominio dell'Austria, della Sardegna rimasta a Carlo Emanuele IV, e della Sicilia dove, protetto dagl'Inglesi, aveva riparato Ferdinando IV, tutto il resto d'Italia direttamente o indirettamente era in potere dei Francesi. La situazione politica fu profondamente mutata qualche mese dopo. Ricostituita la coalizione contro la Francia durante l'impresa in Egitto del Bonaparte, un esercito austro-russo scacciò dall'Italia settentrionale i Francesi (agosto 1799), mentre dall'Italia meridionale risalivano verso Napoli le masse armate del cardinale Ruffo. Uomo d'ingegno, di valore e di energia, il cardinale Ruffo le aveva condotte nel nome del re e della fede (giugno 1799); e con esse restaurò la monarchia borbonica a Napoli. Né egli è colpevole della feroce vendetta dei Borboni contro i patriotti; la quale, aiutata dalla perfida azione del Nelson e dalla bestiale ferocia della plebe, distrusse con le condanne di morte tanta parte delle forze migliori d'ingegno di cultura e di patriottismo del paese. Fu quella la prima e gloriosa pagina del martirologio del Risorgimento italiano; e i Napoletani hanno il vanto di aver quasi chiamato alla riscossa tutti gl'Italiani. Alla fine dunque del 1799 le vittorie austro-russe e della flotta inglese rimettevano in Italia le cose allo stesso stato di prima; ma l'Italia era mutata in quel turbinoso triennio repubblicano. Alla venuta dei Francesi in Italia, quella che era stata un'unità morale, sia pure di un'Italia sonnolenta rispetto alla Francia rivoluzionaria, si spezza: da un lato gruppi, più che vere e distinte classi sociali, esaltati, acclamano i Francesi liberatori, dall'altra una massa ostile ai Francesi. La scissione non è solo spirituale. Quando soldati e sudditi dei Savoia con i loro principi combattono la guerra delle Alpi, e contrastano poi, sia pure infelicemente, ma gloriosamente, l'avanzata del Bonaparte, il paese precipita verso la lotta civile: gli uni acclamano il liberatore straniero e si umiliano ad esso; gli altri confondono in uno stesso odio giacobini paesani e stranieri e ferocemente li combattono. Quando i reggitori della repubblica di S. Marco, tremanti di paura alle minacce francesi, supplicavano pace e democratizzavano la vecchia repubblica, i contadini del Veronese gridavano "Viva S. Marco", e combattevano per esso in quelle "Pasque Veronesi" che rinnovarono in certo modo i Vespri. Quando Carlo Emanuele IV, avvilito da umiliazioni, da prepotenze di giacobini stranieri e paesani, abbandonava Torino, i montanari delle Alpi, i contadini piemontesi e monferrini, continuavano disperatamente la resistenza allo straniero. Quando nella Lombardia gli Austriaci si ritiravano incalzati dai Francesi, i contadini e i popolani di Como, Varese, Binasco, Pavia osavano ribellarsi al vittorioso esercito del Bonaparte, sfidando la ferocia della sua vendetta. Quando il mite Ferdinando III di Toscana era mandato via dai Francesi, e i nobili fuggivano, e democratici improvvisati venivano fuori con la coccarda tricolore, i contadini toscani insorgevano al grido di "Viva Maria". Quando nelle Marche scappavano generali e soldati pontifici, e il vecchio pontefice in stato d'arresto era condotto via da Roma, non Roma papale insorse, ma i contadini, dai monti della Sabina alle marine marchigiane, caddero a migliaia per la loro fede e per il loro paese. Quando vilmente il re di Napoli all'avanzarsi dello Championnet fuggì in Sicilia, solo i montanari degli Abruzzi, i contadini di Terra di Lavoro, i lazzaroni di Napoli si opposero all'invasore in una lotta disperata e sanguinosa. Queste pagine di fierezza di popolo, di sangue versato nella lotta contro stranieri e oppressori non si possono, né si devono strappare dalla storia del Risorgimento italiano. Il Risorgimento italiano fin da quegli inizî aveva indicato una duplice lontana meta da raggiungere: videro allora i patriotti l'unità politica della nazione, e furono confessori e martiri di quell'idea; non videro essi, né per lungo tempo dopo di essi i patriotti italiani, l'altra meta: l'unità morale della nazione, unità che senza il concorso del popolo non sarebbe stata mai compiuta, e senza la quale l'unità politica non sarebbe stata mai perfettamente saldata.
Dopo il colpo di stato del novembre 1799 il Bonaparte, primo console, dato ordine e pace interna alla Francia, restituì ad essa con la vittoria di Marengo (14 giugno 1800) il predominio in Italia.
La Repubblica Cisalpina fu allora ricostituita, e prese nome di Repubblica Italiana; il Piemonte fu annesso alla Francia; Parma e Piacenza furono poste sotto amministrazione francese; il granducato di Toscana tolto ai Lorena era assegnato col titolo di regno di Etruria a Lodovico di Borbone di Parma sotto un protettorato francese; allo Stato Pontificio furono tolte le provincie dell'Emilia e della Romagna, già annesse alla Cisalpina; il re di Napoli dovette cedere alla Francia la parte che egli possedeva dell'isola d'Elba e il principato di Piombino, e al regno di Etruria dovette cedere lo stato dei Presidî.
Nonostante questo predominio francese, la Repubblica Italiana, di cui vice-presidente era il conte Francesco Melzi d'Eril, pareva dovesse divenire centro, capace di sviluppo, di vita nazionale. Le aspirazioni dei patriotti della Repubblica, delle quali il Melzi si faceva interprete, erano rivolte all'annessione del Piemonte e della Liguria (e la stampa del tempo insiste su questo punto), per giungere al Tirreno italiano. Ma non una Repubblica Italiana grande e indipendente voleva la Francia in Italia, bensì piccola e sotto sua tutela; non un Piemonte e una Liguria facenti parte di quella Repubblica, ma annessi al territorio francese, corridoio alle armate francesi destinate in Italia. La Repubblica Italiana fu trasformata in Regno d'Italia dopo che Napoleone, divenuto imperatore, prese la corona d'Italia (maggio 1805). Egli nominò il figliastro Eugenio di Beauharnais viceré d'Italia, ponendogli accanto un consigliere francese, il conte Méjan, e riservando a sé gran parte del potere regio. I confini del Regno Italico pochi mesi dopo erano estesi con l'annessione del Veneto in seguito alle vittorie napoleoniche e al trattato di Presburgo (26 dicembre 1805). E poiché il re di Napoli aveva parteggiato in quella guerra con i nemici della Francia, Napoleone spodestò il Borbone, e nel 1806 nominò il fratello Giuseppe re di Napoli. Nell'ottobre di quell'anno Napoleone proclamava il blocco continentale; il quale ebbe indirettamente effetti sull'assetto politico dell'Italia. La muraglia infatti, opposta da Napoleone al commercio e alla penetrazione politica inglese in Europa, aveva una breccia: attraverso le coste italiane del Tirreno, della Toscana, del Lazio e della Sicilia. Da qui l'annessione nel 1808 della Toscana, e l'anno seguente del Lazio, con la deportazione del pontefice in Francia. Così le coste tutte della penisola erano sotto il dominio diretto della Francia, o appartenevano al regno d'Italia e al regno di Napoli. Sennonché per quanto quei regni disponessero di forze militari, sorrette da quelle del potente impero, si ripeteva allora la situazione politico-militare di altri tempi: senza i suoi mari e senza le sue grandi isole l'Italia né politicamente, né economicamente, avrebbe potuto avere un grande avvenire. La Sicilia, dove si era riparato il Borbone, era in potere degl'Inglesi; la Sardegna di Vittorio Emanuele I, successo al fratello abdicatario Carlo Emanuele IV, era difesa dalla flotta inglese, e, proprio di faccia a Napoli, Capri era occupata dagl'Inglesi.
Tuttavia gli anni 1809-1812, anni di pace e di fortuna dell'impero napoleonico, furono prosperi per il Regno Italico. Milano divenne centro importantissimo di vita nazionale; il Regno Italico agì sul pensiero politico italiano e sulla coscienza nazionale. Esso da Trento, annesso al regno nel 1809, al Tronto e da Vercelli a Venezia, formava un'unità politica che stringeva insieme popolazioni fino allora separate da barriere politiche e da interessi economici, raccoglieva tanta parte dell'Italia settentrionale e centrale, rendendo, anche contro i propositi e gl'interessi politici della Francia di Napoleone, necessario sempre più di comprendere entro quella unità le altre provincie italiane. Nonostante poi la dispersione di forze, di ricchezze, di vite per le imprese napoleoniche, il paese progredì materialmente e moralmente; vi concorsero le relazioni commerciali più frequenti fra le varie parti d' Italia e fra l'Italia e i paesi transalpini per l'opera romanamente grandiosa di vie e per l'impulso dato alle iniziative private, le leggi e le istituzioni francesi che svecchiavano l'Italia con l'adozione specialmente del Codice Napoleone, e l'incremento alla cultura e all'istruzione media. In particolar modo poi l'educazione militare valse a stringere i vincoli di solidarietà nazionale. Napoleone educò gli Italiani alle armi. Eccezion fatta dei soldati dei Savoia e dei marinari di Venezia e di Genova, gl'Italiani erano stati tenuti lontani dalla vita militare. Quando Napoleone impose la coscrizione obbligatoria non mancarono rivolte soffocate nel sangue; ma ben presto la gloria militare sedusse gli animi di non pochi; i reggimenti italiani si segnalarono nelle battaglie contro Austriaci e contro Russi. Da quell'esercito italico, che fu disciolto dall'Austria, verranno fuori i primi cospiratori e soldati per l'indipendenza italiana.
Furono brevi la pace e la fortuna dell'impero napoleonico: i fatti dal 1813 al '15, dal disastro della spedizione in Russia alla sconfitta di Waterloo, ebbero la loro ripercussione in Italia. Nell'ottobre 1813, quando Napoleone era vinto a Lipsia, il viceré Eugenio cercò difendere il regno contro gli Austriaci, e non potendo opporsi alla avanzata nemica sul Tagliamento, si chiuse a Mantova (novembre 1813). Né solo la sua posizione militare era difficile, ma anche quella politica: in seguito all'abdicazione di Napoleone dell'aprile del 1814, Eugenio non poteva essere considerato viceré di un re che più non esisteva. Eugenio non osò allora proclamarsi re d'Italia con un voto del senato del regno, come il Melzi gli consigliava. Il malcontento frattanto prorompeva: gli Austriaci si trovarono uniti con gli Italici puri, come amarono chiamarsi i patriotti, insofferenti di tutela francese. Il 20 aprile Milano si sollevava. Il 23 aprile Eugenio abbandonava la Lombardia agli Austriaci. Il 30 maggio erano tolte le insegne all'esercito italico e le milizie italiane erano aggregate alle austriache. La rovina napoleonica travolse ancor più tragicamente il regno di Napoli di Gioacchino Murat, successo a Giuseppe nel 1808. Dopo la campagna di Russia, Murat per salvare la corona trattò con gl'Inglesi e con gli Austriaci, poi al ritorno di Napoleone in Francia del febbraio 1815 si riconciliò con lui, e si rivolse agl'Italiani, incitandoli con un proclama (30 marzo 1815) alla guerra d'indipendenza, di cui egli si proclamava campione. Le speranze riposte nelle forze dei volontarî italiani furono vane: Murat che si era spinto fino al Po fu costretto a ritirarsi, e tornò a Napoli, da dove il 20 maggio si imbarcò per la Provenza. Lo stesso giorno a Casalanza era firmata una convenzione fra generali dell'esercito di Murat e rappresentanti austriaci. Il 9 giugno Ferdinando IV entrava acclamato a Napoli, dopo 9 anni di esilio. Nell'autunno di quell'anno, Murat, mal consigliato e tradito, tentò di riacquistare il regno. Dalla Corsica, dove si era riparato, sbarcò a Pizzo di Calabria nell'illusione di trovare nel popolo e nell'esercito sostenitori. Trovò invece la morte: arrestato, fu, con sommario processo, condannato e fucilato (13 ottobre 1815).
L'Italia dal 1815 al 1849.
Caduto l'impero napoleonico, il Congresso di Vienna dava nel 1815 il seguente assetto all'Italia: l'Austria ottenne: 1. il LombardoVeneto con la Valtellina; 2. il Friuli, l'Istria, la Dalmazia fino a Cattaro compreso; 3. il diritto di guarnigione in alcuni punti del ducato di Parma e delle Legazioni. Ebbe in tal modo aperte le vie dai suoi dominî transalpini all'Italia settentrionale, e dalla regione padana all'appenninica. La Francia conservava la Corsica e la Confederazione Svizzera il Canton Ticino. Il Regno di Sardegna fu restituito ai Savoia con i confini del 1796 e con l'aggiunta del territorio della soppressa repubblica di Genova. Il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, sotto una mal celata tutela austriaca, toccò a titolo vitalizio a Maria Luisa d'Austria, moglie di Napoleone. Il Ducato di Modena, sotto Francesco IV, sarebbe stato ingrandito del Principato di Massa e Carrara alla morte della madre di Francesco IV, Maria Beatrice d'Este. Il Ducato di Lucca era assegnato temporaneamente a Maria Luisa di Borbone del ramo dei duchi di Parma. Alla morte di Maria Luisa d'Austria i Borboni di Parma avrebbero avuto il ducato di Parma, e allora il ducato di Lucca sarebbe passato al granduca di Toscana. Al Granducato di Toscana era aggiunto lo stato dei Presidî e il principato di Piombino. Lo Stato Pontificio perdeva fuori d'Italia Avignone e riacquistava Pontecorvo e Benevento. Il Regno di Napoli e Sicilia perdeva lo stato dei Presidî.
L'Austria si era trovata nelle migliori condizioni politiche e militari per affermare il suo predominio in Italia. L'Italia politicamente era spezzata in nove stati, laddove prima era stata divisa in tre grandi unità politiche. Quel frazionamento era pernicioso allo sviluppo morale e materiale del paese, era impedimento al processo di fusione della nazione, colpiva interessi materiali della nascente borghesia italiana. Pur tuttavia qualche vantaggio, indipendentemente dalla volontà dei diplomatici di Vienna, l'Italia trasse dall'assetto politico del 1815, agli effetti del suo risorgimento, sia per la ricostituzione del regno di Napoli con la Sicilia, su cui avido sguardo aveva rivolto l'Inghilterra, sia per l'unione della Valtellina alla Lombardia e per l'annessione della Liguria al Piemonte. La maggior potenza del Regno Sardo non tardò a esercitare una forza maggiore di attrazione sugli altri paesi d'Italia, soprattutto sulla vicina Lombardia. L'indipendenza nazionale era ormai intesa come necessità di vita e di sviluppo materiale e morale della nazione.
Così il Risorgimento impostò fino dal 1815 un problema: distruggere l'assetto politico dato all'Italia dal trattato di Vienna. E un altro problema contemporaneamente era impostato: poiché la restaurazione dei principi significò reazione, ritorno a vecchi ordinamenti e privilegi, passando sopra a interessi e sentimenti di classi sociali già elevate dall'uguaglianza civile. Il Risorgimento fu lotta per le libertà civili e politiche e per l'indipendenza nazionale: era lotta per l'elevazione di un popolo. Una forza spirituale anima la lotta, forza spirituale che si muove in una corrente di pensieri e di sentimenti dell'Europa dopo il 1815. Una reazione era avvenuta all'illuminismo francese che era fino allora prevalso, con le sue caratteristiche di cosmopolitismo umanitario e con la negazione di ogni valore tradizionale: reazione che si era manifestata col risveglio di tradizioni nazionali, con il culto delle origini delle nazioni, con rinnovato fervore di ideali e di sentimenti religiosi e patriottici, con tutte le manifestazioni di quel fenomeno complesso che si comprende sotto il nome di romanticismo, e che non fu solo un fenomeno letterario. Questa forza spirituale anima il pensiero e l'azione del Risorgimento. Le classi sociali che agiscono nel Risorgimento sono formate da una parte della nobiltà, a cui le guerre napoleoniche e lo sviluppo intellettuale precedente avevano dato un'attività militare, una coscienza civile e nazionale, inoltre sono formate di quasi tutta la ricca borghesia, numericamente ancora scarsa, e di quel medio ceto il quale aveva avuto onori e mezzi di vita per la carriera militare e degli uffici, che era stata libera e aperta a tutti mercé l'uguaglianza civile. Purtroppo al di sotto di questa minoranza della nazione, la massa del popolo non partecipa che in minima parte al moto che s'inizia: essa resta indifferente, se non favorevole, al dispotismo paesano e straniero che le assicura la pace e la difesa della religione dopo le guerre, le prepotenze e le persecuzioni napoleoniche. Che se dalla Rivoluzione era sorto in Francia un ceto nuovo, numeroso, di piccoli proprietarî, unito alla borghesia cittadina, in Italia la popolazione rurale restò moralmente e materialmente separata dalla borghesia cittadina. La reazione poteva poggiare su queste forze.
Ad eccezione del Ducato di Parma e del Granducato di Toscana la reazione infierì in tutti gli stati italiani. Alla miope politica di sovrani e di ministri a Torino, a Modena, a Roma e a Napoli, parve possibile il ritorno alle condizioni dell'Italia del 1796. Il Regno Lombardo-Veneto poi fini con essere una prefettura austriaca amministrata da Vienna; le offese alla coscienza nazionale colpivano i sentimenti dei patriotti; la soppressione del Codice Napoleone e di istituzioni del Regno Italico e le mutate condizioni per l'assetto politico, danneggiavano la borghesia operosa e intelligente; l'insolenza soldatesca e la prepotenza della burocrazia e della polizia irritavano la popolazione delle città; solo il ceto rurale ebbe ipocrite lusinghe, e fu aizzato dal governo austriaco contro la nobiltà e la borghesia, che gli erano ostili.
Il malcontento per la reazione, per quanto diversi ne fossero caratteri e stimoli nei varî paesi, aveva un fondo comune, e però cercava un programma comune di azione. La corrente che inalveò tutti i malcontenti fu data dalla Carboneria; e il suo programma parve capace di risolvere tutti i problemi politici italiani.
La Carboneria si trovava in quel momento nelle condizioni migliori di sua fortuna: essa aveva agito quale forza di opposizione a un governo straniero nel regno di Napoli, aveva accolto con simpatia idee costituzionali, rimesse in valore in Sicilia sotto l'influenza inglese nell'isola, aveva sperato nella restaurazione borbonica, era stata delusa e non aveva perciò disarmato, si era diffusa per mezzo dell'esercito murattiano nell'Italia centrale e nell'Italia settentrionale, e ivi aveva assimilato altre idee e compreso nel suo programma quello dell'indipendenza nazionale. A mano a mano però che quella società si estende, essa risente sempre più della diversità di scopi particolari, della mancanza di un forte centro e di un'unità di programma e di azione. Le aspirazioni unitarie non mancano nel pensiero politico di alcuni carbonari, ma sono assai vaghe: il programma comunemente accolto per l'assetto dell'Italia è federale. Il problema dell'indipendenza nazionale è inteso profondamente dai carbonari dell'Italia settentrionale, non così da quelli dell'Italia meridionale, incapaci ancora di comprendere che il problema costituzionale, che a loro stava soprattutto a cuore, non poteva essere risolto, se non a condizione che fosse risolto il problema dell'indipendenza. Lo stesso programma delle libertà costituzionali non è decisamente fissato: si ondeggia tra la costituzione spagnola, l'inglese, la francese e la siciliana.
Le notizie della rivoluzione di Spagna del gennaio 1820 infiammarono gli animi dei carbonari napoletani. Di essi molti erano ufficiali dell'esercito, malcontenti per il trattamento avuto dal governo borbonico, poiché nonostante i patti della convenzione di Casalanza, gli ufficiali che avevano fatto parte dell'esercito del Murat erano stati retrocessi, se non licenziati. Il 10 luglio insorse uno squadrone di cavalleria di guarnigione a Nola al grido di: "Viva il re, viva la costituzione di Spagna". In breve altri militari, ammutinati, si unirono e, con a capo il generale Guglielmo Pepe, entrarono a Napoli. Il re cedette, e il 13 luglio giurò la Costituzione.
Il moto si estese alla Sicilia con carattere di separatismo. Non la costituzione di Spagna, né l'unione con Napoli voleva la nobiltà dell'isola, che specialmente aveva il suo centro a Palermo, ma la costituzione siciliana e la piena autonomia del governo dell'isola. Dopo il 1815, e con il pretesto di dare unità allo stato, il Borbone aveva soppresso la costituzione siciliana, aveva tolto ogni autonomia all'isola: essa divenne quasi monopolio di prepotenti burocrati napoletani. Il generale Florestano Pepe, mandato per sottomettere l'isola, venne a onorevoli patti con i rappresentanti del governo provvisorio di Palermo. Ma la convenzione da lui firmata non fu riconosciuta a Napoli. Il generale Colletta sostituì il Pepe; e nell'ottobre 1820 egli sottomise l'isola. Il govermo costituzionale di Napoli era per altro debolissimo: il paese mancava di un'educazione politica; la costituzione era malamente intesa se non addirittura incompresa; il sovrano costituzionale era in mala fede; il popolo indifferente, se non ostile, soprattutto nelle campagne, dove non la questione politica interessava, ma la questione agraria che minacciava divampare. La situazione era ancor più grave nei rapporti con l'Austria. Essa temeva, a ragione, che il suo predominio in Italia potesse essere scosso dal dilagare di un movimento costituzionale carbonaro, che avrebbe potuto unire contro di essa le forze nazionali. Il pericolo rivoluzionario italiano fu pertanto riconosciuto come legittimo motivo d'intervento austriaco a nome delle grandi potenze. I sovrani di queste, alla notizia dei moti di Napoli, convocarono a Lubiana un congresso, e invitarono re Ferdinando. Egli nel partire da Napoli aveva promesso di difendere le libertà costituzionali; arrivato a Lubiana gettò la maschera, e invocò aiuti. Fu ben sollecita l'Austria a fornirgli un esercito. L'esercito costituzionale, comandato dal Pepe, dopo un fatto d'armi a Rieti (7 marzo) e la debole difesa ad Antrodoco (9 marzo) si sbandava; e gli Austriaci continuarono la marcia per Napoli. A Napoli nel parlamento il 19 marzo, 28 deputati, con a capo Giuseppe Poerio, votarono una protesta contro la violenza di cui il popolo napoletano era vittima, e dichiararono di rimettere "la causa dell'indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio che regge i destini dei monarchi e dei popoli".
Gli Austriaci il 23 marzo entrarono in Napoli, e vi rimasero fino al 1827. Seguì la repressione: si calcola che circa 900 persone siano state condannate. Per fortuna moltissime erano riuscite a fuggire a tempo; e poche furono le sentenze di morte eseguite.
Nel marzo del '21, proprio nei giorni in cui gli Austriaci entravano in Napoli, s'iniziava la rivoluzione del Piemonte. Nel Piemonte l'avversione all'Austria era generale per le prepotenze austriache, subite durante le guerre napoleoniche e il Congresso di Vienna, e per il tentativo di assorbimento politico del Piemonte, a cui, dopo il 1815, l'Austria mirava. Vecchi diplomatici piemontesi e lo stesso re Vittorio Emanuele I, erano ostili all'Austria.
Questi sentimenti di fierezza e di indipendenza, tradizionali nel Piemonte, erano ravvivati ed elevati da un'eletta schiera di giovani, che nel culto dell'Alfieri alimentavano la loro coscienza d'Italiani. La restaurazione in Piemonte aveva però non soltanto impostato il problema del Piemonte nella politica italiana di fronte all'Austria ma quello di riforme costituzionali di fronte alla reazione prevalente nella corte e nel governo. Questo stato d'animo era favorevole alla diffusione della Carboneria, e soprattutto della Federazione italiana, sua filiazione, la quale faceva professione monarchica, voleva la costituzione e l'unione (non si parlava d'unità) e l'indipendenza d'Italia. Nel febbraio si strinsero accordi tra federati lombardi e piemontesi per la rivoluzione in Lombardia e la guerra all'Austria; gli uni e gli altri riposero speranze nel principe di Carignano Carlo Alberto. Il 6 marzo il principe fu avvertito che tutto era pronto. Egli promise di parlare al re, e s'illuse, dalle promesse avute, di potere frenare a tempo quei patriotti da intempestive risoluzioni. Sennonché la fazione più audace prevalse, e la rivolta scoppiò il 12 marzo. La notte stessa Vittorio Emanuele I abdicava a favore del fratello Carlo Felice, che si trovava a Modena, e nominava reggente Carlo Alberto. La condizione in cui si trovò il reggente fu gravissima; egli fu costretto, per evitare la lotta civile, a concedere la costituzione di Spagna "salvo - egli aggiunse - l'approvazione del re". Ma Carlo Felice dichiarò non riconoscere alcun mutamento nelle istituzioni, e diede ordine a Carlo Alberto di recarsi a Novara, e quindi a Firenze. Carlo Alberto obbedì. Carlo Felice si rivolse alle grandi potenze per reprimere la rivoluzione. L'armata austriaca a Novara facilmente poté vincere le milizie costituzionali (8 aprile '21).
Il problema costituzionale e per Napoli e per il Piemonte non si sarebbe potuto risolvere se non sui campi di battaglia della Lombardia, con l'indipendenza dall'Austria. La questione regionale interna era questione nazionale. I moti carbonari hanno tuttavia il merito di avere spinto il Piemonte e il Napoletano nel movimento nazionale. La coscienza italiana, mercé i carbonari, superava pregiudizi regionali; l'idea dell'indipendenza con il concorso di tutti gli Italiani acquistava altre menti e altri cuori di patriotti. L'esempio poi di quei carbonari che per l'Italia patirono persecuzioni e condanne servì alla edificazione morale dell'italianità; e anche questo era un risultato positivo dei moti del '20 e del '21. Fuori d'Italia vive allora un'Italia dolorante, e pur piena di fede, l'Italia degli esuli che accorrono dovunque si combatte per la libertà, in Spagna, in Grecia, nel Belgio e nella Polonia. Essi riuscirono con la forza della loro fede ad attirare alla causa italiana simpatie di stranieri. Quell'azione servì in certo modo d'ingranaggio fra il nostro movimento e quello più ampio e vario dell'Europa liberale.
Questi collegamenti furono più numerosi e forti (avevano tutta una tradizione) tra esuli italiani e liberali francesi. Parigi era centro animatore di tutto il movimento segreto liberale durante il goven10 reazionario di Carlo X. Fu allora costituito dai nostri esuli in Francia il Comitato di emancipazione italiana, collegato al Comitato cosmopolita che si proponeva di fondare una lega di stati costituzionali. Le speranze dei nostri esuli parvero attuarsi con la rivoluzione del luglio 1830; i loro amici francesi, liberali, vennero allora al governo con Luigi Filippo. La solenne dichiarazione del dicembre 1830 del ministro Lafitte contro il principio dell'intervento, sostenuto dalla Santa Alleanza, infiammò gli animi, e incitò alla rivoluzione. I rivoluzionarî italiani sono ancora entro l'orbita della Carboneria, hanno un programma federale monarchico, non hanno né un centro, né unità, né grandi forze. Cercano un principe per capeggiare il movimento, s'illudono e s'ingannano nel designare il duca di Modena. È proprio il duca di Modena che inizia la repressione assalendo la casa di Ciro Menotti, dove si erano raccolti i cospiratori la sera del 3 febbraio 1831. Il Menotti, ferito, è arrestato con 60 suoi compagni. Il giorno dopo alla notizia dell'insurrezione di Bologna, il duca fugge a Mantova, traendo dietro a sé in catene Ciro Menotti. La rivoluzione rapidamente si propagò nell'Emilia e nella Romagna; fu proclamata a Bologna la fine del potere temporale e il Governo delle Provincie unite. In realtà questa unione non esisteva: il governo provvisorio di Modena si opponeva alla fusione con quello di Reggio; Parma era ostile a Piacenza, Bologna intendeva staccarsi da Roma, ed essere il centro dello stato. Il municipalismo riviveva, e rinfocolava vecchie gelosie. I patriotti italiani troppo avevano fidato nella Francia in una guerra contro l'Austria; Luigi Filippo troppo teneva ad assicurarsi del trono per non provocare l'Austria. Riuscì perciò all'Austria di staccare la Francia dalla rivoluzione italiana; e questa era fin da quel momento condannata a fallire con le sue deboli forze contro l'Austria potente. L'esercito austriaco il 6 marzo entrava nel Modenese, passava quindi in Romagna. Il generale Zucchi a Rimini il 25 marzo valorosamente si oppone all'avanzata austriaca: ma è costretto a ritirarsi verso Ancona. Il giorno dopo del combattimento di Rimini il governo delle Provincie unite trattava con gli Austriaci e col governo pontificio. Il potere temporale e i duchi spodestati erano restaurati.
L'Italia dei patriotti usciva dai moti del '31 vinta, più che dalle armi straniere, dagli errori degl'Italiani: dalle loro facili illusioni, dall'incertezza e imprecisione dei loro programmi, dalle loro gelosie municipali e regionali, dalla mancanza di unità, di direzione, di concordia, di disciplina, di forza. Alla baldanzosa reazione vittoriosa e alla maligna critica straniera gl'Italiani nel '31 apparvero incapaci di un risorgimento politico. Eppure i moti del '31 segnano un passo avanti nel Risorgimento: nuove regioni, nuovi gruppi sociali di borghesia cittadina parteciparono alla rivoluzione: essa non fu, come era stata nel '20 e '21, in gran parte un ammutinamento militare. Crebbe l'odio contro l'Austria, fallivano gli esperimenti della Carboneria, cadde l'illusione d'un aiuto straniero: Ciro Menotti avviandosi al patibolo disse: "La delusione che mi conduce a morire farà aborrire per sempre gl'Italiani da ogni influenza straniera nei loro interessi e li avvertirà a non fidarsi che nel soccorso del loro braccio".
Di lì a pochi mesi dai falliti moti del '31 l'Italia del Risorgimento balza rinnovata e sublimata da un'idea, che è preciso programma politico, e che è fede, e opera eroismi, e che sopravvive a tutte le sconfitte: l'idea dell'unità, concepita e voluta da Giuseppe Mazzini con la sua Giovine Italia, fondata nel 1832.
Dall'animo suo, dalla sua concezione mistica di missione della vita trasse il Mazzini un nuovo elemento di grande forza morale: la fede. Egli sentì che il Risorgimento d'Italia doveva avvenire mercé l'elevazione morale e religiosa del popolo. La redenzione nazionale è concepita come un dovere da compiere nell'interesse non di una sola nazione, ma per il bene dell'umanità. Quanto alla forma politica egli vagheggiò la repubblica, tuttavia subordinò sempre quella forma all'ideale unitario. I mezzi per attuare il suo programma il Mazzini additò nella forza del popolo, nella rivoluzione e nella guerra di popolo. Inefficaci si dimostrarono quei mezzi, ma profonda fu l'efficacia nella coscienza italiana della concezione del Risorgimento italiano non più concepito, attraverso la mentalità nutrita dall'illuminismo francese e dal settarismo carbonaro, in un'angusta visione, ma in una sublime elevazione religiosa, e nella visione dell'unità materiale e spirituale dell'Italia.
Tutti i maggiori uomini del Risorgimento passarono in qualche momento della loro vita attraverso il mazzinianismo. Ed è questo il suo valore storico, anche se tutti sanguinosamente fallirono i tentativi d'insurrezione nel decennio dal '34 al '44, dalla spedizione di Savoia a quella nell'Italia meridionale, coronata dal martirio dei fratelli Bandiera e dei loro compagni (luglio 1844).
Dopo quel decennio di fallite prove rivoluzionarie repubblicane mazziniane, gli spiriti cercano un altro programma, rivedono situazioni e valori, sperano in una nuova soluzione del problema italiano. In questo processo di revisione di valori le condizioni generali d'Europa e le particolari in Italia dànno un senso di moderazione e di conciliazione nel tracciare il nuovo programma di azione. L'Europa dopo il 1815 aveva goduto di un trentennio di pace (le sommosse dei rivoluzionarî e gl'interventi militari non erano considerati come grandi guerre quali quelle del passato); ricchezza e cultura erano enormemente progredite; era quello il tempo del grande sviluppo delle scienze e delle loro applicazioni; una borghesia ricca, attiva si affermava; essa, più che procedere a balzi rivoluzionarî, tendeva a un progredire regolare, con pacifiche riforme. E questo sviluppo di civiltà è considerato non più, come l'illuminismo lo aveva concepito, in antitesi alla religione, ma conciliabile con essa e con la libertà. In Belgio, in Polonia, in Irlanda il movimento nazionale si associava al sentimento cattolico; in Francia la rinascita cattolica conciliava libertà e religione. Tutto questo avveniva, sia pure in proporzioni minori, anche in Italia dove la grande maggioranza degl'Italiani era cattolica; questa grande maggioranza non aveva partecipato né a cospirazioni, né a rivoluzioni, non rinunziava alle sue tradizioni e alla sua fede, pur desiderando miglioramenti e rinnovamenti senza scosse rivoluzionarie. E in Italia si sviluppava un movimento intellettuale che nella storia d'Italia vedeva il papato nella sua gloria di centro e di difesa dell'italianità contro il germanesimo imperiale ghibellino straniero.
Questa concezione guelfa della storia italiana, questo bisogno di fare rivivere nel presente una tradizione nazionale italiana, questo stato d'animo che desiderava una conciliazione dei sentimenti religiosi con le aspirazioni politiche spiegano la fortuna di Vincenzo Gioberti e del suo Primato morale e civile degli italiani (1843). Come Mazzini, il Gioberti considerava il Risorgimento italiano non semplice questione politica, ma dovere di nazione, missione da compiere per volere di Dio. L'Italia, avvertiva, è stata maestra di civiltà, Roma ne è stata il centro e la sede del papato. La grandezza e la decadenza dell'Italia coincidono con quelle del papato. Sollevare l'Italia dalle sue tristi condizioni è interesse generale, perché l'Italia continui la missione di civiltà a cui Dio l'ha destinata. Nessuno meglio del pontefice può prendere l'iniziativa del Risorgimento d'Italia. Utopistica era l'idea di assegnare al papato tanta e tale azione politica; pratica invece ed efficacissima fu l'idea di convertire in un coefficiente del Risorgimento ciò che era stato considerato ostacolo. La questione italiana pertanto poteva essere pubblicamente discussa; la qual cosa promosse una letteratura politica che sviluppava le dottrine giobertiane, o che se ne scostava in alcuni punti, o che la combatteva. Si formava così un'opinione pubblica, che appassionava un numero sempre maggiore d'Italiani.
Tutto questo movimento d'idee politiche ebbe aspetti suoi proprî e fecondi effetti in particolar modo in Piemonte, dove la tradizione di un Piemonte italiano, dall'Alfieri al Santarosa, continuava per opera di scrittori come il Balbo e il D'Azeglio. La loro azione si spiega allora largamente ed efficacemente nell'orbita delle idee giobertiane, ma orientata verso la monarchia sabauda, considerata come centro del Risorgimento. Regnava allora Carlo Alberto. E fu, quello, il momento storico, in cui l'azione esercitata dal movimento di idee giobertiane e l'azione particolare di re Carlo Alberto, colmarono il profondo fossato che divideva la monarchia dall'idea liberale. Il decennio precedente era stato nel regno di Carlo Alberto fecondo di preparazione spirituale e materiale di attività riformatrice. La quale non fu fine a sé stessa, ma ebbe di mira l'avvenire di un Piemonte italiano. E in questo frattempo, e in particolar modo dopo il 1840, sempre più chiari e frequenti si colgono nelle espressioni di re Carlo Alberto i segni della sua coscienza italiana e qella sua volontà di una guerra d'indipendenza; la quale a lui, profondamente religioso, appariva anche quale dovere religioso. In tali condizioni di spirito, egli fu sensibilissimo all'eloquenza del Gioberti, e fu profondamente commosso dall'invocazione di Pio IX: "Gran Dio, benedite l'Italia".
Pio IX era stato eletto il 16 giugno 1846. Non aveva né poteva avere un programma politico, ma aveva letto anch'egli con entusiasmo le opere del Gioberti; e le poche sue idee politiche e la molta sua bontà trovarono subito posto in quel programma di un papato nazionale, che tanti e tanti buoni cattolici italiani avevano vagheggiato. Spinto solo da sentimenti di bontà, e non da riflessioni politiche, emanò l'Editto del perdono, amnistia ai condannati politici. L'entusiasmo fu grande, al di sopra della portata del fatto; e l'entusiasmo crebbe per alcune riforme introdotte l'anno seguente. Nel luglio del '47 Metternich, sorpreso per le riforme concesse dal papa, pensò di intimorirlo con un colpo audace, dando ordine al presidio austriaco del castello di Ferrara di occupare militarmente la città. Metternich s'ingannò: l'Italia del '47 non era quella che egli aveva definito, trent'anni prima, un'espressione geografica. Carlo Alberto offerse il suo esercito al pontefice; gl'Italiani tutti raccolsero armi e denari per la guerra all'Austria. Metternich credette bene allora di ritirare le milizie dalla città.
Contemporaneamente si spiega l'azione del partito liberale nell'Italia meridionale. Del '47 è la pubblicazione della Protesta del Popolo delle Due Sicilie, requisitoria dinnanzi all'opinione pubblica del mondo contro la dinastia borbonica. Più profondo e popolare era l'odio contro i Borboni nella Sicilia; e tutti erano uniti in quell'odio, poiché dopo le repressioni del '37 le gelosie tra Messina e Palermo erano scomparse. Nel settembre del '47 insorgeva Messina che fu sanguinosamente domata; ma da lì a qualche mese, Palermo, il 12 gennaio, si sollevava, scacciava le guarnigioni borboniche, e costituiva un governo provvisorio; Ferdinando II, che si era vantato di non lasciarsi trascinare dal torrente rivoluzionario, temendo che la rivoluzione dalla Sicilia si propagasse nel Napoletano, volle prevenirla, concedendo la costituzione il 10 febbraio 1848. Dal febbraio al marzo il granduca di Toscana, il re di Sardegna e il papa concedevano anch'essi la costituzione. In questo frattempo, dal febbraio al marzo, la rivoluzione si accende in Francia, in Germania e in Italia. Il 23 marzo Venezia insorta si era liberata dagli Austriaci; dal 18 al 23 marzo, in cinque giornate sanguinose e gloriose, Milano scacciava gli Austriaci. Il 23 marzo Carlo Alberto proclamava la guerra all'Austria, e il 27 varcava il Ticino. La prima fase della campagna si svolse dall'aprile al maggio sul Mincio: fortunati i primi combattimenti a Goito, a Monzambano e a Valeggio, infelice il tentativo di prendere Verona, eroica la resistenza a Curtatone e a Montanara dei battaglioni degli studenti toscani, vittoriosa la battaglia di Goito del 30 maggio, coronata dalla resa di Peschiera. Ma il fronte interno cedeva per le discordie e le fazioni.
La rivoluzione repubblicana di Francia era apparsa ai più ardenti patriotti quale inizio della rivoluzione democratica universale, come aveva profetato Mazzini; la vittoria di popolo delle cinque giornate pareva dimostrasse che ad abbattere il tiranno e cacciare lo straniero bastassero la guerra di popolo come aveva predicato Mazzini. Il dissidio tra moderati favorevoli all'annessione al Piemonte e alla monarchia e i repubblicani ostili, si manifestò perniciosamente fin dal principio; e il dissidio non era meno profondo tra repubblicani unitarî e federalisti; i quali ultimi avevano proprio a Milano il loro centro d'azione e a capo C. Cattaneo. Quella fiducia nella Francia repubblicana che animava il partito repubblicano fu non meno nociva: la Francia di Lamartine, e poi di Cavaignac, era contraria sia all'unità d'Italia, che si credeva tuttavia impossibile, sia a uno stato sabaudo troppo ingrandito e potente ai confini della Francia. Né meno difficile era la situazione politico-militare di Carlo Alberto di fronte agli altri stati italiani. L'entusiasmo popolare aveva spinto i governi di Firenze, di Roma e di Napoli a partecipare alla guerra: ma quei governi consideravano ogni eventuale successo militare come un rafforzamento dell'egemonia piemontese, un turbamento dell'equilibrio politico in Italia, poiché nessun compenso ne avrebbero tratto gli altri stati italiani. E preoccupazione spirituale maggiore turbava il pontefice per la minaccia di uno scisma nei paesi cattolici della Germania; e però egli il 29 aprile dichiarava non potere, come padre di tutti i cattolici, muovere guerra all'Austria e ritirò le sue milizie regolari dalla Lombardia. L'esempio fu seguito dal re di Napoli e dal granduca di Toscana. In tali condizioni si svolse la seconda fase della campagna. Il Radetzky, ricevuti rinforzi, era passato frattanto all'offensiva: batté i Piemontesi a Custoza il 25 luglio, li inseguì fin sotto le mura di Milano, dove Carlo Alberto aveva sperato resistere con l'aiuto del popolo. E ne fu amaramente deluso; il popolo si credette tradito, e gli fu ostile (4 agosto). Alcuni giorni dopo Carlo Alberto segnava l'armistizio Salasco; e la Lombardia tornava sotto l'Austria.
La sconfitta militare era anche sconfitta del partito moderato liberale; e allora il partito democratico si agitò, e si spinse innanzi alla conquista del potere, portandovi talvolta la turbolenza demagogica. In Toscana prevale il partito democratico; il granduca abbandona Firenze, e un governo provvisorio è costituito, retto da un triumvirato: Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni (febbraio '49). A Roma i democratici si trovano di fronte all'energia di Pellegrino Rossi, che il papa aveva chiamato al governo; ed essi si sbarazzano di lui, assassinandolo. Il papa abbandona Roma, e il 9 febbraio '49 è proclamata la Repubblica Romana. Anche in Piemonte, dopo l'armistizio Salasco i ministeri moderati liberali non riuscirono a reggersi. Il Gioberti fu allora chiamato al potere; ed egli credette di potersi servire del partito democratico per dominarlo, ma alla sua volta fu travolto dal partito democratico, che, venuto al governo, denunciava l'armistizio (12 marzo '49).
Il re accettò la guerra risoluto al sacrificio: la guerra era un'eroica, disperata decisione in quel momento: non volere la guerra significava spezzare ogni possibile unione tra rivoluzione e monarchia, significava dare motivo alla rivoluzione di accusare la monarchia d'aver tradito i fratelli oppressi nonostante le promesse di guerra. A Novara il 23 marzo l'esercito piemontese era vinto. La sera stessa Carlo Alberto abdicava e partiva per l'esilio.
Epilogo della rivoluzione del '48-'49 dopo Novara è la resistenza di città eroiche come Brescia e Messina e delle repubbliche di Roma e di Venezia. È lo sforzo supremo della rivoluzione, dopo l'esperimento moderato liberale. A Roma si rivelò uomo di governo Mazzini: energico, sereno, mite, represse ogni tentativo di terrorismo, rispettò ìl culto cattolico. Vi convennero con Garibaldi volontarî delle diverse regioni d'Italia, ed essi consacrarono così nel sangue dei caduti l'unità d'Italia, a Roma. All'appello del papa per la sua restaurazione, vi fu tra le diplomazie d'Europa quasi una gara. La Francia fu sollecita a inviare milizie; le quali però, avvicinatesi alle mura di Roma, furono respinte da Garibaldi (30 aprile). Il re di Napoli, venuto anch'egli in difesa del papa, fuggì vergognosamente dopo essere stato sconfitto a Velletri. Nel giugno i Francesi, ricevuti grandi rinforzi, tornarono all'assalto, e il 2 luglio, dopo sanguinosa eroica resistenza dei difensori, entravano in Roma. Venezia, che più a lungo resistette, cedette, più che per le bombe austriache, per la fame e per il colera (22 agosto 1849). Come a Roma così a Venezia fra i difensori erano Italiani di ogni regione.
Dopo il 1849 si rinnova la situazione politica dell'Italia del 1815, 1820-21, 1831: l'Austria predomina con i suoi dominî, e sorregge con le sue armi i troni dei principi restaurati. Sennonché dopo il 1849 vi è un'Italia che ha ritrovato sé stessa, un'Italia che nella primavera del '48 era stata tutta unita nella guerra contro lo straniero, un'Italia che ha nel Piemonte sabaudo il centro morale della nazione. Perciò la vittoria della reazione fu sterile, e i governi ricostituiti con la protezione austriaca furono più deboli che mai.
La formazione del Regno d'Italia.
L'Austria nel Lombardo-Veneto poté reggersi solo con lo stato d'assedio durato fino al 1856, trattando aspramente la nobiltà e la borghesia, aizzando contro di esse il popolo delle campagne, impiccando i patriotti. Fra le vittime sono rappresentate tutte le classi sociali: dal sacerdote don Enrico Tazzoli e dal nobile veronese Carlo Montanari al popolano milanese A. Sciesa: l'Italia penetrava nella coscienza delle diverse classi della nazione. Nella Toscana il granduca aveva perduto l'antico prestigio; sorretto dalle armi austriache, era considerato un arciduca austriaco. Nel Napoletano il regno di Ferdinando II, chiuso in un ostinato isolamento e in una stolta e feroce reazione, era nell'opinione internazionale liberale posto a livello della Turchia. Nel sangue furono repressi due tentativi rivoluzionarî del '56 in Sicilia, e nel sangue finì la spedizione tentata da Carlo Pisacane in Calabria nel luglio del '57.
Questa condotta di dominatori stranieri e di sovrani paesani poneva in maggior luce d'italianità quella di re Vittorio Emanuele II che, ricevendo a Novara la corona, vide chiara nella sua mente aperta, e tutta intese nella sua anima fiera di soldato e d'Italiano la missione del Piemonte e della sua dinastia, ed ebbe fede fin da quel giorno di sventura. Motivi e consigli non erano mancati nel marzo del '49 perché egli, al prevalere della demagogia nel parlamento e allo scoppio di un'insurrezione repubblicana a Genova, sopprimesse la costituzione. Tenne fede allo statuto, e disarmò in questo modo la rivoluzione. La vita costituzionale diede modo, e per vie legali, di compiere una vera rivoluzione. Il ministero D'Azeglio con le leggi Siccardi, votate nel 1850, affrontava audacemente il problema giurisdizionale, sopprimendo i privilegi ecclesiastici nell'interesse dell'autorità dello stato, dell'uguaglianza civile e dell'economia del paese. Nel 1850 il conte di Cavour entrava a far parte del gabinetto D'Azeglio, come ministro di agricoltura e commercio. Entusiasta dei principî di libertà economica, ispirò ad essi l'opera sua nelle leggi e nei trattati di commercio, ma ben presto egli sentì staccarsi da lui non pochi dei moderati sostenitori del ministero D'Azeglio, onde si accostò al centro sinistro del parlamento, provocando con le sue dimissioni la crisi ministeriale, che il re risolse, chiamando al potere Cavour. Dal novembre del '52 al luglio del '59 egli resse le sorti del Piemonte italiano. Né le occasioni mancarono perché egli affermasse, di fronte all'Austria, l'italianità della sua politica. L'Austria peraltro troppo era sicura dell'indifferenza delle potenze per la questione italiana e della sproporzione delle forze del piccolo Piemonte con le sue. Era questo il problema che Cavour doveva risolvere: trarre il Piemonte dall'isolamento politico. La guerra di Crimea diede a Cavour la buona occasione.
L'Austria aveva creduto di potere con la sua neutralità armata essere arbitra tra i belligeranti e trarne profitto; al contrario, si inimicò la Russia, da cui nel '49 era stata fortemente aiutata, e scontentò parimenti l'Inghilterra e la Francia, che avevano fatto di tutto per averla alleata. Con ansia grandissima il conte di Cavour seguì lo svolgersi delle trattative: un'alleanza delle potenze occidentali con l'Austria avrebbe dato a questa maggiore libertà nelle questioni italiane, e avrebbe lasciato sempre più il Piemonte in un pericoloso isolamento politico. Per fortuna quelle trattative fallirono; e furono allora aperte trattative col Piemonte, forse anche per decidere l'Austria a farsi avanti. L'Austria commise un grosso errore, di cui subito il Cavour approfittò, firmando l'alleanza del Piemonte con la Francia e con l'Inghilterra (15 gennaio 1855) e concorrendo alla spedizione di Crimea con un corpo di 15.000 soldati. Quel piccolo esercito cancellava con il suo valore il ricordo di Novara e mostrava come fosse pronto ad altre battaglie e ad altre vittorie.
Caduta Sebastopoli, e intavolate trattative di pace, fu indetto il congresso di Parigi (febbraio 1856). Cavour vi intervenne come delegato del re di Sardegna; e fu a lui possibile di esporre la questione italiana nell'interesse della pace d'Europa, dimostrando come l'Austria turbasse l'equilibrio politico con le sue occupazioni militari nella penisola, e concorresse al fermento rivoluzionario con l'aiuto che dava ai governi reazionarî. "Per la prima volta nella storia nostra - così il Cavour, più tardi, in parlamento la questione italiana venne discussa davanti ad un congresso europeo, non come a Lubiana ed a Verona con l'animo di ribadire le catene d'Italia, ma con l'intenzione di arrecare alle sue piaghe qualche rimedio". Il Piemonte era uscito dall'isolamento: primo passo per giungere all'alleanza con la Francia contro l'Austria, a cui Cavour mirava.
Assicurarsi del confine naturale delle Alpi, aumentare la potenza francese nel Mediterraneo, porre l'Italia nell'orbita dell'influenza francese con l'esclusione dell'Austria dalla Valle Padana: tutto questo rientrava nella tradizionale politica della Francia e delle guerre da essa combattute contro gli Asburgo. Questi interessi politici coincidevano con i sentimenti cavallereschi di Napoleone III, con la sua affettuosa simpatia per l'Italia per i ricordi della giovinezza tra le cospirazioni e i moti in Italia del '31. Da questi sentimenti e da questi interessi Napoleone III era sospinto verso quell'alleanza con il Piemonte, a cui Cavour mirava. Fu tutta un'abile opera diplomatica che Cavour aveva preparato fin dal '53, e che ebbe il suo coronamento a Plombières nell'accordo tra Napoleone III e Cavour per l'alleanza tra la Francia e il Piemonte. Si convenne che, cacciati gli Austriaci, si sarebbe costituito il regno dell'Alta Italia dalle Alpi all'Adriatico. La Francia sarebbe stata compensata con la Savoia e con Nizza; ma su Nizza furono fatte riserve. Riguardo al resto dell'Italia Napoleone III espresse il desiderio di una federazione in cui il regno di Napoli sarebbe toccato a Luciano Murat. I patti orali di Plombières furono confermati dal trattato firmato nel gennaio 1859.
Contemporaneamente a quest'azione politica di Cavour, dalla guerra di Crimea all'alleanza con la Francia, si svolge un movimento dell'opinione pubblica in Italia che si orienta sempre più verso la monarchia con un programma unitario. Vi concorsero il sacrificio stesso di Carlo Alberto a Novara, che aveva avvicinato monarchia e rivoluzione, la condotta leale, italiana, di Vittorio Emanuele II, che traeva molti dei rivoluzionarî nell'orbita della monarchia costituzionale; l'opera politica italiana di Cavour, nel congresso di Parigi, la quale destò entusiasmo: l'azione stessa di Torino, asilo degli emigrati, centro morale della nazione, e vi concorse infine la passione di illuminati patriotti pronti a sacrificare tutto per l'unità e l'indipendenza. Così sorse quella Società nazionale italiana, di cui fu ideatore fin dal '55 ed animatore Daniele Manin, e che ebbe per motto: "Italia e Vittorio Emanuele".
Il 18 gennaio '59 a Torino il discorso della corona suonò squillo di guerra tra l'entusiasmo degl'Italiani. Sennonché proprio allora a impedire la guerra si adoperarono i gabinetti di Londra e di Pietroburgo con la proposta di risolvere la questione italiana in un congresso delle potenze. Napoleone III non poté non fare buon viso a cattivo gioco, e accolse la proposta. Quei giorni dal marzo all'aprile furono terribili per il conte di Cavour, che vedeva disfatta così tutta l'opera sua. Per fortuna fu proprio l'Austria a mandare per aria la proposta del congresso, poiché prima di accettare quella proposta voleva che il Piemonte disarmasse; e a tal fine il 23 aprile mandò un ultimatum, dando il termine perentorio di tre giorni.
Era la guerra, la guerra provocata dall'Austria; e la provocazione, secondo il trattato del Piemonte con la Francia, obbligava la Francia a intervenire. Il 29 aprile gli Austriaci, comandati dal Giulay, passarono il Ticino, e si avanzarono fino a Chivasso, ma furono arrestati nella loro marcia dall'allagamento del terreno basso e paludoso della Sesia. Nel frattempo avveniva la congiunzione dell'esercito francese col piemontese. I combattimenti di Montebello e Palestro trassero in errore il Giulay, che credette di avere di fronte tutta l'armata, né si avvide del passaggio già avvenuto di gran parte dell'esercito alleato in Lombardia.
Il 4 giugno la vittoria di Magenta liberava la Lombardia; e quattro giorni dopo Vittorio Emanuele II e Napoleone III entravano vittoriosi a Milano. Nel frattempo Garibaldi vinceva gli Austriaci a San Fermo (27 maggio), entrava a Como, e proseguiva fino a Brescia, combatteva a Tre Ponti (15 giugno), e proseguiva vittorioso in Valtellina. L'armata austriaca, ricevuti rinforzi, si era rafforzata sulla destra del Mincio e sulle alture di Solferino e S. Martino. Gli alleati, dopo sanguinosi assalti, scacciarono vittoriosamente da quelle alture gli Austriaci, e quindi posero l'assedio a Peschiera.
Le speranze dell'imminente liberazione del Veneto furono a un tratto spezzate dall'armistizio segnato dai due imperatori a Villafranca l'11 luglio. Secondo i patti dell'armistizio la Lombardia era ceduta a Napoleone III, perché questi la cedesse a sua volta a Vittorio Emanuele; i due imperatori prendevano impegno di favorire la formazione di una federazione di stati italiani sotto la presidenza onoraria del papa, e della quale l'imperatore d'Austria avrebbe fatto parte, come sovrano del Veneto. Grande fu l'indignazione degl'Italiani alla notizia dell'armistizio; e agitatissimo ne fu Cavour, che consigliò il re a non accettarlo. Il re non seguì il consiglio; e Cavour si dimise. Napoleone era venuto meno ai patti; egli, si disse, fu indotto a tale decisione per le notizie che gli provenivano dalla Francia, dove una corrente era ostile alla sua politica italiana e per le notizie che gli provenivano dalla Prussia, dove una mobilitazione, si diceva, si preparava per marciare verso il Reno. Ma anche altre notizie, non meno efficaci, agirono allora sulla decisione di Napoleone. Dall'aprile al giugno i Ducati, le Legazioni, la Romagna, la Toscana, proclamavano di volersi unire al Piemonte. Il movimento, benché per allora represso, si estendeva già nelle Marche e nell'Umbria. Sicché lo sviluppo della guerra di Lombardia appariva il preludio della formazione di un grande stato italiano, più vasto e possente di quello voluto da Napoleone. Gli avvenimenti prendevano la mano a chi credeva di poterli dominare, poiché - ed è questo l'errore di Napoleone III - la questione italiana non si decideva, come in passato, solo tra due grandi potenze in guerra, con o senza il piccolo Piemonte, né si risolveva solo nei congressi delle potenze; un altro fattore agiva ormai: l'Italia. Essa si rivelò allora nella condotta delle popolazioni che al principio della guerra si erano liberate a Parma, a Modena, a Bologna e a Firenze dei vecchi governi e avevano acclamato Vittorio Emanuele, che vi aveva mandato suoi commissarî regi. Vittorio Emanuele, accettando i patti dell'armistizio, dovette ritirare i commissarî regi, ma allora le popolazioni elessero proprî dittatori, e prepararono le armi per opporsi a ogni tentativo di restaurazione dei deposti sovrani. Tutti gl'intrighi di regni separati con principi francesi furono combattuti dalla volontà del popolo, che volle essere l'arbitro delle proprie sorti. Mazzini, contrario all'alleanza franco-piemontese, scoppiata la guerra sostenne la necessità di allargarla, d'italianizzarla, di "accettare la direzione militare dell'oggi per questo scopo". Il prorompere del movimento nazionale, inalveato entro il programma dell'unità con la monarchia sabauda, sconvolse i disegni di Napoleone di una federazione italiana, entro l'orbita dell'influenza francese. Contro quei disegni agì efficacemente la politica inglese per i suoi interessi nel Mediterraneo. Sino all'aprile del '59 l'Inghilterra, amica dell'Austria, aveva cercato di impedire la guerra; dopo le sconfitte austriache temette che la Francia riuscisse a predominare in Italia. L'Inghilterra perciò vedeva di buon occhio la formazione di un forte stato italiano, a cui, con le annessioni, pareva si avviasse il Piemonte, e che la Francia osteggiava perché non avrebbe potuto esercitarvi agevolmente la sua tutela.
Cavour, quando nel gennaio del '60 tornò al potere, e fu tutto preso da quel movimento nazionale unitario, seppe subito far tesoro di questo antagonismo anglo-francese sulla questione italiana. Napoleone III allora abbandona i disegni concepiti fin da Plombières, e cerca di avere compensi. Egli per avere, oltre la Savoia, Nizza, si disinteressò delle sorti dell'Italia centrale, che si univa con i plebisciti al Piemonte. Il movimento nazionale unitario aveva allora i suoi martiri nella Sicilia. Già nel '56 al grido di "Viva l'Italia" cadeva fucilato Francesco Bentivegna, ardente mazziniano; la propaganda mazziniana spazzava i resti del separatismo, che nel '48 era ancora profondo nella coscienza siciliana. Nel '58 la Società nazionale aveva a suo segretario il siciliano La Farina. Fin dal '59 i patriotti siciliani avevano invitato Garibaldi a venire in Sicilia, ma egli, ardito e prudente, accolse l'invito solo quando gli assicurarono che l'insurrezione era viva in Sicilia.
Il 6 maggio partì da Genova con 1100 volontari. Sbarcò a Marsala l'11 maggio, e quattro giorni dopo vinceva la prima battaglia a Calatafimi. Proseguì quindi la sua marcia e, ingannando il nemico, entrò combattendo a Palermo il 27 maggio. Il valore dei suoi volontarî e la genialità sua di stratega non avrebbero ottenuto il trionfo senza il concorso del popolo siciliano, che tutto era insorto contro il Borbone. Il 20 luglio Garibaldi vinceva l'aspra battaglia di Milazzo, e aveva così aperta la via di Messina. Si accinse quindi a passare lo stretto: l'unità d'Italia era ora in cammino. Era il cammino che Napoleone voleva arrestare, cercando di salvare il Borbone, consigliandolo a concedere la costituzione, e invitando l'Inghilterra a impedire lo sbarco di Garibaldi nella penisola. L'Inghilterra rifiutò, dichiarando che avrebbe protestato se la squadra francese avesse agito nelle acque di Sicilia. Così Garibaldi il 20 agosto poté facilmente passare lo stretto. Il giovane re di Napoli, Francesco II, assisteva a Napoli al disfacimento dello stato a mano a mano che sopraggiungevano le notizie delle vittorie di Garibaldi e della sua marcia trionfale per Napoli. Francesco II era successo nel maggio del '59 a Ferdinando II. Era stato consigliato, e ancora a tempo, dal principe di Satriano, a concedere subito la costituzione e ad allearsi al Piemonte. Non volle, e non si avvide che né all'interno, né fuori del regno, poteva trovare forze per lottare contro il movimento nazionale. Garibaldi il 7 settembre entrava a Napoli, e qualche giorno prima Francesco II si era ritirato nella fortezza di Gaeta. Le truppe rimastegli fedeli erano tuttavia ancora animate alla lotta, e si afforzarono sulla linea del Volturno. Il 2 ottobre Garibaldi vinceva la battaglia del Volturno. L'esercito, vinto, si riparava nella valida fortezza di Gaeta, che dalla parte del mare aveva il tacito appoggio della squadra francese.
Nonostante le vittorie garibaldine la situazione era minacciosa di pericoli: né la questione era solo militare, ma politica ed ardua assai, sia nei rapporti internazionali, sia nei rapporti con la monarchia sabauda. Il movimento nazionale del Napoletano era stato spinto dalla rivoluzione e dalla guerra garibaldina; invano emissarî di Cavour e della Società nazionale avevano cercato di suscitare a Napoli un movimento a favore di Vittorio Emanuele prima dell'entrata di Garibaldi. Attorno a Garibaldi agivano repubblicani che avrebbero potuto prevalere, e che consideravano Napoli una tappa della marcia su Roma; la quale si sarebbe risolta in una guerra contro la Francia, che a Roma aveva sue milizie. Tutto questo previde Cavour nel settembre e abilmente provvide, traendo dalla stessa situazione politica elementi a suo favore. A Roma un nemico di Napoleone III, il generale Lamoricière e un fanatico legittimista, Saverio De Merode avevano spinto il papa, nel dolore della perdita delle Legazioni, a chiamare a raccolta volontarî in sua difesa. Roma diveniva così il centro di una vera riscossa legittimista, una nuova e grande Vandea, dove convennero nobili cattolici del Belgio, dell'Irlanda e della Francia, pronti a combattere per la difesa della Chiesa e del legittimismo. Le schiere dei volontarî papalini erano motivo d'inquietudine non solo per Vittorio Emanuele, ma anche per Napoleone, irritato che Roma fosse centro di legittimismo borbonico. Perciò Napoleone III non si oppose all'ultimatum che Cavour il 7 settembre intimò al cardinale segretario di stato per lo scioglimento delle schiere dei volontarî papalini. Al rifiuto l'esercito regio passò il confine, vinse il 18 settembre il Lamoricière, che si chiuse ad Ancona. Ancona si arrese il 28 settembre. L'avanzata dell'esercito di Vittorio nelle Marche, per procedere quindi nel Napoletano, era atto ardito e pericoloso: l'Austria avrebbe potuto attaccare e riconquistare la Lombardia. Quel pericolo vide tuttavia Cavour di potere affrontare con tutta la nazione, con l'esercito del re e con le forze rivoluzionarie di Garibaldi e di Mazzini; né la Francia sarebbe stata neutrale. Quel pericolo insomma dell'attacco dell'Austria alla Lombardia apparve minore di quello di uno sviluppo del movimento garibaldino nel Napoletano sotto la azione repubblicana e spinto verso una marcia su Roma e una inevitabile guerra contro la Francia. Napoleone stesso, a cui quel pericolo repubblicano e quella minaccia su Roma furono prospettati da Cavour finì col consentire, come già aveva fatto prima, all'intervento dell'esercito di Vittorio nel Napoletano. La politica di Cavour riusciva così a tenere in scacco e Napoleone e il papa e il partito repubblicano attorno a Garibaldi. L'intervento dell'esercito con Vittorio Emanuele nel Napoletano affrettava il plebiscito, e dava le armi necessarie per l'assedio di Gaeta. Il 26 ottobre si incontravano Vittorio Emanuele e Garibaldi, e il 7 novembre entravano insieme a Napoli, dove il re riceveva i voti del plebiscito che univa l'Italia meridionale al suo regno. Il 13 febbraio la fortezza di Gaeta si arrendeva. Il 18 febbraio 1861 si adunò a Torino il parlamento con i deputati di Napoli, di Sicilia, dell'Umbria e delle Marche; il 17 marzo fu proclamato il Regno d'Italia sotto la monarchia di Vittorio Emanuele II. Pochi giorni dopo, il 27 marzo, Cavour in un memorabile discorso al Parlamento affermava di non potere concepire l'Italia costituita in unità senza che Roma fosse la sua capitale, e soggiungeva: "Noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, di insistere perché Roma sia unita all'Italia, perché senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire".
Il grande ministro tre mesi dopo moriva (6 giugno 1861); l'Italia perdeva il suo più grande uomo di stato.
Il Regno d'Italia.
I problemi del nuovo regno. - Non facili inizî quelli della nuova Italia dopo l'epopea del triennio glorioso: diffidente l'opinione pubblica internazionale, più o meno manifestamente ostili i più tra gli stati (la Spagna riconobbe il regno solo nel 1865 e l'Austria dopo la guerra del 1866), e a giustificare previsioni fosche e giudizî non benevoli, una situazione interna allarmante. Ché, infatti, diversità di tradizioni storiche e di condizioni culturali, economiche, sociali ostacolavano la realizzazione di quell'unità che gli eventi recenti avevano creata, troppo facilmente e precariamente agli occhi di molti. Né le classi dirigenti apparivano all'altezza dei nuovi ardui compiti: dalla proprietà terriera venivano uomini pratici e buoni amministratori, ma poco sensibili alle nuove necessità sociali e politiche, irrigiditi molti in un conservatorismo esclusivista; dalla borghesia, che aveva avuto tanta parte nella vicenda rivoluzionaria, uscivano uomini d'intelligenza e di passione, capaci più di geniali improvvisazioni che ricchi di doti politiche. Il patriottismo, la letteratura, gli ardimenti delle cospirazioni, il tormento delle prigioni e dell'esilio, le prodezze dei campi di battaglia male sostituivano vere capacità. E dalla gran massa del popolo, estranea alla vita pubblica, come già prima all'azione nazionale, non poteva aspettarsi alcun correttivo benefico: meschino l'artigianato, egoisti o avversi i contadini, incolta e poco produttiva la minor borghesia. "Voi siete venticinque milioni d'uomini dotati d'attive, splendide facoltà: avete una tradizione di glorie che le nazioni d'Europa v'invidiano: dinanzi a voi sta un immenso avvenire". Ma le parole antiche di Mazzini sonavano ora più rampogna che promessa.
Le secolari tendenze regionalistiche, le aspirazioni separatistiche non erano scomparse per effetto della vittoriosa rivoluzione: e l'accusa di piemontesismo colpiva il governo di Torino, che appariva reo di considerare l'Italia come sua propria conquista.
La gravità della situazione finanziaria, compromessa dalle necessità della lotta recente, ostacolava le riforme indispensabili e le opere pubbliche promesse o sperate. Il maggior costo della nuova vita italiana si concretava per il popolo nell'inasprimento fiscale. Scarsa la ricchezza pubblica: debiti di quasi 3 miliardi, disavanzo superiore ai 300 milioni. Eppure per allacciare veramente le varie parti della penisola, perché l'unità divenisse una realtà benefica agli occhi del popolo, perché i malcontenti e gli ostili fossero conquistati o debellati occorreva operare: aprire scuole, costruire strade, lanciare navi sui mari, distendere ferrovie, gettar ponti, aiutare le industrie e l'agricoltura; dimostrare, insomma, con i fatti che l'unità era un bene, specie alle plebi apatiche o diffidenti.
E bisognava provvedere all'esercito e alla marina dove stentavano a unirsi Piemontesi, borbonici, garibaldini: superare anche qui le difficoltà, le diffidenze e le gelosie, fondere in un tutto armonico le volontà e i mezzi. Compito difficile non meno dell'altro di dotare il paese di buoni impiegati e funzionarî. La profonda diversità di condizioni geografico-economiche fra il Settentrione e il Mezzogiorno, turbato questo da un "perenne squilibrio tra popolazione e ricchezza, tra ricchezza e tributi", destava preoccupazioni e alimentava dissensi. Il brigantaggio, dolorosa piaga che tormentò le provincie meridionali, dove la delusione era susseguita alle grandi speranze nell'animo delle plebi rurali, scontente dei vantaggi assicuratisi dalla borghesia, ebbe origini e carattere di reazione sociale, se pure non poté mai assurgere a vero significato politico. Non compreso sempre nei suoi più profondi motivi dall'opinione pubblica e dal governo, trovò appoggio nella corte borbonica rifugiata a Roma, che sperò di poterlo mutare in una rivoluzione contro il nuovo assetto italiano, che errori e incertezze di governanti non accreditavano agli occhi delle popolazioni. Le leggi repressive, i mezzi violenti non giovavano da soli contro questo fenomeno che accomunava campioni internazionali del legittimismo ad antichi militari borbonici e briganti. Annosa eredità, la questione meridionale, economica e politica, si trascinerà per un cinquantennio, male affrontata e male risolta. Gravi i nuovi compiti della politica estera, che non poteva svincolarsi da una certa dipendenza verso la Francia e doveva scontare diffidenze e gelosie europee contro quest'Italia figlia della rivoluzione. Roma e Venezia erano ancora fuori dei confini del regno, entrabe indispensabili per ragioni materiali e ideali, militari e politiche. Le due questioni esasperavano le passioni e acuivano le difficoltà e facevano trascurare altri problemi e altre questioni che al paragone apparivano minori. Il partito d'azione, confortato dal ricordo delle audacie recenti, sognava soluzioni rapide, rivoluzionarie, illudendosi sulla possibilità di un'azione esclusivamente italiana. Al contrario, il partito moderato non credeva più al fiducioso "l'Italia farà da sé" e sentendo impossibile la lotta contro la Francia per l'una, contro l'Austria per l'altra questione, aspirava a trattative, ad accordi, ad accomodamenti. Le polemiche, le intemperanze, gli errori degli uni e degli altri rendevano più aspro il compito e non rafforzavano l'azione dei governanti. Né l'opera dei successori di Cavour riusciva a sopire il dissenso e a superare gli ostacoli.
Bettino Ricasoli, riprendendo le direttive di lui, cercò di risolvere la questione romana mediante accordi con Napoleone e con il pontefice. Ma ostilità francesi e democratiche, diffidenze di cattolici e di conservatori, segnatamente piemontesi, l'impopolarità che gli recava la sua eccessiva rigidezza lo indussero a lasciare l'impresa e il governo (28 febbraio 1862). Anche se il maggiore problema non era risolto, il Ricasoli però aveva avviato il riassetto amministrativo su base centralistica, aveva unificato il debito pubblico, iniziate grandi costruzioni ferroviarie.
All'aspro Ricasoli successe Urbano Rattazzi, abile parlamentare, accetto a Vittorio Emanuele e a Napoleone, ben visto da garibaldini e democratici. Imitando certe forme della politica del Cavour, si condusse in modo ambiguo, lasciando diffondere idee di possibile accordo tra il governo e il partito d'azione. Ma l'azione garibaldina per la liberazione del Veneto finì nei fatti di Sarnico e invece di Roma l'Italia ebbe Aspromonte, la tragedia dell'equivoco (29 agosto 1862). Pochi i morti nello scontro fratricida, disertori regi fucilati, ma sciagura grande vi fossero. Tra i feriti lo stesso Garibaldi, che aveva risognato le audacie dei Mille sulla via di Roma. L'amnistia che lo tolse alla prigionia del Varignano (5 ottobre) non sopì le discordie e le recriminazioni, né assolse i responsabili.
Screditato, avversato, bestemmiato, il Rattazzi si dimetteva nel novembre. Dopo il breve governo di L. C. Farini, Marco Minghetti, che si era sforzato di combattere regionalismo e piemontesismo e di risolvere la questione finanziaria, tornò a trattar con la Francia per ottenerne almeno l'abbandono militare, se non politico, di Roma. L'Italia doveva e poteva garantire da sola il pontefice. Il consenso si ebbe, e il governo italiano s'impegnò a rispettare e a far rispettare il territorio papale e ne diede garanzia con l'impegno di trasferire la capitale. Idea questa che derivava da un antico progetto cavouriano dell'aprile 1861 e non spiaceva al Minghetti e ai più dei suoi colleghi, non piemontesi, perché aiutava lo spiemontizzamento del regno. Ma, naturalmente, diverso giudizio davano i Piemontesi e, quando fu nota la convenzione del 15 settembre 1864, gravi e dolorosi tumulti scoppiarono a Torino. Il ministero si sacrificò, ma la convenzione fu eseguita dal nuovo ministero Lamarmora, la capitale trasportata a Firenze e i Francesi entro due anni sgombrarono Roma. La soluzione, troppo evidentemente provvisoria, faceva guadagnar tempo ma scontentava Francesi e Italiani, quelli per l'abbandono del pontefice, questi perché temevano definitiva la rinuncia a Roma. E questo non era, ché il governo considerava Firenze tappa verso la contesa meta finale e pensava di avere avviato la questione romana a diventare di internazionale più propriamente nazionale. La legione antiboina di creazione francese sostituiva in parte gl'imperiali custodi del papa, il quale intanto rinnovava nel Sillabo la condanna contro gli avversarî della supremazia pontificia.
Venezia e Roma. - Sopita per il momento con una transazione la questione di Roma, il problema del Veneto riapparve. A liberarlo dal giogo straniero molti pensavano; non tra i meno impazienti e meno audaci il sovrano, che tentava personali accordi con il grande avversario della monarchia, Mazzini, e con Garibaldi per una vasta azione rivoluzionaria nelle terre degli Asburgo.
Tramontate queste speranze, il governo riprese anche qui le direttive già tracciate da Cavour per un accordo con la Prussia, che aveva comuni con l'Italia le aspirazioni e il nemico. Le trattative, già avviate dalla fine del 1864 e poi interrotte per non celate diffidenze di re Guglielmo, si ripresero e portarono, pur sempre in atmosfera di reciproco sospetto, all'alleanza dell'aprile 1866, che all'Italia prometteva il Veneto e impegnava le due potenze a non concludere pace o armistizio se non d'accordo. L'alleanza isolava con l'Austria la Francia: quella per il tramite di Parigi corse ai ripari offrendo il Veneto in cambio della neutralità, ma il governo italiano rifiutò per non venir meno ai patti, pur riservandosi di accettare, dopo scaduti i tre mesi per cui il trattato l'impegnava. Napoleone intanto, a rassodare lo scosso prestigio francese, proponeva una conferenza europea, che non si tenne, mentre nuove diffidenze sorgevano tra Prussia e Italia, questa apparendo all'altra troppo legata a Francia.
E fu così la guerra. Rapida e vittoriosa sui campi boemi ove "il fredd'ago del fucil prussiano" umiliava gli Austriaci a Sadowa. Vienna, contesa ai generali di Guglielmo I da Bismarck che non voleva un intervento francese a favore dell'esasperato risentimento asburgico, chiedeva l'armistizio e accettava preliminari di pace (25 luglio) che la Prussia imponeva senza alcun accordo con l'Italia.
Qui grandi le speranze, più grandi le delusioni. La mancata concordia tra i capi militari e la mal salda unità di gente che stentava ad affratellarsi, ieri ancora divisa sotto diverse bandiere, deprimevano lo spirito dell'esercito. Rivali il Cialdini e il Lamarmora, il re si sentiva troppo soldato per rassegnarsi a una funzione puramente rappresentativa: si rinunciò all'unità del comando e si spinsero a diversi obiettivi le forze che avrebbero dovuto operare concordi. A Garibaldi, favorevole a un più audace piano, fu affidato il compito di penetrar nel Trentino. E così la prima grande prova del nuovo regno fu affrontata in modo non felice. Oltre il Mincio, a Custoza, il 24 luglio 1866 in un combattimento disordinato e slegato il Lamarmora si fece battere dall'arciduca Alberto. Mirabile sempre l'eroismo dei capi e dei gregarî, animati dall'esempio dei principi reali, ma debole, incerta l'azione del comando. Lo scacco riparabile fu proclamato sconfitta: non si osò riprendere la lotta; Garibaldi fu richiamato a "coprire l'eroica Brescia".
Intanto l'Austria, sotto l'incubo di Sadowa, cedeva il Veneto a Napoleone, sollecitandolo come mediatore. Vana offerta ché anche il Ricasoli, come già il Lamarmora, voleva fare una politica di mani nette e l'opinione pubblica reclamava prima una vittoria. La ripresa delle operazioni con più logico piano portava il Cialdini nel cuore del Veneto dietro gli Austriaci che si ritiravano; Garibaldi vinceva nelle Giudicarie, mentre il Medici dalla Valsugana s'avanzava su Trento. Grandi speranze rifiorivano e molto s'attendeva dalla flotta. Ma il 20 luglio nelle acque di Lissa l'incapacità e le esitazioni del Persano, l'impreparazione dell'armata, su cui anche pesavano rivalità e dissensi, l'incertezza delle direttive troncavano ogni speranza con dure conseguenze per la guerra e per il prestigio italiano.
La sconfitta inattesa, la disinvolta azione dell'alleata, il timore di dover fronteggiare l'intiero esercito austriaco, costrinsero l'Italia all'armistizio di Cormons (12 agosto) e alla pace di Vienna (3 ottobre). Con questa, per il tramite della Francia, come già nel '59, l'Austria rinunciava al Veneto entro i suoi limiti amministrativi ma non al Trentino e alla Venezia Giulia. Cattivo confine per l'Italia quello del 1866; e l'Adriatico conteso e la sempre più disperata lotta dell'altra sponda contro lo slavismo protetto da Vienna renderanno più umiliante, più amaro il ricordo di quella pace.
L'entusiasmo plebiscitario delle popolazioni venete non placava il risentimento e il tormento. Spiriti pensosi chiedevano con Pasquale Villari "di chi la colpa?", o confessavano l'angoscia per le sorti della patria, mentre retrivi e clericali s'auguravano prossimo il crollo del male accozzato edificio. La guerra aveva brutalmente messe a nudo le debolezze del nuovo regno, ancora privo d'unità reale, indebolito dall'ostilità dei cattolici, dalla scarsa partecipazione del popolo alla vita nazionale. Lo sdegno e la vergogna favorivano la propaganda repubblicana. E il moto di Palermo, rivolta oscura di plebe immiserita, senza vero carattere politico, ma preoccupante come sintomo d'insoddisfazione e d'inquietudine, chiudeva tristemente l'anno della terza guerra dell'indipendenza.
Tornava, agitata dal partito d'azione, la questione romana all'orizzonte. Il Ricasoli, di nuovo al potere dopo la guerra, era pur sempre incline a una larga politica di accordi con Roma, che egli cercava di render possibile con una legislazione favorevole al clero, del quale voleva assicurarsi l'appoggio. Ma i democratici erano contrarî, e nel parlamento e nel paese il rigido Ricasoli aveva accaniti avversarî alla sua politica interna e finanziaria. Costretto a dimettersi (aprile 1867), cedeva il posto al troppo duttile Rattazzi. E riprese il Rattazzi a lusingare e a intrigare, mentre una finanza anticlericale irrigidiva il clero. Forti illusioni si nutrivano su una sollevazione di Roma che desse all'esercito regio il pretesto d'intervenire e forzasse il consenso napoleonico. Ma Roma non poteva insorgere per i dissensi tra le varie fazioni liberali e per la mancanza d'armi, e la Francia, il cui prestigio era troppo scosso dal '66 e dalla trista avventura messicana (né l'unità italiana appariva desiderabile ai varî partiti francesi) non era disposta a cedere. Garibaldini e partito d'azione preparano la spedizione: è ancora la situazione di Aspromonte. Di fronte alla minaccia francese di rimandare truppe a Roma, il Rattazzi, che ha finora troppo lasciato fare, si atteggia a intransigente e fa arrestare Garibaldi (23 settembre 1867). La sperata insurrezione di Roma non avviene: il manipolo eroico dei Cairoli si sacrifica invano a Villa Glori (23 ottobre). Vani gli accorgimenti del Rattazzi, che di fronte a un più reciso rifiuto francese (si concentrava intanto a Tolone una divisione per accorrere a Roma) si dimise. Garibaldi, intanto, fuggito da Caprera, era accorso a prendere il comando dei suoi. Il nuovo ministero Menabrea non poteva porre riparo alla situazione: e l'appello del re, come già alla vigilia di Aspromonte, era senza efficacia. Garibaldi s'impadronì di Monterotondo e si spinse a pochi chilometri da Roma, ancora sperando nell'insurrezione. Ma il 3 novembre a Mentana, sopraggiunti improvvisi i Francesi in soccorso ai vacillanti pontifici, i suoi volontarî, che non avevano più la fede e l'ardore del '59 e del '60, facilmente demoralizzati, non ressero e si sbandarono sotto il tiro degli chassepots che fecero merveilles. Nel crollo delle speranze e nell'umiliazione dell'ora, agli occhi del popolo giganteggiava ancora e solo Garibaldi, che pochi anni più tardi, generosamente immemore, offrirà la sua spada in difesa della Francia.
Nuovi rancori e più profonda esasperazione s'accendono. In Italia s'impreca al governo improvvido e alla Francia ostile, che ha come nel '49 salvato al papa il suo trono; da Parigi rispondono alle invettive e alle recriminazioni i troppo sicuri jamais del ministro Rouher. Ma quei fucili francesi hanno colpito l'anima italiana, hanno ferito insanabilmente l'amicizia tra le due nazioni. Il ritratto di Felice Orsini torna nelle vetrine dei negozî come all'indomani di Villafranca.
Triste il biennio dopo Mentana, fra l'estendersi di un movimento repubblicano sempre più lontano dall'ideale mazziniano e vani tentativi di assolutismo sovrano, tra l'aggravarsi della situazione finanziaria e l'accrescersi di un fiscalismo che colpiva duramente il popolo (tassa sul macinato). Solo l'avvento del ministero Lanza portò un qualche sollievo alla situazione. E a questo ministero di galantuomini l'Italia dovette Roma.
Avvicinandosi l'ora della crisi fatale del secondo impero, la ventilata alleanza austro-franco-italiana, che avrebbe dovuto fermare la minacciosa Prussia, s'infranse sullo scoglio della questione romana. Quando s'aprirono le ostilità tra la Francia e la Prussia l'alleanza fu di nuovo proposta. La caldeggiava Vittorio Emanuele, ma il governo, il parlamento e l'opinione pubblica eran contrarî e il rifiuto napoleonico di cedere su Roma la rendeva impossibile. Dopo il richiamo delle truppe francesi il governo italiano decise di risolvere la spinosa questione secondo le aspirazioni nazionali. Con una rapida e intelligente azione diplomatica presso le altre potenze fu preparato il terreno, che la caduta dell'impero sgombrava degli accordi del 1864. Fallito un ultimo tentativo del re presso il pontefice, s'iniziarono le operazioni militari. E la mattina del 20 settembre 1870 l'esercito italiano entrava in Roma per la breccia di Porta Pia. La più alta meta del Risorgimento, "l'arca santa del riscatto, il tempio della nazione", era raggiunta. Dodici giorni dopo un plebiscito sanzionava la volontà del popolo romano di appartenere al regno d'Italia. Nel maggio 1871 il parlamento votava in Firenze la legge delle guarentigie, che conferiva al papa prerogative sovrane, diritto di legazione attiva e passiva, extraterritorialità e uso dei palazzi apostolici e un assegno annuo. La protesta del pontefice contro l'atto unilaterale che non gli assicurava la libertà e la sovranità necessarie al suo ministero spirituale, non commosse troppo né i governi, preoccupati di quanto accadeva in Francia e turbati dalle tendenze che l'interrotto Concilio ecumenico aveva rivelato, né i legislatori italiani, i quali, ammaestrati da troppo recenti esperienze, avevano voluto evitare che altre potenze sostituissero la Francia nel patronato della Santa Sede. Ma la questione romana restava sostanzialmente insoluta e il conflitto tra il Vaticano e l'Italia assumeva forme nuove e non meno aspre e contribuiva a turbare le coscienze degl'Italiani.
Solo dopo la dura tensione dei primi decennî il buon senso e la tolleranza del popolo italiano, da un lato, la comprensione dei nuovi tempi e nuove necessità dall'altro, attutiranno contrasti e intemperanze, spianando, sia pur lentamente la via alla soluzione cui si sarebbe giunti solo nel 1929.
Nuovi problemi e nuovi compiti. - Neppure la conquista di Roma eliminava, dunque, le difficoltà interne e internazionali impaccianti o minaccianti. Il tono modesto e l'aridità della vita nazionale scontentavano quanti s'erano illusi di un pronto tornare a grandezza e maestà dell'Italia, incapaci di riconoscere che questa Italia era nuova, e nuove le sue vie e nuove le sue mete e che il suo popolo avrebbe dovuto lungamente e tenacemente lottare contro sé stesso per disfarsi di ogni perniciosa eredità d'altri tempi. "Impronta Italia dimandava Roma, Bisanzio essi le han dato" ruggiva il Carducci. La scomparsa dei grandi che avevano costituita questa Italia rendeva più triste il presente. L'Italia era fatta, ma - aveva ragione d'Azeglio - gl'Italiani eran da fare. A Pisa, esule in patria, moriva il 10 marzo 1872 Giuseppe Mazzini, il profeta del Risorgimento, "l'ultimo dei grandi italiani antichi e il primo dei nuovi", come lo salutava il Carducci. E una gran luce pareva spegnersi, anche se l'efficacia di lui negli ultimi anni fosse andata perdendosi ed egli apparisse ora il gran vinto del Risorgimento. Altri morivano, diversi nella fede e discordi nell'azione, non nell'amore alla patria italiana: Manzoni, Guerrazzi, Bixio. Il 9 gennaio 1878 si spegneva il gran re che aveva saputo raccogliere tutte le fila, utilizzare tutte le possibilità, servirsi di tutti gli uomini, a volta a volta audace e spregiudicato, moderato e guardingo. Suo merito grande se la rivoluzione italiana s'era compiuta, se il regno d'Italia era nato. Poco più tardi moriva anche Pio IX, che aveva trent'anni prima unificato l'Italia nel suo nome, invocato ed esaltato allora universalmente. E dieci anni dopo Mazzini, anche Garibaldi scompariva.
Isolata in Europa, ove il sopravvivere in nuova forma della questione romana provocava campagne clericali in favore del pontefice "di sé stesso antico prigionier" (anche il nuovo papa Leone XIIl continuava dapprima la politica di proteste e d'intransigenza di Pio IX) l'Italia era scossa all'interno da agitazioni repubblicane e anticlericali. E colorito anticlericale assumevano anche le prime lotte tra capitale e lavoro sotto la bandiera dell'Internazionale operaia (scioperi di Verona e Torino, 1872). Questo affanno interno rallentava la soluzione dei più gravi problemi cui attendevano gli uomini della Destra; che eran pur sempre gli stessi problemi: unificazione interna, rinnovamento delle leggi, riordinamento amministrativo, rafforzamento dell'esercito e della flotta, costruzione di ferrovie (salite dai 2200 del 1862 ai quasi 8000 chilometri del 1875). Ma l'opera proseguiva e quegli uomini affrontavano e vincevano anche la dura battaglia contro l'incubo del fallimento finanziario. Economie fino all'osso e una risoluta politica di tassazioni portavano il Minghetti al pareggio (1876). Nei rapporti con l'estero l'Italia, che toccava quasi i 27 milioni di ab. (1871), vituperata e minacciata dal nazionalismo e dal clericalismo francese, s'andava accostando alla nuova Germania e all'Austria (viaggio del re a Berlino e a Vienna, 1873) quasi a cercarvi appoggi e garanzie. Non grandi statisti questi moderati, ma erano pur quelli che avevano guidato i primi passi dell'Italia nuova e l'avevano difesa contro i pericoli interni e le minacce esterne, rafforzando l'unità, combattendo le illusorie speranze democratiche e reazionarie, animati sempre, anche nei loro errori e nelle loro insufficienze, da una gran fede, da una gran volontà di operare a pro' del paese. E di molti errori e di molte insufficienze andava fatta colpa più che a loro alle condizioni di questo, non ancora disciplinato da una lunga consuetudine di vita politica. Ma anche il paese poco tuttavia poteva dare, assenti com'erano ancora dalla vita pubblica e cattolici e legittimisti borbonici o granduchisti e plebi rurali e cittadine. Scarsa base, quindi, al governo della Destra: una minoranza, peggio una "consorteria", secondo si diceva. In questa situazione, più grave appariva ai governati il peso di un governo al quale non partecipavano. E la Destra, indebolita da interni dissensi, e impopolare per la sua severità amministrativa e fiscale, lasciò il potere alla Sinistra nella "rivoluzione parlamentare" del marzo 1876.
Ma tale rivolgimento non era reclamato dal paese, né rispondeva a profonde esigenze di esso: pronunciamento di stati maggiori, le truppe erano assenti. Questa indifferenza del popolo di fronte ai mutamenti politici e alle riforme più importanti, sarà anche in avvenire tra i maggiori ostacoli alla formazione di una consapevole classe dirigente.
Dai loro banchi di oppositori, gli uomini della Sinistra passarono al governo con un programma ricco di promesse: allargamento del diritto di voto, istruzione gratuita, alleviamento fiscale, maggiori libertà. Esclusi finora dal governo da spesso ingiustificate diffidenze, essi, di origine democratica o garibaldina, non si riveleranno, tranne il Depretis, abilissimo parlamentare, e il Crispi, vera tempra di uomo di stato, gran che diversi o migliori di quei moderati dei quali raccoglievano l'eredità. E la loro politica non avrà affatto un tono superiore, ché, anzi, nel confronto con la serietà sdegnosa, i saldi convincimenti e l'austerità degli uomini della Destra, apparirà meschina la loro facilità al ripiego, all'accomodamento, al compromesso.
Ma il mutamento avvenuto favoriva più ricche esperienze d'uomini e contribuiva, sia pure senza immediato giovamento, ad allargare l'ancor troppo modesto ceto politico. E il trasformismo depretisiano consentì il superamento degli antichi partiti e la concentrazione degli antichi avversarî non in un determinato partito, ma in un programma parlamentare, che era bene o male un programma d'azione. Il logoramento dei caratteri e il prevalere delle clientele apparvero corruzione; si gridò alla decadenza del costume politico si deplorò che il tono della vita parlamentare fosse dolorosamente abbassato, che gl'interessi locali prevalessero su quelli nazionali; ma la radicale trasformazione che si compì nei gruppi politici permise che, scomparsi ormai i grandi ideali e placate le roventi passioni del Risorgimento, si raccogliessero sotto le bandiere della monarchia unitaria per un fattivo lavoro uomini di parte repubblicana, che portarono la particolare loro sensibilità e la diversa loro esperienza alla soluzione dei problemi nuovi. La necessità di non imprimere scosse pericolose alla macchina statale, che cercava un suo faticoso assestamento, obbligò a non tentare soluzioni troppo audaci, troppo garibaldine, all'interno e all'esterno, mentre attorno all'Italia s'agitava un'Europa politicamente, economicamente, socialmente in via di trasformazione.
La Sinistra trovava l'Italia ancora isolata internazionalmente, ancora inquieta per le ripercussioni europee del suo dissenso con il Vaticano, sopravvalutato nei suoi effetti e nella sua importanza, ma tale, intanto, da fornire armi o pretesti a ogni possibile avversario: alla Francia, all'Austria, persino alla Germania del luterano Bismarck. Né erano motivo d'orgoglio i ricordi della dura esperienza del 1866, ragione anzi di amarezza e di sfiducia. Quindi niente avventure, niente salti nel buio, niente urti contro qualcuno: mani nette per Cairoli, come ieri per Minghetti, come prima per Ricasoli. E si rifiutano suggestioni inglesi per Tunisi e si accettano gli acquisti austriaci e inglesi a Berlino. Già c'era poco da fare: Gorčakou si compiaceva di ironie insultanti di fronte a modesti tentativi di ottener compensi nel Trentino per l'ingrandirsi dell'Austria. L'Italia era ancora impreparata ad affrontare una grande crisi: lo si vide quando la Francia con il trattato del Bardo (12 maggio 1881) faceva riconoscere dal bey di Tunisi il proprio protettorato sul suo stato. Tramontavano così antiche aspirazioni italiane, erano feriti interessi ormai consolidati, minacciati di assorbimento gl'Italiani stanziati nella Reggenza e, peggio, turbata la situazione mediterranea dell'Italia e turbato a suo danno lo statu qno. Il Cairoli, che andandosene pagò anche per altri, aveva cercato di evitare il danno, ma la situazione era compromessa da tempo, dal rifiuto italiano del 1878, dallo scarso interesse dell'opinione pubblica (che si scalde à assai più a cose fatte), dalle preoccupazioni di suoi colleghi, primo il Depretis. Sarebbe ingiusto far pesare solo su alcuni uomini questa rinuncia, come non fu solo colpa del gabinetto Depretis-Mancini l'altra rinuncia a partecipare a fianco dell'Inghilterra alla repressione dell'agitazione xenofoba in Egitto (1882). L'impreparazione dell'esercito, le difficoltà del bilancio, il timore di scontentare la Germania e le preoccupazioni di politica interna dissuasero dall'impresa, cui politici acuti come il Minghetti, S. Sonnino, N. Marselli erano favorevoli.
L'attrito con la Francia, che faceva temere la guerra, l'inasprirsi del contrasto col Vaticano, che provocava direttamente o indirettamente manifestazioni antipatiche ed eccessive dall'una e dall'altra parte, l'inquieta situazione interna (il giovane re Umberto appena salito al trono era stato fatto segno all'attentato di Passannante, agitazioni repubblicane turbavano ancora le Romagne) rendevano faticose le esperienze di governo della Sinistra.
Per uscire dall'isolamento politico e per garantire la pace il Depretis trattò con la Germania e con l'Austria, già unite con un trattato fin dal 1879, per un'alleanza. La ancora scarsa importanza internazionale dell'Italia e le sue condizioni interne, il non celato disprezzo di Bismarck e la diffidenza austriaca le resero ardui e amari i patti: promessa mutua di pace e amicizia, impegno per lo scambio di vedute sui problemi generali, aiuto militare se una terza potenza si facesse ad assalire l'alleato già in guerra, neutralità benevola nel caso di guerra non provocata, ma non la sperata garanzia territoriale per Roma. In nessun caso, però, le stipulazioni s'intendevano rivolte contro l'Inghilterra, condizione che tutelava la politica italiana da un pericoloso vassallaggio austro-tedesco (20 maggio 1882). Sopravvalutata, in bene e in male, la Triplice, che parve per allora sanzionare la rinuncia a Trento e a Trieste, cui aveva già volto il pensiero Cavour morente, giovò a togliere l'Italia da una posizione d'inferiorità internazionale, la portò più direttamente nel campo delle grandi potenze, contribuì a garantire la sua sicurezza e l'equilibrio europeo.
Ma l'alleanza non poté sopprimere l'istintiva avversione popolare verso l'Austria, ché, piuttosto, la riaccese. La Triplice a molti, ai più giovani specialmente, parve la sconfessione del Risorgimento: in odio ad essa divenne movimento politico rilevante l'irredentismo, che s'accrebbe per gli errori austriaci verso il sentimento italiano, per la sopraffazione della cultura italiana nelle terre negate all'Italia dalla pace di Vienna, per le scortesie volute e i gesti provocatori. Il sacrificio di Guglielmo Oberdan (20 dicembre 1882) sarà protesta e monito ai governanti e al popolo italiano per l'alleanza innaturale: il cadavere del giovane triestino costituirà da allora in poi insuperabile ostacolo a qualsiasi accordo più intimo con l'impero degli Asburgo. E Leone Gambetta rassicurerà i suoi connazionali, timorosi per l'alleanza dell'Italia con la Germania, affermando, facile profeta: "Tutti in Italia sono irredentisti. Trento e Trieste impediranno sempre un'intesa veramente cordiale fra l'Italia, la Germania e l'Austria". Il che non impedì agli uomini politici francesi di allarmarsi e di eccitar più o meno copertamente contro la Triplice i democratici italiani, già preoccupati per le libertà interne e per il bilancio statale, poiché si sospettava che l'alleanza imponesse politica reazionaria e aumento di spese militari.
Il rinnovamento della Triplice (20 febbraio 1887), opera del nuovo ministro degli esteri di Robilant, migliorò rispetto alle alleate la condizione dell'Italia. Particolari accordi garantirono gl'interessi di questa nel Mediterraneo e nei Balcani e il fattore vaticano non pesò più sul trattato e sull'Italia. Altre stipulazioni collaterali con l'Inghilterra e l'Austria e con questa e la Spagna completeranno la difesa delle ragioni italiane.
Bene o male l'Italia usciva lentamente di minorità, con poche soddisfazioni per ora e per aver domani più gravi delusioni, ma intanto agiva, arrischiava passi più lunghi, s'avvezzava a guardare un po' più in là della cerchia e dell'abitudine quotidiana. E solo a non dimenticare la grandiosità dello sforzo che aveva dovuto sostenere per rivendicarsi a libertà e le condizioni della sua vita e le difficoltà dell'adattarsi al clima nuovo e alle esigenze nuove d'un paese che era ieri tanto diverso, ci si può render conto di quello che significassero questo muoversi e questo agire. Ieri ancora isolamento regionale, ignoranza di masse, economia arretrata, modesti interessi e piccoli problemi nella più parte degli stati, nessuna partecipazione alla vita pubblica, timore per le idee e paura di novità, e i paesi europei sentiti distanti e superiori: oggi tutto questo è mutato o sta mutando. La vita politica è ancora povera, senza grandi ideali, ed è ancora troppo l'eco d'interessi locali, particolari, ma la legge del 1877 inizia la lotta contro la piaga nazionale dell'analfabetismo e impone la gratuità e l'obbligatorietà dell'istruzione popolare; l'altra del 1882 modifica le condizioni per l'esercizio del diritto di voto e porta da 600.000 a 2 milioni e mezzo i votanti, immettendo nuove forze nella vita politica e suscitando l'interesse del popolo per qualche cosa che sente ora più suo. E riforme unificatrici e consolidatrici si hanno nell'amministrazione e nella legislazione, culminanti nel codice Zanardelli, nel riordinamento provinciale e comunale, e l'esercito contribuisce all'opera di educazione e di unità e nel Settentrione lo sviluppo industriale favorisce il formarsi del socialismo, che era anch'esso più largo interessamento di popolo alla vita politica, quindi a quella della nazione, e nel Mezzogiorno il mutamento sociale e la diversità di cultura e di ideali dànno vita a formazioni democratiche.
Mentre con lento travaglio si venivano formando i nuovi ceti dirigenti, s'imponevano altri problemi che il Risorgimento aveva, se non ignorato, di necessità trascurato, per i quali occorreva riguadagnare in fretta il tempo perduto. Negativi i risultati finora raggiunti nel campo coloniale, prima e dopo la Triplice: Tunisi e l'Egitto. Aspirazioni coloniali non erano mancate neppure nell'età del Risorgimento: Cavour vi aveva pensato e se il problema non era stato allora affrontato, più tardi s'era discusso e cercato e trattato: colonie penitenziarie, scali per far carbone, ora che il vapore sostituiva la vela, territorî di popolamento quando si fece più sensibile con l'accrescimento della popolazione l'aumento dell'emigrazione operaia. Se nel 1869 l'emigrazione permanente era di 22.000 individui di fronte agli 83.000 della temporanea, nel 1879 la prima superava i 40.000 e la seconda scendeva a 79.000. E il mutamento s'accentuerà col 1882 (65.748 contro 95.814) e con gli anni seguenti, accrescendosi l'emigrazione transoceanica, che nel 1887 toccherà la cifra di 127.748, nel 1888 salirà a 196.000. Primo segno concreto di un interesse coloniale l'acquisto privato della baia di Assab da parte della compagnia Rubattino (1869). Ma a pochi interessava quella terra lontana, dieci anni dopo presidiata da soldati italiani e retta da un commissario civile. A che trascurare il Mediterraneo per il Mar Rosso, sebbene il taglio di Suez desse a questo rinnovata importanza? Non c'era una vera spinta d'opinione pubblica: pochi uomini politici e alcuni circoli di geografi e di esploratori sentivano soli l'importanza del nuovo problema. Nel 1882 il governo riscattava dalla compagnia Assab, prima colonia d'Italia, e il 5 febbraio 1885 il Depretis faceva occupare Massaua, già incerto possesso egiziano. Impreparata e male orientata, l'Italia iniziò così in localiià poco felice la sua espansione coloniale. Alle difficoltà di clima s'aggiungevano quelle nascenti dalla vicinanza della sospettosa Etiopia, contro la quale avanzando bisognava pur urtare, e dei fanatici dervisci, che sbarravano l'accesso al Sudan. Ma il troppo facile entusiasmo degl'incompetenti trovava nel Mar Rosso la chiave del Mediterraneo.
A ogni modo anche in questo campo si agiva. L'imboscata di Dogali (26 gennaio 1887) nella quale perivano i 500 soldati del tenente colonnello De Cristoforis, assaliti per ordine del negus Giovanni, metteva a nudo lo smarrimento di un'opinione pubblica immatura e troppo presto delusa (Carducci si rifiutavá di cantare i caduti e l'aristocratico disprezzo di un personaggio dannunziano, Andrea Sperelli, li salutava "cinquecento bruti brutalmente morti", ma faceva anche prendere provvedimenti di rivalsa e affermare una sia pur non chiara volontà governativa di continuare.
Un più alto e deciso tono alla vita nazionale cercò d'imprimere Francesco Crispi, l'antico garibaldino del '60, salito al potere dopo la morte del Depretis (luglio 1887). Carattere energico, ingegno vivo, patriotta sincero, sognò un'Italia più grande, più forte, più rispettata, più degna del suo passato antico e della grandezza del suo Risorgimento. E volle una politica di prestigio e di energia e vagheggiò di trasformare i timidi tentativi e le modeste affermazioni in un programma concreto e organico di espansione. Grandi le idee e grandi le speranze, tuttavia il paese non era ancora preparato a seguire un capo dotato di qualità eminenti, ma non sempre felice nel commisurare la gravità degli ostacoli e la capacità del popolo. Viva in lui e attiva come ai bei giorni delle lotte per l'indipendenza la passione patria, ma troppo sensibili anche preconcetti antifrancesi e preoccupazioni anticlericali. E l'antico repubblicano consacratosi alla monarchia unificatrice con lealtà convinta e salda fede, snaturò il significato e l'importanza che assumevano ora affermazioni socialiste e audacie proletarie, espressione di un profondo disagio economico non di antipatriottismo, e attuò all'interno una politica di repressione. Diffidente e ostile verso la Francia, s'appoggiò ostentatamente alla Germania, più giovando agl'interessi di questa che a quelli d'Italia, e ne risultò quella guerra doganale che stremò l'economia meridionale e aggravò le condizioni del popolo, provocando fermento e favorendo il diffondersi di tendenze socialiste e anarchiche. Per assicurarsi l'amicizia austriaca nel timore d'un conflitto con la Francia, represse duramente l'irredentismo, acquistandosi impopolarità e inimicizie. Lo scacco della sognata conciliazione con il Vaticano lo spinse a improvvide manifestazioni anticlericali, non giovevoli al paese.
Un'azione vigorosa intraprese lo statista siciliano a tutela degli interessi italiani nell'Africa settentrionale, nel Levante, nella Penisola Balcanica, opponendosi a minacciati mutamenti, aiutando le scuole italiane, cercando di esercitare la protezione dei cattolici italiani.
Con il Crispi, avverso un tempo alle imprese coloniali, la politica di espansione africana riprese, ma con inadeguatezza di mezzi rispetto ai programmi troppo ambiziosi. Le posizioni perdute nel 1887 furono riconquistate e l'occupazione si allargò all'altipiano e le mire si estesero al Sudan. All'impresa militare che dilatava i confini della neonata Colonia Eritrea si accompagnò l'azione politica, fonte anch'essa di grandi speranze e di dolorose delusioni. Il trattato di Uccialli, stretto col successore di Teodoro, il negus Menelik (2 maggio 1889), pareva garantire all'Italia il protettorato sull'Abissinia. Ma intrighi franco-russi e scarsità di mezzi finanziari ostacolavano la vasta azione ideata, mentre gl'imbarazzi creatigli dalla sua politica interna e finanziaria e l'accresciuto fermento sociale inducevano il Crispi esasperato a lasciare il potere (31 gennaio 1891).
Politica diversa seguì, dopo la rapida scomparsa del Di Rudinì, Giovanni Giolitti, già ministro con Crispi e alieno da audacie e intemperanze. Ma il suo tentativo di togliere pericolosità alla questione sociale lasciando sfogare l'esasperazione contadina provocata dalla miseria, non riuscì. I gravi conflitti di Sicilia, provocati dai Fasci dei lavoratori, spaventarono conservatori e borghesi, e Giolitti, travolto per le ripercussioni parlamentari dello scandalo della Banca Romana, cadde lasciando dietro a sé una situazione paurosa (28 novembre 1893): Sicilia e Lunigiana sconvolte da incitamenti alla rivolta, 170 milioni di disavanzo, la rendita svalutata, il cambio teso, gl'Istituti di emissione minacciati di fallimento.
Si capisce che il ritorno di un uomo ritenuto forte ed energico, anche se troppo rude e arrischiato, come il Crispi, dovesse, dopo un'insignificante parentesi zanardelliana, apparire promessa di salvezza (15 dicembre). Tribunali militari e stato d'assedio arrestavano per il momento il movimento socialista e l'insurrezionalismo anarchico, pur non sopprimendo le cause del disagio e senza ridare la quiete alle masse. L'opposizione democratica contro il Crispi si scatenava violenta con tutte le armi, mentre lo statista siciliano riprendeva il suo ambizioso programma di espansione. Ma la penetrazione italiana nel Tigrè, le contestazioni sorte sul trattato d'Uccialli e l'azione straniera provocarono il conflitto tra il negus etiopico e l'Italia. Errori politici e militari, incertezze e irrequietudini del governo centrale, gelosie e contrasti di generali compromisero la campagna. Ai primi successi del gennaio 1895 seguirono la sconfitta di Amba Alagi e la resa, dopo eroica resistenza, di Makallè. Più dolorosa e più grave la disfatta nella fatale conca d'Adua, ove poco meno di 16.000 italiani tennero testa a più di 100.000 Abissini lasciando sul campo il 53% dell'effettivo. Vano il valore e vano il sacrificio. Quel disastro, del quale la responsabilità militare fu addossata al solo Baratieri, ebbe gravi conseguenze per il prestigio italiano. Lissa, Adua: nomi troppo facili da ricordare. Il Crispi fu abbattuto dall'insurrezione del parlamento e dell'opinione pubblica e il paese turbato e avvilito rinunciò per quindici anni a ogni idea di espansione. Eppure tutto non era perduto. Il gen. Baldissera, succeduto al Baratieri, riordinava l'esercito e la colonia, teneva in rispetto gli Abissini e batteva i dervisci, che dall'Egitto si erano rovesciati su Cassala. Ma il Di Rudinì non reagì all'avvilimento, preoccupato all'idea di nuovi sacrifizî di sangue e di denaro, e inquieto per l'atteggiamento popolare. Nell'ottobre 1896 fu quindi firmata la pace col negus: cancellate le speranze di Uccialli, limitati i confini eritrei, mascherata con poco ingannevole nome una indennità di guerra. Ultima conseguenza di Adua la retrocessione di Cassala all'Egitto (25 dicembre 1897), deplorata più tardi, ma allora salutata come una liberazione dal paese che concretava tutta la politica africana in un esasperato "Via dall'Africa!".
Migliori risultati si ebbero negli ultimi anni del secolo nella politica estera. La necessità di risollevare le condizioni economiche, aggravate dal contrasto con la Francia, portò a una revisione delle relazioni internazionali, che, pur restando basate sulla fedeltà alla Triplice (rinnovata il 6 maggio 1891 e poi tacitamente nel 1896) consentirono accordi politici ed economici con la Francia (convenzioni per Tunisi, 26 settembre 1896, accordo commerciale del 1898). L'Italia collaborava alla pacificazione internazionale e mirava a togliere ogni carattere aggressivo alla Triplice. L'accordo italo-austriaco del novembre 1897 per l'Albania e il matrimonio del principe ereditario con una principessa montenegrina segnarono l'inizio di un più vivo interessamento per gli affari del vicino Oriente. Il merito del mutamento spettava al ministro degli esteri Visconti Venosta, che iniziava così una politica che doveva dare più ricchi frutti in avvenire. E anche del lontano Oriente mostrava di interessarsi, partecipando alla poco gloriosa spedizione internazionale in Cina (1900-1901).
I mali antichi e lo smarrimento recente favorirono il più largo diffondersi del socialismo nei grandi centri industriali (e il suffragio allargato manderà in parlamento deputati operai) e nel ceto rurale del Mezzogiorno, ove la lotta di classe apparve mezzo di soluzione del problema agrario. Il marxismo, confusamente inteso dai lavoratori dei campi, che nelle loro dimostrazioni portavano immagini di santi e ritratti del re, s'alimentò dell'esasperazione degli umili contro lo sfruttamento da parte dei proprietarî agrarî e contro il governo accusato di favorire i padroni. Le misure di polizia, invocate dai conservatoii, ristabilivano l'ordine ove turbato, ma lasciavano sussistere ancora le cause del malessere, già acutamente, ma vanamente, analizzate dalla grande inchiesta parlamentare del 1879 sull'agricoltura.
Tolto di mezzo il pugno di ferro di Crispi, le agitazioni ripresero con più gravi esplosioni di malcontento. Nel maggio 1898 si ebbero a Milano tumulti domati con la forza e con lo stato d'assedio dal ministero Di Rudinì-Zanardelli. L'agitazione e il disordine erano al colmo e gli uomini di governo non sapevano fronteggiare la situazione se non con troppo facili appelli alla maniera forte. Il Pelloux, un tempo liberale, pur sedati i moti, insistette nella reazione e propose severe leggi di stampa e limitazioni al diritto di associazione (febbraio 1899). L'Estrema Sinistra, rafforzata da altri elementi, si oppose ricorrendo in parlamento all'ostruzionismo. L'appello elettorale del Pelloux fu un disastro per il Ministero già minato da dissensi interni (giugno 1900): 33 deputati socialisti entravano in parlamento. Il Pelloux si dimise, cedendo il posto al liberale Saracco. Ma gli animi non erano placati e l'atmosfera restava torbida. Nel perdurare della crisi maturò la tragedia del 29 luglio 1900: un anarchico uccise il buono e generoso re Umberto.
Un quindicennio di lavoro fecondo. - "Au moment où je ne sais quel soufle révolutionnaire passe de nouveau sur l'Italie et menace d'ébranler, non pas l'unité italienne, mais la monarchie piémontaise", aveva scritto fin dal 1895 nell'inquieta vigilia uno storico straniero, P. Gaffarel, interpretando il dubbio dei più sulla situazione interna italiana. E l'attentato nefando pareva dargli ragione. Quali giorni avrebbe vissuto, a quali prove sarebbe stato chiamato questo paese senza equilibrio e senza orientamento? L'atto di fede nei destini della patria con il quale iniziava il suo regno in un'ora tragica per la dinastia e per l'Italia Vittorio Emanuele III, il suo appello alla fiducia e alla concordia avrebbero resistito alla dura smentita dei fatti, che i profeti di sciagure annunciavano prossima?
Ma il regicidio in cui era culminata la tormentosa crisi italiana era il gesto di un individuo, non la colpa di una nazione; e lo smarrimento e la prostrazione del paese non erano già la prova di un esaurimento di morte, come troppi temevano, ma i segni inevitabili del gran travaglio durato dall'Italia nuova per farsi, per costruirsi. Anche a guardare indietro, negli anni torbidi, c'era da trarre motivo di speranza, forse d'orgoglio. Con lentezza e con fatica grande, pur tra gli errori e le incertezze, l'Italia s'era avviata a trasformarsi nella sua vita economica, nella sua compagine sociale. Era più forte e aveva, sia pure ancora confusa e incerta, una coscienza di questa sua forza. Il rancore contro certi uomini, contro certi partiti derivava dal sentire male usate le sue energie nuove, paralizzate le sue possibilità, deluse le sue speranze di paese giovane, che non sempre intendevano gli uomini del passato ai quali era ancora affidato il compito di guidarlo.
Un progresso agricolo c'era stato e s'erano iniziate bonifiche e l'industria dopo l'80, sorretta sempre più largamente con sovvenzioni e dazî doganali, s'era rafforzata e aveva cercato di mettersi al passo di quanto si faceva fuori d'Italia; l'emigrazione interna aveva permesso grandi opere pubbliche e giovato all'affratellamento - lento ancora e non facile - degl'Italiani delle varie provincie.
Il primo quindicennio del sec. XX doveva accelerare l'iniziato processo di trasformazione. Un più energico risveglio di attività, un diverso vigore attestarono che l'Italia era ormai uscita dalla crisi della fase iniziale della sua nuova vita. Il riordinamento interno e il rafforzamento unitario, l'aumento della capacità economica e il consolidamento delle finanze statali (il bilancio, con qualche oscillazione, raggiunse il pareggio e la rendita nel 1914 fu quotata a 103) s'accompagnarono a una provvida opera legislativa che investì tutti i campi della vita pubblica, dall'istruzione all'igiene, dalle comunicazioni alle assicurazioni, dai provvedimenti per il Mezzogiorno alla riorganizzazione dell'esercito e della marina, dalla tutela del lavoro alle bonifiche. Le buone condizioni del bilancio consentirono qualche alleggerimento della pressione fiscale, una più attiva politica di lavori pubblici, l'assunzione delle ferrovie da parte dello stato (1905), la conversione della rendita dal 5% al 3,5% (1906).
Il traforo del Sempione, l'inizio dei lavori per l'acquedotto pugliese, l'incremento dell'agricoltura, l'aumento della rete ferroviaria (più di 17.000 chilometri nel 1913) e il miglioramento dei servizî marittimi con il conseguente aumento della produzione e del commercio (Genova diveniva il secondo porto del Mediterraneo) caratterizzarono il lavoro costruttivo di questi quindici anni. Le esposizioni di Milano (1906), di Torino e Roma (1911) celebravano l'energia e la vitalità degl'Italiani, che s'accrescevano anche numericamente e passavano dai 32.495.000 del 1901 a più di 36 milioni nel 1914.
Indice di una maggiore maturità nazionale e di una più viva consapevolezza dell'importanza dei fattori ideali le molte cure dedicate all'istruzione. La cultura italiana progredì con più rapido ritmo, ravvivandosi con un'opera efficace di revisione critica e filosofica, e con un più intimo contatto con la cultura europea.
Nel mutamento e miglioramento generale anche il doloroso fenomeno dell'emigrazione diede qualche beneficio morale e materiale. Ché s'aumentava per le rimesse degli emigranti la ricchezza, e quando, trasformati nello spirito e nel costume e più ricchi, tornavano gli spatriati, influivano sui rimasti e sulle condizioni economiche dei loro paesi.
L'indirizzo generale della politica interna derivò dall'orientamento che fu detto democratico-liberale e di pacificazione sociale, che il Saracco aveva iniziato e che i suoi successori continuarono. Maggiore tra questi Giovanni Giolitti, successo allo Zanardelli nel 1903 e per dieci anni, tranne le brevi parentesi Fortis, Sonnino (l'uomo dei cento giorni), Luzzatti, dominatore incontrastato della vita pubblica italiana. Innegabile suo merito la buona amministrazione, la sana finanza, l'attività legislativa, la comprensione degli interessi operai, il riconoscimento dei loro diritti, la cura del benessere materiale, la larga tolleranza. Ma la semplicistica neutralità nei conflitti sempre più frequenti fra capitale e lavoro, l'incontrollata libertà di organizzazione e di sciopero degli operai abbandonati di fatto agli esponenti di un solo partito, il socialista, la manifesta arrendevolezza di fronte alla pressione e all'imposizione di questo e delle sue organizzazioni operaie sminuirono l'autorità dello stato con grave danno per l'avvenire. Non cadde la monarchia, come i conservatori temevano, e non scoppiò la rivoluzione sociale, ché anzi si facilitò un certo equilibrio tra le forze in contrasto, ma l'azione di gruppi particolari s'impose pericolosamente alla maggioranza del paese, disorientata e abulica per mancanza d'esempio, per incertezza di propositi e di metodi. Ché il generico indirizzo liberale si rivelò spesso pura tendenza all'accomodamento, al compromesso, al lasciar correre, al provvedere slegatamente alle singole questioni, ai singoli problemi, senza una visione d'insieme, senza organicità di programmi: senza una fede, dicevano i suoi avversarî. Accusa non vera questa, anche se quel maneggiatore di maggioranze, quel corruttore di elettori e di eletti potesse apparire cinicamente indifferente. Scettico, forse, di fronte alle asserite fedi politiche, che non resistevano all'allettamento dei portafogli ministeriali, di fronte all'incapacità della borghesia di difendersi contro l'assalto del socialismo, di fronte allo stesso ascendere di questo, incapace di esprimere dal suo seno una nuova classe dirigente. Il socialismo aveva raccolto per la prima volta dopo l'unità grandi masse di popolo e le aveva fatte vibrare e accendere per un ideale, per una fede, aveva elevato il grado di educazione politica del popolo italiano, gli aveva additato interessi e problemi che, superando i compartimenti stagni del comune e della regione l'avevano aiutato nella sua unificazione, ma l'accrescimento materiale l'aveva spiritualmente indebolito. Fedeli a parole al rivoluzionarismo marxista, i suoi capi borghesi, avvocati i più, maestri, professori, professionisti, lo attenuavano in un riformismo di fatto, in un possibilismo profittatore, senza osare l'abbandono del programma originario per tema di perdere il dominio delle masse; e la loro opposizione parlamentare era utile al conseguimento di effetti pratici, ma non giovava al rinnovamento del costume politico, mentre l'insensibilità per gl'ideali nazionali doveva isolarli e perderli di fronte all'opinione pubblica quando appunto questi ideali fossero divenuti preminenti. La legge del 30 giugno 1912 portava gli elettori da 3 milioni e mezzo a circa 8 milioni, ma anche questa riforma che avrebbe dovuto provocare una trasformazione profonda nella vita politica, era dovuta piuttosto a considerazioni di opportunità parlamentare, come l'altra del monopolio delle assicurazioni (aprile 1912), che a profonda, sentita necessità di masse o di partiti.
Positivo miglioramento si ebbe praticamente nella questione romana, alla quale il pontificato di Pio X (1903-1913) tolse l'asprezza delle rigide rivendicazioni temporalistiche, ma l'intervento dei cattolici alle urne fu sentito dal Giolitti più come un utile ingrediente nelle alchimie parlamentari (patto Gentiloni del 1913), che come il segno di una trasformazione feconda di bene.
L'ambiguità che presentava la politica interna era meno sensibile in quella estera per l'avvento di nuovi fattori. Se i più vecchi, ancora sotto l'incubo di Adua o fedeli a ingenue idealità democratiche e pacifiste si dichiaravano avversi ad ogni espansione e ad ogni avventura, c'erano giovani della nuova generazione, che, sottrattisi al fascino del socialismo e preoccupati d'interessi e di finalità che superavano i confini dello stato, sentivano l'esigenza di problemi diversi da quelli della politica quotidiana, accennavano a più vasti orizzonti. La letteratura non restava insensibile a questo riaccendersi di fede nazionale. Il prezioso sensualismo del D'Annunzio, che già aveva dato le Odi navali, faceva risonare ne La Gloria, in Più che l'amore, ne La Nave i motivi e le aspirazioni dell'espansionismo italiano. L'orgoglio nazionale si ridestava e, superando le forme del patriottismo tradizionale e dell'irredentismo antitriplicista, si concretava in una dottrina non insensibile a modelli stranieri, ma ravvivata dalla coscienza delle particolari esigenze italiane, così interne come esterne: il nazionalismo. Fin dal congresso di Firenze, dal quale uscì l'Associazione nazionalista italiana (dicembre 1910), i rappresentanti del movimento presero posizione contro "la politica di pavido raccoglimento ed intesa alla soddisfazione di interessi particolari" rivelatasi incapace di risolvere "i grandi problemi della vita italiana"; affermarono la necessità di una politica estera "consapevole e forte" per poter svolgere all'interno un'azione "veramente benefica", dichiarando in pari tempo la necessità di rinsaldare ed elevare il sentimento dei doveri civili e militari in tutti gli ordini di cittadini per elevare la coscienza nazionale. E dalle colonne dell'Idea Nazionale i capi del nuovo movimento, uomini di cultura, scrittori e giornalisti, come il Corradini e il Federzoni, e qualche parlamentare di destra, come il Foscari, che si rifacevano a Crispi e ad Oriani, svolsero quest'opera di educazione nazionale, avversati dai partiti democratici, derisi da altri giornalisti; uomini di cultura e scrittori, incompresi dalla massa, che non si ritrovava in quel loro linguaggio troppo aristocraticamente ideale, in quel loro disprezzo per l'immediata realtà. Pure, la loro azione non fu vana: l'impresa di Tripoli è anche loro merito.
L'inizio del secolo aveva trovato l'Italia nel blocco della Triplice Alleanza. E all'alleanza rimase fedele, sebbene l'impossibilità di un'intesa sincera con l'Austria e la necessità di tutelare meglio i proprî interessi mediterranei con altri contatti e altre intese, togliessero valore all'antico patto, che in occasione dei vari rinnovi (1902, 1907, 1912) si affermò prevalentemente pacifico. E intanto l'Italia s'accostava alla Francia e all'Inghilterra, con la prima negoziando gli accordi del 1900 e 1902, che assicuravano la reciproca neutralità e la mano libera all'Italia in Libia, alla Francia in Marocco, con la seconda quelli del 1905. La sua posizione internazionale si rafforzava: s'allontanava il tempo in cui l'Italia pareva rassegnata alla funzione di minore alleata nella Triplice. Questa autonomia della politica estera, che si faceva evidente con viaggi e visite di sovrani e di capi di stato e continuava nell'accordo tripartito per l'Abissinia e nell'azione svolta a favore della Francia ad Algeciras (1906) e s'allargava a contatti con la Russia (1908), suscitava preoccupazioni e reazioni a Berlino e a Vienna. Là Bülow poteva far finta di sorridere dei giri di valzer (8 gennaio 1902), ma qui al gen. Conrad non sgradiva l'idea di attaccare l'Italia durante la crisi del terremoto calabro-siculo (1908). Necessità spingeva a camminare insieme ancora, ma i compagni di viaggio non s'intendevano più. E le questioni del vicino Oriente (Albania, ferrovia Mitrovica-Sarajevo e, più grave e turbatrice, l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina) sconvolgevano le acque dell'alleanza, accanto alla quale il ministro degli esteri Tittoni (8 dicembre 1908) vantava benefiche "l'amicizia tradizionale" con l'Inghilterra, quella "rinnovellata" con la Francia e "la recente intesa" con la Russia. L'accresciuto interesse per la politica estera e in particolare per gli avvenimenti orientali era attestato da discussioni parlamentari e da pubblicazioni di uomini politici eminenti, quali il Di San Giuliano e il Guicciardini.
Lo scacco di Tunisi e la sciagura d'Adua avevano per molto tempo prostrata ogni volontà di espansione. Mentre l'Austria sognava la discesa all'Egeo e la Francia si affermava padrona nel Marocco, l'Italia pareva non accorgersi neppure delle sue due piccole colonie, l'Eritrea, risorta in dieci anni di buon governo del Martini, e la Somalia, dimenticate entrambe anche nelle campagne elettorali. Il riconoscimento anglo-francese di un diritto italiano sulla Tripolitania e Cirenaica, gl'incitamenti di esploratori e di uomini politici a occupare quelle terre che avrebbero potuto accogliere braccia e capitali italiani, il fascino delle antiche memorie, la realtà di interessi recenti non avevano ancora scosso il governo.
Nella primavera del 1911, l'anno nel quale fu commemorato il cinquantenario dell'unità, nazionalisti e colonialisti, prendendo motivo da nuove recenti violenze turche a danno di Italiani e dalle voci che correvano di una prossima occupazione germanica della Cirenaica, reclamarono che il governo agisse. Tradizioni storiche, motivi politici, ragioni economiche, pretesti sentimentali e letterarî, tutto giovò alla propaganda e il governo (era al potere il Giolitti) si decise: a una breve azione diplomatica seguì l'ultimatum del 29 settembre. Una vampata d'entusiasmo scosse la penisola: parvero tornati i giorni del Risorgimento. L'opposizione socialista non fece presa sulle masse che furono favorevoli alla guerra, anzi provocò scissioni nel partito e nel gruppo parlamentare; qualche democratico alla Cavallotti restò isolato. Il popolo sentì che la guerra significava per l'Italia la risurrezione della sua coscienza nazionale e l'accettò con gioia e la cantò in facili ritmi, mentre l'alta letteratura esaltava la "grande proletaria" mossasi incontro alla sua fortuna o scandiva in sonori ed eruditissimi versi l'archeologia delle memorie di Genova, di Venezia, di Pisa. Andrea Sperelli faceva ammenda di Dogali. Ma anche questo era utile, anche questo era prezioso indice della più viva sensibilità nazionale, alla quale si era arreso anche il Giolitti, pur così avverso a infatuazioni sentimentali. Come il Piemonte dopo Novara, l'Italia nuova aveva, dopo Adua, la sua guerra di Crimea. Fu guerra dura e difficile, militarmente e politicamente. Le grandi potenze, sfavorevoli a questa affermazione italiana, appena l'azione navale o marittima appariva contraria a qualche loro interesse protestavano e minacciavano, impedendo che la Turchia fosse colpita in punti vitali. E nell'opposizione andavano d'accordo le alleate della Triplice e le amiche dell'altro gruppo. Ma l'ostilità delle potenze, le difficoltà naturali dell'impresa, le incertezze nella condotta politica della guerra non impedirono a marinai e soldati di scrivere splendide pagine a Tripoli, a Bengasi, a Rodi, nei Dardanelli (audacissima gloria di Millo) che cancellarono il ricordo d'Adua.
Costretta la Turchia a cedere con la minaccia di intensificare le operazioni, fu firmata la pace a Losanna (18 ottobre 1912). La Tripolitania e la Cirenaica, annesse fin dal 5 novembre 1911, passavano all'Italia, che prometteva di restituire le isole dell'Egeo da essa occupate quando i Turchi avessero sgombrato il territorio.
Sulle trattative di pace aveva influito la minaccia di complicazioni balcaniche. La guerra che scoppiò poco dopo fra la Turchia e la quadruplice cristiana finì col turbare l'equilibrio europeo che Triplice Alleanza e Triplice Intesa mantenevano tanto faticosamente. Pericoli di nuove complicazioni si erano affacciati anche dopo che l'Italia e l'Austria, dal loro stesso antagonismo costrette a procedere insieme, avevano vietato ai Serbi lo sbocco adriatico e dato vita a un effimero stato albanese (1914). E fin dal luglio 1913 l'Austria, timorosa della Serbia, aveva prospettato al governo italiano una guerra preventiva contro l'inquieta vicina meridionale. Roma s'era opposta dichiarando non sussistere il casus foederis, ma, pur di fronte a una così pericolosa manifestazione e ad una situazione minacciosa, aveva trascurato di provvedere all'esercito, che risentiva del logorio cui l'aveva sottoposto la guerra libica.
La guerra mondiale. - Nella seconda metà di marzo del 1914 Giolitti lasciò il potere ad Antonio Salandra, un conservatore illuminato, al quale, secondo i più, doveva toccare breve vita ministeriale. Il suo predecessore sarebbe tornato appena risolte le preoccupazioni internazionali, avviate a soluzione le difficoltà economico-finanziarie derivate dalla guerra libica e sedata la rinnovata inquietudine sociale, questioni tutte che non trovavano concorde la maggioranza uscita dalle elezioni del 1913, nelle quali si era affermata una prima esigua rappresentanza nazionalista. I gravi disordini di carattere rivoluzionario e lo sciopero generale della settimana rossa (giugno 1914) misero subito il nuovo ministero di fronte a quelle difficoltà che Giolitti aveva voluto evitare ritirandosi, come altre volte aveva fatto. Il Salandra riuscì a ristabilire l'ordine senza ricorrere a misure reazionarie e si accinse poi a riprendere il consueto lavoro amministrativo e legislativo. Lo scoppio della guerra mondiale sorprese l'Italia disorientata e inquieta. Mentre il socialismo chiedeva con il suo organo ufficiale, l'Avanti!, la neutralità assoluta, i nazionalisti, in un primo momento, reclamavano addirittura l'intervento a fianco degl'Imperi Centrali. Ma il governo dichiarava la propria neutralità (2 agosto), che faceva ufficiosamente interpretare come atto necessario alla difesa dei grandi interessi italiani nell'Adriatico e nel Mediterraneo, lesi dalla guerra aggressiva dichiarata dall'Austria alla Serbia. E in realtà, non informata della preordinata azione austro-tedesca, che violava lo spirito e la lettera del patto della Triplice, l'Italia riacquistava la propria libertà d'azione di fronte all'alleanza, da tempo priva di contenuto reale e messa a dura prova da non amichevoli gesti dell'Austria (atteggiamento nella guerra libica, decreti Hohenlohe del 1913 contro i regnicoli, intenzioni aggressive della sua casta militare, che durante la lotta dell'Italia contro la Turchia aveva concretato un progetto di attacco alle spalle). L'impreparazione militare e l'inquietudine interna seguita ai moti del giugno, insieme con il convincimento, che era allora in molti, della vittoria germanica in una guerra breve e violenta, anche influirono sulla determinazione del governo, che preferì dichiarare la neutralità, secondo l'interpretazione generica del casus foederis offerta dal trattato della Triplice, anziché rompere senz'altro l'alleanza per la precisa violazione dell'art.1, che impegnava le alleate a uno scambio preliminare di idee sulle questioni politico-economiche generali, e dell'art. 7 che garantiva lo statu quo balcanico e obbligava a reciproco avviso in caso di mutamento. Ma presto la dichiarazione della neutralità, che tanto giovamento recò all'Intesa si rivelò insufficiente.
L'Italia non poteva restare assente in un conflitto di giorno in giorno più vasto e decisivo, dal quale tutto il problema dei rapporti europei veniva radicalmente sconvolto. Tuttavia molti per considerazioni sentimentali o politiche (fedeltà all'alleanza, suggestione della cultura e della forza germanica, avversione alla democrazia francese o all'imperialismo inglese o all'assolutismo russo, preoccupazioni per l'esercito non preparato, sfiducia nel popolo italiano, incubo della sconfitta possibile) chiedevano il mantenimento della neutralità e presagivano sciagure all'Italia se fosse entrata in guerra e incoraggiavano, più o meno consapevolmente, la pavidità, lo spirito d'inerzia, il quietismo. Conservatori e uomini di cultura, a cui s'aggiungevano clericali e nella loro grande maggioranza i socialisti ortodossi, i neutralisti si trovarono presto di fronte i fautori della guerra, gl'interventisti, anch'essi di provenienza politica diversissima e favorevoli all'intervento a fianco dell'Intesa (nessuno più pensò agl'Imperi Centrali) per ragioni diverse, spesso in contrasto. La simpatia per la "sorella latina", "la lotta della civiltà contro la barbarie", l'avversione al militarismo e all'imperialismo germanico, l'antitriplicismo erano i motivi dei democratici delle varie tendenze, che credevano al mito dell'"ultima guerra", mentre i liberali della tradizione del Risorgimento volevano il compimento delle aspirazioni nazionali, la liberazione di Trento e Trieste, e i nazionalisti reclamavano l'affermazione della potenza italiana, l'espansione nell'Oriente, sui mari, nelle colonie, il riscatto d'Adua, la rivincita di Lissa. I letterati parlavano della "guerra bella"; qualche avanguardia rumorosa la proclamava "sola igiene del mondo" e qualche solitario repubblicano sognava possibili rivolgimenti di regime. Confusione grande, quindi, e tormento e disordinato ardore, che poco giovavano a illuminare l'azione del governo. Verso la fine dell'anno ai gruppi interventisti portava l'ardente energia della sua azione l'ex direttore dell'Avanti!, Mussolini, uscito drammaticamente dalle file del partito socialista e fattosi battagliero apostolo di guerra nel suo glorioso Popolo d'Italia (25 novembre). E gli esuli di Trento e di Trieste, primo Cesare Battisti, facevano rivivere la tradizione del Risorgimento.
Di fronte a questa minoranza, prevalentemente giovane e borghese, restavano indifferenti o diffidenti grandi masse di popolo, incerti e dubbiosi i più degli uomini politici più autorevoli. Alla prova di una così grande crisi la mancanza di una consapevole classe dirigente appariva ed era gravissimo danno. Intuito di individui e di gruppi, prevalere e prepotere di minoranze dovevano indicare e imporre la via, nell'assenza di quella.
L'impossibilità di conservarsi neutrali fu presto evidente. "Nessun popolo, sull'altare della fedeltà a un trattato, potrà mai sacrificare le ragioni della propria esistenza" aveva già detto Bismarck. Se i governi di Vienna e di Berlino erano da tempo convinti di non poter contare sull'intervento italiano in una loro guerra per le ragioni già dette (v. guerra mondiale), e avevano in un primo tempo ufficialmente giustificato l'atteggiamento italiano, tuttavia il risentimento austro-germanico faceva presagire la volontà di punire l'alleata per la sua defezione. E uomini politici e organi di stampa cercavano intanto di influenzare l'opinione pubblica italiana in favore degl'Imperi Centrali, allo stesso modo come l'Intesa cercava di fare nel suo interesse. Le offerte di questa non erano lasciate cadere dal ministro degli esteri Di San Giuliano, che contemporaneamente prospettava all'Austria la tesi degli eventuali compensi per la sua azione, in base all'art. 7 della Triplice.
L'azione diplomatica, condotta fino alla metà dell'ottobre 1914 dal Di San Giuliano, fu continuata dal Sonnino sulla stessa base delle trattative con l'Austria, poiché solo la loro dimostrata impossibilità avrebbe giustificato agli occhi di tutti l'accordo con l'Intesa, al quale il Di San Giuliano aveva pensato con idee chiare sul carattere della guerra, sulla necessità che l'Austria fosse colpita dall'Italia e che una salda alleanza postbellica fosse preparata già durante la guerra. E quindi pur non trascurando gli approcci dell'Intesa, dapprima essenzialmente il Sonnino attese all'azione verso l'Austria per i compensi. Le passioni e i contrasti italiani resero più difficili le trattative, che si trascinarono per tutto l'inverno 1914-15 senza che Vienna si rassegnasse all'idea di rinunciare a territorî suoi proprî, prospettando la possibilità di compensi in Albania, o accampando a sua volta pretese per l'occupazione italiana di Vallona (dicembre 1914). Né il principe di Bülow, fatto accorrere da Berlino a Roma per influire sulle trattative e impedire l'intervento, ottenne migliori risultati per la tenace opposizione austriaca e per l'accrescersi delle correnti interventiste italiane. Poiché l'Austria respingeva tenacemente le richieste italiane di cessione del Trentino, della Venezia Giulia fino all'Isonzo (con Gorizia e Gradisca), di alcune isole dell'Adriatico e della costituzione di Trieste a città libera, il Sonnino fece presentare al governo di Londra il memorandum sulle condizioni di un eventuale intervento a fianco dell'Intesa (4 marzo). Impostate su base tipicamente irredentistica, le proposte italiane non tenevano conto dell'importanza mondiale di una guerra in cui si stavano decidendo destini di popoli e d'imperi. Collegate idealmente alla tradizione del Risorgimento che si voleva conchiudere, non rispecchiavano le nuove e diverse necessità della vita di una grande nazione: e l'accordo di Londra del 26 aprile 1915, che legherà l'Italia all'Intesa, se tutelerà fino a un certo punto gl'interessi adriatici italiani (ma Fiume sarà esclusa per singolare incomprensione), trascurerà o porrà in modo incerto e inefficace la rivendicazione di adeguati vantaggi economici e coloniali. Gli errori d'impostazione commessi in buona fede dai negoziatori italiani, che tra l'altro credettero alla brevità della guerra e diedero l'impressione di non volersi impegnare contro la Germania, offrirono buon giuoco alle resistenze di qualche alleato (la Francia per timore di Gibuti, la Russia a favore della Serbia).
Denunciato poco dopo dall'Italia il trattato della Triplice (3 maggio), tentarono gl'Imperi Centrali di correre ai ripari con più larghe offerte (queste e le precedenti viziate dalle condizioni sul tempo dell'esecuzione, ma più gravemente dalla più tardi confessata insincerità) e contemporaneamente il neutralismo fece un ultimo e più poderoso sforzo, ricorrendo a torbide manovre parlamentari e a deplorevoli intrighi con rappresentanti di Vienna e di Berlino. D'Annunzio intanto lanciava alla "sagra di Quarto" l'appello al popolo per la guerra (5 maggio). Il gabinetto Salandra si dimise, ma il Giolitti, a cui i fautori della neutralità guardavano come all'uomo che avrebbe potuto ottenere "parecchio" senza entrare in guerra, conosciuti gl'impegni che già legavano l'Italia all'Intesa riconobbe impossibile mutar rotta. Richiamato al ministero il Salandra in un'atmosfera di arroventata passione, il 20 maggio gli vennero concessi dal parlamento con 407 voti contro 74 contrarî, in maggioranza socialisti, i pieni poteri per il caso di guerra. E questa fu dichiarata all'Austria il 23.
L'Italia entrava nella lotta in un momento difficile per l'Intesa e sulla fronte più dura. Con l'eroismo dei suoi soldati, con il sacrificio di 680.000 vite dovette supplire alle insufficienze dell'armamento e alla mancanza di una vera tradizione militare. Né trovò sempre comprensione e riconoscimemo da parte degli alleati, ai quali pure arrecò un contributo che fu decisivo per le sorti della guerra, come non sospette testimonianze di alleati e di nemici hanno riconosciuto (per le operazioni militari, v. Guerra mondiale). Per la vita nazionale la partecipazione al grande conflitto fu di valore enorme: in questa tragica prova, che non rivelò grandi capi né militari, né politici (al ministero Salandra, caduto il 10 giugno 1916, successe quello Boselli e a questo il 30 ottobre 1917 quello Orlando), rifulsero in pieno le qualità salde del popolo italiano, che nella lotta sanguinosa cementò finalmente la propria unità. Furono virtù di popolo sano quelle che permisero di reagire al rovescio dell'ottobre 1917. Due anni di lotte vittoriose non diedero, forse, la prova delle capacità mirabili della nazione italiana quanto l'indomani di quel doloroso autunno. Allora la solidità morale e l'eroismo vero del popolo, tanto diverso dalle stucchevoli esaltazioni giornalistiche, si rivelarono in pieno. Sulla linea del Piave morì la vecchia Italia delle incertezze, dei tentennamenti, delle pavide transazioni e nacque un'Italia nuova e migliore, che tra qualche anno si sarebbe affermata pienamente.
Sconfitta essenzialmente militare quella di Caporetto - anche se elementi di altra natura vi poterono avere qualche influenza - sulla quale troppo si è speculato dentro e fuori d'Italia; riscossa di tutto un popolo quella che, capovolgendo la situazione, costringeva un anno dopo alla resa la secolare avversaria del popolo italiano e determinava il crollo degl'Imperi Centrali (battaglia difensiva del giugno, offensiva finale di Vittorio Veneto, ottobre 1918).
Impresa non meno dura della lotta, la pace. Faticose e ingrate le trattative tra diffidenze e gelosie di alleati, incertezze e insufficienze di negoziatori italiani, che il rigido dottrinarismo di Wilson esasperava, mentre in Italia l'indecisa azione del governo e una certa naturale stanchezza dopo così dura prova favorivano la formazione di correnti contrarie alla tenace resistenza che sarebbe stata necessaria. Se il 10 settembre 1919 veniva firmato il trattato di Saint-Germain, che assicurava all'Italia il confine del Brennero, estremamente difficile e dolorosa riusciva la questione del confine orientale, ove la rivendicazione della Dalmazia in base al patto di Londra s'intrecciava con quella di Fiume. Qui l'Italia non aveva più di fronte la nemica della vigilia alla quale il vincitore poteva imporre la sua legge, ma un'ambigua formazione recentissima, la Iugoslavia. Protetto da Wilson, favorito più o meno direttamente dalla Francia e dall'Inghilterra, agl'interessi delle quali giovavano le difficoltà italiane, il nuovo stato composto dei Serbi dall'Italia salvati nel 1916, dei Croati e degli Sloveni fino all'ultimo in armi contro l'Italia stessa nelle file austriache, mirava ad annettersi territorî che tradizioni storiche, interessi vitali, aspirazioni nazionali e patti recenti assegnavano all'Italia.
La diplomazia alleata e l'ostilità dell'"associato" americano favorivano la cupidigia altrui, e l'opera dei rappresentanti italiani, in contrasto con diretti e indiretti interessi franco-inglesi, risentiva della infelice impostazione del patto di Londra, che escludeva Fiume, città italianissima, assegnata allora alla Croazia. Contro le richieste di Orlando e Sonnino, Wilson oppose un suo personale appello al popolo italiano, in cui negava ogni diritto dell'Italia sulla Dalmazia. All'azione non corretta la delegazione italiana rispose abbandonando la conferenza. Ma era questo un gesto sentimentale, senza possibilità di successo in quel momento. Sonnino e Orlando ebbero applausi a Roma e un voto favorevole in parlamento, ma dovettero tornare a Versailles, ove, nel frattempo, si era decisa, senza l'Italia, la sorte dell'Asia Minore (v. guerra mondiale).
Né gli ulteriori tentativi portavano a qualche risultato. Caduto il ministero Orlando, gli succedeva quello Nitti (24 giugno 1919), ugualmente incapace di risolvere la situazione e di far riconoscere l'ingiustizia della negata soddisfazione italiana in confronto ai vantaggi assicuratisi dagli alleati in Europa e fuori.
Nella tristezza e nella delusione della contesa diplomatica un episodio di audace disobbedienza, che richiamava la tradizione garibaldina, affermò la protesta italiana contro la minacciata ingiustizia. Alla testa di volontarî e di reparti dell'esercito il 12 settembre 1919 Gabriele d'Annunzio mosse su Fiume (marcia di Ronchi), la occupò e la tenne a sfida della diplomazia europea, delle minacce straniere, dei pavidi consigli e delle spaurite deprecazioni dei governanti italiani.
L'audacia di D'Annunzio giovò, in fondo, anche alla causa della pace, ché Italiani e Slavi cercarono e trovarono, almeno per il momento, un terreno d'accordo. Il 12 novembre 1920, sotto il ministero Giolitti, fu firmato il trattato di Rapallo, che assegnava il confine delle Alpi Giulie, l'Istria e Zara all'Italia, lasciando alla Iugoslavia, abbandonata dall'America, la Dalmazia con le isole adriatiche, meno Cherso e Lussin. Fiume veniva costituita a città autonoma entro i confini dell'antico corpus separatum. D'Annunzio insorse, ma invano, contro il trattato che sacrificava la Dalmazia. Dolorosa violenza di Italiani contro Italiani lo rese esecutivo la notte di Natale del 1920.
Anni torbidi e risurrezione nazionale. - Le ansie e le delusioni per le sfavorevoli trattative di pace, il disagio materiale e il profondo turbamento morale suscitato dalla guerra provocavano intanto una grave crisi interna. La guerra non aveva recato i benefici sperati: i partiti e gli uomini che l'avevano avversata ne trassero argomento alla loro propaganda. Tutti i risentimenti e tutte le passioni si scatenarono non infrenati dall'opera dei mutevoli governi. Miti democratici e promesse demagogiche (e un po' tutte le parti inclinarono a demagogia) quale quella della terra ai contadini, provocavano disordine, indisciplina, violenza e prostravano le energie della nazione. Con il ministero presieduto da F. S. Nitti (19 giugno 1919-9 giugno 1920) la situazione si aggravava: la smobilitazione immediata dell'esercito creava difficoltà gravi alla vita del paese; la divulgazione dei risultati dell'inchiesta per Caporetto, l'amnistia ai disertori ferivano l'animo dei combattenti, l'adozione della rappresentanza proporzionale mandava alla Camera 154 socialisti, tra i quali un disertore, animati, forse, più che dalla fede in un programma costruttivo, dal convincimento che l'ora del trionfo, della vendetta sui responsabili della guerra fosse imminente. Un centinaio di rappresentanti del nuovo partito popolare, sorto sui primi del 1919 con programma di democrazia cristiana (presto dimenticato nell'inevitabile concorrenza con i socialisti all'accaparramento delle masse) e frammenti di troppi e troppo diversi partiti disorientavano l'opinione pubblica, timorosa di fronte al dilagare dell'estremismo e alla negazione dei valori nazionali. E il governo, incapace di risolvere la situazione creatasi nella politica estera, assillato dalle crescenti difficoltà economiche, cedeva continuamente, partecipe del convincimento di molti che ormai l'esempio russo dovesse fatalmente attuarsi anche in Italia. Una crisi di volontà rendeva più grave la crisi sociale. A Parigi e nella stessa Berlino i reduci dalle trincee erano passati sotto archi trionfali; i vincitori di Vittorio Veneto, invece, erano stati mandati a casa in un grigiore di indifferenza. L'Italia, quasi fosse una nazione vinta, pareva vogliosa di dimenticar presto i suoi morti.
Caduto il Nitti, tornò al potere, dopo tanto lunga parentesi e tanto ardore di polemiche, il Giolitti, con un consenso quasi generale, perché molti s'illusero che la sua riconosciuta abilità potesse risolvere la situazione italiana. Ma ci voleva altro che panacee parlamentari, e gli accorgimenti d'un tempo di quel tattico consumato erano ora insufficienti. Il disfacimento dell'autorità statale non fu frenato, nell'illusione che la ventata bolscevizzante si esaurisse da sola e che lo stato non dovesse intervenire tra le parti in contrasto, come già prima della guerra nei più modesti conflitti fra capitale e lavoro. Qualche giovamento, tuttavia, si otteneva, ché l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai si risolveva in un fallimento e faceva dubitare della capacità rivoluzionaria del comunismo, e la liquidazione temporanea della questione adriatica a Rapallo rappresentava un miglioramento, di fronte alla politica d'impotenza del ministero precedente. L'azione finanziaria (il deficit si riduceva da 14 a 4 miliardi) migliorava le condizioni del paese. Ma le agitazioni interne non cessavano. Un certo demagogismo legislativo ed economico (confisca dei sovraprofitti di guerra, nominatività dei titoli, ecc.) turbava la necessaria ripresa delle forze costruttive, la politica coloniale (in Libia l'Italia era stata quasi ovunque ridotta al possesso delle località costiere dalla ribellione del 1915) dava impressione di debolezza con l'inutile concessione di istituzioni parlamentari a popolazioni non in grado di servirsene e la politica estera non appariva più energica (l'abbandono dell'Albania feriva il prestigio della nazione e ne comprometteva gl'interessi). Giusto, in fondo, il senso di un diminuito valore del socialismo, e l'aspirazione a indebolire socialisti e popolari svalutandone i programmi; ma dannoso il continuo cedere del governo di fronte al ricatto materiale delle due parti. E la possibilità di un ritorno alla dittatura parlamentare come nel decennio della maggior fortuna di Giolitti diminuiva di fronte all'esasperarsi dei conflitti tra il rumoroso e prepotente figlio del socialismo, il comunismo, e la forza nuova della vita italiana, il fascismo, entrato in parlamento con le elezioni del 1921 (per la dottrina e lo sviluppo del movimento fascista v. fascismo). Non miglior fortuna ebbe il ministero Bonomi (4 luglio 1921-26 febbraio 1922) tra crescenti difficoltà di politica estera (si ritirarono nel 1922 le truppe italiane dalla Valle del Meandro in Anatolia), aggravato disagio economico (crollo della Banca italiana di sconto, 1921) e monetario. Più gravi le condizioni della politica interna, specie dopo il fallimento del concordato tra socialisti e fascisti (4 agosto 1921). Non bastavano le solite generiche invocazioni, già usate dai precedenti ministeri, alla imparzialità nei conflitti, alla repressione di ogni violenza da qualunque parte provenisse: le formule cadevano nel vuoto, mancando la volontà, l'energia nei governanti. E non bastava qualche gesto di carattere nazionale (visita dei sovrani in Trentino, riconoscimento del 4 novembre come festa nazionale, l'apoteosi del milite ignoto) a ravvivare nella nazione la coscienza della vittoria.
La caduta del ministero Bonomi diede vita alla fiacca vicenda del triplice ministero Facta, debole e abulico di fronte al cozzo delle passioni. Sorto su una vana speranza di concentrazione contro il fascismo, esso vide la catastrofe delle forze antifasciste stroncate nella reazione allo "sciopero legalitario" dell'agosto 1922, e fu spazzato via dalla marcia su Roma (28 ottobre 1922).
E così il fascismo "grande mobilitazione di forze materiali e morali", al quale avevano dato la loro fede combattenti, mutilati, legionarî fiumani, uomini di cultura e proletarî, assumeva il governo. Quanto cammino aveva compiuto il movimento sorto in quell'ormai lontano e inquieto marzo del 1919!
Alla riapertura delle Camere, Mussolini, duce del fascismo e capo del governo, si presentava alla testa di un ministero che, apparentemente simile nella sua composizione agli altri che lo avevano preceduto, era inconfondibilmente diverso per lo spirito che lo animava, per il linguaggio che il suo capo parlava (16 novembre). "Tutti i problemi della vita italiana sono stati già risolti nella carta: ma è mancata la volontà di tradurli nei fatti. Il governo rappresenta, oggi, questa ferma e decisa volontà". E accanto all'affermata reazione contro l'abulia della politica interna, l'accenno all'azione fuori dei confini: "Noi intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità nazionale. Non possiamo permetterci il lusso di una politica di altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui". Quindi tutte le cure a risollevare la posizione dell'Italia "che non soltanto per debolezza dei suoi governi ha perduto forti posizioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, mentre si ripongono in discussione taluni dei suoi diritti fondamentali; dell'Italia che non ha avuto colonie, né materie prime ed è schiacciata, letteralmente, dai debiti fatti per raggiungere la vittoria comune".
L'ardua fatica, sulla quale il Duce aveva invocato l'aiuto di Dio, s'iniziava. Ordine, lavoro e disciplina venivano dati alla nazione turbata, s' "inquadrava" e si rafforzava lo stato, si dotava la rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno l'assillante problema del riassestamento economico e finanziario. Sin dal primo tempo venivano migliorati i servizî pubblici, specie il ferroviario, attuata una politica marinara di vasto respiro, gettate le basi di un radicale riordinamento scolastico, iniziato il risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la vittoriosa battaglia del grano, che ha permesso l'affrancamento dai mercati stranieri, cominciate e condotte a termine centinaia di iniziative in tutti i campi, per le quali ci sarebbero voluti decennî sotto i passati regimi, accresciuta la ricchezza nazionale con bonifiche grandiose e lavori pubblici, riconquistate le colonie, mentre, più ardua impresa, il rinnovamento legislativo trasformava il volto e l'organizzazione dello stato (v. fascismo; italia: Ordinamento). Tramontata per sempre la concezione demoliberale, lo stato si è ordinato su basi corporative. Tenaci le resistenze della vecchia mentalità e dei vecchi partiti, usciti battuti nelle elezioni del 6 maggio 1924. E quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione partigiana soppresse un deputato di opposizione, i rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con una campagna di denigrazione senza esempio e senza limiti. Ma la secessione dell'Aventino fu stroncata dal memorabile e decisivo discorso del Duce del 3 gennaio 1925 e, superata l'artificiosa questione morale, il fascismo riprese il suo cammino vittorioso. E il popolo fu con lui, come attestarono le elezioni plebiscitarie del 1929 e il grandioso e pur controllato accrescersi degl'iscritti al partito e alle sue organizzazioni (2.045.792 nel maggio 1933). La saldezza interna ha consentito all'Italia dopo l'avvento della rivoluzione delle camicie nere una politica estera costruttiva e di largo respiro. Politica di pace: "non però politica di suicidio". E quando nell'agosto 1923 fu massacrata la missione italiana in Albania, un'energica azione politico-militare ottenne le doverose riparazioni e servì di monito che l'era della remissività italiana era finita (occupazione di Corfù). Poco dopo, nel gennaio 1924, riaperte le trattative con la Iugoslavia, Fiume entrava a far parte del regno d'Italia e la vicina orientale firmava un trattato di amicizia per cinque anni, che non veniva rinnovato alla scadenza, ma che attestava la volontà italiana di seguire una politica estera ispirata a un sincero desiderio di pace e al superamento di vecchi attriti e di passate inimicizie. Fin dal primo momento il Duce poteva affermare che l'azione internazionale italiana, lungi da vane e torbide aspirazioni all'avventura imperialistica, era ispirata da criterî di utilità nazionale, di rispetto ai trattati, di "equa chiarificazione della posizione dell'Italia nell'Intesa". E questa idea guidò tutte le relazioni estere del fascismo, intese a tutelare con opportuni trattati gl'interessi italiani e a consolidare la pace in Europa. Quindi accordi con la Romania; con la Grecia, con la Bulgaria, con la Turchia, a garantire l'espansione italiana nel Levante, quindi patti di Tirana con l'Albania a tutela di questa contro prossime ingordigie e a difesa dell'influenza italiana compromessa dall'inconsulto abbandono del 1920, relazioni con l'Ungheria sempre più salde, aiuti all'Austria, buoni e utili rapporti con la Russia, con la Germania, con la Spagna, mentre la sistemazione dei debiti di guerra con l'America e l'Inghilterra (1925-1926) assicurava all'Italia non inutili simpatie d'oltre Oceano e d'oltre manica. La riconfermata amicizia inglese consentiva di ottenere dal governo di Londra l'Oltre Giuba (convenzione di Londra 15 luglio 1924), che completava i possedimenti italiani della Somalia e favoriva l'accordo con l'Egitto per la cessione dell'oasi di Giarabub (6 dicembre 1923). Altro accordo notevole per le colonie italiane era quello che consacrava la definitiva cessione del Dodecaneso da parte della Turchia (Losanna, 24 luglio 1923). Di fronte alla Società delle Nazioni l'Italia, non più a rimorchio della politica di questa o di quella potenza, pur senza lasciarsi sedurre da certo dottrinarismo che spesso fa da comodo paravento a più o meno confessati interessi, ha cercato di favorire tutte le proposte tendenti a un superamento della mentalità di guerra (patto di Locarno del 1925, tregua degli armamenti, patto di Roma tra le quattro maggiori potenze europee del 7 giugno 1933), ad assicurare la pace, a rendere fattivo l'accordo tra le grandi potenze nel campo politico ed economico, a eliminare le ingiustizie palesi dei cosiddetti trattati di pace. Lo spirito della politica italiana è caratterizzato dall'articolo del Duce del 23 maggio 1933: il popolo italiano "da lungo tempo non considera più nemici, e nemmeno ex-nemici, i popoli contro i quali combatté: li considera amici e pratica con essi una politica di pace, di giustizia, di collaborazione". E il superamento della questione romana, fonte di così grave disagio alla nazione, ha anche in questo speciale campo riaffermata la volontà di concordia, di pace del fascismo (11 febbraio 1929). Grande nazione che ha nella guerra consolidato la sua unità morale e nella rivoluzione costruttiva del fascismo ha ritemprato le sue forze, l'Italia guarda serena al suo avvenire. Forte del suo diritto, orgogliosa del suo passato, rinnovata nel suo spirito, compatta come non mai, non minaccia e non teme. I grandi problemi che le generazioni precedenti le hanno lasciato richiedono l'opera indefessa dei suoi figli: i borghi sorti sui luoghi che la bonifica ha strappati alla palude e alla malaria sono il segno delle sue nuove vittorie.
Fonti.
La ricerca e pubblicazione sistematica delle fonti s'inizia propriamente solo con il sec. XVIII che in Italia, come nelle altre grandi nazioni europee, è un periodo di enorme lavoro, criticamente non sempre sicurissimo, ma tale, comunque, da assicurare nuove e più salde basi agli studî storici. Su tutti emerge allora L. A. Muratori, al quale si deve soprattutto la grande raccolta delle fonti narrative del Medioevo: i Rerum Italicarum Scriptores (voll. 28 in 25 tomi, Milano 1723-51). Ma solo col sec. XIX sorgono istituti storici, con lo scopo specifico e preciso di raccogliere i documenti "per la compilazione di una storia sincera ed esatta". Prima fra tutte fu la R. Deputazione sovra gli studi di storia patria per le antiche provincie (dal 1860 e per la Lombardia) già istituita nel 1799, poi disciolta, e definitivamente costituita dal governo sardo nel 1833, la quale iniziava nel 1836 la collezione Historiae Patriae Monumenta. Per iniziativa privata, invece, usciva a Firenze, nel 1842, l'Archivio storico italiano, che per parecchi anni fu soprattutto destinato alla pubblicazione di documenti e cronache, mentre gli studî critici apparivano in Appendici. Poi, nel '54, si costituì la Società editrice degli statuti, dei diplomi, delle cronache di Parma, che nel 1860 si trasformava in R. Deputazione di storia per le provincie parmensi; nel 1857 la Società ligure per gli studi di storia patria; dopo il 1860 le RR. Deputazioni per le provincie modenesi, per la Romagna, per la Toscana e l'Umbria, per la Venezia, a cui si aggiunsero società storiche per iniziativa privata: la Società storica lombarda nel 1874, la Società napoletana di storia patria e la Società romana di storia patria entrambe nel 1876, e molte altre, fra cui, nel 1895, la Società storica subalpina e nel 1901 la Società pavese di storia patria.
Infine, nel 1883, veniva fondato a Roma l'Istituto storico italiano, il massimo fra gl'istituti che attendono attualmente alla pubblicazione di fonti.
Raccolte di fonti. - a) Medioevo. - La massima raccolta italiana di fonti narrative per la storia del Medioevo è ancora costituita dai Rerum Italicarum Scriptores, di cui, dal 1900, vien pubblicata una nuova edizione, riveduta e ampliata, che comprende gli storici italiani dal sec. V al 1500 (per iniziativa di G. Carducci e V. Fiorini; ora sotto la direzione dell'Istituto storico italiano). Ne sono usciti, finora, 249 fascicoli (Città di Castello 1900-1916; Bologna 1916 segg.).
Ma indispensabili sono pure: Monumenta Germaniae Historica, sezioni: Scriptores, Scriptores antiquissimi e Scriptores rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, Hannover 1826 segg. (parecchi testi, p. es., Liutprando da Cremona, anche negli Scriptores Rerum Germanicarum in usum scholarum, Hannover 1840 segg.). Inoltre, per gli scrittori ecclesiastici, J.-P. Migne, Patrologia Latina (voll. 221, Parigi 1844-64).
Meno estesa, per ora, ma non meno importante per il valore dei testi editi ed eccellente, poi, in genere, per il rigore critico dell'edizione, è la raccolta dell'Istituto storico italiano: Fonti della storia d'Italia (Roma 1890 segg.), costituita in prevalenza da fonti narrative.
Altri testi (o, anche, altre edizioni di testi che si trovano pure in qualcuna delle suddette raccolte) negli Historiae Patriae Monumenta (Torino 1836-1884), nei Monumenta historica ad provincia Parmensem et Placentinam pertinentia (Parma 1856-69), nei Monumenti storici delle Deputazioni veneta, per la Romagna, per le provincie modenesi, della Società napoletana di storia patria.
Per le fonti documentarie, oltre ai Monumenta Germaniae Historica, sezioni: Leges, Diplomata, Epistolae; alle Fonti della storia d'Italia dell'Ist. storico ital. (in cui alcune edizioni, come quella dei Diplomi dei re d'Italia di L. Schiaparelli, rappresentano un modello di sagacia critica) e alla raccolta di Monumenti suddetta, assai importante la Biblioteca della Società storica subalpina (Torino 1899 segg., finora voll. 119, in massima parte costituita da edizioni di cartarî, statuti, ecc.); i Documenti di storia italianu, pubbl. dalla Dep. di storia patria per la Toscana (Firenze 1867 segg.) e i Documenti degli archivi toscani, pubbl. dalla Soprintendenza degli archivi toscani (Lucca 1863-93); i Documenti e monografie per la storia di Terra di Bari, pubbl. dalla Commissione provinciale di archeologia e belle arti (Bari 1900 segg.); i Regesta Chartarum Italiae, pubbl. dall'Ist. storico italiano e dal Preuss. Histor. Institut, Roma 1907.
Indispensabili sono, per la storia politica, J. F. Böhmer e altri, Regesta imperii, voll. 6, Innsbruck 1880 segg.; gli Acta imperii selecta, ed. da J. F. Böhmer, Innsbruck 1877; gli Acta imperii inedita, ed. da E. Winckelmann, voll. 2, Innsbruck 1880-85; K. F. Stumpf-Brentano, Die Reichskanzler vornehmlich des X., XI. u. XII. Jahrh., voll. 2 e appendice, Innsbruck 1865-83.
Per la storia politico-religiosa P. Jaffè e S. Loewenfeld, Regesta pontificum romanorum (fino al 1198), 2ª ed., voll. 2, Lipsia 1885-88; A. Potthast, Regesta pontificum romanorum (dal 1198 al 1304), voll. 2, Berlino 1874-75, e specialmente P. F. Kehr, Regesta pontificum romanorum (fino al 1198), I, Italia pontificia, voll. 6, Berlino 1906 segg.
Tra le pubbl. di fonti, non comprese nelle grandi collezioni su citate, si rammentano per la loro importanza: il Codice diplomatico longobardo, ed. da C. Troya, voll. 6, Napoli 1845-55 (l'indice nel 1859: un nuovo Codice dipl. longobardo viene ora preparato da L. Schiaparelli, in Fonti dell'ist. stor. ital.; editi i voll. I e II, Roma 1931-33); il Codex diplomaticus dominii tem oralis Sanctae Sedis, ed. da A. Theineri voll. 3, Roma 1861-62; il Codex diplom. Italiae, ed. da J. C. Lünig, voll. 4, Francoforte s. M. e Lipsia 1725-35; il Corps universel diplomatique du droit des gens, ed. da J. Du Mont (per i trattati politici, dall'800 al 1731), voll. 8, Amsterdam-L'Aia 1726-31; i Foedera (1101-1654), ed. da T. Rymer, voll. 2, Londra 1704-35. Assai importante la coll., promossa dalla R. Accademia dei Lincei, degli Atti delle assemblee costituzionali italiane dal Medioevo al 1831 (divisa in Parlamento siciliano, Parl. Friulano, Parl. sabaudo, Ass. Rep. Cisalpina, Sedute municipal. di Venezia, Consigli Rep. Fiorentina, Bologna 1924 segg.); anche il Corpus statutorum italicorum, diretto da P. Sella; Roma 1912 segg.
Per la Sicilia araba la Biblioteca Arabo-Sicula, ed. da M. Amari, 2ª ed., voll. 2, Torino-Roma 1881-82 (append., 1889).
b) Età Moderna. - Meno sistematica è stata finora la ricerca delle fonti nell'ambito della storia moderna. Le grandi raccolte su nominate si limitano quasi tutte al Medioevo: per l'età più recente, la pubbl. dei documenti è maggiormente limitata a singole opere di singoli studiosi.
Tra le più importanti raccolte sono, per i secoli XVI e XVII, le Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il sec. XVI, a cura di E. Albèri, in 3 serie, Venezia 1839-63 (in corso una nuova ed. a cura di A. Segarizzi, finora voll. 4, Bari 1912-16, che comprendono le rel. su Ferrara, Mantova e Monferrato, Milano e Urbino, Firenze) e per il XVII da N. Barozzi e G. Berchet, voll. 11, Venezia 1856-78; e, per il periodo 1496-1533, i Diari di Marino Sanuto, ed. da N. Bonazzi, G. Berchet, R. Fulin, F. Stefani, M. Allegri, voll. 58, Venezia 1879-1902.
Allato di queste, alcune importanti raccolte straniere: specialmente i Calendar State Papers relating to English uffairs existing in the archives and bibliotheques of Venice , a cura di R. Brown e A. B. Hind, finora voll. 33 (fino al 1661), Londra 1864 segg. (per la prima metà del sec. XVI, anche il Calendar of Letters and State Papers. Spanish, a cura di W. A. Bergenroth, P. De Gayangos, A. S. Hume, finora voll. 11, fino al 1553, Londra 1862-1917); le Négociations de la France avec la Toscane (fine sec. XV-sec. XVI), pubbl. da G. Canestrini e A. Desjardins, in Collection des docum. inédits sur l'histoire de France, voll. 3, Parigi 1836-1869. Dal 1648 in poi, molto importante il Recueil des instructions données aux ambassadeurs de France depuis les traités de Westphalie, Parigi 1884 segg. (per l'Italia specie i voll. VI, XVII e XX [Roma]; X [Napoli e Parma]; XIV e XV [Savoia e Mantova]; XIX [Firenze, Modena e Genova]).
Inoltre le Cronache e docum. per la storia dell'Ítalia merid. dei secoli XVÍ e XVII, a cura della Soc. napol. di storia patria, Napoli 1930 segg. (finora usciti D. Confuorto, I giornali di Napoli dal 1679 al 1699, a cura di N. Nicolini, voll. 2; I. Fruidoro, Successi del governo del conte di Oñate, a cura di A. Parente; A. Bulifon, Giornali, a cura di N. Cortese, I; I. Fruidoro, Diario di Napoli dal 1660 al 1680, a cura di F. Schlitzer, I.
Per il sec. XVIII importanti l'Epistolario di L. A. Muratori, a cura di M. Campori, voll. 14, Modena 1901-1922; A. e P. Verri, Carteggio dal 176o al 1797, a cura di F. Novati, E. Greppi, A. Giulini, finora voll. 7, Milano 1900-31.
Per il Risorgimento, soprattutto i Carteggi del conte di Cavour, che vengono pubblicati da apposita commissione; finora usciti: 1ª serie, Carteggio Cavour-Nigra: Plombières; La campagna dipl. e mil. del 1859; La cessione di Nizza e Savoia; La liberaz. del Mezzogiorno; Il congresso di Parigi (voll. 5); 3ª serie, Carteggi speciali: La questione romana (carteggio Pantaleoni-Vimercati, voll. 2); Carteggio Cavour-D'Azeglio, Bologna 1926-1933; ed. nazion. degli Scritti di G. Mazzini (finora voll. 64, Imola 1906 segg.) e degli Scritti di G. Garibaldi (finora voll. 3, Roma 1932-33).
Meritano inoltre speciale menzione, per la loro importanza generale, i Discorsi parlamentari del conte di Cavour, voll. 11, Torino 1863-72 (nuova ed., a cura di A. Omodeo, I, Firenze 1932); le Lettere edite e inedite del conte di Cavour, a cura di L. Chiala, voll. 6, Torino 1882-87; le Lettere e documenti di B. Ricasoli, pubbl. da M. Tabarrini e A. Gotti, voll. 10, Firenze 1887-1896. Importante anche l'Epistolario di Gioberti, voll. 6, Firenze 1927-1931 (continua la pubbl.); il Carteggio tra Marco Minghetti e Giuseppe Pasolini (1846-1859), a cura di G. Pasolini, voll. 4, Torino 1924-30; il Diario 1858-60 sull'azione politica di Cavour, di G. Massari, Bologna 1931; l'Epistolario di L. C. Farini, a cura di L. Rava, voll. 3, Bologna 1911-1914; e, per lo stato d'animo dei patrioti, A. Malvezzi, Il Risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi (1820-1860), Milano 1924. Inoltre gli atti di Le assemblee del risorgimento, pubbl. dalla Camera dei deputati, voll. 15, Roma 1911.
Per il periodo dopo l'unificazione, v. soprattutto: F. Crispi, Scritti e discorsi politici (1849-90), Roma 1890; id., Carteggi politici inediti (1860-1900), Roma 1912; id., Prima guerra d'Africa, Milano 1914; id., Politica interna. Diario e documenti, Milano 1924; id., Questioni internazionali, Milano 1927; id., Politica estera: Memorie e documenti, Milano 1929, pubbl. da T. Palamenghi-Crispi; G. Giolitti, Memorie della mia vita, voll. 2, Milano 1922; A. Salandra, I discorsi della guerra, La neutralità (1914), L'intervento (1915), Milano 1922-1930; B. Mussolini, Discorsi della rivoluzione, 5ª ed., Milano 1928; id., Discorsi dal banco di deputato, Milano 1928; id., La nuova politica dell'Italia, a cura di A. Giannini, 5ª ed., Milano 1928, voll. 3; id., Discorsi del 1925..., 1926, 1927, 1928, 1929, 1930, voll. 6, Milano 1926-31; id., Discorsi al Parlamento; gli accordi del Laterano, 2ª ed., Roma 1929; id., Dottrina del fascismo, Milano 1932.
V. inoltre la serie degli Atti Parlamentari (cfr. Catalogo gen. delle pubblicazioni dello Stato, Roma 1924-31); e i Trattati e convenzioni fra il Regno d'Italia e gli altri Stati, a cura del Ministero degli affari esteri, voll. 30 (fino al dicembre 1923), Roma 1931.
Principali archivi e biblioteche. - Nonostante l'enorme lavoro compiuto, un'immensa congerie di materiale, specialmente documentario, giace ancora inedita negli archivî, pubblici e privati, e nelle biblioteche. Fra i primi, hanno particolare importanza gli Archivî di Stato di Torino (specie per l'età moderna, dal '500 in poi); di Milano (specialmente per il Rinascimento), di Mantova (specialmente l'Archivio Gonzaga, importantissimo per i secoli XIV-XVII), di Venezia, di Modena (specialmente l'Archivio Estense; importantissimo per i secoli XV-XVII), di Parma (specialmente per le carte tarnesiane), di Genova, di Firenze, di Lucca, di Napoli (specialmente per il periodo angioino-aragonese e per il periodo 1736-1860). Per il periodo più recente, dal 1861 in poi, centro massimo è l'Archivio di stato e l'Archivio del Regno, a Roma.
D'importanza eccezionale è poi, per tutta la storia italiana, l'Archivio segreto vaticano.
Importanti anche sono molti archivî privati, tra essi l'arch. Caetani a Roma, l'arch. Guicciardini a Firenze, l'arch. Balbo a Torino, l'arch. Ricasoli a Brolio (Siena).
Per il periodo del Risorgimento, assai importanti i fondi raccolti nelle Biblioteche e Musei del Risorg. di Roma, Milano, Torino, Genova.
Tra gli archivî stranieri hanno importanza fondamentale per la storia italiana l'Archivo de la corona de Aragon, a Barcellona (per il Rinascimento); l'Archivo General de Simancas (Spagna), per il '500 e '600; le Archives Nationales di Parigi, dal '500 in poi; il Haus-, Hof- u. Staatsarchiv di Vienna per i secoli XVIII e XIX; il Record Office di Londra per i secoli XVIII e XIX.
Tra le biblioteche particolarmente ricche di materiale, in Italia, la Biblioteca Reale e la Bibl. Civica, a Torino; la Bibl. Ambrosiana e la Bibl. Trivulziana a Milano; la Marciana a Venezia; la Bibl. Nazionale, la Riccardiana e, per la storia della cultura, la Laurenziana a Firenze; la Bibl. Vaticana e la Bibl. Angelica a Roma. All'estero, la Bibliothèque Nationale a Parigi; il British Museum a Londra; la Bibl. Palatina a Vienna.
Guide e sussidî alla ricerca. - Per le fonti narrative medievali, v. A. Potthast, Bibliotheca hhtorica Medii Aevi, 2a ed., voll. 2, Berlino 1896, e U. Balzani, Le cronache italiane nel Medioevo, 3ª ed., Milano 1909. Un elenco delle fonti fino al 1022 è l'Indice provvis. d. spogli it. p. il Dizion. latino dell'Alto Medioevo, in Archivium latinitatis Medii Aevi, Parigi 1932.
Per le fonti documentarie, v. gli Archivi della storia d'Italia, serie 1ª a cura di G. Mazzatinti, voll. 5, Rocca S. Casciano 1897-1907; serie 2ª a cura di G. Degli Azzi, voll. 4, ivi 1910-15; è ora iniziata, sotto la direzione di L. Schiaparelli, una Guida storica e bibliografica degli archivi e delle biblioteche d'Italia (finora pubbl. la parte 1ª del vol. I, Provincia di Firenze. Prato, a cura di R. Piattoli, Roma 1932, ed. dall'Istituto storico italiano). Inoltre gl'Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia a cura di G. Mazzatinti e A. Sorbelli, Forlì e Firenze 1890 segg. (finora voll. 54). V. anche gl'Indici e Cataloghi delle biblioteche d'Italia, a cura del Ministero della pubbl. istruzione, Roma 1884-1896, voll. 16.
Esistono poi buoni e talora ottimi inventarî e regesti di archivî singoli: eccellenti l'Archivio Gonzaga di Mantova, a cura di P. Torelli e A. Luzio, voll. 2, Ostiglia 1920-21; gl'Inventari e regesti del R. Archivio di stato di Milano (I, 1, I registri Viscontei, a cura di C. Manaresi, Milano 1915; I, 2, Gli atti cavallereschi viscontei, a cura di G. Vittani, voll. 2, Milano 1920-29); gl'Inventari e regesti dell'Archivio civico di Milano, I, I registri dell'Ufficio provvisione e dell'Ufficio dei sindaci sotto la dominazione viscontea, a cura di C. Santoro, I, Milano 1932. V. anche l'Inventario cronologico sistematico dei registri angioini conservati nell'Arch. di stato di Napoli, a cura di B. Capasso, Napoli 1894; l'Inventario del R. Archivio di stato di Lucca, a cura di S. Bongi, voll. 4, Lucca 1871-88; l'Inventario del R. Arch. di stato di Cagliari, a cura di L. Lippi, Cagliari 1902; l'Inventario sommario dell'Arch. di stato di Firenze, Firenze 1903; l'Inventario del R. Arch. di stato in Siena, a cura di A. Lizini e G. Mengozzi, voll. 2, Siena 1899-1915 e cfr. A. Lisini, Inventario delle pergamene conservate nel diplomatico (dell'arch. di Siena) dal 736 al 1250, in Boll. stor. senese, XIII-XVII (1906-10); l'Inventario e spoglio dei registri della tesoreria apostolica di Perugia e dell'Umbria del R. Arch. di stato di Roma, a cura di L. Fumi, Perugia 1901; l'Inventaire des archives Farnésiennes de Naples, di A. Cauchie e L. v. der Essen, Bruxelles 1911; l'Inventaire des archives Farnésiennes de Parme, di L. v. der Essen, Bruxelles 1913 (anche S. Fermi, Le carte farnesiane dell'Archivio di stato di Napoli, in Boll. storico piacentino, 1927); D. G. Drei, Gli archivi farnesiani. Loro formazione e vicende, Parma 1930.
Per il materiale interessante l'Italia e giacente negli archivî e bibl. di altri paesi, v. l'Inventario dti manoscritti italiani delle bibliotecht di Francia, a cura di G. Mazzatinti, voll. 3, Roma 1886-88; I. Carini, Gli archivi e le biblioteche di Spagna in rapporto alla storia d'Italia in generale e di Sicilia in particolare, voll. 2, Palermo 1884-87 (anche E. Dupré Theseider, Note sopra alcuni archivi di Spagna in ordine alla storia d'Italia, in Archivi e biblioteche d'Italia, I, 1927); J. Ruggeri, Manoscritti italiani nella bibl. dell'Escuriale, in La Bibliofilia, XXXII (1930); G. Gallavresi, Fonti inglesi per la storia del Risorgimento, in Atti del XXV congresso della Soc. nazionale del Risorgimento, Roma 1932; P. Pedrotti, Circa alcuni documenti esistenti nell'Archivio di stato di Vienna che si riferiscono al periodo della restaurazione in Italia, in Atti Soc. ital. progresso delle scienze, 19ª riunione, Roma 1931; id., Fonti parigine per la storia del dominio napoleonico in Italia, in Atti del XXV Congresso della Soc. naz. del Risorg., cit.
Per un primo orientamento, v. le guide bibliogr. di P. Egidi, La storia medievale, Roma 1922, e di F. Lemmi, Il Risorgimento, Roma 1926.
In particolare v. B. Capasso, Le fonti della storia delle provincie napoletane dal 568 al 1500, 2ª ed., Napoli 1902.
BIBLIOGRAFIA.
Il primo capitolo di questa bibliografia comprende opere di carattere generale. Nei capitoli seguenti i varî scritti sono disposti secondo le grandi divisioni cronologiche.
Opere di carattere generale.
1. Storia politica. - Manca tuttora una moderna trattazione d'insieme sulla storia d'Italia, che risponda ai risultati delle indagini particolari dell'ultimo quarantennio di studî storici: nel quale periodo, se si è molto e bene operato nel ricostruire tanta parte della nostra storia (specialmente l'età dei comuni e l'età del Risorgimento), è invece mancata la ricostruzione totalitaria. Occorre quindi rifarsi ai vecchi, ma sempre utili e assai spesso ricchi di osservazioni acute e profonde, Annali d'Italia di L. A. Muratori, Milano 1744-49, voll. 12, continuati, ma con minore sagacia, da A. Coppi, Annali d'Italia dal 1750 al 1861, Lucca 1848-67, voll. 16; da I. Ghiron, per il 1861-1870, Milano 1888-1890, voll. 3 e da P. Vigo, Storia degli ultimi trent'anni del secolo XIX, voll. 7, Milano 1908-15; a C. Denina, Delle rivoluzioni d'Italia, Torino 1769-70, voll. 3; al vigoroso Sommario della storia d'Italia, di C. Balbo, nuova ed., a cura di F. Nicolini, Bari 1913-14, voll. 2 (altra ed., continuata per il periodo dal 1849 in poi da A. Solmi, Milano 1927).
Un posto a parte occupano G. Ferrari, Histoire des révolutions d'Italie, Parigi 1858, voll. 4 (trad. ital. accresciuta, voll. 3, Milano 1870-73), e specialmente A. Oriani, La lotta politica in Italia, 1ª ed., Torino 1892 (ultima in Opera omnia, IX-XI, Bologna 1925, voll. 3) che, mosso sulle orme del Ferrari, scrisse un'opera ricca d'intuizioni felici e talora geniali, animata da robusto pensiero, di forte efficacia rappresentativa, ma, per quanto concerne il periodo anteriore al Risorgimento, troppo scarsamente fondata su conoscenza precisa ed esatta delle vicende, troppo intesa a tratteggiare drammaticamente, per via di nette antitesi, il corso della storia italiana. Resta, comunque, l'opera più viva sulla storia italiana.
Mediocri sono la Storia degli Italiani di C. Cantù, voll. 4, 4ª ed., Torino 1893-96, e la Storia d'Italia di P. Balan, voll. 7, Modena 1875-90 (migliore la 2ª ed. a cura di R. Maiocchi, voll. 11, Modena 1894-99). Quanto alla Storia d'Italia scritta da una società di professori, ed edita da F. Vallardi (Milano 1897, segg., voll. 10), essa alterna a volumi ottimi (come G. Romano su Le dominazioni barbariche) volumi mediocri (come F. Gianani su I comuni): in genere è utile strumento d'informazione, ma non più.
Alcune fra le considerazioni più fruttuose e profonde sulle vicende italiane si trovano invece in opere non di narrazione continuata: per es., negli scritti di C. Cattaneo, specialmente La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, n. ed., Firenze 1931 (v. anche del Cattaneo gli Scritti scelti, Milano 1923); negli scritti recenti di G. Volpe, raccolti in Medioevo italiano, Firenze 1923 e Momenti di storia italiana, Firenze 1925 e di B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari 1925, e Storia dell'età barocca, Bari 1929. Alcune delle pagine più belle, specialmente sul Rinascimento, nella Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis, voll. 2, Bari 1913.
Sull'"unità" della storia italiana, cfr. A. Solmi, L'unità fondamentale della storia d'Italia, Pavia 1926; G. B. Picotti, Romanità e italianità nella storia d'Italia, in Annali d. Univ. toscane, XI (1926); B. Barbadoro, La genesi del problema nazionale italiano, in Civiltà moderna, II (1930).
Sui rapporti fra l'Italia e le altre nazioni, rapido sguardo d'insieme in G. Volpe, Italia ed Europa, in Momenti di storia it., cit. Importante pure P. Silva, Il Mediterraneo dalla unità di Roma alla unità d'Italia, 2ª ed., Milano 1933; P. Herre, Weltgeschichte am Mittelmeer, Stoccarda 1930.
2. Opere generali sulla storia di singole città, regioni e stati. - Si ricordano qui solo le storie di città e regioni di particolare importanza per la storia nazionale; per le altre, v. i singoli articoli.
Stati sabaudi. - E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, voll. 6, Firenze 1861-69 e anche, per il periodo più recente, N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, voll. 4, Torino 1877-85; L. Cibrario, Origini e progresso delle istituzioni della monarchia di Savoia, 2ª ed., voll. 2, Firenze 1869; D. Carutti, Storia della diplomazia della Corte di Savoia dal 1494 al 1773, voll. 4, Torino 1875-80; G. Volpe, Italia e Savoia, in Momenti di storia it., cit.
Milano e Lombardia. - G. Giulini, Memorie spettanti alla storia della città e della campagna di Milano, voll. 9, Milano 1760-1775 (sino al 1447, 2ª ed., a cura di M. Fabi, Milano 1854-57, voll. 7, con aggiunta di una parte inedita sino al 1481); P. Verri, Storia di Milano, nuova ed., a cura di P. Custodi, voll. 4, Milano 1824-25; id., ...continuata sino al 1848 da E. De Magni e A. Lissoni, voll. 5, Milano 1851; id., Memorie storiche sulla economia pubblica dello stato di Milano, in Scritti vari, Firenze 1854. Anche F. Cusani, Storia compendiata di Milano dall'origine ai giorni nostri, voll. 8, Milano 1861-84.
Genova. - C. Varese, Storia della Repubbl. di Genova, voll. 8, Genova 1835-1839; M. G. Canale, Storia di Genova, voll. 5, Genova 1844-49; id., Nuova istoria della rep. di Genova, voll. 4, Pisa 1859-64. Più recenti, ma di carattere divulgativo, F. Donaver, La storia della Rep. di Genova, voll. 3, Genova 1913-14; C. Manfroni, Genova, Roma 1929.
Venezia. - P. Romanin, Storia documentata di Venezia, voll. 10, Venezia 1853-61 (2ª ed., voll. 3, Venezia 1912-14); H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, voll. 3, Gotha 1905-33; R. Cessi, Venezia Ducale, I e II, Padova 1926-32. Per la costituzione interna, G. Maranini, La costituzione di Venezia, I: Dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, II: Dopo la serrata del Maggior Consiglio, voll. 2, Venezia-Firenze 1927-1931. Buon riassunto in A. Battistella, La rep. di Venezia nei suoi undici secoli di storia, Venezia 1921.
Firenze e Toscana. - Complessivo: R. Caggese, Firenze dalla decadenza di Roma al Risorgimento d'Italia, voll. 3, Firenze 1912-21. Per il Medioevo e Rinascimento, cfr. G. Capponi, Storia della repubblica di Firenze (fino al 1530), nuova ed., voll. 2, Firenze 1930; F. T. Perrens, Histoire de Florence (fino al 1531), voll. 3, Parigi 1888-90; e soprattutto R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, voll. 4 (fino al sec. XIV), Berlino 1896, 1927 (trad. ital. del vol. I e della 3ª parte del vol. IV, Firenze 1908 e 1929); id., Forschungen zur Geschichte v. Florenz, voll. 4, Berlino 1876-1908. Per il periodo del granducato mediceo: J. R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della Casa Medici, Firenze 1771 (altra ed., Firenze 1830, voll. 18); A. v. Reumont, Geschichte Toscana's seit dem Ende d. florentinischen Freitstaates, voll. 2, Gotha 1876-77; e, per il periodo lorenese, A. Zobi, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, voll. 5, Firenze 1850-52. Buon riassunto in A. Panella, Firenze, Roma 1930.
Papato e Roma. - Cfr. soprattutto L. v. Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medioevo, trad. it., voll. 16, Roma 1900-1933 (sino alla metà del sec. XVIII); F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, trad. it., nuova ed., Torino 1925 segg. Anche, sebbene più superficiale, E. Rodocanachi, Histoire de Rome (dal 1354 a Leone X), voll. 5, Parigi 1922-33. V. chiesa.
Regno di Napoli e Sicilia. - Soprattutto B. Croce, Storia del regno di Napoli, 2ª ed., Bari 1931. V. inoltre F. Scaduto, Stato e Chiesa nelle due Sicilie dai Normanni ai giorni nostri, Palermo 1887; L. Bianchini, Della storia delle finanze del regno di Napoli, 2ª ed., voll. 3, Napoli 1859; id., Storia economica-civile di Sicilia, voll. 2, Napoli 1841; G. Libertini-G. Paladino, Storia d. Sicilia dai tempi più antichi ai giorni nostri, Catania 1933.
3. Storia del diritto italiano e delle dottrine politiche. - Numerose in questo campo, e di valore, le trattazioni generali: v. specialmente le opere di A. Pertile, F. Schupfer, G. Salvioli, P. Del Giudice-E. Besta-G. Salvioli, A. Solmi, F. Ciccaglione, C. Calisse, citate in italia: Diritto. V. inoltre G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, 2ª ed., Milano 1929; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, Venezia 1865-81, voll. 4.
4. Storia economica. - Manca una storia complessiva del commercio e dell'industria italiana. I migliori lavori sono circoscritti a determinati periodi, principalmente al periodo del Rinascimento, dal sec. XI al XV (cfr. § 38 e 57) e, al sec. XVIII (§ 84). Invecchiato L. Cibrario, Della economia politica nel Medioevo, 5ª ed., voll. 2, Torino 1861; succinto S. Cognetti-De Martiis, Cenno storico sull'industria italiana, Torino 1885.
Occorre pertanto ricorrere ad opere generali, ma non esclusivamente di storia economica italiana: cfr. A. Segre, Manuale di storia del commercio, voll. 2, 2ª ed., Torino 1923; G. Luzzatto, Storia del commercio, I: Dall'antichità al Rinascimento, Firenze 1914; id., Lezioni di storia economica, Padova 1927; P. Bonfante, Lezioni di storia del commercio, voll. 2, Roma 1926; e specialmente W. Sombart, Der Moderne Kapitalismus, 8ª ed., voll. 6, Monaco e Lipsia 1928, nel quale frequentissime sono le notizie sull'economia italiana specie per il periodo del Rinascimento. Utile anche L. Goldschmidt, Storia universale del diritto commerciale, trad. di V. Pouchain, Torino 1913.
Per la storia dell'agricoltura, cfr. O. Orlandini, Sommario analitico della storia dell'agricoltura italiana esaminata nei suoi rapporti con le vicende politiche della penisola, Firenze 1867; C. Bertagnolli, Delle vicende dell'agricoltura in Italia, Firenze 1881; V. Niccoli, Saggio storico e bibliografico dell'agricoltura italiana, Torino 1902; R. Ricci, Compendio storico dell'agricoltura italiana, Catania 1920.
Utili pertanto i lavori d'insieme su particolari industrie o commerci e su singole città: Cfr. C. D'Arco, Dell'economia politica del Municipio di Mantova ai tempi in cui si reggeva a repubblica, Mantova 1842; id., Nuovi studi intorno all'economia di Mantova nel Medioevo, Mantova 1847; G. Frattini, Storia e statistica della industria manifatturiera in Lombardia, Milano 1856; L. Brenni, La tessitura serica attraverso i secoli, Como 1925; id., La seteria italiana, Milano 1927; id., I velluti di seta italiani, Milano 1927; S. Peruzzi, Storia del commercio e dei banchieri di Firenze dal 1200 al 1355, Firenze 1868; V. Cusumano, Storia dei banchi della Sicilia, voll. 2, Roma 1887-92; G. G. Guarnieri, Il porto di Livorno e la sua funzione economica dalle origini ai tempi nostri, Pisa 1931, e M. Baruchello, Livorno e il suo porto. Origini, caratteristiche e vicende dei traffici livornesi, Livorno 1932; P. Amat di San Filippo, Indagini e studi sulla storia economica della Sardegna, in Miscell. storia ital., XXXIX (1903); A. Gloria, Della agricoltura nel Padovano, Padova 1855. Per la storia dei prezzi, N. F. Faraglia, Storia dei prezzi in Napoli dal 1131 al 1860, Napoli 1878.
Per la storia delle dottrine economiche, cfr. G. Ricca-Salerno, Storia delle dottrine finanziarie in Italia, 2ª ed., Palermo 1896. Anche T. Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napoletane dal sec. XIII al 1734, Milano 1882; R. Michels, Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche, Bologna 1932.
5. Storia demografica. - J. Beloch, Die Entwicklung der Grossstätte in Europa, in Comptes Rendus du VIIIe Congrès intern. d'hygiène et de démographie, 1894; id., La popolazione di Venezia nei secoli XVI e XVII, in Rivista italiana di sociologia, XII (1908); G. Pardi, Disegno della storia demografica di Firenze, in Arch. stor. it., LXXIV (1916); id., Storia demografica della città di Palermo, in Nuova riv. stor., III (1919); id., Storia demografica di Messina, ibid., V (1921); id., I registri angioini e la popolazione calabrese del 1276, in Arch. stor. napoletano, 1922; id., Storia demografica di Napoli, in Nuova riv. stor., VIII (1924); id., La popolaz. di Siena... attraverso i secoli, in Boll. stor. sen., XXX (1923); P. Egidi, Ricerche intorno alla popolazione dell'Italia meridionale sulla fine del sec. XIII e sul principio del XIV, in Miscell. G. Sforza, Lucca 1920. Studî varî in Atti congresso intern. per gli studî sulla popolazione (7-10 sett. 1931), con fonti archiv. e bibliogr. sulla popol. d'Italia dal 1000 al 1848, Roma 1933 (in corso).
6. Organizzazione dei servizî pubblici. - Cfr. O. Pàstine, L'organizzazione postale della repubblica di Genova [dalle origini alla fine del sec. XVIII] in Atti Soc. ligure storia patria, LIII (1926).
7. Storia militare. - Per la marina fondamentale C. Manfroni, Storia della marina italiana, I: Dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo (1260); II: Dal trattato di Ninfeo alla caduta di Costantinopoli (1453); III: Dalla caduta di Costantinopoli alla Battaglia di Lepanto, voll. 3, Livorno-Roma 1897-1902. Cfr. anche B. Guglielmotti, Storia della marina pontificia nel Medioevo, voll. 2, 2ª ed., Firenze 1894. Per gli eserciti, oltre a P. Maravigna, Storia dell'arte militare, voll. 2, Torino 1923-24, e ai cap. relativi all'Italia in H. Delbrück, Geschichte d. Kriegskunst, II-IV, Berlino 1909-1920, v. soprattutto N. Brancaccio, L'esercito del vecchio Piemonte (1560-1859), voll. 2, Roma 1922-23.
8. Storia ecclesiastica e religiosa. - Fondamentali i lavori di F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300 descritti per regioni, voll. 3, Torino-Firenze-Bergamo 1899-1932 (limitata però a due regioni: il vol. I sul Piemonte; il II su Milano; il III sulla Lombardia) e, per i più antichi periodi di F. Lanzoni, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del sec. VII (anno 604), Faenza 1927. Completi invece, fino al sec. XVIII, F. Ughelli, Italia Sacra, 2ª ed., voll. 10, Venezia 1717-22; G. Cappelletti, Le chiese d'Italia, voll. 21, Venezia 1844-70. Inoltre, P. B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, voll. 2, Ratisbona 1873-1886 e K. Eubel, Hierarchia catholica medii aevi (1198-1503), voll. 2, Münster 1890-1901, continuato per il sec. XVI da G. v. Gulik, Münster 1910. Ancor utile A. Lubin, Abbatiarum Italiae brevis notitia, Roma 1693 (aggiunte del cardinale Passionei, in Studi e documenti di storia e diritto, XVI, 1895).
Per la storia della religiosità in Italia non v'è attualmente che G. Monticelli, Italia religiosa. La religione del popolo italiano nel suo sviluppo storico (per ora sino al Rinascimento), voll. 4, Torino 1927-30.
Per le opere generali sul papato e sui concilî, cfr. chiesa. Ma v. soprattutto C. J. Hefele H. Leclercq, Histoire des conciles, Parigi 1907 segg.
9. Storia della scuola e delle università. - G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, voll. 2, Palermo 1914; T. Vallauri, Storia delle università degli studi del Piemonte, Torino 1875; P. Vaccari, L'università italiana nella storia, Modena 1926. Ma soprattutto, F. Torraca, N. Cortese, M. Schipa, L. Russo e altri, Storia dell'università di Napoli, Napoli 1924 (anche, A. Cutolo, L'università di Napoli, Napoli 1933); gli studî raccolti in Universitatis Ticinensis Saecularia undecima, Pavia 1925; G. Zaccagnini, Storia dello studio di Bologna durante il Rinascimento, Ginevra 1930. Vedi inoltre E. Coppi, Le università ital. nel Medioevo, 3ª ed., Firenze 1886; S. d'Irsay, Histoire des universités françaises et étrangères, I, Parigi 1933, capitoli IV e X; L. Isnardi e C. Celesia, Storia dell'università di Genova, voll. 2, Genova 1861-67; G. Favaro, Saggio di bibliogr. dello studio di Padova, voll. 2, Venezia 1922; L. Zdekauer, Lo studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894. V. anche M. Maylender, Storia delle Accademie d'Italia, voll. 5, Bologna 1926-1929.
10. Storia dei costumi, ecc. - Modello è P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della repubblica, 7ª ed., voll. 3, Bergamo 1927 segg. V. anche E. Verga, Storia della vita milanese, 2ª ed., Milano 1931; L. Frati, La vita privata in Bologna dal sec. XIII al sec. XVII, 2ª ed., Bologna 1928; id., Il Settecento a Bologna, Palermo 1923; L. T. Belgrano, Della vita privata dei Genovesi, 2ª ed., Genova 1875; I. Del Lungo, La donna fiorentina del buon tempo antico, Firenze 1906; A. Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV-XV, Firenze 1908; G. Imbert, Seicento Fiorentino, 2ª ed., Milano 1930; U. Boncompagni-Ludovisi, Roma nel Rinascimento, voll. 4, Albano Laziale 1928 segg.; D. Silvagni, La corte e la società romana nel XVIII e XIX secolo, voll. 3, Roma 1882-88.
11. Scienze ausiliarie: opere di carattere generale. - Paleografia e diplomatica. - V. soprattutto A. Gloria, Compendio delle lezioni teorico-pratiche di paleografia e diplomatica, Padova 1870; C. Paoli, Programma scolastico di paleografia latina e di diplomatica, 2ª ed., voll. 3, Firenze 1888-1900; N. Barone, Paleografia latina, diplomatica e nozioni di scienze ausiliarie, Potenza 1911; L. Schiaparelli, La scrittura latina nell'età romana. Avviamento allo studio della scrittura nel Medioevo, Como 1921; id., Influenze straniere nella scrittura italiana dei secoli VIII e IX, Roma 1927; P. Torelli, Studi e ricerche di diplomatica comunale, in Atti Acc. Virgiliana, Mantova 1911 e 1915. Per le abbreviature v. C. Piroli, Le abbreviature nella paleografia latina del Medioevo, Firenze 1891, e l'utilissimo Lexicon abbreviaturarum, Dizionario di abbreviature lat. e it., di A. Cappelli, 3ª ed., Milano 1929 (v. anche diplomatica; paleografia).
Epigrafia. - O. Marucchi, Trattato di epigrafia cristiana, Milano 1910; F. Grossi Gondi, Trattato di epigrafia crist. latina e greca del mondo latino occidentale, Roma 1920.
Archivistica. - E. Casanova, Manuale di archivistica, 2ª ed., Milano 1929.
Numismatica. - S. Ambrosoli, Manuale di numismatica, 4ª ed., Milano 1907; F. ed E. Gnecchi, Saggio di bibliografia numismatica delle zecche italiane medievali e moderne, Milano 1889. Come repertorio delle varie monete v. E. Martinori, La moneta, Milano 1915; Catalogo generale delle monete medievali e moderne nel Corpus Nummorum Italicorum, a cura di S. M. il Re d'Italia, Roma-Milano 1910 segg. (V. moneta: numismatica).
Araldica. - P. Litta, Famiglie celebri d'Italia, continuata da L. Passerini, F. Odorici, F. Stefani, voll. 10 e 3 di supplemento, Milano 1819 segg.; G. B. Di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, voll. 3, Pisa 1889-90; G. Di Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca; prontuario nobiliare, Pisa 1876-77; e l'Enciclopedia storico-nobiliare italiana, diretta da V. Spreti, Milano 1929-1932, voll. 6.
Manuali di cronologia. - Soprattutto A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo, 2ª ed., Milano 1920. Anche V. Casagrandi, Storia e cronologia medievale e moderna, 4ª ed., Milano 1930.
Metrologia. - A. Martini, Manuale di metrologia, Torino 1883. Particolarmente importanti le ricerche di A. Mazzi, Il sextarius Pergami, saggio di ricerche metrologiche, Bergamo 1883; id., Il piede Liprando e le misure di Garlenda, Bergamo 1885. E cfr. N. Tamassia, Pesi e misure dell'Italia medioev., in Studî in onore di B. Brugi, Palermo 1910.
Repertorî. - G. Moroni, Dizionario di erudizione ecclesiastica, Venezia 1840 segg. (biografie di ecclesiastici); v. anche il Dictionnaire de théologie catholique, a cura di A. Vacant, É. Mangenot e É. Amann, nuova ed., Parigi 1923 segg.; il Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques, a cura di A. Baudrillart e altri, Parigi 1909 segg. Utilissimo, per il Medioevo, U. Chevalier, Répertoire des sources historiques du moyen âge, I: Bio-bibliographie, II: Topo-bibliographie, 2ª ed., voll. 4, Montbéliard e Parigi 1894-1907.
Dizionarî speciali. - Assai utile G. Rezasco, Dizionario del linguaggio storico e amministrativo, Firenze 1881.
Atlanti storici. - V. soprattutto M. Baratta e P. Fraccaro, Atlante storico, Novara 1924 segg.
12. Repertorî bibliografici. - Manca tuttora una bibliografia aggiornata e completa. Nella coll. di guide bibliografiche della Fondazione Leonardo è apparsa un'ottima guida per La storia medievale di P. Egidi (Roma 1922) e un'altra, pure ottima, di F. Lemmi, Il Risorgimento (Roma 1926; v. anche R. Mosca, Bibl. del Risorgimento, Milano 1930, più divulgativo). La prima però comprende solo i lavori italiani: pertanto è necessario ricorrere anche al Dahlmann-Waitz, Quellenkunde d. deutschen Geschichte, 9ª ed., Lipsia 1931.
Per il Fascismo, v. Bibl. generale del Fascismo, I, Opere straniere, II, Opere italiane, Roma 1932-33 (in corso).
Sempre utili quindi i repertorî bibliografici di E. Calvi, Biblioteca di bibliografia storica italiana, Roma 1903 (suppl., in Riv. bibl. e archivi, 1906 e Roma 1907); e specialmente l'ottimo Annuario bibliografico della storia d'Italia dal sec. IV dell'evo medio ai nostri giorni, diretto da A. Crivellucci, G. Monticolo, F. Pintor, voll. 8, Pisa 1903-1910. Inoltre, le rassegne periodiche di C. Cipolla, Pubblicazioni sulla storia medievale d'Italia, in Jahresberichte d. Geschichtswissenschaft, dal 1878 al 1911 e con lo stesso titolo, in Nuovo archivio veneto, dal 1890 al 1910; le rassegne della Rivista storica italiana e Nuova rivista storica e quelle sulla storia d'Italia della Revue historique.
Parecchie le bibliografie regionali: v. A. Manno, Bibliografia storica degli stati della monarchia di Savoia, voll. 9, Torino 1884-1913 (v. anche la Bibliografia ligure-piemontese, a cura di F. Gabotto e poi di G. Borghezio, in Boll. stor. bibl. subalpino, 1896 segg.); E. Calvi, Bibliografia di Roma nel Medioevo (476-1499), Roma 1906-08, voll. 2; id., Bibliografia di Roma nel Cinquecento, I, Roma 1910; id., Bibliografia di Roma nel Risorgimento, I (dal 1789 al 1846), Roma 1912; S. Lottici, G. Sitti, Bibliografia gen. per la storia parmense, Parma 1904 (inoltre R. Di Soragna, Bibl. storica e statutaria delle prov. parmensi, Parma 1886); E. Motta, Bollettino di bibliografia stor. lomb., in appendice all'Arch. stor. lomb., 1894-1915 e la Bibliogr. st. lomb., ibid. (annuale); B. Emmert, Bibliografia della Venezia Tridentina, Trento 1929; G. Occioni-Bonaffons, Bibliografia storica friulana dal 1861 al 1895, voll. 3, Udine 1899; A. Segarizzi, Boll. bibliografico della regione veneta, in appendice al Nuovo archivio veneto, dal 1901; G. Borino, Bibliografia di storia pontificale, in Arch. soc. rom. di st. patria, 1924 segg.; R. Barabesi, Bibliogr. della provincia di Grosseto, Grosseto 1930; G. Ceci e A. Simioni, Boll. bibliogr. d. storia del Mezzogiorno d'Italia, I (1910-14), Napoli 1916; L. Volpicella, Bibliografia storica della provincia di Terra di Bari, Napoli 1884-1887; la Bibl. per la Calabria e la Lucania in appendice all'Arch. storico per la Calabria e la Lucania; R. Ciasca, Bibliografia sarda, voll. 2, Roma 1931-33 (in corso). E per determinati problemi L. Fontana, Bibliografia degli statuti dei comuni dell'Italia superiore, voll. 3, Torino 1907 (e L. Manzoni, Bibliografia statutaria e storica italiana, voll. 2, Bologna 1878-92; G. Gonetta, Bibliografia statutaria delle Corporazioni d'arti e mestieri, Roma 1891); G. Colaneri, Bibliografia araldica e genealogica d'Italia, Roma 1904.
Per il sec. XIX utilissimo l'Inventario della raccolta... Bertarelli (Risorgimento italiano), voll. 3, Milano 1925.
E v. anche il Catalogo metodico degli scritti contenuti nelle pubbl. periodiche ital. e straniere possedute dalla Bibl. della Camera dei Deputati, Roma 1885 segg.
13. Riviste. - Riviste storiche a carattere generale sono soprattutto la Rivista storica italiana (Torino 1884 segg.), più bibliografica; e la Nuova rivista storica (Roma 1917 segg.). Ricco notiziario per tutta la storia d'Italia ha anche l'Archivio storico italiano (Firenze 1842 segg.), il più anziano dei periodici storici in Italia, che però nella parte dedicata agli studî e memorie originali si è soprattutto rivolto alla storia toscana. Fra le molte riviste, le quali hanno per compito precipuo l'illustrare la storia regionale, emergono per ricchezza e bontà di lavoro il Bollettino storico bibliografico subalpino (Torino 1896 segg.); Atti della Società ligure di storia patria (Genova 1858 segg.); l'Archivio storico lombardo (Milano 1874 segg.); l'Arch. veneto (Venezia: 1871-1891 Archivio veneto; 1891-1922 Nuovo arch. veneto; dal 1922 al 1926 Arch. veneto tridentino; dal 1926 col titolo attuale); l'Arch. della R. Società romana di stor. patria (Roma 1878 segg.); l'Archivio storico per le provincie napoletane (Napoli 1876 segg.). Ma assai importanti anche il Bollettino della Società pavese di storia patria (Pavia 1901 segg.); l'Archivio storico per le provincie parmensi (Parma 1892 segg.); gli Studi Senesi (Siena 1884 segg.); l'Archivio storico per la Calabria e la Lucania (Roma 1931 segg.); l'Archivio storico siciliano (Palermo 1873); l'Archivio storico per la Sicilia orientale (Catania 1904 segg.), ecc.
Per il periodo del Risorgimento, Il Risorgimento italiano (Torino 1908 segg.); La Rassegna storica del Risorgimento italiano (Roma 1914 segg.); La Lombardia nel Risorgimento (Milano 1914 segg).
E per il periodo più recente, specialmente dal 1870 in poi, la Nuova Antologia (Firenze-Roma 1866 segg) e Politica (Roma 1918 segg.).
Per la storia delle regioni ricongiuntesi alla patria con la guerra mondiale, cfr. l'Archivio per l'Alto Adige (Bolzano-Gleno 1906 segg.); gli Studi Trentini (Trento 1920 segg.); l'Archeografo Triestino (Trieste 1829 segg.); gli Atti e Memorie della società istriana di archeologia e storia patria (Parenzo 1884 segg.).
Alcune riviste sono dedicate alla storia di territorî, italiani di lingua e civiltà ma non compresi politicamente nel regno: l'Archivio storico della Svizzera italiana (Milano 1925 segg.; cfr. anche il ticinese Bollettino storico della Svizzera italiana, Bellinzona 1879 segg.); l'Archivio storico per la Dalmazia (Roma 1926 segg.); l'Archivio storico di Malta (Roma 1926 segg.); l'Archivio storico di Corsica (Livorno 1925 segg.; v. anche Corsica antica e moderna, Livorno 1932 segg.).
Tra gli Atti e memorie delle R. Deputazioni di storia patria soprattutto quelli della Dep. per le antiche provincie e la Lombardia (Torino 1862 segg.); per le provincie modenesi (Modena 1893 segg.); per le provincie della Romagna (Bologna 1862 segg.); e della Dep. Veneta (Venezia 1876 segg.).
Tra le riviste che, pur non dedicate esclusivamente agli studî storici, vanno tenute presenti per i frequenti e talora importantissimi studî di storia che vi si pubblicano, si segnalano La critica (Bari 1903 segg.); La cultura (n. s., Roma- Milano 1930 segg.); Civiltà moderna (Firenze 1929 segg.).
Tra le riviste giuridiche l'Archivio giuridico Filippo Serafini, Bologna-Pisa-Modena 1868 segg.; la Rivista italiana per le scienze giuridiche e sociali (Torino 1886 segg.); e la Rivista di storia del diritto italiano (Roma 1928 segg.).
Tra gli Atti di Accademie non esclusivamente storiche, v. gli Atti (e Memorie) della R. Accad. delle scienze di Torino (Torino 1759 segg.); i Rendiconti (e Memorie) del R. Ist. lombardo di scienze, lettere e arti (Milano 1841 segg.); gli Atti (e Memorie) del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti (Venezia 1841 segg.), della R. Accad. Virgiliana di Mantova (Mantova 1868 segg.), della R. Accademia dei Lincei (Roma 1847 segg.), dell'Accademia Pontaniana di Napoli (Napoli 1864 segg.), della R. Accad. di Napoli (Napoli 1865 segg.), dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo (1830 segg.).
Tra le riviste che hanno cessato le pubblicazioni, v. specialmente la collezione di Studi storici ed. da A. Crivellucci (Pisa 1892-1919), della Rivista di scienze storiche (Pavia 1904-10), di Studi e documenti di storia e diritto (Roma 1880-1904), della Rivista storica del Risorgimento italiano (Torino 1895-1900), dell'Archivio storico del Risorgimento umbro (Perugia 1905 segg.).
Tra le riviste straniere interessano in particolar modo la storia d'Italia le seguenti: Hist. Zeitschrift (Monaco-Berlino 1859 segg.); Histor. Jahrbuch (Monaco 1883 segg.); Hist. Vierteljahrschrift (Lipsia 1896 segg.); Hist. Vierteljahrschrift für Sozial- u. Wirtschaftsgeschichte (Stoccarda 1903 segg.); Neues Archiv der Gesellschaft für altere deutsche Geschichtskunde (Hannover 1876 segg.); Mitteilungen des Instituts für österreichischen Geschichtsforschung (Innsbruck 1880 segg.); Archiv für Kulturgeschichte (Berlino 1903 segg.); Revue historique (Parigi 1876 segg.); Revue d'histoire diplomatique (Parigi 1887 segg.); Revue d'histoire moderne et contemporaine (Parigi 1899 segg.); Le Moyen âge (Parigi 1866 segg.).
Fra le pubblicazioni degl'istituti stranieri a Roma, assai importanti i Mélanges d'archéologie et d'histoire de l'École française de Rome (Parigi 1873 segg.) e le Quellen und Forschungen aus d. italienischen Archiven u. Bibliotheken, ed. dall'Istituto storico prussiano di Roma (Roma 1897 segg.).
14. Storiografia italiana. - Oltre agli accenni generali in B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 3ª ed., Bari 1927; v. per il Medioevo, fino al secolo XIV, G. Lisio, La storiografia, Milano 1905 (in Storia dei generi letterari nella coll. F. Vallardi); per la storiografia del Rinascimento soprattutto E. Fueter, Geschichte d. neueren Historiographie, 2ª ed., Monaco-Berlino 1925 (trad. franc., Parigi 1914); per la storiografia del sec. XIX e dei primi anni del XX, B. Croce, Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, voll. 2, 2ª ed., Bari 1930; e anche, specialmente per il periodo 1890-1915, l'introd. dell'Egidi alla Guida bibl. cit.
Per le condizioni presenti, v. B. Croce, Intorno alle condizioni presenti della storiografia, in La Critica, XXVII (1929); C. Barbagallo, The conditions and tendencies of historical writing in Italy today, in The Journal of Modern History, 1929; P. Vaccari, Opere storiche recenti e discussioni di metodo, Voghera 1929; N. Ottokar, Osservazioni sulla condizione presente della storiografia in Italia, in Civiltà moderna, II (1930); W. Maturi, La crisi della storiografia politica italiana, in Riv. storica ital., XLVII (1930); G. Volpe, Motivi e aspetti della presente storiografia italiana, in Nuova Antologia, LXVII (1932).
Età barbarica e feudale dallo stanziamento dei Germani in Italia alla lotta delle investiture.
Opere di carattere generale. - 15. Trattazioni complessive. - Le migliori sono quelle di L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter (sino a Ottone I), voll. 4, Lipsia-Gotha 1897-1915 (2ª ed., del I vol., 1929) e di G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia (395-1024), Milano s. a. (1910), che sostituì nella Storia d'Italia di F. Vallardi, il volume, assai inferiore, di F. Bertolini, Storia d'Italia sotto i Barbari, Milano 1872. Assai notevole pure, specie nei riguardi della storia sociale, la Storia dell'Italia occidentale nel Medioevo (395-1313), di F. Gabotto, interrotta al 568 (I, i e ii, voll. 2, Torino 1911). Utile T. Hodgkin, Italy and Her Invaders, voll. 8, Oxford 1892-1899; e, per una prima sommaria informazione, P. Villari, Le invasioni barbariche in Italia, 2ª ed., Milano 1905.
Per quanto non esclusivamente rivolto alla storia italiana, è tuttavia assai importante, G. Volpe, Il Medioevo, 2ª ed., Firenze 1932.
Molto notevoli, per tutta la storia italiana dei primi secoli, sono poi i lavori di B. Malfatti, Imperatori e papi ai tempi della signoria dei Franchi in Italia (sino al 795), voll. 2, Milano 1876; di L. Duchesne, Les premiers temps de l'état pontifical, 3ª ed., Parigi 1911; di A. Crivellucci, Storia delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, voll. 3, Bologna-Pisa 1885-1909; e di G. Mengozzi, La città italiana nell'alto Medioevo, 2ª ed., Firenze 1932. Per la storia del papato, E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tubinga 1930. Per i primissimi tempi, v. H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, trad. ital., 2ª ed., voll. 2, Roma 1931.
Delle trattazioni sul basso impero, cfr. soprattutto M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, trad. ital., Firenze 1933; E. Stein, Gesch. d. spätrömischen Reiches, I, Vienna 1928.
Delle opere generali sull'Impero bizantino, cfr. specialmente J. B. Bury, History of the later Roman Empire from Arcadius to Irene, voll. 2, Londra 1889 (2ª ed., fino a Giustiniano, voll. 2, Londra 1923); id., History of the Eastern Roman Empire from the Fall of Irene to the accession of Basil I, Londra 1912 (v. anche romani: Storia; bizantina, civiltà).
Tra le opere generali sui popoli germanici, F. Dahn, Urgeschichte der germanischen u. romanischen Völker, voll. 4, Berlino 1881-89; id., Die Könige der Germanen, voll. 12, Monaco 1861-1909 (il vol. XII è dedicato al Longobardi); O. Seeck, Geschichte d. Untergangs der antiken Welt, 2ª ed., voll. 3, Berlino 1897-1909; L. Schmidt, Geschichte d. deutschen Stämme bis zum Ausgang der Völkerwanderung, voll. 2, Berlino 1904-10. Fra le trattazioni sull'impero e gli imperatori - indispensabili anche per la storia d'Italia - cfr. soprattutto la serie dei Jahrbücher: Th. Breysig, Jahrb. des fränkischen Reiches, 714-741, Lipsia 1869; H. Hahn, Jahrb. des fränkischen Reiches, 741-751, Berlino 1863; L. Ölsner, Jahrb. d. fränk. Reiches unter König Pippin, Lipsia 1871; P. Abel e B. Simson, Jahrb. d. fränk. Reiches unter Karl dem Grossen, voll. 2, Lipsia 1883; B. Simson, Jahrb. d. fränk. Reiches unter Ludwig dem Frommen, voll. 2, Lipsia 1874-76; G. Waitz, Jahrb. des Deutschen Reiches unter König Heinrich I., 3ª ed., Lipsia 1885; R. Köpke e W. Dönniges, Jahrb. des deutschen Reiches unter Otto dem Grossen, Berlino 1838; K. Uhlirz, Jahrb. des deutsch. Reiches unter Otto II. u. Otto III., I (Ottone II), Lipsia 1902; H. Bresslau, Jahrb. des deutsch. Reiches unter Konrad II., voll. 2, Lipsia 1879-84; E. Steindorff, Jahrb. des deutsch. Reiches unter Heinrich III., voll. 2, Lipsia 1874-81; G. Meyer v. Knonau, Jahrb. des deutsch. Reiches unter Heinrich IV. und Heinrich V., voll. 7, Lipsia 1890-1909. Come trattazioni d'insieme W. v. Giesebrecht, Geschichte des deutschen Kaiserzeit, voll. 6, Lipsia 1881-95; per un primo sguardo d'insieme G. Bryce, Il sacro romano impero, trad. ital., 2ª ed., Milano 1907. Inoltre M. Manitius, Deutsche Geschichte unter den Sächsischen u. Salischen Kaisern (911-1195), Stoccarda 1899. Notevole G. v. Below, Die italien. Kaiserpolitik d. deutschen Mittelalters, Monaco 1927; per le concezioni politiche dell'impero, specie nell'età di Ottone III, P. E. Schramm, Kaiser, Rom. u. Renovatio, voll. 2, Lipsia 1929 (v. anche germania; imperatore e impero).
16. Singole regioni. - Tra le opere d'insieme sulla storia medievale di singole regioni cfr. soprattutto E. Besta, Sardegna medievale, voll. 2, Palermo 1908-09; A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, Cagliari 1917; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia: ducato di Napoli e principato di Salerno, Bari 1923; E. Loncao, Stato, Chiesa e famiglia in Sicilia dalla caduta dell'impero romano al regno normanno, Palermo 1905, G. De Vergottini, Lineamenti storici della costituzione politica dell'Istria durante il Medioevo, voll. 2, Roma 1924-25.
17. Storia giuridica. - Specialmente per il diritto romano e bizantino, v. F. C. Savigny, Storia del diritto romano nel Medioevo, trad. ital., voll. 3, Torino 1857; M. Conrat, Geschichte d. Quellen u. Literatur d. röm. Rechts im früheren Mittelalter, Lipsia 1889 segg.; id., Römisches Recht im frühesten Mittelalter, in Zeitschrift d. Savigny Stiftung, XXXIV (1913); A. v. Halban, Das römische Recht in der germanischen Volksstaaten, voll. 3, Breslavia 1899-1907 (il vol. II è dedicato ai Longobardi); E. Besta, La persistenza del diritto volgare italico nel Medioevo, in Riv. di Legislaz. comparata, I (1905); N. Tamassia, L'elemento latino nella vita del dir. ital., Padova 1907; P. S. Leicht, Gli elementi romani nella costituzione longobarda, in Arch. stor. ital., LXXXI (1923); id., La formazione storica del diritto pubblico medioevale, in Atti della Soc. ital. per il progresso delle scienze, XV (1927); F. Brandileone, Il diritto bizantino nell'Italia meridionale dall'VIII al XII secolo, Bologna 1886; K. E. Zachariae v. Lingenthal, Geschichte des griechisch-römisch. Rechts, 7ª ed., Berlino 1892; A. Albertoni, Per una esposizione del diritto bizantino con riguardo all'Italia, Imola 1927 (anche L. Siciliano Villanueva, Sul diritto greco-rom. priv. in Sicilia, Palermo 1901). Per il diritto germanico F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all'Italia, 2ª ed., voll. 4, Città di Castello 1915-16 (ma cfr. anche, fra le opere generali sul diritto germanico, B. Brunner, Deutsches Rechtsgeschichte, 2ª ed., voll. 2, Lipsia e Monaco 1906-1928; e G. Waitz, Deutsche Verfassungsgeschichte, 2ª ed., voll. 8, Berlino 1880-99).
18. Storia politico-istituzionale-amministrativa. - Assai discutibile in più punti ma utile E. Mayer, ItalienischeVerfassungsgeschichte von der Gothenzeit bis zur Zunftherrschaft, voll. 2, Lipsia 1909. Importante J. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgesch. Italiens, voll. 4, Innsbruck 1868-1874. In particolare cfr. R. Cessi, Regnum ed imperium, Bologna 1919; G. B. Picotti, Il "patricius" nell'ultima età imperiale e nei primi regni barbarici d'Italia, in Arch. stor. ital., LXXXVI (1928); N. Tamassia, Alcune osservazioni intorno al "Comes Gothorum" nelle sue attinenze alla costituzione rom. e allo stabilimento dei barbari in Italia, in Arch. stor. lomb., XI (1884); L. Schmidt, Die comites Gothorum, in Mitteil. des österr. Inst. f. Geschichtsforschung, XL-XLI (1925-26); R. Baudi di Vesme, L'origine rom. del comitato longobardo e franco, in Atti congr. stor. intern., 1903, Roma 1904; F. Schupfer, Delle istituzioni politiche longobardiche, Firenze 1863; G. L. Andrich, Duchi e ducati longobardi, in Nuovo arch. veneto, XIX (1900); A. Checchini, I fondi militari romano-bizantini in relazione coll'arimannia, in Archivio giuridico, 1907; F. Thibault, L'impôt direct et la propriété foncière dans les royaume des Lombards, Parigi 1904; T. Sickel, Der fränkische Vicecomität, Strasburgo 1907; C. De Simoni, Sulle marche dell'Alta Italia e sulle loro diramazioni in marchesati, 2ª ed., Genova 1896; A. Hofmeister, Markgrafen u. Markgrafschaften im ital. Königreich, in Mitt. d. Inst. f. österr. Geschichtsforsch.; suppl. 7 (1906); F. Gabotto, I ducati dell'Italia carolingica, in Boll. stor. bibl. subalpino, XIV (1909-10); S. Pivano, Contro l'asserita divisione del regno italico in cinque grandi ducati, in Riv. ital. di scienze giuridiche, L (1912); F. Gabotto, Contro la negata divisione del regno italico in cinque grandi ducati, in Boll. stor. bibl. subalpino, XVII (1912); A. Solmi, Pavia e le assemblee del regno nell'età feudale, in Studi dell'università di Pavia, 1913; A. Visconti, Le condizioni del diritto ai tempi dei re d'Italia dopo la caduta dell'impero carolingio, in Mem. ist. lombardo, 1915; F. Landogna, L'unità del regno italico nell'alto Medioevo, in Nuova riv. storica, X (1926); id., Le chiuse e le stazioni doganali dell'Italia intorno al Mille, in Riv. geogr. ital., XXIX (1922); A. Solmi, L'amministrazione finanziaria del regno italico, Pavia 1932. Per Venezia, R. Cessi, Pacta veneta, in Arch. ven., LVIII e LIX (1928-29).
Per i territorî bizantini, soprattutto C. Diehl, Études sur l'administration byzantine dans l'Exarchat de Ravenne (568-751), Parigi 1888, e L. M. Hartmann, Untersuchungen zur Geschichte der byzantinischen Verwaltung in Italien (540-750), Lipsia 1889; anche C. Calisse, Il governo dei bizantini in Italia, in Rivista storica ital., II (1885); H. Cohn, Die Stellung der byzantinischen Statthalter in Ober- und Mittelitalien, Berlino 1889. Per i dominî della Chiesa, oltre a Duchesne, cit. § 15, cfr. K. Schwarzlose, Die Patrimonien d. röm. Kirche bis zur Grundung des Kirchenstaat, Berlino 1889; id., Die Verwaltung und die finanzielle Bedeutung der Patrimonie d. röm. Kirche, in Zeitschrift f. Kirchengesch., XI (1890); H. Grisar, Ein Rundgang durch die Patrimonie des hl. Stuhls im Jahr. 600, in Zeitschr. f. katholische Theologie, I (1877); id., Verwaltung und Haushalt d. päpstl. Patrimonie um d. Jahr. 600, ibid., I (1877); E. Spearing, The patrimony of the Roman Church in the time of G. the Great, Cambridge 1918; L. M. Hartmann, Grundherrschaft u. Bureaukratie im Kirchenstaat vom VIII. bis zum Jahrh., in Vierteljahrs. f. Sozial- und Wirtschaftsgesch., VII (1909); M. Moresco, Il patrimonio di S. Pietro, Torino 1916; G. Falco, L'amministrazione papale nella Campagna e nella Marittima dalla caduta della dominaz. bizantina al sorgere dei comuni, in Arch. Soc. rom. stor. patria, XXXVIII (1915); O. Vehse, Die päpstliche Herrschaft in der Sabina, in Quellen und Forschungen aus italien. Archiven u. Bibl., XXI (1929-30). Per Roma, L. Halphen, Études sur l'administration de Rome au moyen âge (751-1252), Parigi 1907, ma specialmente P. Fedele, Ricerche per la storia di Roma e del papato nel sec. X, in Arch. Soc. rom. st. patr., XXXIII-IV (1910-11). Per il Mezzogiorno, C. Ciccaglione, Le istituzioni politiche e sociali dei ducati napoletani, Napoli 1892; id., Il diritto in Sicilia e nelle provincie bizantine italiane durante l'alto Medioevo, Catania 1915; id., La Sicilia nella evoluzione della civiltà italiana durante l'alto Medioevo, Catania 1913; R. Poupardin, Études sur les institutions... des principautés lombardes de l'Italie méridionale IXe-XIe siècle, Parigi 1907; N. Tamassia, Condizioni politiche e sociali dell'Italia meridionale prima della conquista dei Longobardi, in Atti istit. veneto, LXVIII (1909). Per i territorî imperiali, P. Darmstädter, Das Reichsgut in der Lombardei u. Piemont (568 bis 1250), Strasburgo 1896; F. Schneider, Die Reichsverwaltung in Toscana, 568-1268, Roma 1914; K. Schrod, Reichstrassen u. Reichverwaltung im Königreich Italiens (754-1197), Stoccarda 1931. Cfr. inoltre E. Ruffini Avondo, I sistemi di deliberazione collettiva nel Medioevo italiano, Torino 1927; G. Mochi Onory, Ricerche sui poteri civili dei vescovi nelle città umbre durante l'alto Medioevo, Roma 1930; id., Vescovi e città nei secoli IV-VI, in Riv. di storia del diritto ital., V (1932); A. Visconti, Ricerche sul diritto pubblico milanese nell'alto Medioevo, in Annali della R. Università di Macerata, IV (1929) e VII (1932); C. Giardina, I "boni homines" in Italia, in Riv. di storia del diritto ital., V (1932; cfr. anche A. Checchini, I "boni homines" nel diritto franco: epoca merovingia, Padova 1909 e A. Cerlini, I "boni homines" nei domini matildici, in Miscell. Rangoni, Reggio Emilia 1911).
Per la questione delle "associazioni" nel periodo precomunale cfr. sopra tutto A. Solmi, Le associazioni in Italia avanti l'origine del comune, Modena 1898 e id., Le corporazioni rom. nelle città dell'Italia sup. nell'Alto Medioevo, in Miscell. Bonfante, IV, Milano 1930; N. Tamassia, Le associazioni in Italia nel periodo precomunale, in Archivio giuridico, LVI (1898); id., Chiesa e popolo. Note per la storia dell'Italia precomunale, in Arch. giurid., 19001-01; C. Calisse, Le associazioni in Italia avanti le origini del comune, Roma 1898; F. Carabellese, L'Apulia e il suo comune nell'Alto Medioevo, Bari 1905; L. Chiappelli, La formazione storica del comune cittadino in Italia (territorio lombardo-tosco), in Arch. stor. ital., LXXXIV-LXXXVIII (1926-30). Per le organizzazioni rurali, fondamentali: R. Caggese, Classi e comuni rurali nel Medioevo italiano, voll. 2, Firenze 1907-09; F. Schneider, Die Entstehung von Burg und Landgemeinde in Italien, Berlino 1924, e G. C. Bognetti, Sulle origini dei comuni rurali nel Medioevo, Pavia 1927. Ma v. anche A. Mazzi, Le vicinie di Bergamo, Bergamo 1884; G. Luzzatto, Intorno alle origini dei comuni rurali d'Italia, in Riv. ital. di sociologia, XI (1907); id., Vicinie e comuni, ibid., XIII (1909); A. Checchini, Comuni rurali padovani, in Nuovo arch. veneto, XVIII (1909); P. Sella, Alcune note sulla vicinia come elemento costitutivo del comune, in Arch. stor. ital., LXIII (1905); id., La "vicinia" come elemento costitutivo del comune, Milano 1908; A. Solmi, Sulle origini del comune rurale nel Medioevo, in Riv. ital. di sociologia, XV (1911); R. Caggese, Chiese parrocchiali e università rurali, in Studi storici, XX (1911-12); A. Sorbelli, La parrocchia dell'Appennino Emiliano nel Medioevo, in Atti e mem. Dep. stor. pat. Romagne, 1910; P. Vaccari, La territorialità come base dell'ordinamento giuridico del contado, Pavia 1923. Anche U. Formentini, Conciliaboli, pievi e corti nella Liguria di Levante, La Spezia 1926.
19. Storia economica e sociale. - Oltre al tentativo di sintesi di G. Salvioli, Storia economica d'Italia nell'alto Medioevo, Napoli 1914, v. soprattutto A. Schulte, Geschichte des mittelalterlichen Handels u. Verkehrs zwischen Westdeutschland und Italien, voll. 2, Lipsia 1900; A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo, trad. ital., Torino 1915; L. M. Hartmann, Zur Wirtschaftsgeschichte Italiens im frühen Mittelalter, Gotha 1904; S. Pivano, I contratti agrari in Italia nell'alto Medioevo, Torino 1904; P. S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel Medioevo, voll. 2, Verona 1903-07; A. Lizier, L'economia rurale nell'età prenormanna nell'Italia meridionale, Palermo 1907; G. Luzzatto, I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche dei secoli IX e X, Pisa 1910; U. Monneret de Villard, L'organizzazione industriale nell'Italia longobarda durante l'alto Medioevo, in Arch. stor. lombardo, XLVI (1919; id., La moneta in Italia durante l'alto Medioevo, in Rivista di numismatica, 1919-20. E anche A. Gaudenzi, Sulla proprietà in Italia nella prima metà del Medioevo, Bologna 1884; L. Calisse, Le condizioni della proprietà territoriale studiate sui documenti della provincia romana dei secoli VIII, IX e X, in Arch. Soc. rom. storia patria, VII e VIII (1884 e 1885); F. Schupfer, L'allodio: studi sulla proprietò nei secoli barbarici, Torino 1886; G. Seregni, La popolazione agricola della Lombardia nell'età barbarica, in Arch. stor. lomb., XXII (1895); G. Battaglia, L'ordinamento della proprietà fondiaria nell'Italia meridionale nel Medioevo, Palermo 1896; M. Roberti, Dei beni appartenenti alle città dell'Italia settentrionale dalle invasioni barbariche al sorgere dei comuni, in Archivio giuridico, 1903; F. Landogna, Su alcuni fiumi auriferi nell'alto Medioevo, in Riv. geogr. ital., XXX (1923); G. Salvioli, Massari e manenti nell'economia italiana medievale, in Vierteljahrsschr. f. Sozial- u. Wirtschaftsgeschichte. Gedächtnisschrift f. G. v. Below, Stoccarda 1928; id., L'Italia agricola nelle lettere di Cassiodoro, in Miscellanea Schipa, Napoli 1926.
Tra le opere generali sulla storia economica del Medioevo, cfr. soprattutto A. Dopsch., Die Wirtschaftsentwicklung d. Karolinger Zeit, voll. 2, Weimar 1912-1913; id., Wirtschaftliche u. Soziale Grundlagen der Europäischen Kulturentwicklung für d. Zeit von Caesar bis auf Karl d. Grossen, volumi 2, Vienna 1927. Cfr. anche A. Schiaffini, Disegno storico della lingua commerciale dai primordi di Roma all'età moderna, I, in L'Italia dialettale, VI (1930).
Per la storia delle vie di comunicazione, ecc., cfr. G. Barelli, Le vie del commercio fra l'Italia e la Francia nel Medioevo, in Boll. stor. bibl. subalp., XII (1907); A. Chiappelli, Per la storia della viabilità nell'alto Medioevo, in Bull. stor. pistoiese, XXVIII (1926); soprattutto P. A. Scheffel, Verkehrsgeschichte d. Alpen, II, Berlino 1914; E. Oehlmann, Die Alpenpässe im Mittelalter, in Jahrbuch f. Schweizerische Geschichte, III e IV (1878-79); E. v. Rodlow, Der Verkehr über d. Passen von Pontebba- Pontafel u. d. Predil im Altertum u. Mittelalter, Praga 1900; O. Wanka ed E. v. Rodlow, Die Brennerstrasse in Altertum u. Mittelalter, Praga 1900; v. alpi, per gli "ospizî", v. soprattuto P. Rajna, Strade, pellegrinaggi ed ospizi nell'Italia del Medioevo, in Atti soc. ital. per il progresso d. scienze, Roma 1912.
20. Rapporti fra Latini e Germani. - Oltre ai celebri studî di C. Troya (Della civile condizione dei Romani vinti dai Langobardi, Napoli 1869), del Manzoni (Discorso sopra la storia longobarda); cfr. P. Del Giudice, La interpretazione manzoniana di due luoghi di Paolo Diacono, in Rend. Ist. lomb., LVI (1923) e di G. Capponi, in Arch. stor. ital., app. 1, 1844; F. Schupfer, Degli ordini sociali e del possesso fondiario appo i Longobardi, in Sitzungsberichte d. Ak. d. Wissensch., XXXV, Vienna 1860; id., Aldi, Liti e Romani, Milano 1886; C. Cipolla, Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del Medioevo, in Rendiconti Acc. Lincei, IX (1900). Per il posteriore processo di fusione dei due elementi, fondamentale G. Volpe, Lombardi e Romani nelle campagne e nelle città, in Studî storici, XIII-XIV (1904-1905).
21. Feudalità e cavalleria. - B. Baudi di Vesme, Origine della feudalità in Piemonte, Pinerolo 1899; A. Rinaldi, Dei primi feudi dell'Italia meridionale, Napoli 1886; A. Solmi, Sull'origine e sulla natura del feudo in Sardegna, in Riv. italiana di sociologia, 1906; S. Pivano, Lineamenti storici della cavalleria medievale, in Mem. Acc. Scienze di Torino, LV, Torino 1905; A. De Francesco, Origini e sviluppo del feudalesimo nel Molise sino alla caduta della dominazione normanna, in Arch. stor. napol., XXXIV-XXXV (1909-10); M. Martini, Feudalità monastica in Puglia, I, Terra di Capitanata, Martina Franca 1915; E. Pontieri, I primordi d. feudalità calabrese, in Nuova riv. stor., IV-V (1929-21); P. S. Leicht, Gasindii e vassalli, in Rend. Acc. Lincei, s. 6ª, III (1927).
22. Storia delle chiese, vescovadi, ecc. - Oltre a A. Pöschl, Bischofsgut u. mensa episcopalis, voll. 3, Bonn 1908-12; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsital. unter den Sächsischen und Salischen Kaisern, Lipsia 1913; G. Salvioli, Storia delle immunità delle signorie e giustizie delle chiese in Italia, Napoli 1917; F. Magni, Ricerche sopra le elezioni episcopali in Italia durante l'alto Medioevo, voll. 2, Roma 1928; G. Forchielli, La Pieve rurale. Ricerche sulla costituzione della Chiesa in Italia e particolarmente nel Veronese, Roma 1931.
Per le controversie fra Roma e Ravenna: P. Luther, Rom. u. Ravenna bis zum IX. Jahrhundert, Berlino 1889; A. Testi Rasponi, La Chiesa di Ravenna da Onorio a Teodorico, in Felix Ravenna, XXX (1925).
Per la storia degli ordini monastici e dei grandi monasteri, oltre alla trattazione riassuntiva di U. Berlière, L'ordine monastico dalle origini al sec. XII, trad. ital., Bari 1928, v. L. Salvatorelli, S. Benedetto e l'Italia del suo tempo, Bari 1929; P. Lugano, L'Italia benedettina, Roma 1929; L. Tosti, Storia della badia di Montecassino, voll. 4, Roma 1888-90; G. Falco, Lineamenti di storia cassinese dall'VIII all'XI sec., in Riv. stor. ital., XLVI (1929; v. anche A. Saba, Montecassino e la Sardegna medievale, Montecassino 1927, e G. Minozzi, Montecassino nella storia del Rinascimento, Roma 1925); I. Schuster, L'abbaye de Farfa et sa restauration au XIe siècle sous Hugues Ier, in Revue Bénédictine, 1907; id., L'imperiale abbazia di Farfa, Roma 1921; P. Egidi, Notizie storiche dell'abbazia Sublacense nel Medioevo, Roma 1904; R. Morghen, Le relazioni del monastero Sublacense col papato, la feudalità, il comune nell'alto Medioevo, in Arch. Soc. rom. stor. pat., LI (1928); A. Gaudenzi, Il monastero di Nonantola, il ducato di Perisceto e la Chiesa di Bologna, in Bull. Ist. stor. ital., 1901-16. nn. 22, 36, 47; l'introd. di C. Cipolla e G. Buzzi all'ed. del Codice diplomatico del monastero di S. Colombano di Bobbio, voll. 3, Roma 1918; v. anche K. Voigt, Die Königlichen Eigenklöster im Langobardenreiches, Gotha 1919.
23. Dottrine politiche. - A. Solmi, Stato e Chiesa negli scritti politici da Carlo Magno al trattato di Worms, Modena 1901; e in genere A. I. Carlyle, History of medieval political theory in the West, voll. 5, Londra; A. Dempf, Sacrum imperium, trad. ital., Messina 1933, e P. E. Schramm, cit. § 15.
Tradizione di Roma nel Medioevo. - A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, voll. 2, Torino 1882-83, rist. 1923; F. Novati, L'influsso del pensiero latino sopra la civiltà ital. del Medioevo, 2ª ed., Milano 1891; F. Schneider, Rom. u. Romgedanke im Mittelalter, Berlino 1926; e soprattutto P. E. Schramm, cit. § 15. E, per il formarsi del sentimento nazionale italiano, G. Volpe, Albori d. nazione it., in Mom. di st. it., cit.; P. Fedele, Accenni d'italianità in Montecassino nel Medioevo, in Bull. Ist. st. it. e Arch. murator., 1932.
Storia della cultura. - G. De Leva, Del movimento intellettuale d'Italia nei primi secoli del Medioevo, Venezia 1877; G. Salvioli, L'istruzione pubblica in Italia prima del Mille, 2ª ed., Firenze 1908; A. Dresdner, Kultur- u. Sittengeschichte der italienischen Geistlickheit im X. u. XI. Jahrh., Breslavia 1890; F. Novati e A. Monteverdi, Le origini, Milano 1926 (nella Storia lett. d'Italia di F. Vallardi); R. Falk, Italienisch.-deutsche Kulturbeziehungen in der Zeit 900-1056, in Archiv für Kulturgeschichte, 1923. Assai importante D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, 2ª ed., voll. 2, Firenze 1896; A. Graf, Miti leggende e superstizioni del Medioevo, voll. 2, Torino 1892-93; G. Bertoni, Poesie, leggende, costumanze del Medioevo, 2ª ed., Modena 1917. E per gli studî di diritto in specie, G. Mengozzi, Ricerche sull'attività della scuola di Pavia nell'alto Medioevo, Pavia 1924; A. Solmi, Sulla persistenza della scuola di Pavia nel Medioevo fino alla fondazione dello studio generale, in Rend. Ist. lomb., s. 2ª, LVIII (1925).
Singoli periodi. - 24. Regno di Odoacre e periodo goto. - Oltre a Cessi (§ 18), A. Gaudenzi, Sui rapporti tra l'Italia e l'impero d'Oriente fra gli anni 476 e 544 d. C., Bologna 1888; F. Bertolini, La signoria di Odoacre e le origini del Medioevo, in Saggi critici di storia italiana, Milano 1883; E. Loncao, La fondazione del regno di Odoacre e i suoi rapporti con l'Oriente, Scansano 1906; C. Cipolla, Considerazioni sul concetto di stato nella monarchia di Odoacre, in Rendiconti Acc. Lincei, XX (1911); G. Garollo, Teodorico re dei Goti e degli Italiani, Firenze 1878-79; Th. Hodgkin, Theodoric the Goth, the barbarian champion of civilisation, Londra 1891; M. Dumoulin, Le gouvernement de Théodoric et la domination des Ostrogoths en Italie d'après les œuvres d'Ennodius, in Revue Historique, LXXVIII e LXXIX (1902); L. Sorrentino, Il regno di Teodorico rispetto alla politica ed al diritto, Napoli 1904; Azzariti, Leggi, istituti e Chiesa nel governo di Teodorico ed il panegirico di Ennodio, Napoli 1906; L. Ginetti, Il governo di Amalasunta e la Chiesa di Roma, Siena 1902; id., L'Italia gotica di Procopio da Cesarea, Siena 1904; Th. Mommsen, Ostgotische Studien, in Neues Archiv, XIV e XV; H. Kohl, Zehn Jahre Ostgotischer Geschichte 524-536, Lipsia 1877; H. Lenthold, Untersuchungen zur ostgotischen Geschichte der Jah. 535-537, Jena 1908. Inoltre A. Gaudenzi, Gli editti di Teodorico e di Atalarico ed il diritto romano nel regno degli Ostrogoti, Torino 1884; id., L'opera di Cassiodoro a Ravenna, in Atti e memorie Dep. stor. pat. Romagne, s. 3ª, III (1885); P. Del Giudice, Sulla questione della unità o dualità del diritto in Italia sotto la dominazione ostrogota, in Nuovi studi di storia e diritto, Milano 1913; C. Calisse, Il diritto di Teodorico in Italia, Macerata 1889; R. Cessi, Lo scisma laurenziano e le origini della dottrina politica della Chiesa di Roma, in Arch. Soc. rom. stor. patr., XLII (1919); id., Dallo scisma laurenziano alla pacificazione religiosa dell'Oriente, ibid., XLIII (1920). V. anche odoacre; ostrogoti; teodorico.
25. Italia bizantina. - Oltre le opere di cui al § 15, cfr. A. Gasquet, L'empire bizantyn et la monarchie franque, Parigi 1888 e J. R. Bury, The naval policy of the Roman Empire in relation to the Western provinces from the seventh to the ninth century, in Centenario della nascita di M. Amari, II, Palermo 1910; A. Hofmeister, Amalfi in byzantin. Zeit, in Byzant.-neugriech. Jahrbücher, 1920; B. Pace, I Barbari e i Bizantini in Sicilia, studî sulla storia dell'isola dal sec. V al IX, in Arch. stor. siciliano, XXXV-XXXVI (1910-11); cfr. belisario; giustiniano.
26. Papato. - Oltre le opere di cui al § 15, H. Grisar, Des römische Primat nach der Lehre und Regierungspraxis Gregors der Grossen, in Zeitschr. f. Katol. Theologie, III (1879); F. Görres, Papst Gregor der Grosse und Kaiser Phocas, in Zeitschr. f. Wissenschaftl. Theologie, XLIV (1901); C. M. Patrono, Dei conflitti tra l'imperatore Maurizio Tiberio e il papa Gregorio Magno, in Rivista di storia antica, Messina 1909. Inoltre G. Romano, L'origine del potere civile e della signoria territoriale dei papi, Pavia 1905. Complessivo, ma assai mediocre F. Tarducci, Storia di Gregorio Magno e del suo tempo, Roma 1904.
27. Italia longobarda. - Oltre a N. Tamassia, Longobardi, Franchi e Chiesa romana fino ai tempi di re Liutprando, Bologna 1888 e F. Tarducci, L'Italia dalla discesa di Alboino alla morte di Agilulfo, Città di Castello 1914 (mediocre), cfr. in particolare A. Crivellucci, In che anno i Longobardi sono entrati in Italia. La data della morte di Alboino. La durata dell'assedio di Pavia. Dei primi duchi longobardi del Friuli. Le chiese cattoliche e i Longobardi ariani in Italia, in Studi storici, I, II, IV-VI (1892, 1893, 1895-97); R. Cessi, Le prime conquiste longobarde in Italia, in Nuovo arch. veneto, n. s., XXXV (1918); O. Bertolini, La data d'ingresso dei Longobardi in Italia, in Boll. soc. pavese, 1920 (contro, R. Cessi, I Longobardi in Italia, in Atti Acc. Padova, n. s., XXXVIII, 1921-22); L. Schmidt, Datum u. Weg der langobard. Einwanderung in Italien, in Hist. Vierteljahr., 1927; P. Roviglio, Intorno alla storia dei Longobardi, Udine 1916; G. P. Bognetti, Congetture sulla dominazione longobarda nell'alto Ticino, in Arch. stor. Svizzera ital., 1931; H. Pabst, Geschichte d. langob. Herzogthums, in Forschungen z. deutsch. Geschichte, Gottinga 1862; L. Duchesne, Les évêchés d'Italie et l'invasion lombarde, in Mélanges d'archéol. et d'histoire, XXIII e XXV (1903 e 1906). Per i ducati di Spoleto e Benevento, cfr. F. Hirsch, Il ducato di Benevento, trad. it., Torino 1890; Jenny, Gesch. d. langobardischen Herzogthums Spoleto, Basilea 1890; M. Schipa, cit. al § 16; G. Pochettino, I Longobardi nell'Italia meridionale (570-1080), Caserta 1930. Inoltre, T. Manteuffel, L'espansione franca in Italia nei secoli VI e VII (in polacco), in Sprawozd. Akad. Umiejętności, 1926; id., I rapporti politici franco-italiani nel sec. VI (in polacco), Cracovia 1927; G. Löhlein, Die Alpen u. Italienpolitik d. Merowinger im VI Jahr., Erlangen 1932. Cfr. longobardi; rotari, Editto di; benevento e spoleto, Ducati di.
28. Longobardi, Bizantini, Franchi e Papato nel sec. VIII. - W. Martens, Politische Geschichte d. Langobarden unter König Liutprand, Heidelbereg 1880; M. Rosi, Longobardi e Chiesa romana al tempo di re Liutprando, Catania 1890; G. Monticolo, Le spedizioni di Liutprando nell'esarcato, in Arch. Soc. romana storia patria, XV (1892); A. Gasquet, Le Royaume lombard: ses relations avec l'empire grec et avec les Francs, in Revue historique, XXIII (1886); J. Gay, L'État pontifical, les Byzantins et les Lombards sur le littoral campanien, in Mélanges d'archéologie et d'hist., XXI (1901); C. Bayet, Remarques sur le caractère et les conséquences du voyage d'Étienne III en France, in Revue historique, 1883; S. Abel, Der Untergang des Langobardenreiches in Italien, Gottinga 1859; A. Breyton, Remarques sur les causes qui ont facilité la conquête franque en Lombardie, in G. Bardot, P. Pouzet, Breyton, Mélanges carolingiens, Parigi 1890; F. Hirsch, Papst Hadrian I. u. das Fürstenthum Benevent, in Forsch. z. deutsch. Geschichte, 1873; E. Robiony, Le guerre dei Franchi contro i principi di Benevento, Napoli 1901; R. Poupardin, Études sur l'histoire des principautés lombardes de l'Italie méridionale et de leurs rapports avec l'empire franc, in Le Moyen âge, XIX-XX (1907). V. anche carlomagno.
29. Età carolingia. - G. Pochettino, I Pipinidi in Italia (sec. VIII-IX), in Arch. stor. lomb., LIII (1927); B. Malfatti, Bernardo re d'Italia, Firenze 1876; F. Besta, Le ragioni ed i criteri della divisione del regno italico progettata nell'806 da Carlo Magno, in Rend. Ist. lomb., s. 2ª, LX (1927); F. Hirsch, Die Schenkung Kaiser Karls des Kahlen für papst Johann VIII. und der Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, in Forschungen z. deutsch. Geschichte, 1886; E. Perels, Papst Nikolaus I. und Anastasius Bibliothecarius, Berlino 1920; G. Pochettino, L'imperatrice Angelberga, in Arch. stor. lomb., XLVII (1921); A. Falce, La formazione della marca di Tuscia (secoli VIII-IX), Firenze 1930; A. Vicinelli, Bologna nelle sue relazioni col Papato e l'Impero dal 774 al 1278, Bologna 1922.
30. Età dei re d'Italia, da Berengario I ad Arduino. - Fondamentali S. Pivano, Stato e Chiesa da Berengario I ad Arduino (888-1015), Torino 1908; J. Gay, L'Italie méridionale et l'empire byzantin (867-1071), Parigi 1904; e P. Fedele, cit. al § 18. Cfr. inoltre P. Hirsch, Erhebung Berengars I. v. Friaul zum König in Italien, Strasburgo 1910; A. Segre, Note berengariane, in Arch. stor. ital., LXIV (1906); M. A. Levi, Contributi alla storia dei re d'Italia nel sec. X, in Atti Acc. Torino, LXIII (1927-28); P. Fedele, La battaglia del Garigliano dell'anno 915, in Arch. Soc. rom. stor. patr., XXII (1899; e O. Vehse, Das Bündnis gegen die Sarazenen vom Jahre 915, in Quellen und Forschungen aus italien. Archiv., XIX, 1927); P. Fedele, Sull'origine dei Frangipane, in Arch. Soc. rom. stor. patr., XXXIII (1910); L. Duchesne, Serge III et Jean II, in Mélanges d'arch et d'hist., 1913; G. Bossi, I Crescenzi, in Rend. Acc. pont. d. arch., 1913; W. Sickel, Alberich II. u. die Kirchenstaat, in Mitt. d. Inst. f. österr. Geschichtsforschung, XXIII (1902); A. Visconti, La legislazione di Ottone I come conseguenza della restaurazione politica dell'Impero, in Arch. stor. lomb., LII (1925); F. Schneider, Papst Johan XV. u. Otto's III. Romfahrt, in Mitt. d. Inst. f. österr. Geschichtsforsch., XXXIX (1922); L. Halphen, La Cour d'Othon III à Rome, in Mélanges d'arch. et d'hist., XXV (1905); K. Hampe, Kaiser Otto III. u. Rom, in Hist. Zeitschrift, CXL (1929); B. Baudi di Vesme, Il re Arduino e la riscossa italica contro Ottone III e Arrigo II, Pinerolo 1900.
Inoltre G. Buzzi, Ricerche per la storia di Ravenna e di Roma dall'850 al 1118, in Arch. Soc. romana storia patria, XXXVIII (1915); B. Schmeidler, Venedig u. das deutsche Reich 983-1024, in Mitt. d. Inst. f. österreich. Geschichtsforschung, XXV (1904); W. Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria, Strasburgo 1897; A. Falce, Il marchese Ugo di Toscana, Firenze 1923; C. Patrucco, I Saraceni nelle Alpi Occidentali e specialmente in Piemonte, in Studi sulla storia del Piemonte avanti il 1000, Bibl. Soc. stor. subalpina, XXXII, Pinerolo 1908; C. W. Previté Orton, Italy and Provence, 900-950, in English Historical Review, 1917. Cfr. anche S. Pivano, Le famiglie comitali di Parma, dal secolo IX all'XI, in Arch. stor. parm., n. s., XXII bis (1922); id., Il "comitato" di Parma e la "marca" lombardo-emiliana, ibid., XXII (1922); E. Nasalli Rocca, Sui poteri comitali del vescovo di Piacenza, in Riv. stor, ital., XLIX (1932); L. Chiappelli, I conti Cadolingi, i conti Guidi ed il comitatus pistoriensis, in Bull. stor. pist., XXXIV (1932); U. Formentini, Sulle origini e la costituzione di un grande gentilizio feudale, in Atti Soc. lig. stor. patr., LIII (1926).
Anche S. Loewenfeld, Leo von Vercelli, Gottinga 1877; H. Block, Beiträge zur Geschichte des Bischofs Leo von Vercelli u. seiner Zeit, in Neues Archiv, 1896; N. Tamassia, Raterio e l'età sua, in Studî giuridici dedicati a F. Schupfer, II, Torino 1898; W. Franke, Romuald von Camaldoli u. seine Reformtätigkeit zur Zeit Otto III., Berlino 1913. Cfr. anscarici; crescenzî; obertenghi.
Per gli Arabi in Sicilia, M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, voll. 4, Firenze 1854-68 (2ª ed., accresc. a cura di A. Nallino, I, Catania 1933). Inoltre A. Rossi, Delle cause della sollevazione di Eufemio contro la dominazione bizantina in Sicilia, in Studî storici, Bologna 1905; F. Gabotto, Eufemio da Messina e il movimento separatista nell'Italia bizantina, Torino 1892; A. Finocchiaro, Giziah e Kharagi, note sulla condizione dei vinti in Sicilia, in Arch. giurid., LXXXI (1908).
31. Età degl'imperatori franconi e della lotta per le investiture. - V. anzitutto G. B. Borino, Per la storia della riforma della Chiesa, in Arch. Soc. romana storia patria, XXXVIII (1915); id., L'elezione e la deposizione di Gregorio VI, ibid., XXXIX (1916); A. Fliche, Études sur la polémique religieuse à l'époque de Grégoire VII. Les Prégrégoriens, Parigi 1916; id., Le pontificat de Victor III, in Revue hist. éccl., Lovanio 1924; id., La Réforme Grégorienne, voll. 2, Lovanio 1924-25; J. Gay, Les papes du XIe siècle et la chrétienté, Parigi 1926; E. Voosen, Papauté et pouvoir civil à l'époque de Grégoire VII, Gembloux 1927; G. Falco, La riforma gregoriana, in Annali istruzione media, 1930; A. Amelli, La Chiesa di Roma e la Chiesa di Milano nella elezione di papa Alessandro III, Firenze 1910; id., S. Bruno di Segni, Gregorio VII ed Enrico IV in Roma, Montecassino 1903; B. Gigalski, Bruno, Bischof von Segni, Münster 1898; P. Rotondi, Ariberto d'Intimiano, in Arch. stor. ital., XXX (1863); id., La Pataria in Milano, in Arch. stor. lomb., XIV (1887); H. Pabst, De Ariberto II. Mediolanensi, primisque medii aevi motibus, Berlino 1864; A. Amati, Ariberto e Lanzone ossia il risorgimento del comune di Milano, Milano 1865; W. Wicherkiewicz, Die Kirchliche Stellung der Erzbischöfe von Mailand zur Zeit der Pataria, Breslavia 1875; M. Pfenninger, Kaiser Konrads II. Beziehungen zu Aribo von Mainz, Pilgrim von Köln, und Aribert von Mailand, Breslavia 1891; C. Pellegrini, I santi Arialdo ed Erlembaldo, Milano 1897; P. M. Brown, Movimenti politico-religiosi in Milano ai tempi della Pataria, in Arch. stor. lomb., LVII (1932).
Inoltre A. Falce, Bonifacio di Canosa, voll. 2, Reggio Emilia 1926; N. Grimaldi, La contessa Matilde e la sua stirpe feudale, Firenze 1927; A. Overmann, Gräfin Mathilde von Tuscien, ihre Besitzungen, 1125-1230, Innsbruck 1895; C. W. Previté Orton, The Early History of the House of Savoy, Cambridge 1912; F. Cognasso, Umberto Biancamano, Torino 1930; e, per le varie stirpi feudali, l'excursus IV (Zur Genealogie u. Geschichte der hervorragenden Dynastengeschlechter Ober- und Mittelitaliens im 11. Jahrh.), in H. Bresslau, Jahrbücher des Deutschen Reiches unter Konrad II., I, Lipsia 1879. Per i rapporti Roma-Venezia, P. Kehr, Rom u. Venedig bis XII. Jahrh., in Quellen u. Forschungen aus italien. Archiven u. Bibl., XIX (1927). V. anche A. Solmi, La distruzione del palazzo regio di Pavia nell'anno 1024, in Rend. Ist. lombardo, LVII (1929); U. Formentini, Nuove ricerche intorno alla Marca della Liguria Orientale. La conquista della Corsica, in Giornale stor. e lett. della Liguria, I (1925); B. Capasso, Il pactum giurato dal duca Sergio ai Napoletani (1030), in Arch. stor. napoletano, IX (1884).
Cfr. investiture, Lotta delle; pataria.
Età del regno normanno-svevo e dei comuni (sino al 1266).
Opere di carattere generale. - 32. Trattazioni complessive. - Non esistono trattazioni complessive, veramente aggiornate e rispondenti ai risultati raggiunti, in studî particolari, in quest'ultimo trentennio. Oltre alle opere, ormai invecchiate, di S. Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge voll. 16, Parigi 1809-18 (molte ed., trad. ital., Capolago 1831-32); di K. Hegel, Storia della costituzione politica dei municipi italiani, trad. ital., voll. 2, Milano 1841; di P. Emiliani-Giudici, Storia politica dei municipi italiani, 2ª ed., voll. 3, Firenze 1864-66, v. F. Lanzani, Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313, Milano 1882 (nella collezione F. Vallardi; assai preferibile al mediocrissimo volume di F. Gianani, I Comuni 1000-1300, Milano s. a., che era destinato a sostituirlo), e W. F. Butler, The lombard Communes, Londra 1906. Sommario e superficiale J. Luchaire, Les démocraties italiennes, Parigi 1915; né di molto valore anche P. Villari, L'Italia da Carlo Magno alla morte di Arrigo VII, Milano 1910. Dal punto di vista giuridico cfr. A. Solmi, Il comune nella storia del diritto, in Enciclopedia giuridica italiana, Milano 1922; troppo schematico e sociologico G. Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell'età dei comuni, Roma-Torino 1905.
Per le relazioni fra papato e impero dal 1122 al 1167, ottimo U. Balzani, Italia, Papato e Impero nel sec. XII, Messina 1930.
Per il regno normanno, ottimo F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, voll. 2, Parigi 1907. Per l'età sveva utile W. Cohn, L'età sveva, trad. ital., Catania 1930.
Le vedute più originali e profonde su questo periodo di storia italiana - eccettuato il regno normanno - si devono quindi ricercare in lavori particolari.
33. Comuni. - Fondamentali gli studî di G. Volpe, Questioni fondamentali sull'origine e svolgimento dei comuni italiani, Pisa 1904; id., Lombardi e Romani nelle campagne e nelle città, cit. § 20; id., Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, 2ª ed., Firenze 1926; id., Per la storia delle giurisdizioni vescovili nella costituzione comunale e dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa nelle città italiane dei secoli XII-XIII, in Studî stor., XIX-XXI (1910-13); id., Il sistema della costituzione econom. e sociale italiana nell'età dei Comuni, ora in Medioevo ital., Firenze 1923; id., Chiesa e stato di città nell'Italia medievale, in Medioevo ital., cit.; id., Studî sulle istituzioni comunali a Pisa nei secoli XII-XIII, Pisa 1902; id.; Volterra, Firenze 1923; id., Lunigiana medievale, Firenze 1923. V. anche N. Ottokar, I comuni, in Encicl. it., XI, pp. 17-25, e, a parte, in Civiltà moderna, II (1930).
Tra gli studî dedicati a singoli comuni, ma che hanno la massima influenza per le concezioni d'insieme dell'età comunale, v. soprattutto P. Santini, Studi sull'antica costituzione del comune di Firenze, in Arch. stor. ital., LIII (1895), LVIII-LXI (1900-1903) (e anche La società delle torri in Firenze, ibid., XLV 1887); L. Simeoni, Le origini del comune di Verona, in Nuovo arch. ven., XXI (1913); id., Il comune veronese sino a Ezzelino e il suo primo statuto, in Miscell. storia veneta, s. 3ª, XV (1920); A. Solmi, Le leggi più antiche del comune di Piacenza, in Arch. stor. ital., LXXIII (1915); G. De Vergottini, Il "popolo" nella costituzione del comune di Modena sino alla metà del sec. XIII, in Miscell. P. Rossi, Siena 1931; e ancora il vecchio ma importante saggio di F. Schupfer, La società milanese all'epoca del risorgimento del Comune, in Arch. giuridico, 1869-70; G. Falco, Il comune di Velletri nel Medioevo, in Arch. Soc. rom. stor. patr., XXXVI-XXXIX (1913-16) e I comuni della Campagna e della Marittima nel Medioevo, ibid., XLII-XLIX (1919-1926). Assai utile anche, per il periodo del "capitanato del popolo" (metà del sec. XIII), E. Salzer, Über die Anfänge der Signorie in Oberitalien, Berlino 1900.
Sulle "origini" dei comuni cfr. F. Gabotto, Il comune a Cuneo nel sec. XIII e le origini comunali in Piemonte, in Boll. stor. bibl. sub., V (1900); id., Le origini signorili del Comune, in Boll. stor. bibl. sub., VII-VIII (1902-03); id., Dalle origini del Comune a quelle della Signoria, in Atti congr. int. sc. stor., Roma 1903; id., Intorno alle vere origini comunali, in Arch. stor. ital., LXIII (1905); G. Volpe, Una nuova teoria sulle origini del Comune, in Arch. stor. ital., LXII (1904).
34. Comuni rurali. - Oltre ai lavori di cui al § 18, e specialmente quelli del Bognetti, Caggese, Schneider, cfr. G. Mengozzi, Il comune rurale nel territ0rio lombardo-tosco, in Studî senesi, XXXI (1915); G. Seregni, Del luogo di Arosio e dei suoi statuti nei secoli XII-XIII, in Miscell. stor. ital., XXXVIII (1902); E. Riboldi, I contadi rurali del milanese (secoli IX-XII), in Arch. stor. lomb., XXXI (1904); V. Fainelli, Intorno alle origini dei comuni rurali veronesi, in Nuovo arch. veneto, n. s., XXV (1913); L. Simeoni, Il comune rurale nel territorio veronese, ibid., n. s., XLII (1921); A. Checchini, Comuni rurali padovani, ibid., n. s., XVIII (1909); A. Palmieri, Gli antichi castelli comunali dell'Appennino Bolognese, Bologna 1905; id., Feudatari e popolo della montagna bolognese, in Atti e mem. dep. stor. patr. Romagne, s. 4ª, IV (1914); A. Sorbelli, La parrocchia dell'Appennino Emiliano nel Medioevo, cit. § 18; G. Salvemini, Un comune rurale del sec. XIII, in Studî storici, Firenze 1901.
Per i servi della gleba e la loro liberazione cfr. A. Palmieri, Sul riscatto dei servi della gleba nel contado bolognese, in Arch. giur., 1906; A. Piccarolo, Abolizione della servitù della gleba nel Vercellese, Vercelli 1896, e specialmente P. Vaccari, L'affrancazione dei servi della gleba nell'Emilia e nella Toscana, Bologna 1926. Per i rapporti città-contado, v. G. De Vergottini, Origini e sviluppo della comitatinanza, in Studî senesi, 1929; E. Zorzi, Il Territorio padovano nel periodo di trapasso da comitato a comune, in Miscell. stor. veneta, 1930.
35. Regno normanno. - Oltre lo Chalandon, cfr. E. Caspar, Roger II. (1105-1154) und die Gründung der normannisch- sicilischen Monarchie, Innsbruck 1905; G. B. Siragusa, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, 2ª ed., Palermo 1929, e gli studî di varî autori raccolti in Il Regno normanno, Messina 1932.
36. Papato e Impero. - Per il papato soprattutto A. Luchaire, Innocent III, voll. 6, Parigi 1905-08 (il vol. I è dedicato all'Italia); W. Norden, Das Papsttum u. Byzanz, Berlino 1903.
Per l'Impero, oltre a K. Hampe, Deutsche Kaisergeschichte in der Zeit der Salier u. Staufer, 5ª ed., Lipsia 1923, v. H. Simonsfeld, Jahrb. des deut. Reiches unter Friedrich I., I (1152-58), Lipsia 1908; E. Winkelmann, Philipp v. Schwaben u. Otto IV. v. Braunschweig, voll. 2, Lipsia 1873-78; su Federico II, soprattutto l'introd. di J.-L. Huillard-Bréholles alla Historia Diplomatica Friderici II, I, Parigi 1852; E. Winkelmann, Kaiser Friedrich II., voll. 2 (fino al 1233), Lipsia 1889-97; E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich II., voll. 2, Berlino 1927-31.
Per gli ultimi Svevi, F. W. Schirrmacher, Die letzten Hohenstaufen, Gottinga 1871; A. Karst, Geschichte Manfreds (fino al 1258), Berlino 1897; K. Hampe, Urban IV. und Manfred (1261-64), Heidelberg 1905; A. Bergmann, König Manfred v. Sizilien. Vom Tode Urbans IV. bis zur Schlacht bei Benevent 1264-66, Heidelberg 1909; K. Hampe, Gesch. Conradins v. Hohenstaufen, Innsbruck 1894 (v. anche corradino di svevia; enrico vi; federico ii; federico barbarossa; manfredi).
Per i rapporti con Bisanzio, oltre a Norden, cit. cfr. F. Chalandon, Les Comnènes, voll. 2, Parigi 1900-02; L. Bréhier, L'Église et l'Orient au Moyen Âge. Les Croisades, 3ª ed., Parigi 1911; B. Leib, Rome, Kiev et Byzance à la fin du XIe siècle, Parigi 1929. Cfr. crociate.
37. Per la storia di particolari istituti e magistrature. - A. Pawinski, Zur Entstehungsgeschichte des Konsulats in den Kommunen Nord- u. Mittel Italiens, Berlino 1867; L. v. Heinemann, Zur Entstehung d. Stadtverfassung in Italien, Lipsia 1896; R. Davidsohn, Origine del consolato, con speciale riguardo al contado di Firenze e di Fiesole, in Arch. stor. ital., L (1892); e Über die Entstehung des Konsulats in Toscana, in Hist. Vierteljahr., 1900; utile, ma assai limitato nell'argomento, Hanauer, Das Berufspodestat im dreizeh. Jahrh., in Mitt. d. Inst. f. Österr. Geschichtsforsch., XXIII (1902); V. Franchini, L'istituto del consolato nei Comuni medievali, in Mem. Acc. Modena, 1907; id., Saggio di ricerche sull'istituto del podestà nei Comuni medievali, Bologna 1912; E. Sestan, Ricerche intorno ai primi podestà toscani, in Arch. stor. ital., LXXXII (1924). V. anche A. Schaube, Das Konsulat des Meeres in Pisa, Lipsia 1888; E. Besta, Il Senato veneziano, in Miscell. stor. ven., s, 2ª, V (1899); P. S. Leicht, Il parlamento della Patria del Friuli, Udine 1903; M. Chiudano, Le curie sabaude nel sec. XIII, Torino 1927.
Sulle corporazioni, oltre a F. Pozza, Le corporazioni d'arti e mestieri a Vicenza, in Nuovo arch. veneto, n. s., X (1895); M. Gicheli, Le corporazioni parmensi d'arti e mestieri, Parma 1899; A. Gaudenzi, Le società delle arti in Bologna nel sec. XIII: i loro statuti e le loro matricole, in Boll. Ist. stor. ital., XXI (1899); M. Roberti, Le corporazioni padovane d'arti e mestieri, Venezia 1902; L. Simeoni, Gli antichi statuti delle arti veronesi, Venezia 1914; v. specialmente A. Doren, Entwicklung u. Organisation d. Florentiner Zünfte im XIII. u. XIV, Jahrh., Lipsia 1897; R. Eberstadt, Magisterium und Fraternitas, Lipsia 1910; id., Der Ursprung des Zunftwesens... des Mittelalter, 2ª ed., Monaco 1915; e un riassunto accurato in F. Valsecchi, Le corporazioni nell'organismo politico del Medioevo, Milano 1931 (con ricca bibl.).
Per le società "delle armi", v. A. Gaudenzi, Gli statuti della società delle armi del popol0 di Bologna, in Boll. Ist. stor. ital., 8 (1889).
Sul diritto statutario, le consuetudini, ecc.: A. Lattes, Studi di diritto statutario, Milano 1887; id., Il diritto consuetudinario nelle città lombarde, Milano 1899 (assai importante); E. Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, Venezia 1900; M. Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, voll. 3, Padova-Venezia 1907-11; B. Pitzorno, Le consuetudini giudiziarie veneziane anteriori al 1229, in Miscell. stor. ven., s. 3ª, II (1910); A. Solmi, Alberto da Gandino e il diritto statutario nella giurisprudenza del sec. XIII, in Riv. ital. scienze giuridiche, XXXII (1902); N: Alianelli, Delle consuetudini e degli statuti municipali nelle prov. napoletane, voll. 2, Napoli 1871-3; F. Pepere, Le consuetudini dei comuni dell'Italia merid. e il loro valore storico, Napoli 1880; W. v. Brünneck, Siciliens mittelalt. Stadtrechte, Halle 1881; F. Ciccaglione, Le origini delle consuetudini sicule, Torino 1900; id., Le leggi locali napoletane e siciliane del basso Medioevo e le pretese traccie di diritto germanico, Catania 1917; L. Genuardi, La formazione delle consetudini di Palermo, in Arch. stor. siciliano, n. s., XXXI (1906); e l'ottimo vol. di F. Calasso, La legislazione statutaria dell'Italia Meridionale, I, Roma 1929. E cfr. A. Lizier, La vita sociale nei secoli XII-XV nella legislazione generale degli statuti italiani, in Riv. it. di sociologia, XXII (1900); D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comunale, Torino 1916; S. Mochi Onory, L'applicazione pratica del diritto statutario, app. VII al Boll. Deput. st. patria Umbria, Perugia 1927.
Per la legislazione nel regno normanno-svevo, cfr. H. Niese, Die Gesetzgebung d. normann. Dynastie in Regnum Siciliae, Halle 1910 (anche A. Del Vecchio, La legislazione di Federico II imperatore, Torino 1884); R. Trifone, Le paci territoriali tedesche e le costituzioni sveve del regno di Sicilia, in Miscell. Schipa, Napoli 1925; G. Cocchiara, Federico II legislatore e il regno di Sicilia, Torino 1927. E cfr. F. Brandileone, Il diritto romano nelle leggi normanne e sveve del regno di Sicilia, Torino 1889; V. La Mantia, Cenni storici su le fonti del diritto greco-romano e le assise e le leggi dei re di Sicilia, Torino 1887.
38. Storia economica. - Oltre a Schaube e Schulte (§ 19), cfr. G. Heyd, Storia del commercio del Levante nel Medioevo, trad. it., Torino 1913; G. Yver, Le commerce et les marchands dans l'Italie méridionale au XIIIe et au XIVe siècle, Parigi 1903; H. Sieveking, Die kapitalistische Entwicklung in den italienischen Städte des Mittelalters, in Vierteljärh. f. Sozial- u. Wirtschaftsgeschichte, VII (1909); R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus in Venedig, Stoccarda 1905; R. Ciasca, L'arte dei medici e degli speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal sec. XII al XIV, Firenze 1927; E. H. Byrne, Genoese Trade with Syria in the Twelfth Century, in American Hist. Review, 1920; id., Genoese Shipping in the Twelfth and Thirteenth Century, Cambridge (U. S.), 1930; R. L. Reynolds, Genoese trade in the late Twelfth Century, in Journal of Economic and Business History, 1931; J. Bratianu, Le commerce génois dans la Mer Noire, Parigi 1931; A. E. Sayous, Dans l'Italie à l'intérieur des terres: Sienne de 1221 à 1229, in Annales d'histoire économique et sociale, 1931; M. Chiaudano, Aspetti dell'espansione mercantile italiana all'estero nel sec. XIII, Camerino 1932; L. Zanoni, Gli Umiliati nei loro rapporti con l'eresia, l'industria della lana e i comuni nei secoli XII e XIII, Milano 1911 (anche A. Doren, Die Florentiner Wollentuchindustrie, cit. a § 57); G. Renard, Histoire du travail à Florence, voll. 2, Parigi 1913-1914. Per l'industria mineraria G. Volpe, Montieri: costituzione... e attività economica d'una terra mineraria toscana nel sec. XIII, in Vierteljärh. f. Sozial- u. Wirtschaftsgeschichte, VI (1908). Cfr. anche L. T. Belgrano, L'interesse del denaro e le cambiali appo i Genovesi dal sec. XII al XIV, in Arch. stor. ital., s. 3ª, III (1866). Per i rapporti commerciali con l'estero; L. Gauthier, Les Lombards dans le Deux-Bourgognes, Parigi 1907; P. Morel, Les Lombards dans la Flandre française et le Hainault, Lilla 1908; V. Franchini, Gli italiani alla fiera di Sciampagna, in Riv. int. sc. soc., 1926 (anche C. Paoli, Siena alle fiere di Sciampagna, in Conf. comm. sen. st. patr., IV, Siena 1898); C. Piton, Les Lombards en France et à Paris, voll. 2, Parigi 1892-3; L. Hutchinson, Oriental trade and the rise of the Lombard Communes, in Quarterly Journal of Economics, XVI (1902); F. Patetta, Caorsini senesi in Inghilterrra nel sec. XIII, in Boll. sen. stor. patr., IV (1897); L. R. Reynolds, Merchants of Arras and the Overland trade with Genoa XIIth cent., in Revue belge de philologie et d'histoire, IX (1930); L. Mirot, Études lucqoises: la colonie lucquoise à Paris du XIIIe au XIVe siècle, Parigi 1930. Sempre fondamentale H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig u. die deutsch-venetian. Handelsbeziehungen, voll. 2, Stoccarda 1887. Per i rapporti commerciali fra stati italiani, F. Carabellese, Relazioni commerciali fra la Puglia e la rep. di Venezia dal sec. X al XV, Roma 1897.
Per le compagnie bancarie anche Q. Senigaglia, Le compagnie bancarie senesi nei secoli XIII e XIV, in Studi Senesi, XXIV-XXV (1907-08). Per l'industria B. Cecchetti, Le industrie in Venezia nel sec. XIII, in Arch. veneto, IV (1872); G. B. Zanazzo, L'arte della lana in Vicenza (sec. XIII-XIV), in Miscell. storia veneta, s., 3ª, VI (1914); A. Schulte, La lana come promotrice della floridezza economica dell'Italia nel medioevo, in Atti del III Congresso intern. di scienze storiche, Roma 1903; G. Bigwood, Un marché de matières premières, laines d'Angleterre et marchands italiens vers la fin du XIIIe siècle, in Annales d'hist. économique et sociale, I (1930).
V. anche L. Genuardi, Commercio e diritto marittimo in Napoli nei secoli XIII, XIV e XV, in Miscell. Schipa, Napoli 1926.
Per gli studi di storia economica v. la rassegna di V. Porri, in Riv. stor. ital., XLVII (1930); G. Luzzatto, The Study of Medieval Econ. Hist. in It.: Recent Literature and Tendencies, in Journal of Economic and Business History, IV (1932); A. Sapori, La storia economica d'Italia nei secoli XII-XVI e la storia economica mondiale, in Bulletin of the Intern. Committee of Hist. Sciences, V (1933).
Per il diritto commerciale A. Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione comm. statutaria delle città italiane, Milano 1884; M. Chiudano, Contratti comm. Genovesi del sec. XII, Genova 1925, e Studi e documenti per la storia del diritto comm. it. nel sec. XIII, Torino 1930. V. anche A. Del Vecchio-E. Casanova, Le rappresaglie nei Comuni medievali e specialmente in Firenze, Bologna 1894; G. Arias, I trattati comm. della Repubbl. Fiorentina, I (sec. XIII), Firenze 1901; F. Schupfer, Il diritto delle obbligazioni in Italia, nell'età del Risorgimento, voll. 2, Torino 1921; G. Salvioli, L'assicurazione e il cambio marittimo nella storia del dir. it., Bologna 1884; R. Cessi, Note per la storia delle società di commercio in Italia nel medioevo, in Riv. ital. scienze giuridiche, 1917; G. Bonolis, Il diritto marittimo medievale dell'Adriatico, Pisa 1921.
Per l'agricoltura. v. L. Ticciati, Sulle condizioni dell'agricoltura nel contado cortonese nel sec. XIII, Firenze 1892; F. Gabotto, L'agricoltura nella regione saluzzese dal sec. XI al XV, Pinerolo 1909; E. Loncao, Il lavoro e le classi rurali in Sicilia durante e dopo il feudalismo, Palermo 1900; F. Evoli, L'economia agraria calabrese in regime feudale, in Arch. stor. per la Calabria e la Lucania, I (1931); R. Di Tucci, La proprietà fondiaria in Sardegna dal Medioevo ai nostri giorni, Cagliari 1928; e specialmente P. Torelli, Un comune cittadino [Mantova] in territorio ad economia agricola, Mantova 1930.
39. Storia religiosa. - Soprattutto G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali, cit. § 33; F. Tocco, L'eresia nel Medioevo, Firenze 1884; J. I. v. Döllinger, Beiträge zur Sektengeschichte des Mittelalters, Monaco 1890; E. Buonaiuti, Gioacchino da Fiore, Roma 1931. Cfr. anche H. Hefele, Die Bettelorden u. das religiöse Volksleben Ober- u. Mittelitaliens im XIII. Jahrh., Lipsia 1910; P. L. Fumi, Eretici e ribelli nell'Umbria, 2ª ed., Todi 1917; A. De Stefano, Arnaldo da Brescia e i suoi tempi, Roma 1921; L. Salvatorelli, San Francesco, Bari 1926; G. W. Greenaway, Arnold of Brescia, Cambridge 1931. Inoltre E. Gebhardt, L'Italie mystique: la Renaissance religieuse au moyen âge, 6ª ed., Parigi 1908 (trad. it. Bari 1910). E cfr. francesco d'assisi; francescanesimo. In particolare, anche P. Cipolla, Il patarenismo a Verona nel sec. XIII, in Arch. veneto, 1883; G. Biscaro, Inquisitori ed eretici lombardi, Torino 1921; id., Eretici ed inquisitori nella marca trevisana, in Arch. ven., LXII (1932). Per le "confraternite", G. M. Monti, Le confraternite medievali dell'alta e media Italia, voll. 2, Firenze 1927.
40. Storia delle università. - G. Mariotti, Memorie e documenti per la storia dell'università di Parma nel Medioevo, Parma 1888; L. Chiappelli, Lo studio bolognese, Pistoia 1888; e soprattutto G. Zaccagnini, Lo studio di Bologna, cit. § 9; id., La vita dei maestri e degli scolari nello Studio di Bologna nei secoli XIII e XIV, Ginevra 1926; F. Landogna, Maestri e scolari pisani nello studio di Bologna tra il sec. XII e la metà del XIV, in Arch. stor. ital., LXXXIV (1926); A. Solmi, Contributi alla storia dell'università di Pavia, Pavia 1925; Schipa, e altri, Storia dell'università di Napoli, cit. § 9.
41. Per la vita culturale in genere. - F. Novati, Freschi e minii del Dugento, Milano 1908; e G. Bertoni, Il Duecento, 2ª ed., Milano 1930. In particolare, per la corte di Federico II, H. Niese, Zur Geschichte d. geistigen Lebens am Hofe Kaiser Friedrichs II., in Hist. Zeitschrift (1912), e i varî studî di C. H. Haskins, in Studies in the history of mediaeval science, Cambridge 1927.
42. Storia delle dottrine politiche. - Soprattutto R. W. e A. J. Carlyle, A History of mediaeval political Theory in the West, cit. § 23; anche F. Scaduto, Stato e chiesa negli scritti politici dalla fine della lotta per le investiture sino alla morte di Ludovico il Bavaro (1122-1347), Firenze 1882.
43. - Storia dei costumi, ecc. - V. specialmente L. Zdekauer, Sul giuoco in Italia nei secoli XIII-XIV, Firenze 1886; id., Il mercante senese nel Dugento, Siena 1901; id., La vita privata dei Senesi nel Dugento, Siena 1895; id., La vita pubblica dei Senesi nel Dugento, Siena 1897. Anche M. Cavallini, Le feste nel Medioevo, in Vita e pensiero, 1922.
44. Impero, Papato e Comuni nelle reciproche relazioni dalla fine della lotta delle investiture alla caduta della dinastia sveva (1129-1266). - P. Arras, Die Roncalischen Beschlüsse vom Jahre 1158 u. ihre Durchführung, Lipsia 1882; A. Vignati, Storia diplomatica della lega lombarda, Milano 1867; P. Balan, Storia della lega lombarda ai tempi di Alessandro III, Modena 1876; J. Ficker, Zur Geschichte des Lombardenbundes, Vienna 1868; A. Fumagalli, Le vicende di Milano durante la guerra con Federico I, 2ª ed., Milano 1885; G. P. Bognetti, La condizione giuridica dei cittadini milanesi dopo la distruzione di Milano (1162-1167), in Riv. di storia del diritto ital., I e II (1928-29); C. Cipolla, Verona nella guerra contro Federico Barbarossa, in Nuovo arch. veneto, 1895; id., Per la storia della lega lombarda contro Federico I, in Rend. Acc. Linc., s. 5ª, VI (1897); V. Lege, Federico Barbarossa all'assedio di Tortona, in Boll. stor. bibl. subalp., XIV (1910); P. Valenti, Il comune astigiano e la lotta contro Federico I, in Riv. di storia, arte, .... Alessandria, IX (1925); C. Jachino, Le origini di Alessandria nella storia e nelle tradizioni popolari, Torino 1926; C. Patrucco, Perché e come fu fondata Alessandria, in Boll. stor. bibl. subalpino, XXIX (1927); H. Meyer, Die Militärpolitik Friedrich Barbarossas im Zusammenhang mit seiner Italienpolitik, Berlino 1930; F. Güterbock, Der Friede von Montebello u. die Weiterentwicklung des Lombardenbundes, Berlino 1895; O. Masnovo, La battaglia di Legnano, in Annuario Ist. tecnico Dall'Acqua, Legnano 1925; P. Kehr, Der Vertrag von Anagni im Jahre 1176, in Neues Archiv, XIII (1888; dello stesso anche Kaiser Friedrich I. u. Venedig während d. Schismas, in Quellen u. Forsch. aus ital. Archiven, XVII, Roma 1924); F. Güterbock, Die Lukmanierstrasse u. die Passpolitik d. Staufer Friedrich I. Marsch nach Legnano, in Quellen u. Forschungen, XI, 1908; W. Lenel, Der Konstanzer Frieden von 1183 u. die italienische Politik Friedrichs I., in Hist. Zeitschr., 1923; V. Pancotti, L'ultimo atto della pace di Costanza, in Arch. stor. prov. parm., XXIV (1924); H. Kauffmann, Die italienische Politik Kaiser Friedrichs I. nach dem Frieden von Constanz (1183-1189), Greifswald 1933.
Per le sue ripercussioni sulle vicende italiane, importante l'atteggiamento di Enrico il Leone, duca di Baviera, per cui v. F. Güterbock, Der Prozess Heinrichs d. Löwen, Berlino 1909, ed. E. Gronen, Die Machtpolitik Heinrichs d. Löwen u. sein Gegensatz gegen das Kaisertum, Berlino 1919.
Per l'età di Innocenzo III, v. A. Wagner, Die unteritalischen Normannen u. das Papsttum (1086-1154), Breslavia 1885; F. Holzach, Die auswärtige Politik des Königreichs Sicilien (1154-1177), Basilea 1892; H. Bloch, Forschungen zur Politik Kaiser Heinrichs VI. in d. Jahr. 1191-4, Berlino 1892; J. Caro, Die Beziehungen Heinrichs VI. zur röm. Kurie während d. Jahr. 1190-7, Rostock 1902; A. Cartellieri, Heinrichs VI. u. der Höhepunkt d. staufischen Kaiserpolitik, Lipsia 1914; H. J. W. Ottendorf, Die Regierung d. beiden letzten Normannen Könige Tankreds u. Wilhelms III. von Sicilien u. ihre Kämpfe gegen Kaiser Heinrich VI., Bonn 1899; V. Pfaff, Kaiser Heinrichs VI. höchstes Angebot an die röm. Kurie (1196), Heidelberg 1927; F. Baethgen, Die Regentschaft Papst Innozenz III. im Königr. Sizilien, Heidelberg 1914; K. Hampe, Deutsche Angriffe auf d. Königreich Sizilien in Anfang des 13. Jahrh., in Hist. Vierteljahr., VII (1904).
Per la IV crociata oltre W. Norden, Die vierte Kreuzzug, Berlino 1898, e Das Papsttum u. Bizanz cit. al § 36, cfr. F. Cerone, Il papa e i veneziani nella quarta crociata, in Arch. veneto, XXXVIII-XXXIX (1888-89) ed E. Gerland, Der vierte Kreuzzug u. seine Probleme, in Neue Jahrbücher f. d. klassische Altertum, XIII (1904).
Per l'età di Federico II e Manfredi, v. G. Paolucci, La prima lotta di Federico II di Svevia col Papato (1227-1230), in Atti Acc. Palermo, s. 3ª, VII (1902); G. Falco, I preliminari della pace di Germano (novembre 1229-luglio 1230), in Arch. Soc. rom. stor. patr., XXXIII (1910); K. Hadank, Die Schlacht bei Cortenuova, Berlino 1905; L. Simeoni, Note sulla formazione della seconda lega lombarda, in Mem. Acc. sc. ist. Bologna, s. 3ª, VI (1931-32); G. Levi, Il card. Ottaviano degli Ubaldino secondo il suo carteggio, in Arch. Soc. rom. st. patr., XIV (1891); P. Paschini, Gregorio di Montelongo patriarca di Aquileia, in Mem. stor. Forogiuliesi, XII-XIV e XVII (1918-1921); G. Marchetti-Longhi, La legazione in Lombardia di Gregorio da Montelongo negli anni 1238-51, in Arch. Soc. rom. storia patria, XXXVI-VIII (1913-15); id., Il Patriarcato di Aquileia, il papato e l'impero fino alla prima metà del sec. XIII, Venezia 1916; L. Chiappelli, Filippo da Pistoia e le crociate contro Federigo II ed Ezzelino da Romano, in Boll. stor. pistoiese, XXII (1920); A. Folz, Kaiser Friedrich II. u. Papst Innocenz IV., Strasburgo 1905; C. Rodenberg, Innocenz IV u. das Königreich Sizilien 1245-54, Halle 1892; K. Hampe, Papst Innocenz IV. u. die sizilische Verschwörung von 1246, in Sitzungsber. d. Heidelberg. Ak. d. Wiss., 1923; C. Imperiale di Sant'Angelo, Genova e le sue relazioni con Federico II di Svevia, Venezia 1923. V. anche F. Graefe, Die Publizistik in der letzten Epoche Kaiser Friedrichs II., Heidelberg 1909; e O. Vehse, Die amtliche Propaganda in d. Staatskunst Kaiser Friedrichs II., Monaco 1929; G. Zeller, König Konrad IV. in Italien 1252-54, Strasburgo 1907; K. Hampe, Zum Manifest Manfreds an d. Römer v. 24 Mai 1265, in Neues Archiv, XXXVI (1911); M. Müller, Die Schlacht bei Benevent, Berlino 1907. E cfr. C. Paoli, La battaglia di Montaperti, in Boll. stor. senese, II (1869).
La migliore trattazione sulla situazione politica in Italia fra il 1250 e il 1266 in E. Jordan, Les origines de la domination angevine en Italie, Parigi 1909.
45. Regno normanno-svevo. - G. De Blasiis, La insurrezione pugliese e la conquista normanna, voll. 3, Napoli 1869; C. Rivera, Le conquiste dei primi normanni in Teate, Penna, Apruzzo e Valva, in Boll. Dep. abruzzese storia patria, XIV (1925); id., L'annessione delle terre d'Abruzzo al regno di Sicilia (secoli IX-XII), in Arch. stor. ital., LXXXIV (1926); P. Fedele, Il ducato di Gaeta all'inizio della conquista normanna, in Arch. stor. napoletano, XXIX (1904); R. Palmarocchi, L'abbazia di Montecassino e la conquista normanna, Roma 1913; id., Sul feudo normanno, in Studi storici, XX (1912); E. Caspar, Die Legatengewalt der normannisch-sizilischen Herrscher im XII. Jahrh., Roma 1904; M. Hoffmann, Die Stellung des Königs von Sicilien nach den Assise von Aiano, Münster 1910; E. Jamison, The Norman administration of Apulia and Capua, especially under Roger I and William I (1127-66), in Papers of the British School at Roma, Londra 1913; id., The administration of the Country of Molise in the Twelfth and Thirteenth Century, in English Hist. Review, CLXXVII (1930); E. Jordan, La politique ecclésiastique de Roger I et les origines de la légation sicilienne, in Le Moyen Age (1922-23; v. anche E. Pontieri, La abbazia di Sant'Eufemia in Calabria e l'ab. Roberto di Grantmesnil, in Arch. stor. Sicilia orientale, XXII, 1926); W. Cohn, Geschichte d. normann.-sizilischen Flotte unter d. Regierung Rogers I. u. Rogers II. (1060-1154), Breslavia 1910.
G. Paolucci, Le finanze e la corte di Federico II di Svevia, in Atti Acc. Palermo, s. 3ª, VII (1902-3); E. Sthamer, Die Verwaltung d. Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. u. Karl I. v. Anjou, Lipsia 1914; M. Schipa, Sicilia e Italia sotto Federico II, in Arch. stor. napoletano, LIII (1928); W. Cohn, Geschichte d. sizil. Flotte unter d. Regierung Friedrichs II., Berlino 1926; H. Arndt, Studien zur inneren Regierungsgeschichte Manfreds, Heidelberg 1911.
46. Stato della Chiesa. - C. Calisse, I prefetti di Vico, in Arch. Soc. romana storia patria, X-XI (1887-88); id., Le regioni di Roma nel Medioevo, in Studi e documenti di storia e di diritto, Roma 1889; A. Paravicini, Saggio storico sulla prefettura urbana dal sec. X al XIV, Roma 1900; e specialmente Halphen, cit. al § 18 (anche E. Rodocanachi, Les intitutions commerciales de Rome sous la papauté, Parigi 1901). Inoltre, G. Tomassetti, La pace di Roma (1188), in Rivista intern. di Scienze sociali, IV (1896); G. Signorelli, Il podestà del comune di Viterbo, in Studi e documenti di storia e di diritto, Roma 1914 (cfr. C. Finzi, Storia della città di Viterbo, voll. 2, Roma 1887-89). Anche E. Schoenian, Die Idee der Volkssouveränität im mittelalterlichen Rom, Lipsia 1919; e H. Tillmann, Das Schicksal d. päpstlichen Rekuperationen nach dem Friedensabkommen zwischen Philipp v. Schwaben u. d. römischen Kirche, in Hist. Jahrb., LI (1931).
47. Sviluppo dei Comuni nel sec. XII fino alla pace di Costanza. - M. Handloike, Die lombardischen Städte unter d. Herrschaft d. Bischöfe u. die Entstehung d. Communen, Berlino 1883; L. Schiaparelli, Origini del comune di Biella, in Memorie R. Accad. Torino, XLVI (1896); E. Anemüller, Geschichte d. Verfassung Mailands in d. Jahr. 1075-1117, Halle 1881; O. Tschirch, Beiträge zur Geschichte Mailands von der Zerstörung d. Stadt bis zum Ausgange Friedrichs I., Brandeburg 1884; ma specialmente l'introd. di C. Manaresi a Gli atti del comune di Milano fino all'anno 1216, Milano 1919; C. Campische, Die Comunalverfassung von Como in XII. u. XIII. Jahrh., Zurigo 1929; R. Dragoni, Il comune di Pavia fra il mille e il milleduecento, in Boll. soc. pav., XXIX (1930); C. Cipolla, Compendio della storia politica di Verona, Verona 1900; ma specialmente Simeoni, cit. al § 33; A. Bonaudi, Le origini del comune di Pavia, Padova 1898 [cfr. N. Tamassia, Le origini del comune di Padova, in Atti R. Ist. veneto, 1898-99; M. Roberti, Nuove ricerche sopra l'antica costituzione in Padova, in Nuovo arch. veneto, n. s., III (1902)]; A. Lizier, Note intorno alla storia del comune di Treviso dalle origini al principio del sec. XIII, Modena 1901; C. Capasso, Il "Pergaminus" e la prima età comun. a Bergamo, in Arch. stor. lomb., XXXIII (1906); A. Hessel, Geschichte der Stadt Bologna 1116-1280, Berlino 1910; A. Solmi, Sul più antico documento consolare pisano scritto in lingua sarda, in Arch. stor. sardo, II (1906). Anche F. Gasparolo, Notizie storiche sul regime comunale di Alessandria dalla sua origine, in Rivista di storia, arte e arch. per la prov. di Alessandria, 1931; F. Savini, Il potere secolare del vescovo in Teramo e gli inizi del comune cittadino, la pieve e la corte, la parrocchia e il comune rurale, Roma 1922. Per Pisa e Firenze, cfr. Volpe, Santini e Davidsohn, cit. ai §§ 33 e 2; per il Lazio, Falco, cit. al § 33. Per il Mezzogiorno, N. Faraglia, Il comune nell'Italia meridionale (1100-1806), 2ª ed., Napoli 1883; F. Carabellese, Il comune pugliese durante la monarchia normanno-sveva, Bari 1924; L. Genuardi, Il comune nel Medioevo in Sicilia, Palermo 1921.
48. Dalla pace di Costanza alla seconda metà del sec. XIII: periodo podestarile, organizzazione del "popolo" ed espansione territoriale dei maggiori comuni. - M. Tamagnone, Il Piemonte nell'età comunale e le relazioni di Asti con Alba nel Medioevo, Torino 1931; E. Abegg, Die Politik Mailands in d. ersten Jahrzehnten des 13. Jahrh. (bis 1225), Berlino 1918; I. Ghiron, La credenza di S. Ambrogio [Milano], Milano 1878; G. Gallavresi, La riscossa dei guelfi in Lombardia dopo il 1260 e la politica di Filippo della Torre, in Arch. stor. lomb., XXXII-XXXIII (1905-6; v. anche per l'alta Lombardia, K. Meyer, Blenio u. Leventina v. Barbarossa bis Heinrich VII., Lucerna 1911; e P. Schäfer, Das Sottoceneri im Mittelalter, Aarau 1931); P. Torelli, Un comune cittadino [Mantova], ecc., cit. § 38; W. Lenel, Studien zur Geschichte Paduas u. Veronas im XIII. Jahrh., Strasburgo 1913; ma specialmente, per Verona, L. Simeoni, Il comune veronese sino ad Ezzelino, cit. al § 33; R. Caggese, Un comune libero alle porte di Firenze nel sec. XIII: Prato in Toscana, Firenze 1905; id., La repubblica di Siena e il suo contado nel sec. XIII, 1906; U. G. Mondolfo, Le cause e le vicende della politica del comune di Siena nel secolo XIII, Siena 1904.
Per il "popolo" in genere, v. R. Davidsohn, Die Popularbewegung in italienischen Städten bis zur Mitte d. XIII. Jahrh., in Forschungen zur Geschichte v. Florenz, IV, Berlino 1908; U. G. Mondolfo, Il popolo a Siena nella vita della città e nel governo del comune fino alla riforma antimagnatizia del 1277, Genova 1911; Salzer, e De Vergottini, cit. al § 33.
Per lo Stato della Chiesa, v. P. Ermini, La libertà comunale nello stato della Chiesa. Da Innocenzo III all'Albornoz (1198-1367), in Arch. Soc. romana storia patria, XLIX (1926); e Falco, cit. al § 33.
49. Signorie feudali e signorie militari nell'alta Italia. - J. Gittermann, Ezzelin von Romano, Stoccarda 1890; F. Stieve, Ezzelin v. Romano, Lipsia 1909; Z. Schiffer, Markgraf Hubert Pallavicini, Lipsia 1910; C. Merkel, Manfredi I e Manfredi II Lancia, Torino 1886; A. Tallone, Tommaso I marchese di Saluzzo (1244-1296), Pinerolo 1916; L. Usseglio, I marchesi di Monferrato in Italia e in Oriente durante i secoli XII e XIII, voll. 2, Casale Monferrato 1926.
Per la signoria angioina in Piemonte, cfr. C. Merkel, Il Piemonte e Carlo d'Angiò prima del 1259, Torino 1890; id., Un quarto di secolo di vita comunale e le origini della dominazione angioina in Piemonte, in Memorie R. Acc. Torino, XL (1890); id., La dominazione di Carlo I d'Angiò in Piemonte e in Lombardia e i suoi rapporti con le guerre contro re Manfredi e Corradino, ibid., XLI (1891); G. M. Monti, La dominazione angioina in Piemonte, Torino 1930.
Comuni, signorie, principati e regno angioino-aragonese sino al 1492.
Opere di carattere generale. - 50. Trattazioni complessive. - Anche per questo periodo valgono le osservazioni fatte per l'età precedente: mancano cioè opere generali moderne. La più utile trattazione d'insieme rimane ancora quella di C. Cipolla, Storia delle Signorie Italiane dal 1313 al 1530, Milano 1881 [nella collezione F. Vallardi: assai preferibile alla posteriore opera di P. Orsi, Signorie e principati (1300-1450), Milano 1900, nella stessa collezione]. E anche per questo periodo le vedute più nuove si debbono rinvenire in lavori particolari.
Per l'avvento del cosiddetto governo "popolare", e la lotta antimagnatizia, fondamentale fu l'opera di G. Salvemini, Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295, Firenze 1899; ma contro la tesi salveminiana v. ora N. Ottokar, Il comune di Firenze alla fine del dugento, Firenze 1927. E cfr. anche G. Masi, La struttura sociale delle fazioni politiche fiorentine ai tempi di Dante, in Giornale Dantesco, 1930; id., I banchieri fiorentini nella vita politica della città sulla fine del dugento, in Arch. Giurid., CV (1931); anche, id., Sull'origine dei Bianchi e dei Neri, in Giorn. Dantesco, 1927. Inoltre M. Roberti, La corporazione dei giudici di palazzo e la sua lotta contro il comune popolare a Padova nel 1300, Venezia 1903; ma contro, M. A. Zorzi, L'ordinamento comun. padovano nella seconda metà del sec. XIII, in Miscell. stor. ven., s. 4ª, V (1931); L. Simeoni, Ricerche sulle origini della signoria estense a Modena, Modena 1919. E anche F. Ercole, La lotta delle classi alla fine del medioevo, in Dal comune alla signoria, Firenze 1929; F. Chabod, Di alcuni studî recenti sull'età comunale e signorile nell'Italia settentrionale, in Riv. stor. ital., XLII (1925).
Per il problema dell'origine delle signorie, della natura delle signorie stesse e dei principali, fondamentali gli scritti di F. Ercole, Comuni e Signori nel Veneto, Venezia 1910; e Impero e Papato nella tradizione giuridica bolognese e nel diritto pubblico italiano del Rinascimento (secoli XIV-XV), in Atti e Mem. Dep. st. pat. Romagne, s. 4ª, I (1912); l'uno e l'altro ripubbl. in Dal comune alla signoria cit. Cfr. anche di G. B. Picotti, Qualche osservazione sui caratteri delle signorie italiane, in Rivista stor. ital., XLII (1926). Rapido sguardo d'insieme in A. Anzilotti, Per la storia delle signorie e del diritto pubblico italiano nel Risorgimento, in Studi storici, XXII (1914); v. anche F. Chabod, Del "Principe" di N. Machiavelli, Milano 1926; G. Volpe, Italia trecentesca: quadri politici, in Nuova Antologia, LXII (1927); id. Aspetti del Quattrocento italiano, ibid., LXII (1927); F. Cognasso, Problemi politici del Rinascimento, Torino 1930.
Per il primo periodo, poi, sempre indispensabile E. Salzer, Über die Anänge der Signorie in Oberitalien, cit. al § 33.
Tra i lavori particolari che più importano per la valutazione d'insieme v. N. Rodolico, Dal Comune alla Signoria. Saggio sul governo di Taddeo Pepoli in Bologna, Bologna 1898; G. B. Picotti, I Caminesi e la loro signoria in Treviso dal 1282 al 1312, Livorno 1905; L. Simeoni, Ricerche sulle origini della signoria estense a Modena, cit.; id., La formazione della signoria scaligera, in Atti Acc. Agric., scienze e lett. di Verona, s. 5ª, III (1926); P. Torelli, Capitanato del popolo e vicariato imperiale come elementi costitutivi della Signoria bonacolsiana, in Atti e Mem. Accad. Virgiliana di Mantova, n. s., XIV-XVI (1923); G. Volpe, Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300 e gli inizi della signoria civile a Pisa, in Studi storici, XI (1902); P. Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa e le sue relazioni col resto della Toscana e coi Visconti, Pisa 1911; id., Ordinamento interno e contrasti politici e sociali in Pisa sotto il dominio visconteo, in Studi storici, XXI (1913).
Sul successivo consolidarsi dei governi signorili e il formarsi degli stati territoriali, assai importante F. Cognasso, Note e documenti sulla formazione dello stato visconteo, in Boll. Soc. Pavese Storia Patria, XXVII (1923) e Ricerche per la storia dello stato visconteo, ibid., XII (1922, ma pubbl. 1925). V. anche G. Romano, Delle relazioni tra Pavia e Milano nella formazione della signoria viscontea, in Arch. stor. lomb. (1902).
Per la vita amministrativa, ecc., delle signorie e principati, v. soprattutto Ciapessoni, Per la storia dell'economia e della finanza pubblica pavesi sotto Filippo Maria Visconti, in Boll Soc. Pavese, VI (1906); L. Simeoni, L'amministrazione del distretto veronese sotto gli Scaligeri, in Atti e Mem. Acc. Veronese, 1904-05; E. Verga, La giurisdizione del podestà di Milano e i Capitani dei contadi rurali, in Rend. Ist. Lomb., s. 2ª, XXXIV (1901); id., Le sentenze criminali dei podestà milanesi, in Arch. stor. lombardo, XXVIII (1901); anche l'introd. di A. Luzio a L'Archivio Gonzaga di Mantova, Mantova 1922. E soprattutto, per il sec. XV, M. Formentini, Il ducato di Milano, Milano 1876. Per la tecnica burocratica v. F. Comani, Usi cavallereschi viscontei, in Arch. stor. lomb., XXVIII (1900); ma soprattutto D. Marzi, La cancelleria della Repubblica fiorentina, Bologna 1910.
Comunità rurali: A. Sorbelli, Il comune rurale dell'Appennino emiliano nei secoli XIV-XV, Bologna 1910; A. Palmieri, I lavoratori del contado bolognese durante le Signorie, Bologna 1909; C. Tassoni, La vita giuridica di un comune rurale [Montecchio nell'Emilia], Parma 1901; F. Pozza, Il comune rurale di Bassano, in Nuovo arch. veneto, VII (1894); G. Chiuppani, L'antica legislazione agraria dei Bassanesi e il codice del 1444, Bassano 1905; A. Tiraboschi, Cenni intorno alla valle Gandino e ai suoi statuti, in Arch. stor. lomb., VII (1880).
51. Istituti e legislazione. - V. in genere le opere cit. al § 37. E cfr. inoltre G. Salvemini, Gli statuti fiorentini del capitano e del podestà del 1323-25, in Arch. stor. ital., 1896; N. Ferorelli, Gli statuti milanesi del sec. XIV, Milano 1911; A. Abruzzese, Il podestà di Pisa nel sec. XIV, in Studi stor., XII (1893); G. Bonolis, La giurisdizione della mercanzia in Firenze nel sec. XIV, Firenze 1901; U. G. Mondolfo, La legislazione statutaria senese (1262-1310), in Studi sen., XXI (1905); G. Masi, Il sindacato delle magistrature comun. nel sec. XIV, in Rivista it. scienze giur., n. s., V (1930).
Per lo Stato della Chiesa, F. Ermini, Gli ordinamenti politici e amministrativi nelle Constitutiones Aegidianae, Torino 1894.
E per il Mezzogiorno, R. Trifone, La legislazione angioina, Napoli 1921.
52. Regno angioino-aragonese. - C. Minieri-Riccio, Il regno di Carlo I dal 1273 al 1285, Firenze 1877-81; L. Cadier, Essai sur l'administration du royaume de Sicile sous Charles I et Charles II d'Anjou, Parigi 1891; P. Egidi, La colonia saracena e la sua distruzione, in Arch. stor. napoletano, XXXIV-IV (1911-15); M. Schipa, Un principe napoletano amico di Dante (Carlo Martello d'Angiò), 2ª ed., Napoli 1926; A. Cutolo, Il regno di Sicilia negli ultimi anni di vita di Carlo II d'Angiò, Milano 1925.
Per il "Vespro", oltre a M. Amari, La guerra del Vespro Siciliano, voll. 3, 9ª ed., Milano 1886; cfr. E. Sthamer, Aus der Vorgeschicte d. sizil Vesper, in Quellen u. Forsch. aus italien. Archiven, Roma 1927; O. Cartellieri, Peter v. Aragon u. die Sizilienische Vesper, Heidelberg 1904; P. Egidi, La communitas Siciliae del 1282, Messina 1915; H. E. Rhode, Der Kampf um Sizilien in den Jahr. 1291-1302, Berlino 1913; E. Haberkorn, Der Kampf um Sizilien in d. J. 1302-1337, Berlino 1921. Anche I. Sanesi, Giovanni da Procida e il Vespro Siciliano, in Rivista storica italiana, VII (1890); E. Pontieri, Un capitano della guerra del Vespro: Pietro (II) Ruffo, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania.
Per la prima metà del sec. XIV, fondamentale R. Caggese, Roberto d'Angiò, voll. 2, Firenze 1922-31, l'opera migliore su tutta la storia angioina e del Mezzogiorno nel sec. XIV. V. anche G. Siragusa, Relazioni fra il regno di Napoli e la Sicilia durante il regno di Roberto d'Angiò, Palermo 1847; A. Cutolo, Arrigo VII e Roberto d'Angiò, in Arch. stor. napoletano, LVII (1932); e l'assai utile G. De Blasiis, Le case dei principi angioini nella piazza di Castelnuovo, in Arch. stor. napol., XI e XII (1886-87). Per il periodo di Giovanna I e di Ladislao, cfr. E. G. Lionard, Histoire de Jeanne I reine de Naples comtesse de Provence, I e II, Monaco 1932; inoltre De Blasiis suddetto; N. Camera, Elucubrazioni storico-diplomatiche di Giovanna I regina di Napoli e Carlo III di Durazzo, Salerno 1881; L. Tanfani, Nicola Acciaiuoli, Firenze 1863; G. Romano, Niccolò Spinelli da Giovinazzo, diplomatico del sec. XIV, in Arch. stor. napoletano, XXIV-XXVI (1899-1901); A. Valente, Margherita di Durazzo, vicaria di Carlo III e tutrice di re Ladislao, in Arch. stor. napoletano, XL-XLIII (1915-18); A. Cutolo, Per una storia di re Ladislao, Napoli 1926; id., Maria di Enghien, Napoli 1929. Per Giovanna II e l'età successiva N. F. Faraglia, Storia della regina Giovanna II d'Angiò, Lanciano 1904; id., Storia della lotta tra Alfonso V d'Aragona e Renato d'Angiò, Lanciano 1908. Per il periodo aragonese E. Nunziante, I primi anni di Ferdinando d'Aragona e l'invasione di Giovanni d'Angiò, in Arch. stor. napol., XVII-XXIII (1892-98); F. Cerone, La politica orient. di Alfonso d'Aragona, in Arch. stor. napol., XXVII-XXVIII (1902-1903); C. Marinesco, Alphonse V d'Aragon et de Naples et l'Albanie de Scanderbeg, In Mélanges de l'école romaine en France, 1923. Per la congiura dei baroni, E. Perito, La congiura dei Baroni e il conte di Policastro, Bari 1926. V. anche baroni, congiura dei.
V. inoltre per speciali questioni: L. Dell'Erba, La riforma monetaria angioina e il suo sviluppo storico nel reame di Napoli, in Arch. stor. napolet., LVII (1932); M. Schipa, Contese sociali napoletane nel Medioevo, in Arch. stor. napol., XXXI-III (1906-08); id., Nobili e popolani in Napoli nel Medioevo in rapporto all'amministrazione municipale, in Arch. stor. ital., LXXXIII (1925); G. M. Monti, Un importante comune demaniale del Mezzogiorno. Catanzaro nei secoli XV e XVI, in Annali del Seminario giurid-economico della R. Università di Bari, III (1928-29). Inoltre gli studî di G. M. Monti, in Il Mezzogiorno d'Italia nel Medioevo, Bari 1930.
53. Il Papato. - V. soprattutto, H. Finke, Aus d. Tagen Bonifaz VIII., Münster 1902; E. Kraack, Rom oder Avignon? Die römische Frage unter den Päpsten Clemens V. u. Johann XXII., Marburgo 1929; W. Preger, Die Politik des Papstes Johann XXII. in Bezug auf Italien u. Deutschland, Monaco 1885; G. Mollat, Les papes d'Avignon, 6ª ed., Parigi 1930. Per il periodo dello scisma e dei concilî, N. Valois, La France et le Grand Schisme d'Occident, voll. 4, Parigi 1896-1902; id., Le pape et le concile, voll. 2, Parigi 1909. Inoltre R. Maiocchi, Lo scisma d'Occidente e Gian Galeazzo Visconti, in Rivista di Scienze storiche, II (1905); A. Segre, I conti di Savoia e lo scisma d'Occidente: appunti e documenti, in Atti Acc. Torino, XLII (1906). Cfr. scisma. Utili anche, per la storia del papato, Willemsen, Kardinal Napoleon Orsini (1263-1342), Berlino 1927; R. Morghen, Il cardinale Matteo Rosso Orsini, in Arch. Soc. rom. stor. patria, XLVI (1923).
Per le vicende dello Stato della Chiesa, M. Antonelli, Vicende della dominazione pontificia nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia dalla traslazione della Sede alla restaurazione dell'Albornoz, in Arch. Soc. romana st. pat., XXV-VII (1902-1904); id., La dominazione pontificia nel Patrimonio negli ultimi vent'anni del periodo avignonese, ibid., XXX (1907); A. Eitel, Der Kirchenstaat unter Clemens VII., Berlino e Lipsia 1907; e specialmente F. Filippini, La prima legazione del card. Albornoz in Italia (1355-57), in Studi storici, V (1896); id., La riconquista dello stato della Chiesa per opera di Egidio Albornoz (1353-57), ibid., VI-VIII (1897-99); id., La seconda legazione del card. Albornoz in Italia (1358-67), ibid., X-XI, 1903-05 (e, dello stesso, Il card. Egidio Albornoz, Bologna 1933). Per Cola di Rienzo soprattutto P. Piur, Cola di Rienzo, Vienna 1931 (cfr. cola di rienzo). Per il formarsi delle grandi signorie laiche, cfr. G. Falco, Sulla formazione e la costituzione della signoria dei Caetani, in Rivista storica italiana, XLV (1928). Per Roma. A. De Boüard, Le régime politique et les institutions de Rome au moyen âge (1252-1347), Parigi 1921.
54. L'Impero. - A. Hessel, Jahrb. d. deut. Reichs unter König Albrechts I. von Habsburg, Monaco 1931; F. Schneider, Kaiser Heinrich VII., 3 parti, Greifwald 1924-28 (anche G. Sommerfeldt, König Heinrich VII. u. die Lombardischen Städte, in Deutsche Zeitschr. f. Geschichtswissenschaft, II (1889); R. Davidsohn, Beiträge zur Gesch. des Reiches u. Oberitaliens 1311-12-1341, in Mitteil. d. österr. Instit. f. Geschichtsforschung, XXXVII, Innsbruck 1917; A. Chroust, Beiträge z. Geschichte Ludwig des Bayers u. sein. Zeit, I, Romfahrt 1327-29, Gotha 1887; P. Lelheiter, Die Politik König Johannes v. Böhmen in d. Jahr. 1330-34, Roma 1908; W. Altmann, Der Römerzug Ludwigs d. Bayern, Berlino 1886; G. Pirchan, Italien u. Kaiser Karl IV., in der Zeit seiner zweiten Romfahrt, voll. 2, Praga 1930; Th. Mengel, Italien. Politik Karls IV., Halle 1880; C. Cipolla, Karl IV. in Mantua 1354-55, in Mitt. d. Instit. f. österr. Geschichtsforschung, III, Innsbruck 1884; G. Romano, Carlo IV di Lussemburgo a Pavia, in Boll. Soc. pavese st. pat., V 1905; F. Baldasseroni, Relazioni tra Firenze, la Chiesa e Carlo IV, 1353-1355, in Arch. stor. ital., LXIV (1906); G. Mancinelli, Carlo IV di Lussemburgo e la repubblica di Pisa, in Studi storici, XV (1906); F. Landogna, Giovanni di Boemia e Carlo IV di Lussemburgo signori di Lucca, in Nuova riv. stor., XII (1928); P. Rossi, Carlo IV di Lussemburgo e la repubblica di Siena (1355-69), in Boll. senese, n. s., I (1930); D. Muratore, L'imperatore Carlo IV nelle terre sabaude nel 1365 e il vicariato del Conte Verde, in Mem. Acc. Torino, LVI (1906); M. Sauerbrey, Die italienische Politik Kaiser Sigmunds (1400-13), Halle 1894; H. Herre, Beziehungen Kaisers Sigmund zu Italien vom Herbst 1402 bis Herbst 1414, in Quellen u. Forschungen aus italien. Archiven, VII (1903); A. Schiff, Kaiser Sigmunds italienische Politik, 1400-1431, Francoforte 1910 (anche F. Kagelmacher, Filippo Maria Visconti u. Kaiser Sigmund, Berlino 1886; e B. Spora, Kaiser Sigmund u. Venedig, Kiel 1905).
55. Stato sabaudo e altre signorie feudali in Piemonte. - Cfr. soprattutto le opere di F. Cognasso, Il Conte Verde, Torino 1926; id., Il Cointe Rosso, Torino 1931; id., Amedeo VIII, voll. 2, Torino 1930; e quelle di F. Gabotto, Storia del Piemonte nella prima metà del sec. XIV, Torino 1894; id., L'età del conte Verde in Piemonte secondo nuovi documenti, in Miscell. stor. ital., Torino 1896; id., Asti e il Piemonte al tempo di Carlo d'Orleans (1407-1422), I, Alessandria 1899; id., Asti e la politica sabauda in Italia al tempo di Guglielmo Ventura, Pinerolo 1903; id., Gli ultimi principi d'Acaia e la politica subalpina dal 1383-1407, Pinerolo 1897; soprattutto, id., Storia dello Stato Sabaudo da Amedeo VIII a Emanuele Filiberto, voll. 3, Torino 1892-95. Anche A. Segre, Delle relazioni tra Savoia e Venezia da Amedeo V a Carlo III (1366-1553), in Atti Acc. Torino, XLIX (1899); ed E. Colombo, Jolanda duchessa di Savoia (1465-1478), in Miscellanea di storia italiana, XXXI (1894).
Per i marchesi di Monferrato, oltre l'Usseglio, cit. § 49, cfr. A. Bozzola, Un capitano di guerra e signore subalpino: Guglielmo VII di Monferrato (1254-1292), in Miscell. stor. ital., Torino 1925.
56. Politica d'espansione delle grandi repubbliche marinare. - V. soprattutto G. Caro, Genua u. die Mächte am Mittelmeer, 1257-1311. Ein Beitrag zur Geschichte d. XIII. Jahr., voll. 2, Halle 1895. Ma anche C. Manfroni, Le relazioni tra Genova, l'Impero bizantino e i Turchi, in Atti della Società ligure di storia patria, XXVIII (1898).
57. Storia economica. - Oltre alle opere di cui al § 38, che per la maggior parte si estendono anche a questo periodo, cfr. anzitutto L. Pöhlmann, Die Wirtschaftspolitik d. florentiner Renaissance, Lipsia 1878; A. Sapori, La compagnia dei Bardi e dei Peruzzi in Inghilterra nei secoli XIII e XIV, Firenze 1923; id., La crisi delle compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi, Firenze 1926; id., Una compagnia di Calimala ai primi del Trecento, Firenze 1932; G. Luzzatto, Piccoli e grandi mercanti nelle città italiane del Rinascimento, nel volume In onore di G. Prato, Torino 1931. Inoltre, E. Bensa, Francesco di Marco da Prato, Milano 1928.
Per l'arte della lana fondamentale A. Doren, Die Florentiner Wollentuchindustrie vom XIV. bis zum XVI. Jahrh., Stoccarda 1901 (è il vol. I degli Studien aus d. Florentiner Wirtschaftsgeschichte; il II, Das Florentiner Zunftwesen vom XIV. bis zum XVI. Jahrh., Stoccarda 1908). Cfr. anche R. Davidsohn, Blüte u. Niedergang d. florentiner Tuchindustrie, in Zeit f. d. gesamte Staatswissenschaft, LXXXV (1928).
In particolare, R. Broglio d'Ajano. Die venetianische Seidenindustrie u. ihre Organisation bis zum Ausgang des Mittelalters, in Münchener volskwirtschaftliche Studien, II, Stoccarda 1893; R. Cessi, La crisi economica veneziana del sec. XV, in Economia, 1923; A. Bonolis, Sull'industria della lana in Firenze, Firenze 1903; P. Pieri, Intorno alla storia dell'arte della seta in Firenze, Bologna 1927; S. Bongi, Della mercatura dei Lucchesi nei secoli XIII e XIV, Lucca 1884; P. Silva, Intorno all'industria e al commercio della lana in Pisa, in Studi storici, XIX (1910); H. Sieveking, Die Genueser Seiden-industrie in 15. u. 16. Jahrh., in Schmollers Jahrb., XXI (1897); I. Robolotti, Industrie e commerci in Cremona nel sec. XV, Milano 1880. Anche R. Piattoli, L'origine dei fondaci italiani di Pisa e Genova in rapporto agli avvenimenti politici, Prato 1930 (per il rifiorire dell'economia fiorentina dopo il tumulto de' Ciompi). Cfr. R. Cessi, L'"Officium de navigantibus" e i sistemi della politica commerciale veneziana nel sec. XIV, in Nuovo archivio veneto, n. s., XXXIII (1916).
Per gli Ebrei v. soprattutto U. Cassuto, Gli ebrei a Firenze nell'età del Rinascimento, Firenze 1918.
Per i rapporti con l'estero, oltre a H. Simonsfeld e a L. Mirot, cit. al § 38, W. Stieda, Hansisch-venetian. Handelsbeziehungen im 15. Jahrh., Halle 1894; R. Cessi, Le relazioni commerciali fra Venezia e le Fiandre nel sec. XIV, Venezia 1914; G. Bigwood, Les Tolomei en France au XIVe siècle, in Revue belge de philologie et d'histoire, VIII (1929). E cfr. E. Friedmann, Der mittelalterl. Welthandel v. Florenz in seiner geograph. Ausdehnung, Vienna 1912.
Per i rapporti fra capitale e lavoro, la situazione dei lavoratori, ecc., cfr. U. Gualazzini, Rapporti fra capitale e lavoro nelle industrie tessili lombarde nel Medioevo, Torino 1932; V. Lazzarini, Antichi ordinamenti veneziani a tutela del lavoro dei garzoni, in Atti Ist. veneto, 1928-29; R. Cessi, L'organizzazione di mestiere e l'arte della lana nel Polesine nei secoli XIV-XV, in Nuovo arch veneto, XVI (1908); M. Roberti, Il contratto di lavoro negli statuti medievali, in Riv. Intern. Scienze Sociali, 1932; e R. Broglio d'Ajano, Sulle corporazioni medievali delle arti in Italia e i loro statuti, ibid., 1911; A. Brugaro, L'artigianato pisano nel Medioevo (1000-1406), in Studi storici, XVI e XX (1907 e 1912); G. Arias, I lavoranti delle corporazioni artigiane nel medioevo in Riv. ital. di sociol. VIII (1904).
Per la storia bancaria: E. Marengo, C. Manfroni, G. Pessagno, Il Banco di S. Giorgio, Genova 1911; G. Biscaro, Il banc0 Filippo Borromei e comp. di Londra (1436-39), in Archivio storico lombardo, s. 4ª, XIX (1913); E. Lattes, La libertà delle banche a Venezia dal sec. XIII al XVII, Milano 1869; R. Cessi, I banchieri ebrei a Padova, in Boll. del Museo di Padova, 1907; id., Problemi monetari e bancari veneziani del sec. XIV, in Archivio veneto tridentino, 1926; G. Luzzatto, I banchieri ebrei in Urbino nell'età ducale, 2ª ed., Verona 1903. Anche A. Sapori, L'interesse del denaro a Firenze nel Trecento, in Arch. stor. ital., LXXXVI (1928); id., I mutui dei mercanti fiorentini del Trecento e l'incremento della proprietà fondiaria, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1928; O. Meltzing, Das Bankhaus d. Medici und seine Vorläufer, Jena 1906; H. Sieveking, Die Handlungsbücher d. Medici, in Sitzungsberichte d. Ak. d. Wissen., CLI, Vienna 1906; id., Aus venetian. Handlungsbüchern, in Schmollers Jahrb., XXV-VI (1901-02).
Per la storia finanziaria v. soprattutto H. Sieveking, Studi sulle finanze genovesi e in particolare sulla Casa di S. Giorgio nel Medioevo, Genova 1907; B. Barbadoro, Le finanze della repubblica fiorentina, Firenze 1929; inoltre le prefazioni di R. Cessi a La regolazione delle entrate e delle spese della rep. di Venezia (sec. XIII-XIV), Roma 1925; di G. Luzzatto a I prestiti della repubbl. di Venezia, I (sec. XIII-XIV), Roma 1929; id., Il debito pubblico nel sistema finanziario veneziano, in Nuova riv. stor., XIII (1929). Anche, ma meno buono, L. Nina, Le finanze pontificie nel Medioevo, voll. 2, Milano 1930-31. Per la politica mineraria A. Alberti e R. Cessi, La politica mineraria della repubbl. di Venezia, Roma 1927.
Per i Monti di Pietà, nel sec. XV, H. Holzapfel, Die Anfänge d. Montes Pietatis (1462-1515), Monaco 1903.
Per le leggi suntuarie: E. Verga, Le leggi suntuarie milanesi: gli statuti del 1385 e del 1498, in Arch. stor. lomb., XXV (1898); G. Bustico, Le leggi suntuarie della repubblica di Venezia, Genova 1916; A. Pinetti, La limitazione del lusso e dei consumi nelle leggi santuarie bergamasche, Bergamo 1917; G. Giomo, Il lusso, leggi moderatrici, pietre e perle false, in Nuovo arch. veneto, n.s., XVI (1908).
58. Storia militare. - Oltre al vecchio, ma sempre utile lavoro di E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, 2ª ed., Torino 1893; nuova ed., Milano 1929; e M. Jähns, Geschichte d. Kriegwissenschaften, Monaco 1889, v. H. Schäfer, Deutsche Ritter u. Edelknechte in Italien, voll. 3, Paderborn 1911-14; W. Block, Die Condottieri. Studien über die sogenannten unblutigen Schlachten, Berlino 1913; M. Hobohm, Machiavellis Renaissance d. Kriegskunst, voll. 2, Berlino 1913; F. L. Taylor, The art of war in Italy, 1494-1529, Cambridge 1922; P. Pieri, La crisi militare italiana nel Rinascimento, Napoli 1933; id., La scienza militare italiana nel Rinascimento, in Riv. stor. ital., L (1933). Cfr. anche P. Durrieu, Les Gascons en Italie, Parigi 1885; e per le milizie comunali S. Salvemini, I balestrieri del comune di Firenze, Bari 1905; P. Egidi, Intorno all'esercito del comune di Roma nella prima metà del sec. XIV, Viterbo 1897.
59. Storia della cultura. - Sempre fondamentale la celebre opera di J. Burckhardt, La civiltà italiana del Rinascimento, trad. it., 3ª ed., voll. 2, Firenze 1921. Ma cfr. specialmente per il primo periodo K. Burdach, Cola di Rienzo u. die geistliche Wandlung seiner Zeit, voll. 2, Berlino 1913-28; id., Reformation, Renaissance, Humanismus, 2ª ed., Berlino 1918; e per le connessioni fra vita culturale e vita sociale e politica, G. Volpe, Bizantinismo e Rinascenza, ora in Momenti di storia italiana, Firenze 1925. V. rinascimento.
Per le concezioni sociali, ecc., F. Engel-Jánosi, Soziale Probleme d. Renaissance, Stoccarda 1924; A. v. Martin, Soziologie d. Renaissance, Stoccarda 1932; A. Fanfani, Le origini dello spirito capitalistico in Italia, Milano 1933.
60. Storia religiosa. - V. soprattutto V. Zabughin, Storia del Rinascimento cristiano in Italia, Milano 1924. Ma cfr. P. Thureau-Dangin, Un prédicateur populaire dans l'Italie de la Renaissance: S. Bernardin de Sienne, Parigi 1924.
Per gli eretici, oltre a G. Volpe, F. Tocco, I. J. Döllinger cit. al § 39, cfr. F. Tocco, Guglielmina Boema e i Guglielmiti, in Mem. Acc. Lincei, VIII (1899); id., Il processo dei Guglielmiti, in Rend. Acc. Lincei, VIII (1899); id., Gli apostolici e fra Dolcino, Firenze 1897; id., La questione della povertà nel sec. XIV, Napoli 1910; A. Segarizzi, Contributo alla storia di fra Dolcino e degli eretici trentini, Trento 1901.
61. Storia delle dottrine politiche. - Fino all'età di Dante il Carlyle e il Dempf, cit. al § 23. Per l'età di Bonifazio VIII, soprattutto H. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen u. Bonifaz VIII., Stoccarda 1903; F. Ercole, Il pensiero politico di Dante, voll. 2, Milano 1927. Per il '300 e '400, F. Ercole, Impero e papato, cit. al § 50; id., Da Bartolo all'Althusio, Firenze 1932 (v. dante; marsilio da padova; bartolo da sassoferrato); F. Battaglia, Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo, Firenze 1928. Inoltre T. Persico, Gli scrittori politici napoletani dal 1400 al 1700, Napoli 1912; C. Curcio, La politica del '400, Firenze 1932.
62. Storia della vita privata. - Per la seconda metà del '400 l'opera monumentale di F. Malaguzzi-Valeri, La corte di Ludovico il Moro, voll. 4, Milano 1913 segg. (in corso di stampa la 2ª ed.). Inoltre N. Tamassia, La famiglia italiana nei secoli XV e XVI, Palermo 1912. Anche E. Pandiani, Vita privata genovese nel Rinascimento, in Atti Soc. ligure storia patria, XLVII (1915).
Singoli periodi. - 63. Dalla metà del sec. XIII al 1313. - R. Caggese, Su l'origine della Parte Guelfa e le sue relazioni col comune, in Arch. stor. ital., 1903; U. Dorini, Notizie storiche sull'università di Parte Guelfa a Firenze, Firenze 1902; A. V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna (1286-1326), Bologna 1901; L. Cerri, Alberto Scoto signore di Piacenza, in Arch stor. province parmensi, n. s., XII (1912); M. Melchiorri, Vicende della signoria di Ghiberto da Correggio in Parma, ibid., n. s., VI (1906); V. Fainelli, Le condizioni economiche dei primi signori scaligeri, in Atti Acc. Verona, 1918; C. Lazzeri, Guglielmino Ubertini vescovo d'Arezzo (1248-89) e i suoi tempi, Firenze 1920; F. Poggi, Le guerre civili di Genova, in Atti soc. ligure storia patria. LIV (1930); V. Samanek, Die verfassungsrechtliche Stellung Genuas (1311-13), in Mitt. d. Inst. f. österr. Geschichtsf., XXVII (1906) e XXVIII (1907).
Per le relazioni fra i varî stati: C. Manfroni, Relazioni di Genova con Venezia dal 1270 al 1290, La Spezia 1901; R. Cessi, La tregua fra Venezia e Genova nella seconda metà del sec. XIII, in Arch. veneto trident., IV (1923); C. Cipolla, Le fazioni politiche di Bologna e i signori di Lombardia, in Mem. Acc. Torino, LXII (1912); P. Terlizzi, Le relazioni di Carlo I d'Angiò con la Toscana 1265-85, in Atti congr. int. sc. stor., Roma 1903; F. Savio, La pretesa inimicizia di papa Niccolò III contro il re Carlo d'Angiò, in Arch. stor. sicil., n. s., XXVII (1902); A. Gorretta, La lotta fra il Comune Bolognese e la Signoria Estense (1293-1303), Bologna 1906; G. Degli Azzi Vitelleschi, Le relazioni fra la Repubblica di Firenze e l'Umbria nei secoli XIII e XIV, voll. 2, Perugia 1904-1909; P. Silva, Giacomo II di Aragona e la Toscana (1307-09), in Arch stor. ital., LXXI (1913); G. Sforza, Castruccio Castracani e gli altri Lucchesi di parte bianca in esilio, in Mem. Acc. Torino, s. 2ª, XLII (1890); G. Levi, Bonifacio VIII e le sue relazioni col comune di Firenze, in Arch. Soc. romana storia patria, V (1882); G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la Santa Sede per il dominio di Ferrara (1308-1313), Città di Castello 1905. Inoltre P. M. Perret, Histoire des relations de la France avec Venise du XIe siècle à l'avènement de Charles VIII, voll. 2, Parigi 1896. E per l'attentato di Anagni, P. Fedele, Per la storia dell'attentato di Anagni, in Boll. Ist. stor. ital., XLI (1921).
64. Dal 1313 al 1388 (crollo delle signorie Scaligera e Carrarese). - Signorie. H. Spangenberg, Cangrande I della Scala, Berlino 1892; G. Sandri, Il vicariato imper. e gli inizi d. Signoria scaligera, in Arch. ven., LXII (1932); G. Cittadella, Storia della dominazione carrarese in Padova, Padova 1842; L. Padrin, Il principato di Iacopo I da Carrara signore di Padova; L. Ciaccio, Il cardinale delegato Bertrando del Poggetto in Bologna (1327-34), 2ª ed., Bologna 1906; A. Sorbelli, La Signoria di Giovanni Visconti a Bologna e le sue relaz. con la Toscana, Bologna 1901; L. Sighinolfi, La Signoria di Giovanni da Oleggio in Bologna, Bologna 1905; M. Grimaldi, La Signoria di Bernabò Visconti e di Regina della Scala in Reggio, Reggio Emilia 1921; G. Pardi, Comune e signoria a Orvieto, Orvieto 1923; E. Colini Baldeschi, Comuni, signorie e vicariati nella Marca d'Ancona, in Atti e mem. Dep. storia patria Marche, s. 4ª, I (1924); F. Ardito, Nobiltà, popolo e signoria del conte Fazio di Donoratico in Pisa nella prima metà del sec. XIV, Cuneo 1920; N. Caturegli, La signoria di Giovanni dell'Agnello in Pisa e in Lucca, Buti 1920. E, ancora, P. D. Pasolini, I tiranni di Romagna e i papi nel Medioevo, Imola 1888.
Contese politiche e sociali nei Comuni: C. Paoli, Della signoria di Gualtieri duca d'Atene in Firenze, Firenze 1862, e Nuovi documenti intorno a Gualtieri VI, in Arch. stor. ital., s. 3ª, XVI (1872); A. Panella, Politica ecclesiastica del comune fiorentino dopo la cacciata del duca d'Atene, in Arch. stor. ital., LXXI (1913); N. Rodolico, Il popolo minuto, note di storia fiorentina (1343-1378), Bologna 1899; id., La democrazia fiorentina nel suo tramonto (1378-1382), Bologna 1904; P. Falletti, Il tumulto dei Ciompi, Torino 1882; G. Scaramella, Firenze allo scoppio del tumulto dei Ciompi, Pisa 1914; R. Broglio d'Ajano, Tumulti e scioperi a Siena nel sec. XIV, in Viertel. f. Sozial u. Wirtschaftsgesch., Stoccarda 1907; id., Lotte sociali a Perugia nel sec. XIV, ibid., 1910; B. Ghetti, Nobili e popolani in Recanati durante i secoli XIV e XV, Fermo s. a. (1924); A. Rado, Dalla Repubblica fiorentina alla Signoria Medicea. Maso degli Albizzi e il partito oligarchico in Firenze dal 1382 al 1393, Firenze 1927. Per Venezia V. Lazzarini, Marino Faliero avanti il dogado, in Nuovo arch. veneto, V (1893); id., Marino Faliero. La congiura, ibid., XIII (1897).
Per le relazioni interstatali, v. C. Capasso, La signoria Viscontea e la lotta politico-religiosa con il papato nella prima metà del sec. XIV, in Boll. Soc. pavese, 1908; R. Michel, Le procès de Matteo et Galeazzo Visconti, in Mélanges d'archéol. et d'histoire, Roma 1909; L. Frati, La contesa fra Matteo Visconti e Giovanni XXII, in Arch. stor. lombardo, XV (1888); G. Romano, I Pavesi nella lotta fra Giovanni XXII e Matteo e Galeazzo Visconti (1322-23), Pavia 1889; id., I Visconti e la Sicilia, in Arch. stor. lomb., XXIII (1896); G. Gorini, La politica di Lucca dal 1313 al 1335 e le sue relazioni con Giovanni XXII e Benedetto XII, in Miscell. lucchese di studi storici e letter. in memoria di P. Bongi, Lucca 1931; L. Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero (1336-1339) e note sulla condotta della guerra, in Mem. ist. Bologna, 1929-30; F. Baldasseroni, La guerra tra Firenze e Giovanni Visconti, in Studi storici, 1902; U. Assereto, Genova e la Corsica (1358-78), 2ª ed., Bastia 1901; G. Romano, La guerra tra i Visconti e la Chiesa (1369-76), in Boll. Soc. pavese, III (1903); A. Gherardi, La guerra degli Otto Santi, in Arch. stor. ital., (1867-68); F. Landogna, Le relazioni tra Bernabò Visconti e Pisa nella seconda metà del sec. XIV, in Arch. stor. lomb., L (1923); id., La politica dei Visconti in Toscana, Milano 1928; G. Romano, Gian Galeazzo Visconti e gli eredi di Bernabò, in Arch. stor. lombardo, XVIII (1891); id., Valentina Visconti e il suo matrimonio con Luigi di Touraine, ibid., XXV (1898) (e cfr. 1902); G. Collino, La guerra viscontea contro gli Scaligeri, in Arch. stor. lomb., XXXIV (1907); id., La preparazione della guerra veneto-viscontea contro i Carraresi, ibid., XXXIV (1907); L. Simeoni, La crisi decisiva della signoria scaligera, in Arch. veneto tridentino, 1926; I. Raulich, La caduta dei Carraresi, Padova 1890; E. Pastorello, Nuove ricerche sulla storia di Padova e dei principi da Carrara al tempo di Gian Galeazzo Visconti, Padova 1908; F. Gabotto, La guerra del conte Verde contro i marchesi di Saluzzo e di Monferrato nel 1363, in Picc. arch. storico Saluzzo, I (1901); R. Cessi, Amedeo di Acaia e la rivendicazione dei domini sabaudi in Oriente, in Nuovo arch. veneto, XXXVII (1919). E cfr. per il primo acquisto veneziano in terraferma, A. Vital, La dedizione di Conegliano a Venezia, (1337), in Arch. veneto-trident., VIII (1925); e per la politica veneziana, R. Cessi, Venezia e i regni di Napoli e Sicilia nell'ultimo trentennio del sec. XIV, in Arch. stor. per la Sicilia orientale, VIII (1911); G. Bolognini, Le relazioni tra la repubblica di Firenze e la repubbl. di Venezia nell'ultimo ventennio del sec. XIV, in Nuovo arch. veneto, IX (1895); V. Lazzarini, La battaglia di Pola e il processo di Vittor Pisani, Venezia 1913; A. Sorbelli, La lotta fra Genova e Venezia per il predominio del Mediterraneo (1350-55), in Mem. Accad. delle scienze, Istituto di Bologna, 1921. E cfr. G. Cogo, Il patriarcato di Aquileia e le aspirazioni dei Carraresi al possesso del Friuli, in Nuovo arch. veneto, XVI (1898).
65. Dal 1388 al 1454. - P. L. Rambaldi, Stefano III duca di Baviera al servizio della Lega contro Gian Galeazzo Visconti, in Arch. stor. lomb., XXVII (1901); P. B. Romanelli, La calata di Giovanni III d'Armagnac in Italia e la disfatta d'Alessandria, 25 luglio 1391, in Riv. stor. arte, arch. d. prov. di Alessandria, VIII (1924); L. Frati, La guerra di Gian Galeazzo Visconti contro Mantova nel 1397, in Arch. stor. lomb., XIV (1887); E. Galli, Facino Cane e le guerre guelfo-ghibelline nell'Italia settentrionale (1360-1400), in Arch. stor. lomb., XXIV (1897); R. Valentini, Braccio da Montone e il comune di Orvieto, Perugia 1923; id., Lo stato di Braccio e la guerra aquilana, nella politica di Martino V, in Arch. Soc. romana storia patria, LII (1931); P. Silva, Pisa sotto Firenze dal 1406 al 1433, Pisa 1910; A. Zanelli, Brescia sotto la signoria di Filippo Maria Visconti (1421-1426), in Riv. stor. ital., IX (1892); I. Raulich, La prima guerra fra i Veneziani e Filippo Maria Visconti, Torino 1888; R. Cessi, Venezia alla pace di Ferrara dal 1428, in Nuovo arch. ven., XXXI (1916); F. Gabotto, La guerra tra Amedeo VIII di Savoia e Filippo Maria Visconti, in Boll. stor. pavese, VIII-IX (1908-09); id., La politica di Amedeo VIII in Italia dal 1431 al 1435, in Boll. stor. bibl. subalpino, XIX-XX (1915-16); G. Cogo, La sottomissione del Friuli al dominio della repubbl. veneta, in Atti Acc. Udine, s. 3ª, III (1895-96); F. Cognasso, L'alleanza sabaudo-viscontea contro Venezia nel 1434, in Arch. stor. lomb., XLV (1919); id., L'alleanza sabaudo-viscontea contro il Monferrato nel 1434, in Arch. stor. lomb., XLII (1915); F. Tarducci, Alleanza Visconti-Gonzaga del 1438 contro la repubbl. di Venezia, in Arch. stor. lomb., XXV (1899); C. Albicini, Il governo visconteo a Bologna (1438-43), in Atti e mem. Dep. storia patria Romagne, s. 3ª, II (1883-4); F. Peluso, Storia della repubblica milanese dall'anno 1447 al 1450, Milano 1871; A. Colombo, Vigevano e la repubblica Ambrosiana nella lotta contro Francesco Sforza, in Boll. Soc. stor. pavese, III (1903); id., L'ingresso di Francesco Sforza a Milano e l'inizio di un nuovo principato, Milano 1905; cfr. anche A. Gianandrea, Della signoria di Francesco Sforza nella Marca, in Arch. stor. lomb., VIII-XXIII (1881-96) e in Arch. stor. ital., XLVI (1888); L. Rossi, La guerra in Toscana nell'anno 1447-48, Firenze 1903; id., Venezia e il re di Napoli, Firenze e F. Sforza (1450-51), in Nuovo arch. veneto, X (1905); id., Niccolò V e le potenze d'Italia (1447-51), in Riv. di scienze stor., II-III (1905-06); id., Lega tra il duca di Milano, i Fiorentini e Carlo VII re di Francia (21 febbraio 1452), in Arch. stor. lomb., XXXII (1906); id., I prodromi della guerra in Italia nel 1453-55, i tiranni di Romagna e Federico di Montefeltro, in Atti e mem. Dep. Marche, II (1905); id., Gli Eustachi di Pavia e la flotta viscontea nel sec. XV, I, Pavia 1915; E. Colombo, Re Renato alleato del duca Francesco Sforza contro i Veneziani (1453-54), in Arch. stor. lomb., XXI (1894); F. Antonini, La pace di Lodi e i segreti maneggi che la prepararono, in Arch. stor. lomb., LVI (1930); G. Soranzo, La lega italica, Milano 1924. V. anche M. De Bouard, La France et l'Italie à la fin du XIVe siècle. La ligue de 1396, in Mélanges d'arch. et d'hist., Roma 1932; M. Jarry, Les origines de la domination française à Gênes, Parigi 1895; E. Marengo, Genova e Tunisi (1388-1515), in Atti Soc. ligure storia patria, XXXIII (1901); A. Battistella, Il conte di Carmagnola, Genova 1889.
Per la storia interna di Firenze, A. Dainelli, Niccolò da Uzzano nella vita politica dei suoi tempi, in Arch. stor. ital., CX (1932); e per la politica estera fiorentina, dal 1434 in poi, B. Buser, Die Beziehungen d. Medicer zu Frankreich, während der Jahre von 1434 bis 1494, Lipsia 1879.
66. Dal 1454 al 1492. - G. B. Picotti, La dieta di Mantova e la politica dei Veneziani, in Miscell. storia veneta, s. 3ª, IV (1912); G. Soranzo, Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesta (1457-63), Padova 1911: C. Corvisieri, Pio II e la repubblica di Venezia, in Archivio Soc. rom. storia patria, I (1878); A. Sorbelli, Francesco Sforza a Genova (1458-66), Bologna 1901; E. Bontà, La Leventina nel Quattrocento. L'assedio di Bellinzona e la battaglia di Giornico (1478), Bellinzona 1929; P. Egidi, La politica del regno di Napoli negli ultimi mesi dell'anno 1480, in Arch. stor. napol., XXXV (1910); F. Fossati, Sulle cause dell'invasione turca in Italia nel 1480, Vigevano 1901; id., Sulle relazioni tra Venezia e Milano durante gli ultimi negoziati per la pace del 13 marzo 1480, in Nuovo arch. veneto, n. s., X (1905); id., Per l'alleanza del 25 luglio 1480, Vigevano 1907; id., Dal 25 luglio 1480 al 16 aprile 1481: l'opera di Milano, in Arch. stor. lomb., XXXVI (1909); E. Piva, Origine e conclusione d. pace e dell'alleanza tra i Veneziani e Sisto IV, in Nuovo arch. ven., n. s., I (1901); id., L'opposizione diplomatica di Venezia alle mire di Sisto IV su Pesaro e ai tentativi di crociata contro i Turchi, ibid., n. s., V-VI (1903); id., La guerra di Ferrara del 1482, Padova 1893-94; J. Calmette, La politique espagnole dans la guerre de Ferrara, 1482-1484, in Revue Historique, XCII; C. Bornate, La guerra di Pietrasanta (1484-85), in Miscell. stor. ital., s. 3ª, XIX (1921); P. L. Rambaldi, La guerra di Venezia col duca d'Austria nel 1487, in Nuovo archivio veneto, VII (1894); A. Zanelli, Roberto Sanseverino e le trattative di pace fra Innocenzo VIII e il re di Napoli, in Arch. Soc. rom. storia patria, XIX (1896); P. Fedele, La pace del 1486 tra Ferdinando d'Aragona ed Innocenzo VIII, in Archivio stor. napol., XXX (1905). Cfr. A. v. Reumont, Lorenzo de' Medici, voll. 2, 2ª ed., Lipsia 1883; e B. Buser, Lorenzo de' Medici als italienischer Staatsmann, Lipsia 1879; e R. Palmarocchi, La politica italiana di Lorenzo de' Medici, Firenze 1933; v. anche S. Magnante, L'acquisto dell'isola di Cipro da parte della rep. di Venezia, in Arch. ven., LIX (1929).
Per le vicende interne A. Anzilotti, La crisi costituzionale della repubblica Fiorentina, Firenze 1912 (v. anche A. Ricchioni, La costituzione politica di Firenze ai tempi di Lorenzo il Magnifico, Siena 1913); A. Panella, La crisi di regime di un comune meridionale (Aquila), in Arch. stor, ital., LXXXI (1923); E. Pontieri, La Calabria del sec. XV e la rivolta di Antonio Centeglia, Napoli 1926.
Periodo delle invasioni straniere (1492-1559).
Opere di carattere generale. - 67. Trattazioni d'insieme. - Esistono buone opere d'insieme, per tutto o almeno gran parte del periodo: per la prima parte, fino al 1530, v. F. Ercole, Da Carlo VIII a Carlo V, Firenze 1932; per il periodo 1520-1555, G. De Leva, Storia documentata di Carlo V in correlazione all'Italia, voll. 5, Venezia e Padova 1863-94 (mediocre M. Rosi, Il primato di Carlo V, Roma 1925). Ottima, e come informazione e anche come valutazione, è la Storia del sistema degli stati europei dal 1492 al 1559, di E. Fueter, trad. ital., Firenze 1932, ch'è per larga parte accentrata sull'Italia; utile anche il volume di H. Hauser e A. Renaudet, Les débuts de l'âge moderne. La Renaissance et la Réforme, Parigi 1929. Inoltre il Cipolla, cit. al § 50.
Per la situazione generale, all'inizio del sec. XVI, assai utili: P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, voll. 3, 2ª ed., Milano 1895-96 (preferibile alla 3ª ed., Milano 1926, dove mancano i documenti) e O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col Machiavellismo, voll. 2, Torino-Roma 1883-1911.
Inoltre per il periodo 1538-45, L. Cardauns, Von Nizza bis Crépy, Roma 1923; per quello 1536-1549, C. Capasso, Paolo III, voll. 2, Messina 1924 (e anche La politica di Paolo III e l'Italia, Bologna 1902); per quello 1547-1559, L. Romier, Les origines politiques des guerres de réligion, voll. 2, Parigi 1913-14.
Sempre da vedere L. v. Ranke, Geschichte d. romanischen u. germanischen Völker, in Sämmtl. Werke, XXXIII-XXXIV, Lipsia 1873.
Per la repubblica fiorentina, oltre ad Anzilotti, cit. al § 66, v. A. Crivellucci, Del governo popolare di Firenze (1494-1512), e del suo riordinamento secondo il Guicciardini, Pisa 1877; C. Roth, L'ultima repubblica fiorentina, trad. it., Firenze 1929; e A. Valori, La difesa della repubblica fiorentina, Firenze 1929; ma anche A. Rossi, F. Guicciardini e il governo fiorentino, 1527-1540, voll. 2, Bologna 1896-9; e A. Otetea, François Guichardin, Parigi 1926. Per Cosimo I, v. L. A. Ferrai, Cosimo de' Medici, duca di Firenze, Bologna 1882; anche id., Lorenzino de' Medici e la società cortigiana del Cinquecento, Milano 1891; A. Anzilotti, La costituzione interna dello stato fiorentino sotto il duca Cosimo I de' Medici, Firenze 1910. V. ancora L. v. Ranke, Filippo Strozzi u. Cosimo Medici, in Historisch- Biographische Studien, Lipsia 1877.
Per il papato, oltre al Pastor, Die Römischen Päpste di L. v. Ranke, in Sämmtl. Werke, XXXVII-IX, Lipsia 1875; M. Brosch, Julius II. u. die Gründung des Kirchenstaates, Gotha 1878 e Geschichte d. Kirchenstaates, voll. 2, Amburgo 1880.
Per il Savonarola, P. Villari, La storia di Girolamo Savonarola e dei suoi tempi, 4ª ed., voll. 2, Firenze 1929; e soprattutto G. Schnitzer, Savonarola, trad. ital., voll. 2, Milano 1931 (anche la polemica fra L. v. Pastor, Zur Beurtheilung Savonarolas, Friburgo in B. 1898, e P. Luotto, Il vero Savonarola e il Savonarola di L. Pastor, Firenze 1897).
68. Storia religiosa. - Per la vita religiosa in Italia nella prima metà del sec. XVI, soprattutto P. Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, voll. 2, Roma 1920-22 (2ª ed. del vol. I, in 2 parti, Roma 1931).
Per la Riforma in Italia, oltre il vecchio lavoro di C. Cantù, Gli eretici d'Italia, voll. 3, Torino 1864-66, v. K. Bernath, Geschichte de Reformation in Venedig, Halle 1887; G. Buschbell, Reformation u. Inquisition in Italien, Paderborn 1910; E. Rodocanachi, La Réforme en Italie, voll. 2, Parigi 1920-21; P. Chiminelli, Il contributo dell'Italia alla riforma religiosa in Europa, Roma 1924; id., Il debito della riforma all'Italia, in Bilychnis, XVIII (1929); F. Ruffini, La parte dell'Italia nella formazione della libertà religiosa moderna, in Riv. d'Italia, XXVI (1923); F. C. Church, The Italians Reformers, New York 1932.
Ma cfr. anche i lavori particolari di B. Fontana, Renata di Francia, voll. 3, Roma 1889-99 [cfr. C. Zaghi, Saggio di bibl., di Renata di Francia e della Riforma in Ferrara, in Atti e mem. Dep. ferrarese stor. patria, XXVIII (1931)]; A. v. Reumont, Vittoria Colonna, trad. it., Torino 1883; K. Bernath, Bernardino Ochino v. Siena, 2ª ed., Lipsia 1892; D. Bertrand-Barraud, Les idées philosophique de Bernardin Ochin de Sienne, Parigi 1924; D. Cantimori, Bernardino Ochino uomo del Rinascimento e riformatore, Pisa 1929; B. Amante, Giulia Gonzaga, Bologna 1896; G. Paladino, Giulia Gonzaga e il movimento valdesiano, Napoli 1908; A. Agostini, Pietro Carnesecchi e il movimento valdesiano, Firenze 1899 (cfr. L. Bruni, Cosimo I de' Medici e il processo d'eresia del Carnesecchi, Torino 1891); E. Cuccoli, Antonio Flaminio, Bologna 1897; G. F. Cortini, M. A. Flaminio luterano, Imola 1928; T. Sandonnini, Ludovico Castelvetro, Bologna 1882; C. H. Siret, P. P. Vergerius, 2ª ed., Brunswick 1871; G. Morpurgo, Un umanista martire. Aonio Paleario e la riforma teorica italiana nel sec. XVI, Città di Castello, 1912; A. Mancini, Note su Aonio Paleario, in Archivio stor. ital., LXXXIV (1926); C. Schmidt, Celio Secondo Curione, in Zeitschr. f. d. histor. Theologie, 1860; J. Bonnet, Olimpia Morata, 4ª ed., Parigi 1866; G. Agnelli, Olimpia Morata, Ferrara 1892, e in Sol per lo dolce suon de la mia terra, Ferrara 1918; A. Morpurgo, Olimpia Morata, in Arch. triestino, 1896-97; P. Paschini, Un amico del card. Polo, Alvise Priuli, Roma 1921; id., Pier Paolo Vergerio il giovane e la sua apostasia, Roma 1925; E. Ruffini Avondo, Gli "Stratagemata Satanae" di Giacomo Aconcio, in Rivista storica italiana, XLV (1928); F. Ruffini, Il giureconsulto chierese Matteo Gribaldi Mofa e Calvino, in Rivista stor. dir. ital., I (1928); id., Francesco Stancaro, in Ricerche religiose, VII (1932). E cfr. F. C. Church, The literature on the Italian Reformation, in The Journal of Modern History, 1931.
Inoltre G. De Leva, Degli eretici di Cittadella, Venezia 1873; M. Rosi, La Riforma religiosa in Liguria, in Atti Soc. ligure storia patria, XXVI (1804); F. Borlandi, La riforma luterana nell'università di Pavia, Roma 1928; F. Monleone, Aspetti della Riforma e Controriforma religiosa in Calabria, Vibo-Valentia 1930; B. Pascal, La Riforma protestante nelle terre dell'abbazia dei SS. Vittore e Costanzo, in Boll. stor. bibl. subalp., XXXIII (1931); id., Da Lucca a Ginevra. Studi sulla emigrazione religiosa lucchese (sec. XVI), in Rivista storica ital., XLIX e L (1932-33); anche F. Ruffini, La "Cabale Italique" nella Ginevra del Seicento, in La cultura, X (1931); U. Dorini, Cosimo I de' Medici e l'eresia in Lucca, in Miscell. lucchese di studi storici e letter. in memoria di S. Bongi, Lucca 1931.
Anche L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, voll. 2, Città di Castello 1892; E. Vecchiato, L'Inquisizione sacra a Venezia, Padova 1891; E. Rota, Per la storia dell'Inquisizione a Pavia, in Boll. Soc. pavese, VII (1907); L. Fumi, L'Inquisizione e lo Stato di Milano, Milano 1910; A. Battistella, Il S. Officio e la Riforma religiosa in Bologna, Bologna 1905; A. Garufi, Contributo alla storia dell'Inquisizione in Sicilia nei secoli XVI e XVII, Palermo 1920; G. F. Cortini, La Riforma e l'Inquisizione in Imola (1551-1578), Imola 1928; M. Battistini, Per la storia dell'Inquisizione fiorentina, in Bilychnis, XVIII (1929); G. M. Monti, Ricerche su Paolo IV Carafa, Benevento 1925.
69. Storia economica. - Cfr. R. Ehrenberg, Das Zeitalter d. Fugger, voll. 2, 2ª ed., Jena 1922. Assai importante anche A. Schulte, Die Fugger in Rom, voll. 2, Lipsia 1904; M. Brésard, Les foires de Lyon au XVe et XVIe siècle, Parigi 1914 (cfr. A. Rouche, La nation florentine de Lyon au commencement du XVIe siècle, in Revue d'histoire de Lyon, 1912); A. Goris, Études sur les colonies marchandes méridionales (Portugais, Espagnols, Italiens) à Anvers de 1488 à 1567, Lovanio 1925; e A. Weitnauer, Venezianischer Handel d. Fugger, Monaco-Lipsia 1931.
Per la "rivoluzione dei prezzi", cfr. G. Wiebe, Zur Geschichte d. Preisrevolution der XVI. u. XVII. Jahrh., Lipsia 1895; D. Bartolini, Prezzi e salari nel comune di Portogruaro durante il sec. XVI, in Annali di statistica, Roma 1878; A. Fanfani, La rivoluzione dei prezzi a Milano nel XVI e XVII secolo, in Giornale degli economisti, 1932,.
70. Storia della cultura. - V. soprattutto G. Toffanin, La fine dell'umanesimo, Torino 1920; id., Il Cinquecento, Milano 1929 (per la storia delle dottrine politiche v. machiavelli).
71. Vita privata. - Ampie notizie in A. Luzio e R. Renier, Mantova e Urbino, Isabella d'Este e Isabella Gonzaga nelle relaz. familiari e nelle relaz. politiche, Torino 1893; id., Relazioni di Isabella d'Este Gonzaga con Ludovico e Beatrice Sforza, Milano 1890; e in A. Luzio, Isabella d'Este e la corte sforzesca, in Arch. stor. lomb., XXVIII (1901); id., Isabella d'Este e Francesco Gonzaga promessi sposi, ibid., XXXV (1908); G. Gasperoni, Storia e vita romagnola nel sec. XVI, Iesi 1906; L. Dorez, La cour du Pape Paul III d'après les registres de la Trésorerie secrète, voll. 2, Parigi 1932. V. anche A. Cassa, Funerali, pompe e conviti, Brescia 1887; G. B. Intra, Nozze e funerali alla corte dei Gonzaga, 1549-50, in Arch. stor. lomb., XXIII (1896); C. Carnesecchi, Donne e lusso in Firenze nel sec. XVI, Firenze 1902; L. Frati, Giuochi e amori alla corte di Isabella d'Este, in Arch. stor. lomb., XXV (1898); A. Luzio e R. Renier, Contributo alla storia del malfrancese ne' costumi e nella letteratura italiana del sec. XVI, in Giorn. stor. lett. ital., V (1885).
Singoli momenti. - 72. Dal 1492 al 1520. - a) Spedizione di Carlo VIII. - Assai invecchiato e da modificare in più punti, F. Delaborde, L'Expédition de Charles VIII en Italie, Parigi 1888. Fondamentali invece i lavori di P. Negri, Milano, Ferrara e Impero durante l'impresa di Carlo VIII in Italia, in Arch. stor. lomb., XLIII (1917); id., Le missioni di Pandolfo Collenuccio a papa Alessandro VI, in Arch. Soc. rom. st. pat., XXXIII (1910); id., Studi sulla crisi politica italiana alla fine del sec. XV, in Arch. stor. lomb., L-LI (1924-25); di A. Segre, Ludovico Sforza detto il Moro e la rep. di Venezia dall'autunno 1494 alla primavera 1495, ibid., XXVIII-XXX (1902-03); id., I prodromi della ritirata di Carlo VIII re di Francia da Napoli, in Arch. storico italiano, 1904; e di G. B. Picotti, La neutralità bolognese nella discesa di Carlo VIII, Bologna 1919 (v. anche del Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928). V. anche A. Luzio e R. Renier, Francesco Gonzaga alla battaglia di Fornovo secondo i documenti mantovani, in Arch. stor. ital., XLVIII (1890).
Per la spedizione di Luigi XII, fondamentale L. G. Pélissier, Louis XII et Ludovic Sforza, voll.2, Parigi 1896; cfr. dello stesso, La politique du marquis de Mantoue, 1498-1500, in Annales de la Faculté de Lettres de Bordeaux, ivi 1892; id., La politique du Trivulce au début du règne de Louis XII, in Revue des questions historiques, 1894; id., Sopra alcuni documenti relativi all'alleanza tra Alessandro VI e Luigi XII, 1498-99, in Arch. Soc. rom. st. pat., XVII-XVIII (1894-95). Inoltre R. de Maulde la Clavière, Histoire de Louis XII, p. 1ª, III, Parigi 1891; E. Rott, Histoire de la représentation diplomatique de la France auprès des cantons suisses, I, Berna e Parigi 1900; G. Scaramella, Relazioni tra Pisa e Venezia (1495-96), in Studi stor., VII e IX (1898 e 1900); id., Il lodo del duca di Ferrara tra Firenze e Venezia, in Nuovo arch. veneto, n. s., V (1903). E per il Savonarola ancora L. v. Ranke, Savonarola und die florentinische Republik gegen Ende des 15. Jahrh., in Historisch-biographische Studien, Lipsia 1877.
b) Politica di Massimiliano. - Fondamentale H. Ulmann, Kaiser Maximilian I., voll. 2, Stoccarda 1884-1891; inoltre M. v. Wolff, Die Beziehungen Kaiser Maximilians I. zu Italien 1495-1508, Vienna 1909; per quella degli Svizzeri, oltre a J. Dierauer, Gesch. d. Schweiz. Eidgenossenschaft, II, Gotha 1892; e a C. Kohler, Les Suisses dans les guerres d'Italie, de 1506 à 1512, Ginevra 1897; cfr. specialmente E. Gagliardi, Der Anteil der Schweizer an d. italienischen Kriegen, I (1494-1509), Zurigo 1919; id., Novara u. Dijon, Berlino 1907; A. Büchi, Kardinal Matthäus Schiner, voll. 2, Zurigo 1923.
c) Cesare Borgia e L'Italia Centrale. - E. Alvisi, Cesare Borgia duca di Romagna, Imola 1878; Ch. Yriarte, César Borgia, Parigi 1889; W. H. Woodward, Cesare Borgia, Londra 1913; R. Sabatini, The Life of Cesare Borgia, 10ª ed., Londra 1926; L. Fumi, Alessandro VI e il Valentino in Orvieto, Siena 1877; G. Volpe, Intorno ad alcune relazioni di Pisa con Alessandro VI e Cesare Borgia, in Studi stor., VI-VII (1897-1898); B. Feliciangeli, Sull'acquisto di Pesaro fatto da Cesare Borgia, Camerino 1900; A. Luzio, Isabella d'Este e i Borgia, in Arch. stor. lomb., XLI-XLII (1914-15). E cfr. U. G. Mondolfo, Pandolfo Petrucci signore di Siena, Siena 1899; G. Nicasi, La famiglia Vitelli di Città di Castello e la Repubblica Fiorentina fino al 1504, 2ª ed., voll. 2, Perugia 1916; P. D. Pasolini, Caterina Sforza, voll. 3, Roma 1893 (2ª ed. ridotta, Firenze 1913); F. Ugolini, Storia dei conti e dei duchi di Urbino, voll. 2, Firenze 1859.
d) Periodo 1500-1508. - Cfr. specialmente C. Kohler, La conquête du Tessin, 1500-1503, in Revue Historique, 1891; R. de Maulde la Clavière, Conquête du Canton de Tessin par les Suisses, Torino 1890; id., L'entrevue de Savone, en 1507, in Rev. d'hist. diplom., IV (1890); G. Filippi, Il convegno in Savona tra Luigi XII e Ferdinando il Cattolico, Savona 1890; F. T. Zanchi, La prima guerra di Massimiliano contro Venezia, Padova 1916; E. Pandiani, Un anno di storia genovese (1506-7), in Atti Soc. ligure storia patria, XXXVII (1905).
e) Lega di Cambrai e guerre con essa connesse. - V. specialmente A. Bonardi, Venezia e la lega di Cambrai, in Nuovo arch. veneto, 1904; A. Luzio, I preliminari della lega di Cambrai concordati a Milano e a Mantova, in Arch. stor. lomb., XXXVIII (1911); M. Brunetti, Alla vigilia di Cambrai. La legazione di Vincenzo Querini all'imperatore Massimiliano (1507), in Arch. veneto-tridentino, X (1926); M. F. v. Wolff, Untersuchungen zur Venezianer Politik Kaiser Maximilians I. während d. Liga v. Cambray, Innsbruck 1905; K. Kaser, Die Auswärtige Politik Maximilians I., in Mitt. d. Ist. f. österr. Geschichtsforsch., XXVII, Innsbruck 1906 (v. anche cambrai); P. Lehmann, Das Pisaner Concil von 1511, Breslavia 1874; L. Sandret, Le concil de Pise 1511, in Revue des questions historiques, 1883; cfr. A. Luzio, Isabella d'Este di fronte a Giulio II negli ultimi tre anni del suo pontificato, in Arch. stor, lomb., XXXIX (1912); V. Fraknói, Ungarn u. die Liga von Cambrai, Budapest 1883. V. lega: Lega santa.
Per la storia militare, E. Siedersleben, Die Schlacht bei Ravenna, Berlino 1908.
f) Dalla morte di Giulio II all'inizio delle lotte tra Francesco I e Carlo V. - Vedi soprattutto F. Nitti, Leone X e la sua politica, Firenze 1892; ma anche A. Luzio, Isabella d'Este nei primordi del papato di Leone X e il suo viaggio a Roma nel 1514-15, in Arch. stor. lomb., XXXIII (1906); G. B. Picotti, La congiura dei cardinali contro Leone X, in Riv. stor. ital., XL (1923). E anche A. Giorgetti, Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, e Jacopo V di Appiano, in Arch. stor. ital., s. 4ª, VIII (1881); A. Verdi, Gli ultimi anni di Lorenzo de' Medici duca di Urbino, 1515-1519, Este 1889. Per la storia militare, G. Fischer, Die Schlacht bei Novara, Berlino 1907; H. Harkensee, Die Schlacht bei Marignano, Berlino 1908. Per la storia sabauda, A. Caviglia, Claudio di Seyssel (1450-1520). La vita nella storia dei suoi tempi, in Miscell. stor. ital., LIV (1928).
73. Periodo 1521-1559. - E. Pacheco, La politica española en Italia, 1521-1524, I, Madrid 1919; P. Balan, Clemente VII e l'Italia dei suoi tempi, Milano 1887; A. Segre, Carlo II duca di Savoia e le guerre d'Italia tra Francia e Spagna dal 1515 al 1525, in Atti Acc. Torino, XXXV (1899-900); P. Kopitsch, Die Schlacht bei Pavia, Berlin0 1907; S. Ehses, Die Politik d. Papstes Clement VII. bis zur Schlacht v. Pavia, in Hist. Jahrbuch, VI-VII (1888-9); G. Jacqueton, La politique extérieure de Louise de Savoie, Parigi 1892; A. Rodriguez Villa, Italia desde la batalla de Pavia hasta el saco de Roma, Madrid 1885; R. Grethen, Die politischen Beziehungen Klemens VII. zu Karl V., in d. Jahr. 1525-1527, Hannover 1887; W. Hellwig, Die politischen Beziehungen Klemens VII. zu Karl V. im Jahr. 1526, Lipsia 1889; P. Falletti-Fossati, Clemente VII e l'impresa di Siena, il sacco di Roma, l'assedio di Napoli, Siena 1879; G. Salvioli, Nuovi studi sulla politica e le vicende dell'esercito imperiale in Italia nel 1526-27 e sul sacco di Roma, in Arch. veneto, XVI-XVII (1878-79); A. Professione, Dalla battaglia di Pavia al sacco di Roma, Siena 1890; C. Ravioli, Le guerre dei sette anni sotto Clemente VII, in Arch. Soc. romana stor. pat., VI (1883); H. Schultz, Der Sacco di Roma, Halle 1894; H. Omont, Les suites du sac de Rome par les impériaux et la campagne de Lautrec en Italie, in Mélanges d'archéol. et d'histoire, 1896; J. Martin, Charles V et Clement VII à Bologne, in Bulletin Hispanique, 1911; G. Claretta, Carlo V e Clemente VII: il loro arrivo al Congresso di Bologna e l'assedio di Firenze del 1530 secondo il legato di Savoia a Roma, Torino 1893; P. Falletti-Fossati, L'assedio di Firenze, Palermo 1883; A. Bardi, Carlo V e l'assedio di Firenze da documenti dell'archivio di Bruxelles, in Arch. stor. ital., LI (1893). E cfr. C. Gioda, Girolamo Morone e i suoi tempi, Torino 1887; G. B. Pighi, Gian Matteo Giberti vescovo di Verona, 2ª ed., Verona 1924; C. Bornate, Ricerche intorno a Mercurino di Gattinara, Novara 1899; id., L'apogeo della casa di Asburgo e l'opera politica di un gran Cancelliere (Mercurino di G.) di Carlo V, in Nuova riv. stor., III (1919); id., La politica italiana del gran cancelliere di Carlo V, in Boll. stor. per la prov. di Novara, XXIV (1930); A. Medin, La battaglia di Pavia. Profeti e poeti italiani, in Arch. stor. lomb., LII (1925).
Assai importanti gli studî di A. Segre, La politica sabauda con Francia e Spagna dal 1515 al 1533, in Memorie Acc. Torino, L (1900); id., Carlo II di Savoia, le sue relazioni con Francia e Spagna e le guerre piemontesi dal 1536 al 1545, in Mem. Acc. Torino, LII (1902); id., Appunti di storia sabauda dal 1546 al 1553, in Atti Acc. Lincei, s. 5ª, XII (1903); id., Appunti sul ducato di Carlo II di Savoia dal 1546 al 1550, in Atti Acc. Lincei, s. 5ª, IX (1900); id., Il richiamo di don Ferrante Gonzaga dal governo di Milano e sue conseguenze, in Mem. Acc. Torino, LIV (1904); id., La questione sabauda e gli avvenimenti politici e militari che prepararono la tregua di Vaucelles, ibid., LV (1905); id., La campagna del duca d'Alba in Piemonte nel 1555, in Rivista militare ital., II (1905); id., L'opera politico-militare di Andrea Provana di Leyní nello stato sabaudo dal 1553 al 1559, in Mem. Acc. Lincei, s. 5ª, VI (1898); M. Lupo-Gentile, La politica di Paolo III in relazione con la corte medicea, Sarzana 1906; G. De Leva, La guerra di Giulio III contro Ottavio Farnese, in Riv. stor. ital., I e VIII (1884 e 1891); L. Chiesi, Papa Giulio III e la guerra di Parma e della Mirandola, in Atti Dep. prov. modenesi, s. 4ª, IV (1893); G. Coggiola, I Farnesi e il ducato di Parma e Piacenza, Parma 1905; L. N. Cittadella, L'ultimo decennio di Ercole II, in Arch. stor. ital., XXV (1877). Per le campagne in Piemonte anche C. Marchand, Charles I de Cossé, comte de Brissac et maréchal de France, Parigi 1889. V. inoltre G. Curti, La congiura contro Pier Luigi Farnese, Milano 1899; R. Massignan, Il primo duca di Parma e Piacenza e la congiura del 1547, Parma 1907 (anche F.-H. De Navenne, Rome, le palais Farnèse et les Farnèse, Parigi 1914); E. Celesia, La congiura del conte G. L. Fieschi, Genova 1865; L. Staffetti, La congiura del Fiesco e la corte di Toscana, in Atti Soc. ligure storia patria, XXIII (1891); E. Callegari, La congiura del Fiesco secondo i documenti degli archivi di Simancas e di Genova, in Ateneo veneto, 1892; G. Duruy, Le cardinal Carlo Carafa. Étude sur le pontificat de Paul IV, Parigi 1882; M. Brosch, Paul IV. gegen Karl V. u. Philipp II., in Mitt. d. Inst. f. österr. Geschichtsforsch., XXV (1904); R. Ancel, La question de Sienne et la politique du card. Carlo Carafa, in Revue Bénédictine, XXII (1905); N. Bartoli, La congiura di Siena e la cacciata degli Spagnoli nel 1552, 1932. Per la guerra di Siena, P. Courteault, Blaise de Monluc historien, Parigi 1908.
Per i rapporti veneto-turchi, L. Bonelli, Il trattato turco-veneto del 1540, in Centenario M. Amari, II, Palermo 1910.
74. Storia interna. - Cfr. M. Formentini, Il ducato di Milano, cit. al § 50; e La dominazione spagnola in Lombardia, Milano 1881; L. Scarabelli; L'ultima ducea di P. L. Farnese, Bologna 1868; E. Scapinelli, Le riforme sociali del duca Pier Luigi Farnese, in Rassegna nazionale, CXLVII (1906); L. Romier, Les institutions françaises en Piémont sous Henri II, in Revue historique, 1911-13; e anche V. L. Bourrilly, Guillaume du Bellay, seigneur de Langey (1491-1534), Parigi 1905; G. Capasso, Il governo di don Ferrante Gonzaga in Sicilia, dal 1535 al 1543, in Arch. stor. sicil., n. s., XXX-XXXI (1905-1906).
Età del predominio spagnolo (1559-1700).
Opere di carattere generale. - 75. Trattazione d'insieme. - Come trattazione d'insieme, dal punto di vista informativo, E. Callegari, Le preponderanze straniere, Milano s. a. (nella collezione F. Vallardi). Ma per le caratteristiche fondamentali dell'età, v. B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929; e anche, id., La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Bari 1917, 2ª edizione, 1922.
Assai importante inoltre, per tutto il periodo, V. Di Tocco, Ideali d'indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnuola, Messina 1927; v. anche G. Rua, Per la libertà d'Italia, Torino 1905; V. Di Tocco, Un progetto di confederazione italiana nella seconda metà del Cinquecento, in Arch. stor. ital., LXXXII (1924); C. Morandi, Una polemica sulla libertà d'Italia a mezzo il Seicento, in Nuova riv. storica, XI (1927); B. Croce, Un difensore italiano della libertà dei popoli nel Seicento, in Atti R. Acc. Napoli, 1926.
Cfr. A. Valente, Filippo II e l'Italia, in Nuova riv. stor., X (1926); N. Rodolico, Italia ed Europa nei primi due secoli dell'età moderna, in Nuova Ant., LXII (1927).
Per il ducato di Savoia, P. Egidi, Emanuele Filiberto, Torino 1928; I. Raulich, Storia di Carlo Emanuele I, voll. 2, Milano 1896-1902; R. Bergandani, Carlo Emanuele I, 2ª ed., Torino 1933; G. Foà, Vittorio Amedeo I, Torino 1931; G. Claretta, Storia della reggenza di Cristina di Francia duchessa di Savoia, Torino 1868; id., Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II duca di Savoia, Genova 1877; D. Carutti, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Firenze 1863. Per la seconda metà del '500 assai importante L. Cramer, La Seigneurie de Genève et la maison de Savoie, voll. 2, Ginevra 1896.
Per il granducato in Toscana, L. Carcereri, Cosimo I granduca (1560-90), voll. 3, Verona 1926-29. E cfr. G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, voll. 3, Firenze 1925. Per il papato, soprattutto P. Herre, Papsttum u. Papstwahl im Zeitalter Philipp II., Lipsia 1907. Per Venezia e i suoi dominî cfr. A. Andreádēs, Περὶ τῆς οἰκονομικῆς διοικήσεως τῆς ‛Επτανήσου ἐπὶ Βενετοκρατίας (L'amministrazione economica delle Isole Ionie sotto il dominio veneto), voll. 2, Atene 1914.
Per i rapporti con l'Impero, S. Pugliese, Le prime strette dell'Austria in Lombardia, Milano 1932.
76. Storia interna ed economica dei singoli stati. - Per il Piemonte v. sopra tutto gli scritti di A. Segre, A. Tallone, F. Patetta, F. Ruffini, M. Viora, D. Bizzarri, M. Chiaudano, A. Garino-Canina e altri nei voll. miscell. Eman. Filiberto, Torino 1928; Studi pubblicati dalla R. Università di Torino nel IV centenario della nascita di E. F., Torino 1928; e Torino al tempo di Em. Fil., a cura di C. Patrucco, voll. 3, Torino 1928 (in Bibl. Soc. stor. subalpina). V. anche G. Manno, Degli ordinamenti giudiziari del duca di Savoia E. Filiberto, Torino 1928; ancora P. C. Boggio, Chiesa e Stato in Piemonte, Torino 1854; R. Bergadani, Rivalità fra Chiesa e Stato per intrighi politici alla corte di Vittorio Amedeo di Savoia, in Boll. stor. bibl. subalp., XXIV (1922). Per la popolazione, la vita econ., G. Prato, Censimenti e popolazione in Piemonte, in Riv. ital. di sociologia, 1906; A. Garino-Canina, La finanza del Piemonte nella seconda metà del sec. XVI, in Miscell. storia italiana, 1924; anche S. Foà, Gli Ebrei nel Monferrato nei secoli XVI e XVII, Alessandria 1924. Per la vita culturale, sguardo d'insieme in L. Arezio, La cultura piemontese da Carlo III di Savoia a Carlo Felice, in Nuova Antologia, LXIV (1929); in particolare specialmente F. Gabotto, Per la storia della letteratura civile dei tempi di Carlo Emanuele I, in Rend. Acc. Lincei, s. 5ª, III (1894); G. Rua, Epopea savoina alla corte di Carlo Emanuele I, in Gior. storico d. lett. ital., XXII e XXVII (1893 e 1896); id., Poeti della corte di Carlo Emanuele I, Torino 1899.
Per la Lombardia, oltre al Formentini, cit., cfr., E. Verga, Le leggi suntuarie e la decadenza dell'industria in Milano 1565-1750, in Arch. stor. lomb., XXXII (1906); id., Il comune di Milano e l'arte della seta dal sec. XV al XVIII, Milano 1917; id., La Congregazione del ducato o l'amministrazione dell'antica provincia di Milano, Milano 1895; C. Cantù, La Lombardia nel sec. XVII, Milano 1854; V. Forcella, Milano nel sec. XVII, Milano 1898; A. Crespi, Il Senato di Milano, Milano 1899; A. Visconti, La pubblica amministrazione nello Stato Milanese durante le preponderanze straniere, 1541-1796, Milano 1911. Per Venezia, si veda: E. M. Forcellini, L'organizzazione economica dell'arsenale di Venezia nella prima metà del Seicento, in Arch. veneto, n. s., X (1930). Per Napoli, F. Nicolini, Sulla vita civile, letteraria e religiosa napoletana alla fine del Seicento, in Att. Acc. scienze morali e politiche di Napoli, 1929; N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento: Francesco d'Andrea, Napoli 1923. Per la Sicilia, G. Salvioli, Le colonizzazioni in Sicilia nei secoli XVI-XVII, in Vierteljahr. f. Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, I (1903); C. Giardina, L'istituto del viceré di Sicilia (1415-1718), in Arch. stor. siciliano, L (1930). Anche A. Mori, Sulla formazione di nuovi centri abitati in Sicilia negli ultimi quattro secoli, in Riv. geogr. ital., XXVII (1920).
77. - La Controriforma. - Come opera d'insieme, ancora indispensabile E. Gothein, Stato e società nell'età della Controriforma, trad. ital., 2ª ed., Venezia 1930 (per la parte dell'Italia v. anche K. Brandi, Katholizismus u. Protestantismus im XVI. Jahrh., in Zeitwende, 1930). Manca tuttora un lavoro complessivo sulla Controriforma in Italia: sui due massimi centri di essa, per Milano al tempo di S. Carlo Borromeo, cfr. E. Rota, La reazione cattolica a Milano, in Boll. Soc. pavese, V e VI (1905-06); M. Bendiscioli, L'inizio della controversia giurisdizionale a Milano tra l'arciv. Carlo Borromeo e il Senato milanese (1566-1568), in Arch. stor. lomb., LII (1926); id., La bolla In Coena Domini e la sua pubblicazione a Milano nel 1568, ibid., LIII (1927; cfr. anche C. Bascapè, I barnabiti e la Controriforma in Lombardia, Milano 1931); per Roma al tempo di S. Filippo Neri, ecc., cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, Saint Philippe Néri et la sociéte romaine de son temps (1515-1595), Parigi 1928 (trad. ital., Firenze 1931); A. Dupront, Autour de Saint Philippe Néri. De l'optimisme chrétien, in Mélanges arch. et histoire, 1932. V. anche F. Barbieri, La Controriforma nello stato di Milano da S. Antonino a S. Carlo Borromeo, in Boll. Soc. pavese, XIII (1913); id., La riforma dell'eloquenza sacra in Lombardia operata da S. Carlo Borromeo, in Arch. stor. lomb., XXXVIII (1911); id., La lirica volgare e lat. lomb. nel periodo d. Controriforma, in Athenaeum, I (1913); id., Alcuni caratteri d. Controriforma in Lombardia. Il rinnovamento degli studi ecclesiastici e la riforma della letteratura profana, in Giorn. stor. lett. ital., LXXXVII (1926); P. Paschini, Due episodi della Controriforma in Italia, in Arch. Soc. romana storia patria, XLIX (1926); F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925. Anche P. Tacchi Venturi, Il beato Roberto Bellarmino, Roma 1923; Ch. Dejob, De l'influence du concile de Trente sur la littérature et les beaux-arts chez les peuples catholiques, Parigi 1884; ma soprattutto E. Mâle, L'art religieux après le concile de Trente, Parigi 1932.
78. Storia delle dottrine politiche. - V. soprattutto G. Toffanin, Machiavelli e il "Tacitismo". La politica storica nell'età della Controriforma, Padova 1921; F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in d. neueren Geschichte, Monaco 1924. Anche P. Treves, La ragione di stato nel Seicento in Italia, in Civiltà moderna, III (1931); G. Salvioli, I politici della Controriforma in Italia, Palermo 1892; C. Morandi, La politica dell'assolutismo, Pavia 1929. Su singoli pensatori, R. De Mattei, La politica di Campanella, Roma 1926; P. Treves, La filosofia politica di T. Campanella, Bari 1930; C. Giardina, La vita e l'opera politica di Scipione di Castro, Palermo 1931; F. Chabod, Giovanni Botero, Roma 1933.
Per le dottrine economiche v. specialmente M. de Bernardi, G. Botero economista, Torino 1931; G. Arias, Albori dell'economia monetaria in Italia, in Politica, V (1923); R. Michels, Il concetto coloniale nelle teorie degli economisti classici italiani, in Rivista di politica economica, XII (1932); id., Sul contributo del pensiero classico italiano (Sei e Settecento) nella storia delle dottrine economiche, in Bullet. of the International Committee of Hist. Sciences, V (1933).
Singoli momenti. - 79. Età di Emanuele Filiberto. - G. Claretta, La successione di Em. Filiberto al trono sabaudo, Torino 1884; A. Segre, Em. Filiberto e la repubblica di Venezia, in Miscell. stor. veneta, s. 2ª, 1901; R. Quazza, Em. Filiberto di Savoia e Guglielmo Gonzaga (1559-1580), in Atti Acc. Virgiliana, Mantova 1929; F. P. Giordani, Un disegno di pacificazione tra Francia e Spagna e la politica di Em. Filiberto, in Arch. stor. ital., LXXVI (1918).
Per la lega di Lepanto, P. Herre, Europäische Politik im cyprischen Krieg 1570-73, I, Lipsia 1902; C. Manfroni, La lega cristiana nel 1572, Roma 1893; P. Molmenti, Sebastiano Veniero e la battaglia di Lepanto, Firenze 1899; ma soprattutto L. Serrano, La liga de Lepanto entre España, Venecia y la S. Sede, 1570-73, voll. 2, Madrid 1918-20. Anche A. Dragonetti de Torres, La lega di Lepanto nel carteggio diplomatico inedito di don Luys de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II, Torino 1931; e M. A. Levi, Em. Filiberto e la questione del regno di Cipro nel 1570-71, in Annali Ist. sup. magistero Piemonte, II (1928). Interessante, G. A. Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell'epoca, Milano 1930.
Utile per le relazioni tra Genova, Toscana e Roma, R. Russo, Sampiero Corso, Livorno 1932 (v. anche G. Livi, La Corsica e Cosimo I de' Medici, Firenze-Roma 1885). Cfr. E. Palandri, Les négociations politiques et religieuses entre la Toscane et la France 1544-1580, Parigi 1908.
80. Dal 1580 al 1648. - R. Quazza, Ferdinando Gonzaga e Carlo Em. I, in Arch. stor. lomb., XLII (1922); I. Raulich, La contesa tra Sisto V e Venezia per Enrico IV di Francia, Venezia 1892; A. Luzio e G. Sella, Sisto V e Carlo Emanuele I, in Atti Acc. Torino, LXII (1926-27); G. Leonardi-Mercurio, Carlo Emanuele I e l'impresa di Saluzzo, Palermo 1892; G. Vita, Carlo Emanuele I e la questione del marchesato di Saluzzo, in Boll. stor. bibl. subalpino, XXIV (1922); C. Manfroni, Carlo Emanuele I e il trattato di Lione, in Rivista storica italiana, VII (1890); L. Fumi, Il card. Aldobrandini e il trattato di Lione, in Boll. Dep. st. pat. Umbria, II (1896); M. Facini, Il trattato di Brozolo e la repubbl. di Venezia, Roma 1918; R. Quazza, Una vertenza fra principi italiani nel Seicento, in Riv. stor. ital., XLVII (1930); J. De Mackie, Negociations between King James VI and I and Ferdinand I grand duke of Toscane, Londra 1927; N. Gabiani, Carlo Emanuele I di Savoia e i due trattati di Asti, Asti 1915.
Per la questione dell'interdetto contro Venezia: F. Putelli, Il duca Vincenzo I Gonzaga e l'interdetto di Paolo V a Venezia, in Nuovo arch. veneto, XXI e XXII (1911 e 1912); C. Contessa, Carlo Emanuele I e la contesa tra la Repubblica Veneta e Paolo V, in Arch. stor. ital., s. 5ª, XL (1907); gli studî varî raccolti nel vol. Paolo Sarpi e i suoi tempi, Venezia 1925, e, ancora, F. Scaduto, Stato e Chiesa secondo fra Paolo Sarpi e la coscienza pubblica durante l'interdetto di Venezia 1606-07, Firenze 1885; cfr. A. Battistella, La politica ecclesiastica di Venezia, in Nuovo arch. ven., XVI (1898).
Per la congiura spagnola contro Venezia nel 1618, cfr. L. v. Ranke, Storia critica della congiura contro Venezia, trad. it., Capolago 1834; I. Raulich, La congiura spagnuola contro Venezia, in Nuovo arch. veneto, VI (1893); A. Luzio, La congiura spagnuola contro Venezia nel 1618, in Miscell. stor. ven., s. 3ª, XIII (1918); A. Battistella, La congiura spagnola contro Venezia nel 1618, in Atti ist. veneto, 1919 (v. anche P. Negri, La politica veneta contro gli Uscocchi in relazione alla congiura del 1618, in Nuovo arch. veneto, 1909).
Per la congiura del Vachero a Genova: R. Quazza, Genova, Savoia e Spagna dopo la congiura del Vachero, in Boll. stor. bibl. subalpino, XXXI-XXXII (1929-30).
Per la questione della Valtellina, L. Brizio, La politica della S. Sede rispetto alla Valtellina dal concordato d'Avignone alla morte di Gregorio XV (12 novembre 1622-8 luglio 1623), Cagliari 1899; R. Quazza, Politica europea nella questione valtellinica, in Nuovo arch. veneto, XLII (1921).
Per la guerra di successione di Mantova e Monferrato, fondamentale R. Quazza, Mantova e il Monferrato nella politica europea alla vigilia della guerra per la successione (1624-1627), Mantova 1922; e La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-31), voll. 2, Mantova 1925-26; cfr. id., Il periodo italiano della guerra dei Trent'anni, in Rivista storica it., L (1933); P. Negri, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, Prato 1924.
Sugli stati italiani durante la guerra dei Trent'anni, cfr. H. v. Zwiedineck-Südenhorst, Die politik des Rep. Venedig während d. 30-jähr. Krieges, voll. 2, Stoccarda 1882-85; P. Negri, La Casa di Savoia alla vigilia del 4° periodo della guerra dei Trent'anni, in Boll. stor. bibl. subalp., XIV-XV (1909-10); id., Urbano VIII e l'Italia, in Nuova riv. stor., VI (1922); R. Quazza, La politica di Carlo Emanuele I durante la guerra dei Trent'anni, in Miscell. Carlo Emanuele I, Torino 1930; C. E. Patrucco, Antifrancesismo in Piemonte sotto il regno di Vitt. Amedeo I, in Boll. stor. bibl. subalpino, I (1896); S. Foà, Il trattato di Rivoli (12 luglio 1635), fra Vittorio Amedeo I e il Richelieu, in Boll. stor. bibl. subalp., XXVIII-XXXIII (1926-31); G. De Mun, Richelieu et la maison de Savoie. L'ambassade de Particelli d'Hémery en Piémont, Parigi 1907; R. Quazza, L'elezione di Urbano VIII nelle relazioni dei diplomatici mantovani, in Arch. Soc. rom. storia patria, XLVI (1922); R. Russo, La politica del Vaticano nella dieta di Ratisbona del 1630, in Archivio stor. ital., LXXXIV (1926); L. Simeoni, Francesco I d'Este e la politica italiana del Mazzarino, Bologna 1922; L. Schiavi, La mediazione di Roma e Venezia nel congresso di Münster, Bologna 1929. Importante, A. Leman, Urbain VIII et la rivalité de la France et de la maison d'Autriche de 1631 à 1635, Parigi 1920; G. Fagniez, Le père Joseph et Richelieu, voll. 2, Parigi 1894.
Per gli eventi di Napoli del 1647-48, cfr. M. Schipa, Masaniello, Bari 1925; id., La congiura del principe di Montesarchio, in Arch. stor. napol., XLIII-V (1918-20); J. Loiseleur, L'expédition du duc de Guise à Naples, Parigi 1875. E cfr. L. Sorrento, Notizie dei tumulti in Sicilia nell'anno 1647, in Arch. stor. Sicil. orient., 1913; R. Sarra, La rivoluzione degli anni 1647 e 1648 in Basilicata, Trani 1926.
Per la guerra di Castro, v. castro.
81. Seconda metà del sec. XVII. - G. Berchet, Cromwell e la repubblica di Venezia, Venezia 1864; F. Guardione, Storia della rivoluzione di Messina contro la Spagna (1671-1680), Palermo 1907, ma soprattutto E. Laloy, La Révolte de Messine, l'expédition de Sicile et la politique française en Italie (1674-1678), voll. 3, Parigi 1929-1931; C. Contessa, Per la storia di un episodio della politica italiana di Luigi XIV al tempo della pace di Nimega. Le negoziazioni diplomatiche per la occupazione di Casale 1677-1682, in Riv. di storia, arte e archeologia d. prov. di Alessandria, 1896; G. Claretta, Il doge di Genova alla corte di Versailles nel maggio 1685, in Giorn. stor. e lett. d. Liguria, 1885; id., I Genovesi alla corte di Roma negli anni luttuosi della loro controversia con Luigi XIV, 1677-1685. ibid. 1886; E. Chicca, Ambassade du doge de Gênes à la cour de Versailles (1685), Lucca 1917; F. De Bojani, L'affaire du "Quartier" à Rome à la fin du siècle XVIIe, Louis XIV et le Saint-Siège, in Revue d'histoire diplomatique, 1908; M. D'Angelo, Luigi XIV e la S. Sede, Roma 1914; L. Barberis, Il contrasto fra la S. Sede e la Francia nella rel. De Gubernatis, in Boll. stor. bibl. subalp., XXXIII (1931); id., Il conte Orazio Provana ambasciatore sabaudo (1630-1687), ibid., XXX (1928). Cfr. I. Lameire, Théorie et pratique de la conquête dans l'ancien droit. II, Les occupations militaires en Italie pendant les guerres de Louis XIV, Parigi 1903; J. C. Corbett, England in the Mediterranean (1603-1713), 2ª ed., Londra 1912, voll. 2.
Il secolo XVIII e gli albori del Risorgimento.
Opere di carattere generale. - 82. Trattazioni d'insieme. - Come trattazioni d'insieme cfr. soprattutto F. Lemmi, Le origini del Risorgimento (1748-1815), 2ª ed., Milano 1924; A. M. Ghisalberti, Gli albori del Risorgimento italiano (1748-1815), Roma 1931, e A. Omodeo, L'età del Risorgimento italiano, Messina 1932.
Anche in questo campo, però, hanno la massima importanza alcuni studî e ricerche più particolari, o, almeno, non sistemati in trattazione continua: per la situazione internazionale e i suoi riverberi sulla politica italiana, v. soprattutto G. Volpe, Europa e Mediterraneo nei secoli XVII-XVIII, in Momenti di storia italiana, cit. (v. anche C. Morandi, Assetto europeo e fattori internazionali alle origini del Risorgimento, Pavia 1926); per la vita interna, A. Anzilotti, Il tramonto dello stato cittadino e le riforme in Toscana nella seconda metà del sec. XVIII, ora in Movimenti e contrasti per l'unità italiana, a cura di L. Russo, Bari 1930. Dell'Anzilotti v. pure L'economia toscana e l'origine del movimento riformatore del sec. XVIII, in Arch. stor. ital., LXXIII (1915).
V. inoltre, F. Baldasseroni, Il rinnovamento civile in Toscana, Firenze 1931; A. Simioni, Le origini del Risorgimento politico dell'Italia meridionale, voll. 2, Messina 1925-1931. E, tra le opere sulle riforme e i principi riformatori, soprattutto E. Rota, L'Austria in Lombardia, Roma-Milano 1911; U. Benassi, Guglielmo Du Tillot, un ministro riformatore del secolo XVIII, Parma 1923; M. Schipa, Il regno di Napoli al tempo di Carlo III di Borbone, voll. 2, Roma 1923. E confronta F. Olmo, Principi e principii riformatori nel sec. XVIII, in Rivista d'Italia, 1924.
Per la questione delle "origini" del Risorgimento cfr. E. Rota, L'enigma del Settecento e il problema delle origini del nostro Risorgimento, in Nuova riv. stor., III (1918); F. Gabotto, Le origini del Risorgimento italiano prima della rivoluzione francese, in Il Risorgimento italiano, XI-XII (1918-19); A. Solmi, Le prime origini del Risorgimento, in Politica, VIII (1925).
83. Storia religiosa e dei rapporti fra Chiesa e Stato. - Importantissimi, in questo campo, gli studî sul giansenismo, di E. Rota, Il giansenismo in Lombardia e i prodromi del Risorgimento italiano, Pavia 1907 (cfr. anche di E. G. Rota, G. Poggi e la formazione psicologica del patriota moderno, in Nuova rivista storica, VI-VII, 1922-23); N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione Ricci. Saggio sul Giansenismo italiano, Firenze 1920; A. C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914; id., Il Giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928; e Italia religiosa nel Settecento, in Riv. stor. ital., XLIX (1932); R. Mazzetti, Rapporti tra il giansenismo toscano e il giansenismo lombardo, Torino 1933.
E cfr. A. Cecchetti, La repubblica di Venezia e la corte di Roma, Venezia 1874; G. Della Porta, La politica ecclesiastica di Vittorio Amedeo II, Casale Monferrato 1914; M. Tortonese, La politica ecclesiastica di Carlo Emanuele III, Firenze 1910; A. C. Jemolo, Stato e Chiesa in Italia nel sec. XVIII, Torino 1910; A. M. Bettanini, Benedetto XIV e la repubblica di Venezia, Milano 1931; N. Rodolico, Stato e Chiesa in Toscana durante la Reggenza lorenese (1737-1765), Firenze 1910; F. Scaduto, Stato e Chiesa in Toscana sotto Leopoldo I, Firenze 1885; A. Visconti, Su alcuni caratteri della politica ecclesiastica del governo austriaco in Lombardia, in Arch. stor. lomb., XLVII (1920); G. Onnis, Bernardo Tanucci nel moto anticurialista del Settecento, in Nuova riv. stor., X (1926) (e cfr. sul Tanucci, B. Croce, in Uomini e cose della vecchia Italia, II, Bari 1927, dove pure cfr. Studi sulla vita religiosa a Napoli nel Settecento); A. Alberti, Alberto Radicati di Passerano, Torino 1931; E. Pontieri, Il vicerè Caracciolo e la soppressione del Santo Ufficio in Sicilia, in Arch. stor. sicil., XLVIII-XLIX (1928). Cfr. anche M. Viora, Storia delle leggi sui Valdesi di Vittorio Amedeo II, Bologna 1930.
84. Storia economica e finanziaria. - Soprattutto G. Prato, Il costo della guerra di successione spagnuola e le spese pubbliche in Piemonte dal 1700 al 1717, Torino 1907; id., La vita economica in Piemonte a mezzo il sec. XVIII, Torino 1908; id., L'evoluzione agricola nel sec. XVIII e le cause economiche dei moti del 1792-93 in Piemonte, Torino 1909; id., Problemi monetari e bancari nei secoli XVII e XVIII, Torino 1916; L. Einaudi, Le entrate pubbliche dello Stato sabaudo durante la guerra di successione di Spagna, Torino 1907; id., La finanza sabauda all'aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnola, Torino 1908; P. Pugliese, Due secoli di vita agric0la. Produzione e valore dei terreni, contratti agrarî, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII-XIX, Torino 1908; id., Condizioni economiche e finanziarie della Lombardia nella prima metà del secolo XVIII, in Miscell. stor. ital., LII (1924); C. A. Vianello, L'industria, il commercio e l'agricoltura dello stato di Milano nella seconda metà del sec. XVIII, Como 1932; M. R. Manfra, Pietro Verri e i problemi economici del tempo suo, Milano 1932; cfr. anche G. Macchioro, Teorie e riforme economiche ed amministrative nella Lombardia del sec. XVIII, Città di Castello 1904; C. Invernizzi, Riforme amministrative ed economiche dello stato di Milano al tempo di Maria Teresa, in Boll. Soc. pavese, 1913-14; e id., Condizioni annonarie dello stato di Milano nel sec. XVIII, in Vierteljahr. f. Sozial- u. Wirtschaftsgechichte, 1923; A. Visconti, Le condizioni degli operai agli albori dell'industria libera in Lombardia nel sec. XVIII, Milano 1928; G. Occioni Bonaffons, Del commercio di Venezia nel sec. XVIII, Venezia 1891; L. Einaudi, L'economia pubblica di Venezia dal 1735 al 1755, in Studi di economia e finanza, Torino 1907; R. Cessi, La crisi agricola negli Stati Veneti a metà del sec. XVIII, in Nuovo arch. veneto, XLII (1921); I. Laneve, Il porto di Trieste nel sec. XVIII, Pavia 1930; H. Büchi, Finanzen u. Finanzpolitik Toskanas im Zeitalter d. Aufklärung (1737-1790), im Rahmen der Wirtschaftspolitik, Berlino 1915; G. Carano-Donvito, L'economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, Firenze 1928; R. Ciasca, Storia delle bonifiche del regno di Napoli, Bari 1928; A. Bernardino, Le finanze sabaude in Sardegna, voll. 2, Torino 1921-24; A. Pino-Branca, La politica economica del governo sabaudo in Sardegna, Padova 1928; R. Ciasca, Momenti della colonizzazione in Sardegna nel sec. XVIII, in Annali Univers. Cagliari, 1928. Cfr. G. Prato, Il problema del combustibile nel periodo prerivoluzionario, in Mem. Acc. Torino, LXIII (1913); F. Borlandi, Il problema delle comunicazioni nel sec. XVIII nei suoi rapporti col Risorgimento italiano, Pavia 1932; L. Dal Pane, La questione del commercio dei grani nel Settecento in Italia, I (Toscana), Milano 1932; C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea, voll. 2, Firenze 1929-30. Cfr. G. Luzzatto, Il primo secolo della grande industria contemporanea, in Nuova riv. stor., XIV (1930); e F. Borlandi, Sulle origini della grande industria in Italia, in Annali della Facoltà di scienze politiche della R. Università di Pavia, IV (1931). V. anche L. Nina, Le finanze pontificie sotto Clemente XI, Milano 1928.
85. Storia delle dottrine politiche. - C. Morandi, Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, Torino 1927; G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1923 (e anche dello stesso, Storia del liberalismo europeo, Bari 1925); N. Cortese, Stato e ideali politici nell'Italia meridionale nel Settecento, Bari 1927; R. De Mattei, Il pensiero siciliano fra il Sette e l'Ottocento, Catania 1927; id., La cultura in Sicilia fra il sette e l'ottocento, in Riv. d'Italia, 1929. E per il Piemonte, P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926.
86. Storia delle dottrine economiche. - G. M. Monti, G. M. Galanti, Campobasso 1926; id., Due grandi riformatori del Settecento: A. Genovesi e G. M. Galanti, Firenze 1926; C. F. Gignoux, L'abbé Galiani et la querelle des grains au XVIIIe siècle, in Revue d'hist. économique et sociale 1922; G. Arias, Il pensiero economico di F. Galiani, in Politica, VIII (1925); A. Bertolino, Il problema della popolazione nel pensiero del Filangeri, in Studi senesi, 1926; E. Bouvy, Le comte P. Verri, ses idées et son temps, Parigi 1889; A. Mauri, P. Verri riformatore, in Rassegna internazionale di scienze sociali, 1931; l'introduzione di L. Einaudi a P. Verri, I bilanci di commercio dello stato di Milano, Torino 1932; e M. R. Manfra, cit. al § 84; G. Mondaini, Giovanni Fabbroni (1752-1842): contributo critico alla storia dell'economia politica in Toscana, Firenze 1897; F. Luzzatto, La politica agraria nelle opere di C. Beccaria, P. Verri e G. R. Carli, in Annuario Ist. agr. Ponti (Milano), XVIII (1928); A. Lizier, Dottrine e problemi economici del sec. XVIII nella vita politica e negli scrittori veneti del tempo, in Ateneo ven., CX (1932).
87. Storia della cultura, della società, della vita privata, ecc. - V. soprattutto C. Cantù, L'abate Parini e la Lombardia nel sec. passato, Milano 1854; L. Negri, Pietro Verri e le sue Idées sur la société, in Nuova riv. stor., XIII (1929); A. Ottolini, Pietro Verri e i suoi tempi, Palermo 1931; G. Seregni, Don Carlo Trivulzio e la cultura milanese dell'età sua, Milano 1927; P. Pecchiai, La "Società patriottica" istituita in Milano dall'imp. Maria Teresa. Cenni storici (1776-1796), in Arch. stor. lomb., XLIV (1917); R. Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del sec. XVII alla metà del XVIII, Bari 1914. In genere G. Maugain, Études sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1657 à 1750, Parigi 1909; G. Natali, Idee, costumi, uomini del 700, Torino 1916; A. Ferrari, La preparazione intellettuale del Risorgimento italiano (1748-89), Milano 1925 (ma cfr. giannone; muratori; vico).
Per i rapporti culturali con l'estero A. Graf, L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel sec. XVIII, Torino 1911; L. Sorrento, Francia e Spagna nel settecento. Battaglie e sorgenti di idee, Milano 1931; G. Ortolani, Italie et France au XVIIIe siècle, in L'Italie au XVIIIe siècle. Mélanges de littérature et d'histoire, Parigi 1929; e specialmente E. Rota, Razionalismo e storicismo. Rapporti di pensiero tra Italia e Francia avanti e dopo la rivoluzione francese, in Nuova riv. stor., II e III (1917-18). Anche L. Cahen, Les rapports intellectuels de la Toscane et de la France au XVIIIe siècle, in Bulletin de la Société d'histoire moderne, 1925; U. Benassi, Una guerra letteraria italo-francese nel sec. XVIII, in Giorn. stor. lett. ital., LXXXIII (1924); F. Niccolini, Su taluni rapporti di cultura tra l'Italia, l'Olanda e l'Inghilterra al principio del Settecento, Napoli 1930.
Per la vita privata cfr. V. Malamani, Il Settecento a Venezia, voll. 2, Torino 1886-92; Ph. Monnier, Venise au XVIIIe siècle, Parigi 1908; C. Curiel, Trieste settecentesca, Palermo 1922; R. Cocconi, Bologna nel sec. XVIII, Faenza 1920; A. Pescio, Settecento genovese, Palermo 1922; A. v. Reumont, Società e corte di Firenze sotto il regno di Francesco II e Leopoldo I di Lorena Absurgo, Firenze 1877; e G. Conti, Firenze dopo i Medici: Francesco di Lorena; Pietro Leopoldo; inizio del regno di Ferdinando III, Firenze 1921.
88. Storia dell'istruzione pubblica. - A. Zazo, L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767-1860), Città di Castello 1927; N. Ferorelli, La riforma scolastica di un filosofo imperatore [Giuseppe II], Milano 1924; A. Visconti, L'opera del governo austriaco nella riforma universitaria durante il ventennio 1753-1773, Pavia 1925; B. Peroni, La riforma dell'università di Pavia nel Settecento, Pavia 1925; A. Visconti, Le scuole palatine di Milano, Milano 1927; B. Peroni, La politica scolastica dei principi riformatori in Italia, in Nuova rivista storica, XII (1928).
89. Storia degli ordinamenti militari. - E. Pesenti, Angelo Emo e la marina veneta del suo tempo, Venezia 1899.
90. Per la storia di alcuni stati, in particolare. - Per lo stato sabaudo, oltre a D. Carutti, Storia del regno di Carlo Emanuele III, voll. 2, Torino 1858, cfr. M. Viora, Le costituz. piem., Torino 1928; G. Fuos, La Sardegna nel 1773-76 descritta da un contemporaneo, trad. it., Cagliari 1899. Per Venezia: A. Del Piero, Angelo Querini e la correzione del consiglio dei Dieci nel 1761-62, in Ateneo veneto, 1897; L. Ottolenghi, L'arresto e la relegazione di A. Querini, in Nuovo arch. veneto, XV (1898); C. Grimaldo, Giorgio Pisani e il suo tentativo di riforma, Venezia 1907; L. Pasolli, Scipione Maffei e il suo "Consiglio politico", in Nuova riv. stor., IX (1925); e, per la politica estera, A. Battistella, Venezia e l'Austria durante la vita della repubblica, in Nuovo arch. veneto, XXXI (1916); A. M. Alberti, Venezia e la Russia alla fine del sec. XVIII (1770-1785), in Arch. veneto, LXI-LXII (1931-32); M. Rigobon, La questione delle "liste" e le relazioni tra Venezia e l'Austria negli anni 1770-71, in Arch. ven., LXII (1932). V. anche M. Borghesini, Il governo di Venezia in Padova nell'ultimo secolo della repubblica (1700-1797), Padova 1909. Per il ducato di Parma: H. Bédarida, Parme et la France de 1748 à 1789, Parigi 1928, e Les premiers Bourbons de Parme et l'Espagne (1731-1802), Parigi 1928. Per il granducato di Toscana, oltre allo Zoli, cit. al § 2, v. C. Wolfsgruber, Franz I., Kaiser v. Österreich, voll. 2, Vienna 1899 (il I è dedicato al periodo toscano 1768-1784); J. Zimmermann, Das Verfassungsprojekt des Grossherzogs Peter Leopold von Toscana, Heidelberg 1901; M. Aglietti, La costituzione della Toscana, in Rassegna nazionale, 1908; A. Anzilotti, Decentramento amministrativo e riforme municipali in Toscana sotto Pietro Leopoldo, Firenze 1910.
Per Roma, G. Maugain, Rome et le gouvernement pontifical au XVIIIe siècle d'après les voyageurs français, in Mélanges de littérat. et d'histoire publ. par l'Union Intellect. franco-italienne, 1921. Per il regno di Napoli, H. Benedikt, Das Königreich Neapel unter Kaiser Karl VI., I, Vienna-Lipsia 1927; A. Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, I, Bari 1931; N. Cortese, La Calabria Ulteriore alla fine del sec. XVIII, Napoli 1921; E. Pontieri, introd. alle Lettere del marchese Caracciolo, Viceré di Sicilia, al marchese Acton (1782-1786), in Arch. stor. napoletano, LV-LVI (1930-32); e specialmente Il tramonto del baronaggio siciliano, in Archivio stor. siciliano, LI-LIII (1931-33). Inoltre, I. Rinieri, Della rovina di una monarchia. Relazioni storiche tra Pio VI e la corte di Napoli negli anni 1776-1799, Torino 1901; e A. Pannone, Lo stato borbonico. Saggio di storia del diritto pubblico napoletano (1734-99), I, Firenze 1924.
91. Per i rapporti con l'impero S. Pugliese, Le prime strette dell'Austria in Lombardia, cit. al § 75.
92. Periodo delle guerre di successione. - P. Roi, La guerra di successione di Spagna negli stati dell'alta Italia dal 1704 al 1705 e la politica di Clemente XI, Roma 1931; C. Contessa, L'alleanza di Vittorio Amedeo II duca di Savoia e le potenze marittime, Torino 1909; id., I regni di Napoli e di Sicilia nelle aspirazioni italiane di Vittorio Amedeo II di Savoia (1700-1713), Torino 1914; id., Aspirazioni commerciali intrecciate ad alleanze politiche della Casa di Savoia coll'Inghilterra nei secoli XVII e XVIII, Torino 1914; A. Bozzola, Giudizi e previsioni della diplomazia medicea sulla casa di Savoia durante la guerra di successione spagnuola, Torino 1914; A. Tallone, Vittorio Amedeo II e la quadruplice alleanza, Torino 1914; A. Baraudon, La maison de Savoie et la Triple Alliance (1713-1722), Parigi 1896; G. C. Zimolo, Tre campagne di guerra (1701-1703) e la rep. di Venezia, in Arch. veneto, LVIII (1928); R. Quazza, La lotta diplomatica tra Genova e la Spagna dopo la fuga dell'Alberoni dalla Liguria, in Arch. stor. ital., LXXVIII (1920); A. Arata, Il processo del card. Alberoni, Piacenza 1923; ma specialmente, sulla politica dell'Alberoni, E. Bourgeois, La diplomatie secrète au XVIIIe siècle, II, Parigi 1909; e R. Castagnoli, Il cardinal Alberoni, voll. 2, Piacenza 1929-1931; A. Battistella, La guerra di successione polacca desunta da lettere private del tempo, Venezia 1915; N. Nicolini, Sulla riconquista ispano-borbonica del regno di Napoli, in Arch. stor. ital., LXXXVII (1929). V. anche E. Robiony, Gli ultimi dei Medici e la successione al granducato di Toscana, Firenze 1905; L. Simeoni, L'assorbimento austriaco del ducato estense e la politica dei duchi Rinaldo e Francesco III, Modena 1919. Cfr. successione.
93. Per la Corsica cfr. S. Pellegrini, La Corsica e i Savoia nel sec. XVIII, in Nuova riv. stor., VIII (1924); A. Le Glay, Histoire de la conquête de la Corse par les Français, Parigi 1912; L. Villat, La Corse de 1768 à 1789, voll. 2, Besançon 1925; G. Volpe, Europa e Mediterraneo nei secoli XVII-XVIII (come la Corsica divenne francese), in Momenti di storia ital., Firenze 1925; e L. Ravenna, Pasquale Paoli, Firenze 1928.
Periodo delle rivoluzioni e del dominio napoleonico (1790-1815).
94. Opere di carattere generale. - Oltre al vecchio C. Botta, Storia d'Italia dal 1789 al 1814, voll. 4, Milano 1844, v. G. De Castro, Storia d'Italia dal 1799 al 1814, voll. 4, Milano 1881 (nella collezione F. Vallardi); A. Franchetti, Storia d'Italia dal 1789 al 1799, 2ª ed. a cura di F. Lemmi, Milano 1907 (nella collezione F. Vallardi); e soprattutto V. Fiorini e F. Lemmi, Storia d'Italia dal 1799 al 1814, Milano 1918 (nella stessa coll.); anche A. Ferrari, L'esplosione rivoluzionaria del Risorgimento (1789-1815), Milano 1925.
Per la cronistoria, utilissimo L'Italia nei cento anni del sec. XIX, giorno per giorno, illustrata, dal 1801 in poi, a cura di A. Comandini, Milano 1900-1929 (continua).
Importanti, S. Pivano, Albori costituzionali d'Italia (1796), Torino 1913; É. Driault, Napoléon en Italie (1800-1812), Parigi 1906; G. Douin, La Méditerranée de 1803 à 1805, Parigi 1918; E. Tarlé, Le Blocus continental et le Royaume d'Italie. La situation économique de l'Italie sous Napoléon I, Parigi 1928; v. anche A. Pingaud, La politique italienne de Napoléon I, in Revue Historique, CLIV (1927). Cfr. anche A. Solmi, Napoleone e l'Italia, in Rend. Ist. lomb., LXVI (1933).
95. Per i singoli stati, N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, voll. 4, Torino 1877-85; D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la rivoluzione e l'impero francese, voll. 2, Torino 1892; J. D'Ivray, La Lombardie au temps de Buonaparte, Parigi 1919; G. Maclellan, Venice and Bonaparte, Londra 1931; G. Pessagno, Genova sotto la Rivoluzione e l'Impero, 1797-1814, in Boll. stor. bibl. subalpino, XIX (1914); G. Conti, La Toscana e la rivoluzione francese, Firenze 1924; P. Marmottau, Le royaume d'Étrurie 1801-1807, Parigi 1895; A. Dufourcq, Le régime jacobin en Italie. Étude sur la République romaine, Parigi 1900; L. Madelin, La Rome de Napoléon. La domination française à Rome de 1809 à 1814, 4ª ed., Parigi 1927; E. Vercesi, Pio VII, Napoleone e la Restaurazione, Torino 1933; B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1912; N. Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento nell'Italia meridionale, 1798-1801, Firenze 1925; I. A. v. Helfert, Fabrizio Ruffo. Rivoluzione e controrivoluzione di Napoli, del 1718-99, Torino 1885; G. Blanch, Il regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Arch. stor. napoletano, 1923; P. Pieri, Il regno di Napoli dal 1799 al 1806, Napoli 1928; C. Auriol, La France, l'Angleterre et Naples de 1803 à 1806, voll. 2, Parigi 1904-05; R. M. Johnston, The Napoleonic Empire in Southern Italy and the Rise of the Secret Societies, voll. 2, Londra 1904; J. Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte (1806-1808), Parigi 1911; A. Espitalier, Napoléon et le roi Murat (1808-1815), Parigi 1910; G. Bianco, La Sicilia durante l'occupazione inglese (1808-1815), Palermo 1902. Per la Repubblica Italiana e il Regno Italico, A. Pingaud, Bonaparte président de la République italienne, voll. 2, Parigi 1907-08; id., Les hommes d'État de la République Italienne, Parigi 1919; id., Le Royaume d'Italie, in Revue d'Histoire diplomatique, 1927-32; L. Coraccini, [pseudonimo di G. Valeriani], Storia dell'amministrazione del regno d'Italia durante il dominio francese, Lugano 1823; G. Pecchio, Saggio storico sull'amministrazione finanziaria dell'ex regno d'Italia dal 1802 al 1814, 2ª ed., Londra 1826.
Per la formazione della coscienza nazionale v. E. Battaglia, L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia, Firenze 1926; A. Norsa, Il concetto di nazionalità nella mente di G. D. Romagnosi, in Nuova riv. storica, XIII (1929); V. G. Galati, Il concetto di nazionalità nel Risorgimento italiano, Firenze 1931; A. Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età napoleonica, in Rassegna stor. Risorg., XX (1933). Cfr. anche B. Peroni, La passione dell'indipendenza nella Lombardia occupata dai Francesi (1796-97), in Nuova riv. stor., XV (1931); R. Soriga, Giornali e spirito pubblico in Milano sulla fine del sec. XVIII, in Riv. d'Italia, 1916. Per le "questioni sociali", F. Battaglia, I primi conati di riforma sociale nel Settecento e il pensiero di Vincenzo Russo, in Giorn. critico della filos. ital., 1928.
96. Rapporti letterarî e ideologici con la Francia. - Ch. Dejob, Madame de Stäel et l'Italie, avec une bibliographie de l'influence française en Italie de 1796 à 1814, Parigi 1890; ma soprattutto P. Hazard, La révolution française et les lettres italiennes (1789-1815), Parigi 1910. Anche G. Natali, Cultura e poesia in Italia nell'epoca napoleonica, Torino 1930.
97. Storia militare e partecipazione degl'Italiani alle guerre napoleoniche. - F. Turotti, Storia delle armi italiane dal 1796 al 1814, voll. 3, Milano 1855; C. Vacani, Storia delle campagne e degli assedi degli Italiani nella Spagna dal 1808 al 1813, voll. 3, Milano 1827; Gli Italiani in Russia e gli Italiani in Germania nel 1813, a cura dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore, Roma 1912 e 1913. Cfr. anche C. Randaccio, Storia delle marine militari italiane dal 1750 al 1860 e della marina militare italiana dal 1860 al 1870, voll. 2, Roma 1886. V. anche napoleone.
98. Sette e società segrete. - B. Marcolongo, La massoneria in Italia nel sec. XVIII e durante la dominazione francese, in Studi storici, 1910; F. Carabellese, Massoneria e Carboneria nel Barese nei primi anni del sec. XIX, in Arch. pugliese del Risorgimento italiano, 1914; R. Soriga, Settecento massonizzante e massonismo napoleonico nel primo Risorgimento, in Boll. stor. pavese, 1919; G. Gallavresi, La franc-maçonnerie et la formation de l'unité italienne, in Revue des questions historiques, 1922; A. Luzio, La Massoneria sotto il regno italico e la restaurazione austriaca, in Arch. stor. lomb., 1917; id., La Massoneria e il Risorgimento, voll. 2, Bologna 1925; G. Leti, Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, Roma 1925.
Singoli momenti. - 99. Periodo delle rivoluzioni e delle repubbliche (1796-1799). - L. C. Bollea, La rivoluzione in una terra del Piemonte (1797-1799), Torino 1905 [Savigliano]; A. De Regibus, I moti repubblicani dell'Ossola e del Lago Maggiore nel 1798, Pavia 1922; N. Galiani, Rivoluzionari, repubblicani e controrepubblicani di Asti nel 1797, Asti 1903; E. Rota, L'Austria in Lombardia, cit. al § 82; l'introd. di C. Montalcini agli Atti della assemblea della repubblica cisalpina, I, Bologna 1917; G. Gallavresi, Il diritto elettorale politico secondo la costituzione della repubbl. cisalpina, Milano 1905; G. Cattani, Il Giansenismo e la legislazione ecclesiastica della Cisalpina, in Nuova riv. stor., XV (1931); S. Manfredi, L'insurrezione e il sacco di Pavia nel maggio 1796, Pavia 1900; A. Ottolini, Milano e la seconda repubblica cisalpina, Milano 1929; A. Luzio, Francesi e Giacobini a Mantova dal 1797 al 1799, Mantova 1890; V. Lazzarini, Le origini del partito democratico a Padova, in Nuovo arch. ven., n. s, XL (1920); E. Bevilacqua, Le Pasque veronesi, Verona 1897; G. Graziani, Austriaci e Francesi a Vicenza e il governo democratico vicentino (1796-1797), Vicenza 1904; G. Sforza, La caduta della repubblica di Venezia studiata nei dispacci inediti della diplomazia piemontese, in Nuovo arch. veneto, n. s., XXV (1913); U. Bassi, Reggio nell'Emilia alla fine del sec. XVIII (1796-1799), Reggio Emilia 1895; N. Cortese, La Garfagnana estense durante la dominazione francese (1796-99), in Il Risorgimento ital., XV-XVI (1922 e 1923); C. Antolini, Ferrara negli ultimi anni del sec. XVIII (1796-99), in Atti Dep. ferr. st. pat., 1899; G. Conti, La Toscana e la rivoluzione francese, Firenze 1925; T. Casini, Il parlamento della repubblica romana del 1798-99, in Rassegna stor. del Risorg., III (1916); G. Sforza, I francesi a Roma. La fine del pontificato di Pio VI, in Revue Napoléonienne, 1914; L. Vicchi, Les français à Rome pendant la Convention, Roma 1892; F. Masson, Les diplomates de la révolution. Hugon de Bassville à Rome, Bernadotte à Vienne, Parigi 1883; A. Mathiez, La France et Rome sous la Constituante, in La Révolution Française, 1907-08; J. Du Teil, Rome, Naples et le Directoire, Parigi 1902; A. Franchetti, Le relazioni diplomatiche fra la corte di Napoli e la Francia, 1791-1793, in Riv. stor. Risorg. ital., 1896; A. Simioni, La convenzione anglo-napoletana pel Mediterraneo (1793), in Arch. stor. napolet., 1913; A. Cortese, La politica estera napoletana e la guerra del 1798, Milano 1924; F. Lemmi, Nelson e Caracciolo e la rep. napol., Firenze 1898; id., Nelson a Napoli nel giugno del 1799, in Arch. stor. napol., LIII (1928); F. P. Badham, Nelson e Ruffo, Roma 1907; V. Ruffo, Il card. Fabrizio Ruffo e la Controrivoluzione del 1799, Napoli 1919; A. Manes, Un cardinale condottiero, Fabrizio Ruffo e la repubbl. partenopea, Aquila 1929; R. Palmarocchi, Francesi e Napoletani nel 1799, in Arch. stor. ital., 1913; V. Morcardi, L'invasione francese nell'Abruzzo Teramano nel 1798-99, in Boll. Soc. storica abruzzese, 1900; G. Rivera, L'invasione francese in Italia e l'Abruzzo aquilano dal 1792 al 1797, ibid., 1907; F. Carabellese, In Terra di Bari, 1799-1806, Trani 1900; B. Caputo, La Terra di Bari nel 1799, Bari 1922; G. De Ninno, I martiri e perseguitati politici di Terra di Bari nel 1799, Bari 1915; G. Fortunato, Il 1799 in Basilicata, in Arch. stor. napoletano, 1899; A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie, Palermo 1901; F. Scandone, Il giacobinismo in Sicilia (1792-1802), in Arch. stor. sicil., n. s., XLIII-IV (1921-22). Per la Sardegna S. Pola, I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, voll. 2, Sassari 1923.
100. Periodo napoleonico, e l'inizio della Restaurazione. - M. H. Weil, Le prince Eugène et Murat (1813-14), voll. 5, Parigi 1902; id., Les négociations secrètes entre J. Murat et le Prince Eugène, in Revue d'hist. mod. et contemp., 1905-06; F. Lemmi, La restaurazione austriaca a Milano, Bologna 1902; G. Gallavresi, La rivoluzione lombarda del 1814 e la politica inglese, in Arch. stor. lomb., s. 4ª, XI (1909); V. Paltrinieri, I moti contro Napoleone negli stati di Parma e Piacenza (1805-1806), Bologna 1927; I. Borel, Gênes sous Napoleon I, Parigi 1929; F. Nani Mocenigo, Del dominio napoleonico a Venezia, Venezia 1896; G. Rizzardo, Il patriarcato di Venezia durante il regno napoleonico, in Nuovo arch. veneto, 1914; F. Lemmi, Roma nell'impero napoleonico, in Arch. stor. ital., 1915; I. Rinieri, La diplomazia pontificia nel sec. XIX, voll. 2, Roma 1902; id., Napoleone e Pio VII, voll. 2, Torino 1906; id., Pio VII e Napoleone nel 1814, Genova 1914; H. Welschinger, Le Pape et l'Empereur, Parigi 1905; R. Trifone, Feudi e Demani. Eversione della feudalità nelle provincie napoletane, Milano 1909; F. Guardione, Gioacchino Murat in Italia, 2ª ed., Firenze 1916; R. Palmarocchi, Le riforme di G. Murat nel primo anno di regno, in Arch. st. ital., 1914; G. la Volpe, Gioacchino Murat: amministrazione e riforme economiche (1808-15), in Nuova riv. stor., XV (1930); M. H. Weil, J. Murat roi de Naples. La dernière année de règne, voll. 5, Parigi 1909-10; F. Lemmi, G. Murat e le aspirazioni unitarie nel 1815, in Arch. stor. napol., XXVI (1901); D. Spadoni, Nel centenario del proclama di Rimini, in Rassegna storica del Risorgimento, II (1915); id., La conversione italiana del Murat, in Nuova riv. stor., XV (1930); id., Federazione e re d'Italia mancati nel 1814-15, ibid., XVI (1931); id., Per la prima guerra d'indipendenza italiana nel 1815, Pavia 1929; E. Del Cerro, Maria Carolina d'Austria e la politica inglese in Sicilia (1805-1817), in Atti accad. Acireale, 1907-08; N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, in Arch. stor. siciliano, n. s, XXXVIII, XLVI (1913, 1925); L. Genuardi, Tommaso Natale e la costituzione siciliana del 1812, in Arch. stor. siciliano, n. s., XLIII (1921); E. Pontieri, Ai margini della costituzione siciliana del 1812, in Atti del XXV Congresso della Soc. Nazion. del Risorgimento, Roma 1932.
Il Risorgimento, sino alla costituzione del Regno d'Italia (1861).
Opere di carattere generale. 101. Trattazioni d'insieme. - Si vedano specialmente le opere di C. Tivaroni, Storia critica del Risorgimento italiano, voll. 9, Torino 1888-1897; H. Bolton King, Storia dell'unità italiana, trad. it., voll. 2, Milano 1909-10; M. Rosi, Storia contemporanea d'Italia, dalle origini del Risorgimento alla conflagrazione europea, Torino 1922; id., L'Italia odierna, voll. 2, Torino 1916 segg.; id., Il popolo italiano negli ultimi due secoli, Roma 1924; A. Solmi, Il Risorgimento italiano, Milano 1919; E. Masi, Il Risorgimento italiano, voll. 2, Firenze 1917; F. Lemmi, Il popolo italiano dal 1815 al 1849. Storia civile, Milano 1926; A. Gori, Il Risorgimento (1849-1861). Il Regno d'Italia (1861-1900), Milano 1904; P. Orsi, L'Italia moderna. Storia degli ultimi 150 anni, 6ª ed., Milano 1928; F. Quintavalle, Storia dell'unità italiana (1815-1925), 2ª ed., Milano 1926; A. Ferrari, La restaurazione in Italia (1815-1849), Roma 1931, e M. Rosi, L'unità d'Italia (1849-1881), Roma 1931; G. Bourgin, La formazione dell'unità italiana, trad. ital., Firenze 1931; e specialmente, I. Raulich, Storia del Risorgimento politico d'Italia (1815-1859), voll. 5, Bologna 1920-1925.
Utile, A. Comandini (cont da A. Monti), L'Italia nei cento anni del sec. XIX, cit. al § 94; e anche il Dizionario del Risorgimento, a cura di M. Rosi, voll. 2, Milano 1932. - Da vedere inoltre D. Zanichelli, Studi di storia costituzionale e politica del Risorgimento italiano, Bologna 1900; A. Malvezzi, Il Risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi (1820-1860), Milano 1924.
Per i rapporti con gli stati stranieri, in genere, v. N: Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia dal 1814 al 1861, voll. 8, Torino 1865-1872; I. Rinieri, La diplomazia pontificia nel sec. XIX, voll. 2, Roma 1902; e il quadro sintetico di G. Volpe, I rapporti diplomatici fra l'Italia e l'Europa durante il Risorgimento, in Bulletin of International Committee of Hist, Sciences, V (1933).
Fra i lavori particolari hanno speciale importanza, anche per la valutazione d'insieme, C. Capasso, L'unione europea e la Grande Alleanza del 1814-15, Firenze 1932; A. Alberti, La Rivoluzione napoletana, il suo Parlamento e la reazione europea, Roma 1931; P. Silva, La monarchia di luglio e l'Italia, Torino 1917; C. Vidal, Louis-Philippe, Metternich et la crise italienne de 1831, Parigi 1931; F. Lemmi, La politica estera di Carlo Alberto nei suoi primi anni di regno, Firenze 1928 (cfr. anche M. Degli Alberti, La plitica estera del Piemonte sotto Carlo Alberto, secondo il carteggio del conte di Sambuy ministro a Vienna, voll. 3, Torino 1913-19; M. H. Weil, L'état des relations diplomatiques entre la France et la Sardaigne, d'après les instructions du Duc de Broglie et quelques rapports du Marquis de Rumigny, 1835-1837, Parigi 1918); A. Colombo, L'Inghilterra nel Risorgimento italiano, Milano 1917; A. Signoretti, L'azione di Palmerston e Russell per l'Italia durante gli avvenimenti 1848-49, in Gerarchia, 1927; A. Galante, La politica estera di G. Gladstone, Bologna 1917; W. W. Davies, Gladstone and the unification of Italy, Londra 1918; B. Zumbini, Gladstone nelle sue relazioni con l'Italia, Bari 1914; M. Mazziotti, Napoleone III e l'Italia, Milano 1925, ma specialmente P. Silva, La politica di Napoleone III e l'Italia, in Nuova riv. stor., XI (1927); A. Pingaud, Napoléon III et ses projets de confédération italienne, in Revue Historique, CLV (1927). Importante A. Comandini, Il principe Napoleone nel Risorgimento italiano, Milano 1922. V. anche C. Morandi, Alcuni aspetti del Risorgimento come problema politico europeo, in Riv. stor. ital., XLVIII (1931); J. Gay, Un siècle d'histoire italienne. Les deux Romes et l'opinion française. Les rapports franco-italiens depuis 1815, Parigi 1931.
Tra le opere sulla politica di stati esteri v. specialmente H. Srbik, Metternich, voll. 2, Monaco 1925; C. K. Webster, The foreign policy of Castlereagh, voll. 2, Londra 1925-30; De Guichen, La Révolution de 1830 et l'Europe, Parigi 1917; P. de La Gorce, Histoire du second Empire, voll. 6, Parigi 1894-1904; cfr. anche H. T. Marraro, American opinion on the unification of Italy, 1846-1861, New York 1932.
Per i rapporti fra gli stati italiani cfr. M. L. Rosati, Carlo Alberto di Savoia e Francesco IV d'Austria-Este, Roma 1907; L. Cappelletti, Austria e Toscana (1824-1854), Torino 1918; G. Paladino, Il governo napoletano e la guerra del 1848, in Nuova rivista storica, V (1921); E. Rota, L'antagonismo politico fra Torino e Napoli durante la guerra del 1848, ibid., V (1921).
102. Storia dei singoli stati. - A. v. Helfert, Zur Geschichte d. Lombardo-venezianischen Königreichs, Vienna 1908; A. Sandonà, Il regno Lombardo-Veneto. La costituzione e l'amministrazione, Milano 1912; N. Bianchi, I ducati estesi dall'anno 1815 al 1850, voll. 2, Torino 1852; E. Casa, Parma da Maria Luigia imperiale a Vittorio Emanuele II (1847-60), Parma 1901; A. Sardi, Lucca e il suo ducato dal 1814 al 1859, Pistoia 1912; L. C. Farini, Lo Stato romano dall'anno 1815 all'anno 1850, voll. 4, Torino 1850-53; L. C. Alberti, La corte pontificia vista dal rappresentante sardo a Roma (1824-26), in Rass. stor. risorgimento, XIX (1932); R. De Cesare, Roma e lo stato del papa dal ritorno di Pio IX al XX settembre (1850-70), voll.2, Roma 1907; G. Leti, Roma e lo stato pontificio dal 1849 al 1870, 2ª ed., voll. 2, Ascoli Piceno 1911; F. Hayward, Le dernier siècle de la Rome Pontificale, voll. 2, Parigi 1927-1928; R. Cotugno, Tra reazione e rivoluzione. Contributo alla storia dei Borboni di Napoli dal 1849 al 1860, Lucera 1925; F. Guardione, Il dominio dei Borboni in Sicilia dal 1830 al 1861, 2ª ed., voll. 2, Torino 1907; id., La Sicilia nella rigenerazione politica d'Italia (1795-1860), Palermo 1912; id., La reazione borbonica in Sicilia ed il trionfo della rivoluzione unitaria 1850-1861, Palermo 1930. E cfr. L. Marchetti, Il Trentino nel Risorgimento, voll. 2, Roma 1913; M. L. Cao, La fine della costituzione autonoma sarda in rapporto col Risorgimento e coi precedenti storici, Cagliari 1928.
103. Per il movimento nazionale e liberale. - N. Cortese, Il liberalismo toscano nei primi quaranta anni del sec. XIX, in Rassegna naz., 1921; id., Luigi Blanch e il partito liberale napoletano, in Arch. st. nap., XLVII (1922); E. Porcelli, L'agitazione liberale toscana studiata nelle filze segrete della polizia del Buon Governo (1844-46), Palermo 1919; P. Mazara, Studio sul movimento liberale in Sicilia dal 1815 alla vigilia del 1848, Alcamo 1916; ma specialmente R. Ciasca, L'origine del programma per l'opinione nazionale italiana del 1847-48, Città di Castello 1915; A. Anzilotti, Dal neoguelfismo all'idea liberale, in Nuova riv. stor., I (1917). Cfr. anche § 107 e i capitoli rel. all'Italia in G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Bari 1925.
Per le sette e società segrete, oltre al Luzio e Leti cit. al § 98, cfr. O. Dito, Massoneria, Carboneria ed altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano, Torino 1905; A. Bersano, Adelfi, Federati e Carbonari, in Atti Acc. Torino, XLV (1909-10); D. Spadoni, Sètte, cospirazioni e cospiratori nello Stato pontificio all'indomani della restaurazione, Torino 1904; F. Lemmi, Il processo del principe della Cisterna (1821), Roma 1923; A. Baretta, Le società segrete in Toscana nel primo decennio dopo la restaurazione, Torino 1912; G. Scaramella, Spirito pubblico e società segrete e polizia in Livorno dal 1815 al 1821; Roma 1901; G. Degli Azzi Vitelleschi, Bonapartisti, massoni e carbonari nell'Umbria dopo la restaurazione pontificia, in Arch. stor. risorg. umbro, 1905-06; A. Pierantoni, I Carbonari dello Stato Pontificio ricercati dalle inquisizioni austriache nel regno Lombardo-Veneto, voll. 2, Città di Castello 1910; G. Caso, La Carboneria di Capitanata dal 1816 al 1820, in Arch. stor. napol., XXXVIII-IX (1913-14); L. Chiarelli, La Carboneria in Aquila e provincia, prima, durante e dopo il periodo costituzionale (1820-21), Aquila 1923, e T. Vitagliano, La Carboneria in Abruzzo, Lanciano 1920; B. Marcolongo, Le origini della Carboneria e le società segrete nell'Italia meridionale dal 1810 al 1820, in Studi storici, XX (1912); V. Zara, La Carboneria in Terra d'Otranto, 1820-1830, in Il Risorgim. ital., 1913; V. Labate, Un decennio di Carboneria in Sicilia (1821-31), vol. 2, Città di Castello 1904-09. Cfr. adelfi; apofasimeni; carboneria; filadelfi; giovine italia; massoneria.
104. Storia degli esuli. - A. Segre, I profughi sardi del '21 in Spagna, in Rass. stor. Risorg., VIII (1921); R. Manzoni, Gli esuli italiani nella Svizzera, Milano 1922; E. Michel, Esuli e cospiratori italiani in Corsica (1830-50), in Arch. storico di Corsica, 1925; M. Battistini, Esuli e viaggiatori italiani in Belgio amici di Adolph Quetelet, in Nuova riv. storica, XVI (1932); I. Zingarelli, Italiani a Parigi dopo il 1848, in La cultura, n. s., XI (1932).
105. Storia del giornalismo. - V. specialmente G. Bustico, Giornali e giornalisti del Risorgimento, Milano 1924. E anche C. Cantù, Il "Conciliatore" (1818-1819), Pisa 1902; G. Cristofanelli, Dei giornali padovani anteriori al 1845 e specialmente del "Giornale euganeo" e del "Caffè Pedrocchi", Padova 1905; P. Prunas, L'Antologia di G. P. Vieusseux, Roma 1906; A. De Rubertis, L'Antologia di G. P. Vieusseux, Foligno 1922; A. Curti, Alta polizia. Censura e spirito pubblico nei ducati parmensi (1816-29), in Rass. storica del Risorg., IX (1922); G. Bandini, Giornali e scritti politici clandestini della Carboneria romagnola (1819-21), Roma 1908; A. Zazo, Il giornalismo a Napoli nella prima metà del sec. XIX, Napoli 1920.
Per il periodo attorno e dopo il '40, specialmente E. Passamonti, Il giornalismo giobertiano in Torino nel 1847-48, Roma 1914; e anche A. Colombo, I due giornali torinesi "Il Risorgimento" e la "Concordia", in Il Risorg. italiano, 1910; D. Carraroli, Il giornalismo a Torino intorno al 1860-61, in Nuova antologia, 1912; M. Tosonotti, Il periodo repubblicano genovese "La Strega, La maga, La vespa" (agosto 1849-dic. 1856), in Il Risorg. italiano, 1915-16; C. O. Mandalusi, Gli esuli meridionali nel giornalismo piemontese dal 1850 al 1860, in Rassegna contemporanea, 1913; C. Rondoni, Il giornale "Lo statuto" e la reazione del 1850-51 in Toscana, in Rassegna st. del Risorg., I (1914); id., I giornali umoristici fiorentini del triennio glorioso (1859-1861), Firenze 1914; P. Barbera, Giornali politici dal 1859 al 1860, in Rass. st. Risorg., III (1916); T. Gaudioso, Il giornalismo letterario in toscana dal 1848 al 1859, Firenze 1924. Utili, D. Silvestrini, Una tipografia del Risorgimento (S. Bonamici a Losanna), Bellinzona 1924; e specialmente R. Caddeo, La tipografia elvetica di Capolago, Milano 1931. E cfr. il Catalogo a cura di A. Monti della Mostra storica del Giornalismo alla V Triennale di Milano, Milano 1933.
Per le riunioni scientifico-patriottiche, ecc.: A. Hortis, Le riunioni degli scienziati italiani prima delle guerre d'indipendenza (1839-47), Città di Castello 1922; R. Cessi, Retroscena politici del primo congresso degli scienziati italiani, in Rass. stor. del Risorgimento, X (1923).
106. Storia costituzionale e parlamentare. - Prefazione di C. Montalcini e A. Alberti, Le assemblee del Risorgimento, I, Roma 1911; G. Arangio Ruiz, Storia costituzionale del regno d'Italia, 1848-98, Firenze 1898; A. Colombo, Dalle riforme allo statuto di Carlo Alberto, Casale 1926; G. Maranini, Le origini dello statuto albertino, Firenze 1925; A. Brofferio, Storia del Parlamento subalpino, voll. 6, Milano 1865-70; e specialmente S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, politica e diplomatica d'Italia da Novara a Vittorio Veneto, voll. 4, Milano 1923-30. V. anche V. Fontanarosa, Il Parlamento nazionale napoletano per gli anni 1820-1821, Roma 1900; I. Bajone Lelli, La Costituente italiana del 1849, Firenze 1920.
107. Partiti politici. - Oltre a G. Ferrari, I partiti politici italiani dal 1789 al 1848, nuova ed., Città di Castello 1921, v. A. Sandonà, L'idea unitaria e i partiti politici alla vigilia del 1848, Roma 1914; E. Passamonti, Unitarismo ed anti-unitarismo nel partito liberale toscano durante la campagna del 1848, in Rassegna storica del Risorgimento, V (1918); id., Il ministro Capponi ed il tramonto del liberalismo toscano nel 1847, ibid., VI (1919); id., Il liberalismo toscano ed i suoi rapporti con Cesare Balbo ed il suo gruppo durante la questione toscano-modenese per il possesso della Lunigiana (ottobre-dicembre 1847), in Il Risorgimento italiano, 1920; C. Scavone, Il movimento unitario repubblicano in Toscana nel '48-'49, Catania 1918; P. Chiaramonte, Il programma del '48 e i partiti politici in Sicilia, in Arch. stor. siciliano, XXVI (1901). Importanti: A: Monti, L'idea federalista nel Risorgimento italiano, Bari 1921; A. Anzilotti, La funzione storica del giobertismo, Firenze 1924. Cfr. anche C. Lovera e I. Rinieri, Clemente Solaro della Margherita, Torino 1931.
b) Dopo il '49: T. Buttini, La destra liberale e conservatrice nel 1849 (luglio-novembre), in Il Risorgimento italiano, 1924; G. Bourgin, Mazzini et le Comité central démocratique en 1831, in Risorgimento ital., 1913.
Per la prima diffusione delle idee socialiste, v. A. Gori, Gli albori del socialismo (1755-1848), Firenze 1919; G. Andriani, Socialismo e comunismo in Toscana tra il 1846 e il 1849, Roma 1921; N. Rosselli, Carlo Pisacane, Torino 1932.
108. Rapporti fra Stato e Chiesa. - W. Maturi, Il concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze 1928; A. Bozzola e T. Buttini, Stato e Chiesa nel Regno di Sardegna negli anni 1849-50 e la missione Pisalli a Roma, in Il Risorgimento it., XIV (1921); A. C. Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d'Italia durante il quarantennio 1848-88, Torino 1911; id., Il "partito cattolico" piemontese nel 1855 e la legge sarda soppressione delle comunità religiose, in Il Risorg. Ital., XI-XII (1918-19); A. M. Bettanini, Il concordato di Toscana (1851), Milano 1932.
Per la storia delle idee religiose, A. Manno, L'opinione religiosa e conservatrice in Italia dal 1830 al 1850 ricercata nelle corrispondenze e confidenze di monsignor Giovanni Corboli Bussi, Roma 1910; A. Della Torre, Il Cristianesimo in Italia dai filosofisti ai modernisti, Palermo s. a. [1913]; G. Zadei, L'abate Lamennais e gli Italiani del suo tempo, Torino 1925; F. Landogna, G. Mazzini e il pensiero giansenistico, Bologna 1921; A. Gambaro, Carteggio Lambruschini-Rosmini, in Levana, III (1924); id., La riforma religiosa nel carteggio inedito di R. Lambruschini, voll. 2, Torino 1926. Importante F. Ruffini, I giansenisti piemontesi: la conversione della madre di Cavour, in Atti acc. Torino, LXIII (1927-28); id., La vita religiosa di A. Manzoni, Bari 1931, voll. 2; G. Gangale, Revival. Saggio sulla storia del protestantesimo in Italia dal Risorgimento ai tempi nostri, Roma 1929.
109. Storia economica e finanziaria. - G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L'Associazione agraria subalpina e C. Cavour, in Bibl. di storia ital. recente, IX (1921); A. Fossati, Bilanci, tributi, redditi e valori negli Stati Sardi di Terraferma dalla Restaurazione all'avvento di Carlo Alberto, in Riv. intern. scienze sociali, 1930; id., Origini e sviluppi della carestia del 1816-17 negli Stati Sardi di Terraferma, Torino 1930; id., Saggi di politica economica carloalbertina, Torino 1930; id., Il pensiero e la politica sociale di C. Cavour, Torino 1932; V. Gulì, Il Piemonte e la politica economica del Cavour, Napoli 1932; R. Ciasca, L'evoluzione economica della Lombardia dagli inizi del sec. XIV al 1860, in La Cassa di risparmio delle provincie lombarde nella evoluzione economica della nazione (1823-1923), Milano 1923; G. Prato, Giacomo Giovanetti ed il protezionismo agrario nel Piemonte di Carlo Alberto, in Atti Acc. Torino, LIV (1918-19); id., Il programma economico-politico della Mittel-Europa negli scrittori italiani prima del 1848, ibid., LII (1916-17); id., La metamorfosi economica e sociale del Piemonte di Carlo Alberto, in Nuova riv. stor., IV (1920); R. Broglio d'Ajano, La politica doganale degli stati italiani dal 1815 al 1860, in Giornale degli economisti, 1911; F. Gentili, I negoziati per la lega doganale a Modena e Napoli (1847), in Rivista d'Italia, 1915; R. Bachi, L'economia e la finanza delle prime guerre per l'indipendenza d'Italia, Roma 1930; A. Ferone, Le finanze napoletane negli ultimi anni del regno borbonico, Napoli 1930. In genere poi C. Barbagallo, Le orgini della grande industria contemporanea, cit. al § 84. E cfr. A. Agnelli, Il fattore economico nella formazione dell'unità italiana, in Il Risorgimento italiano, VI (1913).
Assai importante, specialmente per il regno di Napoli e anche per la storia politica, G. C. Corti, Das Haus Rothschild, 1770-1871, Lipsia 1927-28, voll. 2.
E v. anche A. Giovannini, Carlo Cattaneo economista, Bologna 1905; e A. Durand-Henry, Les doctrines et la politique économiques du comte de Cavour, Parigi 1902; E: Ferri, Melchiorre Gioia economista, Milano 1925; F. Luzzatto, La politica agraria nelle opere di Melchiorre Gioia, Piacenza 1929.
110. Storia della cultura. - V. specialmente: G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, 2ª ed., Milano 1920; G. Luchaire, Essai sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1815 à 1830, Parigi 1906; M. Tabarrini, Gino Capponi, i suoi tempi, i suoi studi, i suoi amici, Firenze 1879; A. v. Reumont, Gino Capponi e il suo tempo, voll. 2, Milano 1881; G. Gentile, Gino Capponi e la cultura toscana nel sec. XIX, 2ª ed., Firenze 1926. Anche V. Cian, Vita e cultura torinese nel periodo albertino, in Atti Acc. Torino, LXIII-V (1927-30).
111. Biografie. - Tra i lavori biografici, o dedicati allo studio del pensiero dei singoli personaggi, o ai rapporti fra questi, v. soprattutto, A. Luzio, Mazzini carbonaro, Torino 1920; id., Carlo Alberto e Mazzini, Torino 1923; id., Garibaldi, Cavour, Verdi, Torino 1924 (dello stesso anche Profili biografici e bozzetti storici, 2ª ed., voll. 2, Milano 1927); A. Codignola, La giovinezza di G. Mazzini, Firenze 1926; A. Levi, La filosofia politica di G. Mazzini, Bologna 1917; G. Salvemini, Mazzini, 4ª ed., Firenze 1925; G. Gentile, I profeti del Risorgimento, Firenze 1923; A. Levi, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, Bari 1928; id., Il pensiero politico di Giuseppe Ferrari, in Nuova riv. storica, XV (1931); A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1922; G. E. Curatulo, Il dissidio fra Mazzini e Garibaldi, Milano 1928; F. Lemmi, Carlo Felice, Torino 1931; N. Rodolico, Carlo Alberto principe di Carignano, Milano 1931; F. Ruffini, La giovinezza del conte di Cavour, voll. 2, Torino 1902; P. Matter, Cavour et l'unité italienne, voll. 3, Parigi 1926-27; W. Thayer, La vita e i tempi di Cavour, trad. it., 2, Milano 1930 (e ancora il brillante saggio di E. v. Treitschke, Cavour, trad. it., 2ª ed., Firenze 1924); G. Massari, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, voll. 2, Milano 1896; M. Rosi, Vittorio Emanuele II, voll. 2, Bologna 1930. E anche W. K. Hancock, Ricasoli and the Risorgimento in Tuscany, Londra 1926; M. Rosi, I Cairoli, voll. 2, 2ª ed., Bologna 1929; C. Avarna di Gualtieri, Ruggero Settimo nel Risorgimento siciliano, Bari 1928.
112. Storia militare. - C. Mariani, Le guerre dell'indipendenza italiana dal 1848 al 1870, voll. 4, Torino 1882-84; ma soprattutto E. Barone, Le campagne per l'indipendenza e l'unità d'Italia (dal '49 al '66), Torino 1930; C. Fabris, Gli avvenimenti militari dal 1848-49, voll. 3, Torino 1898-1905; A. Baldini, La guerra del 1848-49 per l'indipendenza d'Italia, Roma 1929; C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, nuova ed., Roma 1906; C. Manfredi, La spedizione sarda in Crimea nel 1855-56, Roma 1896; La guerra del 1859 per l'indipendenza d'Italia, voll. 4, Roma 1910-12.
Per la questione del "volontarismo", nel '48, v. la polemica fra L. C. Bollea e A. Monti e lo studio di E. Rota, in Nuova riv. stor., X (1926) e XII (1928). Cfr. risorgimento.
Singoli momenti. - 113. I primi anni della Restaurazione. - A. Segre, Il primo anno del ministero Vallesa (1814-15), Roma 1921 (v. anche M. Avetta, Uomini della restaurazione. Il conte Ignazio Thaon di Revel, in La Rivoluzione piemontese del 1821, Torino 1921); P. Pieri, La restaurazione in Toscana (1814-1821), Pisa 1922; G. Cassi, Il card. Consalvi e i primi atti della restaurazione pontificia, Roma 1931.
114. I moti del '20 a Napoli e del '21 in Piemonte e la congiura di Napoli. - V. in genere P. Pieri, Le società segrete e i moti degli anni 1820-21 e 30-31, Milano 1931; E. G. Bianco, La rivoluzione napoletana del 1820, Firenze 1905; V. Castaldo, La Rivol. napoletana del 1820, in Rassegna stor. del Risorg., VIII (1921); V. Fontanarosa, Il parlamento nazionale napoletano per gli anni 1820-21, Roma 1900; E. Rinieri, La rivoluzione di Napoli del 1820, in Il Risorgim. ital., XVII (1924); A. Sansone, La rivoluzione del 1820 in Sicilia, Palermo 1888; R. Soriga, Le società segrete e i moti del 1820 a Napoli, in Rassegna stor. del Risorg., VIII (1921); F. Guardione, Il generale Giuseppe Rosaroll nella rivoluzione del 1820-21 in Sicilia, Palermo 1900; M. Manfredi, Il Colletta in Sicilia nel 1820, in Rassegna storica del Risorg., (1921); M. Avetta, Le relazioni di Carlo Alberto coi liberali prima del Ventuno, in Rassegna storica del Risorg., I (1914); A. Colombo, Il colloquio storico del 6 marzo 1821, ibid., VIII (1921), (cfr. inoltre A. Luzio, in Carlo Alberto e Mazzini cit. al § 111); P. Egidi, I moti studenteschi di Torino (11-13 gennaio 1821), in Bibl. di storia italiana recente, XI (1923); C. Torta, La rivoluzione piemontese del 1821, Roma 1908; E. Passamonti, Prospero Balbo e la rivoluzione del 1821 in Piemonte, in La Rivoluzione del 1921, Torino 1921; id., Cesare Balbo e la rivoluzione del 1821 in Piemonte, Roma 1923; A. Segre, L'episodio di S. Salvario (11 marzo 1821), in Biblioteca di storia ital. recente, XI (1923); A. Colombo, La rivolta della cittadella di Torino (12 marzo 1821), ibid., XI (1923); I. Rinieri, La rivoluz. in Piemonte, le società segrete, l'Austria e il principe di Carignano, in La rivol. piemont. del 1821, Torino 1921.
E cfr. P. Negri, I moti piemontesi del 1821 secondo la diplomazia pontificia, in La rivoluz. piemont. del 1821, Torino 1921; e N. Cortese, Pietro Colletta e la sua "Storia del reame di Napoli", in Rass. stor. del Risorgimento, XI (1924).
Per la reazione, M. Avetta, Al congresso di Lubiana coi ministri del re Vittorio Emanuele I, in Il Risorgimento ital., XVI (1923); id., Un duello diplomatico austro-sardo nel 1921. La convenzione di Novara, Torino 1932; A. Luzio, Il principe di Metternich e gli ambasciatori sardi conte Pralormo e conte Sambuy, in Atti Acc. Torino, LXI (1925-26).
Per le congiure in Lombardia, oltre a G. De Castro, Milano e le cospirazioni lombarde (1814-1820), Milano 1892, v. gli studî fondamentali di A. Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma 1901; id., Il processo Pellico-Maroncelli, Milano 1903; id., Nuovi doc. sul processo Confalonieri, Roma 1908.
Cfr. anche O. Fabretti, Il processo Maroncelli del 1817-18 su documenti inediti, in Rassegna storica del Risorgimento, II (1915); G. Gallavresi, Per una futura biografia di F. Confalonieri, in Arch. stor. lombardo, s. 4ª, VII (1907); il volume, con studî di varî autori, I cospiratori bresciani del '21 nel primo centenario dei loro processi, Miscellanea di studi a cura dell'Ateneo di Brescia, Brescia 1924; A. Sandonà, Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg, Torino 1911; G. Sforza, Silvia Pellico a Venezia (1820-22), in Miscell. storia Ven., 3ª (1918).
E v. M. Barazzoni, Le società segrete germaniche ed i loro rapporti con i cospiratori lombardi del 1821, in Rassegna stor. del Risorg., XIX (1932). E anche E. Casa, I carbonari parmigiani e guastallesi cospiratori nel 1821, e la duchessa Maria Luigia, Parma 1904; id., I moti del 1820-21 nelle carti bolognesi, Bologna 1923; M. Perlini, I processi politici del card. Rivarola, Mantova 1910.
115. Moti del '30 e del '31. - G. Sforza, La rivoluzione del 1831 nel ducato di Modena, Parma 1909; id., Il dittatore di Modena, Biagio Nardi, e il suo nepote Anacarsi, Roma 1916; id., Ciro Menotti e il duca di Modena, in Rassegna storica del Risorgimento, V (1918); G. Ruffini, Le cospirazioni del 1831 nelle memorie di Enrico Misley, Bologna 1931; A. Solmi, Ciro Menotti, Modena 1931; R. Del Piano, Roma e la rivoluzione del 1831, Roma 1931; A. Del Prato, L'anno 1831 negli ex-ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, in Memorie parmensi per la storia del Risorg., II, Parma 1919; T. Fontana, Don Giuseppe Andreoli, la prima vittima di Francesco IV duca di Modena, Reggio Emilia 1924; M. L. Rosati, Francesco IV, l'Austria e i congiurati italiani del 1831, Viterbo 1907; G. Ruffini, La congiura estense nell'inquisizione dei Modenesi catturati dall'Austria nel 1831, in Rassegna storica del Risorg., XII (1925); A. Sorbelli, La congiura Mattioli, Roma 1901; Pedrotti, La missione del barone Marschall nei ducati di Modena e di Parma, Modena 1933 (cfr. anche F. Salata, in Arch. stor. provincie parmensi, 1931).
116. La reazione dei governi dopo i moti del '31, la propaganda mazziniana e le congiure (dal 1832 al 1848). - G. Faldella, I fratelli Ruffini. Storia della Giovine Italia nel 1833, Torino 1895-98; A. Luzio, Gli inizi del regno di Carlo Alberto, in Memorie Acc. Torino, LXVI (1922-23), e cfr. Carlo Alberto e Mazzini, cit. al § 111; E. Passamonti, I processi del 1833 in Piemonte, Firenze 1931; I. Grassi, Il primo periodo della Giovine Italia nel Granducato di Toscana, in Riv. stor. Risorg. ital., 1897; id., La Giovine Italia e le congreghe delle Marche nel 1833, in Riv. d'Italia, 1907; E. Michel, F. D. Guerrazzi e le cospirazioni politiche in Toscana (1830-35), Roma 1904; M. Gioci, Episodio della rivalità franco-austriaca nello Stato Pontificio (occup. francese di Ancona nel 1832), in Rass. stor. risorg., XVIII (1931); R. Pierantoni, Storia dei fratelli Bandiera e loro compagni in Calabria, Milano 1909; G. De Chiara, I martiri cosentini del 1844, Roma 1904; H. Weil, Le condizioni del regno di Napoli nell'autunno del 1843 e dopo la fucilazione dei fratelli Bandiera (luglio-agosto 1844), in Arch. stor. napoletano, XLVII (1922); E. Castellani, Il moto di Romagna dell'agosto 1843, Milano 1917; H. Weil, Les troubles de Bologne et leur répercussion (sept.-oct. 1843), in Atti e Mem. dep. Romagne, s. 4ª (1924); O. Montenovesi, I casi di Romagna (20-30 settembre 1845), in Rassegna stor. del risorg., VIII (1921); R. Ferrari, Il principe di Canino e il suo processo (1847-48), Roma 1925.
Cfr. anche P. Negri, La cospirazione piemontese del 1833 secondo i carteggi della diplomazia romana, in Rass. stor. del Risorg., XI (1924); C. Vidal, Mazzini et les tentatives révolutionnaires de la Jeune Italie dans les États Sardes (1833-34). Parigi 1927; A. Monti, Lo scisma mazziniano del 1839-40 alla luce di un importante documento inedito, in Rend. ist. lomb., LVII (1924); A. M. Ghisalberti. Un re d'Italia mancato?, in Roma, VI (1928); H. Weil, Il Piemonte nella primavera del 1846 nei rapporti del ministro francese a Torino, in Rass. stor. del Risorgimento. XI (1924).
Per il periodo delle riforme, fondamentale A. Gori, Storia della rivoluzione italiana nel periodo delle riforme (1846-14 marzo 1848), Firenze 1897. Per Roma in particolare cfr. R. Giovagnoli, Ciceruacchio e don Pirlone. Ricordi storici della rivoluzione romana dal 1846 al 1849, Roma 1894; id. Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana, voll. 2, Roma-Voghera 1898-1911. Importante: L. Ledermann, Pellegrino Rossi. L'homme et l'économiste, Parigi 1929.
117. Le rivoluzioni e le guerre del 1848-49. - A. Manno, Il primo ministero costituzionale in Piemonte, in Il Risorgimento italiano, 1908; E. Passamonti, La formazione e il programma del ministero Balbo, in Rass. stor. risorg., I (1914); A. V. Vitale, La missione diplomatica di Giovanni Ruffini a Parigi (1849), nella miscell. G. Ruffini e i suoi tempi, Genova 1931; C. De Donato, Il periodo eroico del Risorgimento (1848-49), Bari 1930; V. Ottolini, La rivoluzione lombarda del 1848-49, Milano 1887; C. Pagani, Uomini e cose in Milano dal marzo all'agosto 1848, Milano 1906; C. Casati, Nuove rivelazioni sui fatti di Milano nel 1847-48 tratte da documenti inediti, voll. 2, Milano 1885; A. Colombo, Le cinque giornate di Milano e le loro ripercussioni secondo le carte della polizia sarda, ivi 1924-25; A. Luzio, Le cinque giornate di Milano nelle narrazioni di fonte austriaca, Roma 1899; A. Gori, Milano fra il cadere del luglio e l'entrare dell'agosto 1848, Roma 1901; A. Monti, Un dramma fra gli esuli (Mazzini, Ferrari e Cattaneo dopo il 1848), Milano 1921; G. Macaulay Trevelyan, Manin and the Venetian revolution 1848-49, Londra 1923 (trad. ital., Bologna 1926); A. Dallolio, La difesa di Venezia nel 1848 nei carteggi di Carlo Berti Pichat e di Augusto Aglebert, Bologna 1919; V. Marchesi, Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia negli anni 1848-49, Venezia 1916; A. Pascolato, Manin a Venezia nel 1848-49, Milano 1918; A. Ugoletti, Brescia nella rivoluzione del 1848-49, Bologna 1899; M. Meneghini, Ludovico Frapolli e le sue missioni diplomatiche a Parigi (1848-49), Firenze 1930. V. anche V. Adami, Dell'intervento francese in Italia nel 1848, in Nuova riv. stor., XIII (1928); F. Salata, Venezia nel 1848-49 e la politica austriaca, in Atti e Mem. soc. istriana archeol. e storia patria, 1928.
G. Sforza, Carlo II di Borbone e la rivoluzione di Parma nel 1848, in Nuova Antologia, s. 4ª, LVIII (1895); id., Carlo II di Borbone e la suprema reggenza di Parma, ibid., s. 4ª, LXVI (1896); G. P. Clerici, La suprema reggenza e il governo provvisorio di Parma nel 1848, in Arch stor. prov, parmensi, n. s., XVI (1916); G. Bajone, La Costituente toscana (1848), in Rassegna storica del risorgimento, V (1918); id., La Costituente italiana del 1849, Firenze 1920; F. Martini, Il Quarantotto in Toscana, Firenze 1919; P. Jona, I moti politici di Livorno negli anni 1847-48, Milano 1909; A. Mangini, La difesa di Livorno contro gli Austriaci (10-11 Maggio 1849), in Il Risorg. it., II (1909); G. Sforza, Il Mazzini in Toscana nel 1849., ibid., 1909; id., Garibaldi in Toscana nel 1848, Roma 1897.
G. Leti, La rivoluzione e la repubblica romana (1848-49), Milano 1913; E. Loevinson, Giuseppe Garibaldi e la sua legione nello Stato romano (1848-49), voll. 3, Roma 1904-07; A. M. Ghisalberti, Felice Orsini e la repubblica Romana del 1849, in Studi e documenti su Goffredo Mameli e la Repubblica Romana, Imola 1927; G. Macaulay Trevelyan, Garibaldi's defence of the Roman Republic, 1848-1849, 2ª ed., Londra 1920 (trad. ital. della 1ª ed., Bologna 1904); R. Belluzzi, La ritirata di Garibaldi da Roma nel 1849, Roma 1899. E anche R. Giovagnoli, Ciceruacchio e don Pirlone, e Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana, cit. al § 116. Cfr. inoltre D. Brasini, L'8 agosto 1848 a Bologna, Bologna 1883; id., La resistenza di Bologna nelle otto giornate di maggio 1849, Bologna 1885; E. De Vecchi, L'assedio e la difesa di Ancona nel 1849, Roma 1911; L. Grottanelli, I moti politici nelle Marche e nella Romagna dal 1848 al 1852, in Rassegna Nazionale, 1903 e 1904; B. Ronchi, Movimento politico della città di Perugia dal 1848 al 1860, Foligno 1904.
G. Paladino, La rivoluzione napoletana del 1848, Milano 1914; id., Il Quindici maggio 1848 in Napoli, Roma 1921; id., Il processo per la setta "L'unità italiana" e la reazione borbonica dopo il '48, Firenze 1928; id., Il governo napoletano e la lega italiana (marzo-aprile 1848), in Rassegna storica del risorgimento, IV (1917); id., Guglielmo Pepe e il ritorno delle truppe nap. dall'alta Italia nel 1848, ibid., VI (1919); id., Gli antecedenti ideali della rivoluz. del '48 nell'Italia meridionale, ibid., X (1923); id., Il governo napol. e la guerra del 1848, in Nuova rivista storica, IV-V (1920-21); G. Sforza, La costituzione napoletana del 1848 e la giornata del 15 maggio, Roma 1921; O. Conti, Sul moto rivoluzionario napoletano del 15 maggio 1848, in Rassegna storica del risorgimento, XIII (1926); C. De Donato, Il moto liberale napoletano del 1848, Bari 1930; G. Mondaini, I moti politici del 1848 e la setta dell'"Unità Italiana" in Basilicata, Roma 1902; V. Castaldo, La setta dell'"Unità Italiana" in Terra di Lavoro e il suo processo, in Rassegna storica del risorg., VIII (1921); N. Bernardini, Lecce nel 1848, Lecce 1913; S. Daconto, La provincia di Bari nel 1848-89, Trani 1908; E. Pontieri, I fatti lucerini del 1848, in Rass. stor. Risorg., X (1923); B. Musolino, La rivoluzione del 1848 nelle Calabrie, Napoli 1903; S. Chiaramonte, Il programma del '48 e i partiti politici in Sicilia, in Arch. stor. siciliano, n. s. XXVI (1901); V. Finocchiaro, La rivoluzione siciliana del 1848-49 e la spedizione del generale Filangieri, Catania 1906; G. Romano-Catania, Rosolino Pilo e la rivoluzione siciliana del 1848-49, in Nuova antologia, s. 4ª, CXIV (1904).
118. Dal 1850 al 1859. - C. De Donato, L'avvento di Cavour (1850-52), Bari 1930; A. Luzio, I martiri di Belfiore, 4ª ed., Milano 1924; id., I processi politici di Milano e di Mantova (1851-53) restituiti dall'Austria, Milano 1919; L. Pollini, L'insurrezione milanese del 1859, Milano 1930; A. Curti, I moti insurrezionali del 22 luglio 1854 in Parma, Parma 1904; E. Michel, L'ultimo moto mazziniano (1857). Episodio di storia toscana, Livorno 1903; G. Lumbroso, Austria e Toscana dopo la restaurazione del 1849, in Rass. stor. risorg., XIX (1932); id., L'intervento austriaco in Toscana e l'opera della commissione governativa, ibid., XVIII (1931); E. Costantini, Il decennio di occupazione austriaca in Ancona (1849-1859), Ancona 1916; N. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno di Napoli (1849-1860), Roma 1913; E. Casanova, La Sicilia nel 1851, in Rass. stor. del risorg., X (1923); id., L'emigrazione siciliana dal 1848 al 1851, ibid., XI (1924); id., Il comitato centrale siciliano di Palermo (1849-1852), ibid., XIII (1926). Per la spedizione di Sapri, P. E. Biliotti, La spedizione di Sapri. Da Genova a Sanza, Salerno 1907; L. De Monte, Cronaca del comitato segreto di Napoli su la spedizione di Sapri, Napoli 1877.
Per la partecipazione piemontese alla guerra di Crimea, L. Chiala, L'alleanza di Crimea, Roma 1879: A. Luzio, La guerra di Crimea e la politica austriaca, in Studi e Bozzetti, cit. al § 111; A. Rein, Die Teilnahme Sardiniens am Krimkrieg u. die öffentl. Meinung in Italien, Lipsia 1910; P. Matter, Cavour et la guerre de Crimée, in Revue Historique, CXLV (1924).
Per Pisacane, N. Rosselli, Carlo Pisacane, Torino 1932; per F. Orsini, A. Luzio, Felice Orsini, Milano 1914, e R. Caddeo, L'attentato Orsini, Milano 1933.
119. La guerra del '59 e le annessioni nell'alta e media Italia. - P. Matter, Les conventions franco-sardes du 26-28 janvier 1859, in Compte-rendu de l'Académie des Sciences morales et politiques, 1925; F. C. Roux, La Russie et la politique italienne de Napoléon III, in Revue historique, 1916 segg.; F. Salata, Napoleone III e Francesco Giuseppe alla pace di Villafranca, in Nuova Antologia, LVIII (1923); J. Tresal, L'annexion de la Savoie à la France, Parigi 1913; G. Giacometti, La question de l'annexion de Nice en 1860, in Revue des Deux Mondes, 1860; C. Pagani, Milano e la Lombardia nel 1859, Milano 1902; F. De Dominicis, L'ordinamento provvisorio della Lombardia nel 1859 e la questione costituzionale, in Il Risorgimento ital., 1911; T. Marchi, La formazione storico-giuridica dello stato ital., I, Le annessioni della Lombardia e degli stati dell'Italia centrale, Parma 1924; R. Della Torre, La evoluzione del sentimento nazionale in Toscana dal 27 aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma 1911; D. Zanichelli, Bettino Ricasoli e la rivol. toscana, Bologna 1898; B. Manzone, Cavour e Boncompagni nella rivol. toscana del 1859, in Il Ris. ital., 1909; M. Puccioni, L'unità d'Italia nel pensiero e nell'azione del barone Bettino Ricasoli. Storia documentata della rivoluzione liberale in Toscana, Firenze 1932. Cfr. M. Mazziotti, La candidatura del principe Girolamo Napoleone al trono della Toscana, in Nuova Antologia, LIX (1924).
120. La spedizione dei Mille e la conquista del regno di Napoli. - C. Agrati, I Mille, Milano 1933; R. De Cesare, La fine di un regno, voll. 2, Città di Castello 1900; F. Donaver, La spediz. dei Mille, Genova 1910; G. Leonardo, La preparaz. politica in Sicilia avanti la spediz. dei Mille, e il viaggio di Rosolino Pilo e di Giovanni Corras, Palermo 1920; M. Meneghini, La spediz. garibaldina di Sicilia e di Napoli nei proclami, nelle corrisp., ecc., Torino 1907; I. Nazari Micheli, Cavour e Garibaldi nel 1860, Roma 1911; G. Macaulay Trevelyan, Garibaldi e i Mille, trad. ital., Bologna 1910; G. Porzio, Crispi e i Mille. Il Diario del 1859, Firenze 1924; G. Pittaluga, La diversione. Note garibaldine sulla campagna del 1860, Roma 1904; L. C. Bollea, Il principe Eugenio di Carignano e la sua luogotenenza a Napoli nel 1861, in Rass. stor. del ris., VIII (1921); id., C. Cavour e la spedizione delle Marche, in Il Ris. ital., 1917. E cfr. R. Cotugno, Francia e Inghilterra nei rapporti con Francesco II e Garibaldi nel 1860, in Pagine sul Ris., Foligno 1923.
Per le operazioni militari cfr. C. Cesari, La campagna di Garibaldi nell'Italia meridionale (1860), Roma 1928; id., L'assedio di Gaeta e gli avvenimenti militari del 1860-61 nell'Italia meridionale, Roma 1926; A. Vigevano, La campagna delle Marche e dell'Umbria, Roma 1923.
Il regno d'Italia dal 1861 al 1914.
Opere di carattere generale. - 121. Trattazioni d'insieme. - Le due opere fondamentali, diversissime fra loro nell'intonazione, sono quelle di B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 3ª ed., Bari 1928, e di G. Volpe, Italia in cammino, 3ª ed., Milano 1929. Utile anche il più rapido sguardo d'insieme di P. Silva, L'Italia fra le grandi potenze 1881-1914, Roma 1931 (fino al 1881 v. M. Rosi, L'unità d'Italia, cit. al § 101). E inoltre A. Gori, Il popolo ital. dal 1870 ai giorni nostri. Storia civile, Milano s. a.; A. Pingaurd, L'Italie depuis 1870, Parigi 1905; M. Rosi, Storia contemporanea d'Italia, cit. al § 101; id., La formazione dell'Italia contemporanea (1700-1928), Roma 1929; G. Salvemini, L'Italia politica del secolo XIX, in L'Europa nel sec. XIX, Padova 1925; L. M. Hartmann, Il risorgimento e le basi dell'Italia moderna, 1815-1915, trad. ital., Firenze 1923; G. Bourgin, La formazione dell'unità italiana, trad. ital., Firenze 1931; R. Michels, Italien von heute. Politische u. Wirtschaftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930, Zurigo e Lipsia 1930. Per il periodo 1861-70, G. Paladino, Roma. Storia d'Italia dal 1861 al 1871, con particolare riguardo alla questione romana, Milano 1933. Cfr. anche R. De Cesare, Mezzo secolo di storia italiana sino alla pace di Losanna, 3ª ed., Città di Castello 1913; le varie monogr. raccolte in Cinquanta anni di storia italiana, pubbl. sotto gli auspici della R. Acc. dei Lincei, voll. 3, Milano 1911.
122. Storia parlamentare. - Oltre a S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, politica e diplomatica d'Italia da Novara a Vittorio Veneto, voll. 2, Milano 1923, cfr. E. Arbib, Storia del parlamento italiano, Roma 1902; A. Nota, Sessant'anni di eloquenza parlamentare in Italia, voll. 2, Modena 1911-12; L. Lodi, 25 anni di vita parlamentare. Da Pelloux a Mussolini, Firenze 1923.
123. Storia dei partiti politici. - Oltre ai cap. relativi in G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, cit. al § 103, cfr. A. Ferrri, Principî e forme della lotta politica nella terza Italia, Roma, 1927; Rerum Scriptor (pseud. di G. Salvemini), I partiti politici milanesi nel sec. XIX, Milano 1899; e in particolare D. Petrini, Gli ultimi della destra storica. Due moderati: Marco Munghetti e Giuseppe Pasolini, Stefano Jacini, in Motivi del risorgimento, Rieti 1929; F. Battaglia, Lo stato etico e l'ideologia politica della Destra liberale, in Civiltà mderna, I (1929); S. Jacini, Un conservatore rurale della nuova Italia (S. Jacini), Bari 1926; E. Tagliacozzo, Silvio Spaventa e la politica della Destra, in Nuova riv. stor., XVI (1932); R. Michels, Storia critica del movimento socialista italiano, Firenze 1926; I. Bonomi, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Milano 1928. Per il primo periodo, cfr. però soprattutto N. Rosselli, Mazzini e Bakounine, Torino 1927, e anche A. Ferrari, I precursori del movimento socialista in Italia, in Nuova riv. stor., X (1926). V. inoltre F. S. Nitti, Il partito radicale, Torino 1907; S. Sighele, Il nazionalismo e i partiti politici, Milano 1911; P. Viazzi, Il partito repubblicano, Genova 1913; E. Vercesi, Il movimento cattolico in Italia, 1870-1922, Firenze 1923; F. Papafava, Dieci anni di vita italiana 1899-1909, voll. 2, Bari 1909; M. Missiroli, La monarchia socialista. Estrema destra, Bari 1914; E. Giovannetti, Il tramonto del liberalismo, Bari 1917. E anche C. Morandi, Il pensiero politico di Ruggiero Bonghi, in Annali d. Facoltà di scienze politiche R. Univ. di Pavia, II (1929); R. De Mattei, La critica antiparlamentaristica in Italia dopo l'unificazione, in Educazione fascista, 1928; M. Vajna de Pava, Popolarismo e nasismo in Sicilia, Firenze 1911.
124. Politica estera. - A. F. Pribram, Die politischen Geheimverträge Österr. - Ung. 1879-1914, Vienna 1920; F. Salata, L'Italia e la Triplice secondo i nuovi documenti austro-germanici, in Le nuove provincie, Roma 1923; H. Granfelt, Das Dreibund- System 1879-1916, I, Berlino 1925; Italicus, Italiens Dreibund-politik 1870-1896, Monaco 1928; L. Salvatorelli, L'Italia nella politica internazionale dell'èra bismarckiana, in Riv. stor. ital., 1923; id., Cinquantenario della Triplice Alleanza, in La Cultura, n. s., XI (1932); A. Sandonà, L'irredentismo nelle lotte polit. e nelle contese diplomatiche italo-austriache, 1881-82, I, Bologna 1932. Inoltre A. Billot, Histoire des annés troubles 1866-1899, voll. 2, Parigi 1905; G. E. Curatulo, Francia e Italia dal 1849 al 1914, Torino 1915; G. Caprin, I trattati segreti della Triplice Alleanza, Bologna 1922; Un Italiano (E. Amadori-Virgili), La politica estera italiana (1875-1916), Bitonto 1916; L. Bissolati, La politica estera dell'Italia dal 1897 al 1920, Milano 1923; S. Barzilai, Dalla Triplice Alleanza al conflitto europeo, Roma 1924; G. Gallavresi, Italia e Austria (1859-1914), Milano 1922; C. Capasso, Italia e Oriente, Firenze 1932. V. anche L. v. Chlumecký, Österr.-Ungarn und Italien, Vienna 1907; E. Reventlow, Politische Vorgeschichte d. grossen Krieges, Berlino 1919.
125. Questione romana. - Per i precedenti v. A. Panella, L'Italia e la questione rom. dal convegno di Plombières alla guerra contro l'Austria, in Arch. stor. ital., LXXXIV (1926); per la formula cavouriana F. Ruffini, Le origini elvetiche della formula del conte di Cavour "Libera Chiesa in libero Stato", in Beiträge zum Kirchenrecht. Festschrift Emil Friedberg, Lipsia 1908; Z. Giacometti, Die Genesis von Cavour Formel "Libera Chiesa in libero Stato", Aarau 1919; A. Omodeo, Il conte di Cavour e la questione romana, in La Nuova Italia, I (1930); L. Salvatorelli, Il pensiero e l'azione di Cavour per la questione romana, in La Cultura, n. s., IX (1930). Per lo svolgimento della questione v. F. Salata, Per la storia diplomatica della Questione Romana, I, Da Cavour alla Triplice Alleanza, Milano 1929; id., La Questione Romana e la Triplice Alleanza secondo nuovi documenti austro-ungarici, in Nuova Antol., LVIII (1923); V. Procacci, La Questione Romana: le vicende del tentativo di Conciliazione del 1887, Firenze 1929. E anche É. Bourgeois e E. Clermont, Rome et Napoléon III, Parigi 1907; S. Jacini, Il tramonto del potere temporale nelle relazioni degli ambasciatori austriaci a Roma 1860-70, Bari 1931; A. Pingaud, Bettino Ricasoli e la questione romana, in Nuova Antol., LXVII (1932); A. Colombo, La questione romana nei carteggi Nigra-Durando, in Il Risorgimento italiano, XXII (1929); G. Aureli e C. Crispolti, La politica di Leone XIII da Luigi Galimberti a Mariano Rampolla, Roma 1912; R. De Cesare, La politica di Leone XIII e i cardinali Rampolla e Galimberti, in Rassegna contemporanea, 1912.
126. Storia economica e finanziaria. - I. Sachs, L'Italie, ses finances et son développement économique depuis l'unification du Royaume. 1859-1884, Parigi 1885; G. Sensini, Le variazioni dello stato economico d'Italia nell'ultimo trentennio del sec. XIX, Roma 1904; E. Lémmon, L'Italie économique et sociale (1851-1912), Parigi 1912; U. Pellegrini, Il risorgimento economico dell'Italia dalla costituzione del regno al 1921, Milano 1922; V. Pori, L'evoluzione economica italiana dell'ultimo cinquantennio, Torino 1926; F. Corbino, Annali dell'economia italiana (1861-1890), I-III, Città di Castello 1931-33; R. Morandi, Storia della grande industria ital., Bari 1932; M. Santoro, L'Italia nei suoi progressi economici dal 1860 al 1910, Parma 1911; E. Messeri, Cinquant'anni di vita economica e finanziaria italiana, Roma 1912.
G. Luzzato, L'evoluzione economica della Lombardia dal 1860 al 1922, in La Cassa di Risparmio delle provincie lombarde nell'evoluzione economica della regione, Milano 1923; A. Plebano, Storia della finanza italiana dalla costituzione del nuovo regno alla fine del sec. XIX, voll. 3, Torino 1899-1902; C. Supino, Storia della circolazione bancaria in Italia (1860-1894), Torino 1896; F. S. Nitti, Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97, Napoli 1900; L. Luzzatti, La conversione della rendita italiana, in N. Antologia, XLI (1906). Per l'agricoltura v. S. Jacini, L'inchiesta agraria, con introd. di F. Coletti, Piacenza 1926; F. Zugaro, La produzione del suolo italiano dal 1880 al 1923, in Ann. di economia, I (1929).
127. Storia sociale. - R. Michels, La bourgeoisie italienne au XIXe siècle, in Revue Historique, 1932; G. Zibordi, Saggio sulla storia del movimento operaio in Italia. Camillo Prampolini e i lavoratori reggiani, Bari 1930; R. Rigola, Rinaldo Rigola e il movimento operaio nel Biellese. Autobiografia, Bari 1930; B. Riguzzi, Sindacalismo e riformismo nel Parmense, Bari 1931; M. Bettinotti, Vent'anni di movimento operaio genovese, Milano 1932.
128. Questione del Mezzogiorno. - G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, voll. 2, 2ª ed., Firenze 1926 (anche G. Arias, La questione meridionale, Bologna 1920). E per la Sicilia in specie L. Franchetti-S. Sonnino, La Sicilia, 2ª ed., Firenze 1925.
129. Emigrazione. - B. G. Brenna, Storia dell'emigr. italiana, Roma 1928.
130. Storia coloniale. - G. Mondaini, Manuale di storia e legislazione coloniale del regno d'Italia, Roma 1927; A. Gaibi, Manuale di storia politico-militare delle colonie italiane, Roma 1928; cfr. id., La guerra d'Africa (1985-96), Roma 1930; Ufficio storico dello Stato Maggiore, La campagna di Libia, voll. 5, Roma 1924-27 (anche A. Tosti, La spedizione italiana in Cina 1900-1901, Roma 1926). Cfr. italo-abissina, guerra; italo-turca, guerra.
131. Storia della cultura. - V. soprattutto G. Gentile, Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del sec. XIX (Sicilia e Piemonte) in La critica, 1909-1911, 1915-1923 (del Gentile anche Gino Capponi e la cultura toscana nel sec. XIX, Firenze 1922, e Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina 1917 segg.); G. Brognoligo, Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del sec. XIX (Veneto), in La critica, 1919-1924; L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Firenze e Venezia 1928. E anche G. Pasquali, Domenico Comparetti e la filologia del sec. XIX, Rieti 1929.
132. Storia dei confini. - V. Adami, Storia documentata dei confini del regno d'Italia (I, italo-francese; II, italo-avizzero; III, italo-austriaco; IV, italo-iugoslavo), Roma 1920-31.
Singoli periodi. - 133. Dal '62 al '71. - Ch. Ch. Terlinden, La reconnaissance du royaume d'Italie par la Belgique, in Mélanges H. Pirenne, Bruxelles 1926; M. Degli Alberti, Napoleone III e B. Ricasoli, in Il risorg. ital., I (1908); H. Salomon, Le prince Richard de Metternich, in Revue de Paris, 1924; F. Guardione, Aspromonte, 2ª ed., Palermo 1923; G. Levi, Roma o morte, Roma 1895; G. Bruzzesi, O Roma o morte. Dal Volturno ad Aspromonte, Milano 1907 (cfr. anche G. E. Curatolo, in Scritti e figure del Risorgimento italiano, utile pure per la guerra del 1866); L. M. Case, Franco-Italian Relations 1860-65. The Roman Question a. the convention of september, Filadelfia 1932; P. Silva, Il sessantasei, Milano 1917 (anche A. Savelli, L'anno fatale per l'Italia, 1866, Milano 1916; e per la parte militare, E. Scala, La guerra del 1866 per l'unità d'Italia, Roma 1930); G. Thaon di Revel, La cessione del Veneto, Firenze 1906; M. Degli Alberti, Il Trentino nei negoziati del 1866, in Nuova Antologia, L (1915); A. Sandonà, Il Trentino e l'alleanza italo-prussiama del 1866, ibid. (1915); A. Avancini, Napoleone III e l'Italia dopo la caduta del secondo ministero Menabrea, in Rassegna stor. del risorg., III (1916); E. Mayor des Planches, Re Vittorio Emanuele II alla vigilia della guerra del Settanta, in Nuova Antologia, LV (1920). E cfr. G. Salvemini, La politica estera della destra, in Riv. d'Italia, 1924 e 1925.
Per il brigantaggio, G. Racioppi, Storia dei moti di Basilicata e delle provincie contermini nel 1860, Bari 1909; C. Cesari, Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano dal 1860 al 1870, Roma 1920.
134. Dal 1871 al 1914. - F. Beiche, Bismarck u. Italien, Berlino 1931; G. Salvemini, Alla vigilia del congresso di Berlino, in Nuova riv. stor., IX (1925); E. Corti alle Catene, Bismarck u. Italien an Berliner Kongress 1878, in Hist. Vierteljahr., 1926; A. Sandonà, Tunisi e gli avvenimenti del 1878 alla luce di nuovi documenti, Milano 1931; P. Silva, Come si formò la Triplice, Milano 1915; F. Tommasini, Una fase ignorata della Triplice Alleanza, in Nuova Antologia, LXVIII (1932); L. Bonin Longare, Ricordi di Vienna nei primi anni della Triplice Alleanza, ibid., LXVIII (1932); R. Cappelli, La politica estera del conte di Robilant, ibid., 1897; G. Salvemini, La politica estera di Francesco Crispi, Roma 1919; G. Volpe, Crispi, Venezia 1928; F. Ercole, F. Crispi, in Politica, 1930; G. Bruccoleri, F. Crispi ministro degli esteri, in Riv. d'Italia, 1915; Del Cerro, F. Crispi e la Francia, ibid., 1921; R. A. Masini, F. Crispi e la sua politica estera, in Rassegna nazionale, 1920; G. Palumbo-Cardella, Crispi e la politica mediterranea e coloniale, in Politica, XI (1928); M. Gravina, Napoli (1904) e Björkö. Dai documenti diplomatici tedeschi, in Nuova Antologia, LX (1925); L. Salvatorelli, G. Giolitti u. seine auswärtige Politik, in Europäische Gespräche, VI, Berlino 1928; C. Avarna di Gualtieri, L'ultimo rinnovamento della Triplice (5 dicembre 1912), Milano 1924; W. Förster, Die deutsch-italienisch Militärkonvention, Berlino 1927; A Solmi, La guerra di Libia e il Dodecaneso nei documenti segreti della diplomazia russa, in Politica, VI (1923).
Per la politica interna v. R. Quazza, La "Destra" e le elezioni del 1874 nel pensiero di Minghetti, in Rass. stor. del risorgimento, X (1923); id., La disfatta della Destra, ibid., XII (1925); id., Idee e programmi nel partito moderato alla vigilia del trasformismo, Padova 1925; A. Ferrari, Destra e sinistra (1871-1881), in Rass. stor. risorg., XIII (1926); V. M. Claar, G. Giolitti u. die liberale Parlamentsdiktatur in Italien, in Zeitschrift für Politik, 1928.
Guerra e dopoguerra.
135. Storia diplomatica. - A. Solmi, L'intervento italiano nella conflagrazione europea, in Nuova Antologia, LV (1920); id., Le origini del patto di Londra, in Politica, VI (1923); G. Salvemini, Dal Patto di Londra alla pace di Roma, Torino 1925; M. Toscano, Il patto di Londra, Pavia 1931; F. Ruffini, Il potere temporale negli scopi di guerra degli ex imperi centrali, in Nuova Antologia, LVI (1921); E. Vercesi, Il Vaticano, l'Italia e la guerra, Milano 1925; A. Palmieri, La spartizione dell'Asia Minore. La politica degli Alleati e l'Italia, in Politica, XI (1928).
136. Operazioni militari. - V. soprattutto A. Valori, La guerra italo-austriaca, 2ª ed., Bologna 1925; A. Tosti, La guerra italo-austriaca, Milano 1925; A. Gatti, La parte dell'Italia, Milano 1926; L. Segato, L'Italia nella guerra mondiale, voll. 2, Milano 1927; R. Bencivenga, Saggio critico sulla nostra guerra, Bari 1930; P. Maravigna, Le undici offensive dell'Isonzo, Roma 1928, e la prefazione di B. Mussolini ad A. Alberti, La guerra italiana nei giudizi stranieri, Roma 1933.
137. Storia interna. - F. Meda, I cattolici italiani nella guerra, Milano 1921; A. Malatesta, I socialisti italiani durante la guerra, Milano 1926; A. Oberdorfer, Il socialismo del dopoguerra a Trieste, Firenze 1922; G. De Rossi, Il partito popolare italiano dalle origini al Congresso di Napoli, Roma 1920; M. Missiroli, Polemica liberale, Bologna 1919; G. Ambrosini, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Firenze 1923 (e cfr. U. Giusti, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Firenze 1921); A. Ferrari, Partiti ed uomini politici italiani nella guerra mondiale, in Nuova riv. stor., XIV (1930).
Per la storia economico-sociale cfr. i volumi della collez. Storia economica e sociale della guerra mondiale promossi dalla fondazione Carnegie cit. in guerra mondiale, XVIII, p. 210, a cui è da aggiungere: L. Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Bari 1933. Utile, E. Lémonon, L'Italie d'après guerre (1915-1921), Parigi 1923.
Per l'impresa di Fiume, v. A. Marpicati, Fiume, Firenze 1931; S. Gigante, Storia del comune di Fiume, Firenze 1928.
Per più ampie indicazioni, v. guerra mondiale.
Fascismo.
138. Opere di carattere generale. - Per lo svolgimento storico del fascismo soprattutto G. Volpe, in Encicl. ital., XIV, pp. 851-878 (e, a parte, in appendice a B. Mussolini, La dottrina del fascismo, Milano-Roma 1932); id., Lo sviluppo storico del fascismo, Palermo 1928 e Guerra, dopoguerra, fascismo, Venezia 1928; G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, Roma 1929; id., Che cosa è il fascismo, Firenze 1925; F. Ercole, Le origini dell'Italia fascista, Roma 1925; id., Dal nazionalismo al fascismo, Firenze 1928; id., Dal Risorgimento al fascismo, in Annali istruz. media, VIII (1932). V. anche Le origini e lo sviluppo del fascismo: dall'intervento alla marcia su Roma, a cura del Partito nazionale fascista, Roma 1928; G. Pini e F. Bresadola, Storia del fascismo, Roma 1928; G. A. Chiurco, Storia della rivol. fascista, voll. 5, Firenze 1929, utile come cronistoria; A. Pagliaro, Il fascismo: commento alla dottrina, Roma 1933; M. Missiroli, L'Italia d'oggi, Bologna 1932; e i varî studi raccolti in La civiltà fascista, con introd. di B. Mussolini, a cura di G. L. Pomba, Torino 1928.
Tra le biografie di Mussolini, M. Sarfatti, Dux, Milano 1926.
139. Per la dottrina del fascismo, cfr. gli scritti di B. Mussolini, ricordati di sopra: Fonti.
140. Per l'ordinamento dello stato, cfr. A. Rocco, La trasformazione dello stato. Dallo stato liberale allo stato fascista, Roma 1927 (e. C. Saltelli, Potere esecutivo e norme giuridiche, Roma 1926; N. Orsi, Fascismo e legislazione fascista, Milano 1928); Il Gran Consiglio nei primi cinque anni dell'èra fascista, a cura del P. N. F., Roma 1927; S. Panunzio, Lo stato fascista, Bologna 1925; G. Bortolotto, Lo stato fascista e la nazione, Roma 1931; id., Governanti e governati del nostro tempo, Milano 1933.
141. Per la politica finanziaria, L. Gangemi, La politica economica e finanziaria del governo fascista nel periodo dei pieni poteri, Bologna 1924; G. Volpi di Misurata, Finanza fascista, Roma 1928; A. De' Stefani, La ricostruzione finanziaria, Bologna 1926.
142. Sulla organizzazione corporativa, C. Costamagna, Diritto corporativo italiano, Torino 1927; U. Spirito, I fondamenti dell'economia corporativa, Milano 1932; G. Bortolotto, Lo stato e la dottrina corporativa, voll. 2, Bologna 1932.
143. Sulla politica scolastica, G. Gentile, La riforma della scuola in Italia, 2ª ed., Milano 1933.
144. Per le "opposizioni" nel primo periodo, cfr. L. Salvatorelli, National-fascismo, Torino 1923; G. Amendola, Una battaglia liberale, Torino 1924; I. Bonomi, Dieci anni di politica italiana, Milano 1923; id., Dal socialismo al fascismo, Roma 1924.
145. Per la politica estera, A. Solmi, Italia e Francia nei problemi attuali della politica europea, Milano 1931. Cfr. anche F. Coppola, La rivoluzione fascista e la politica mondiale, Roma 1924; G. Ambrosini, L'Italia nel Mediterraneo, Foligno 1927; R. Cantalupo, L'Italia musulmana, Roma 1928; C. Camoglio, La politica estera fascista, Roma 1931; A. Carena, La politica estera del fascismo, Roma 1928; id., La politica estera nel Mediterraneo orientale, Roma 1931; U. Nani, Italia e Iugoslavia (1918-1928), Milano 1928; C. Curcio, L'Italia e l'Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana, in Raccolta di studî pol. e giur., I, Roma 1932; G. Volpe, in Fra storia e politica, Roma 1924.
Cfr. inoltre, per maggiori ragguagli, gli art. fascismo; mussolini in Encicl. Ital. e le bibl. del fascismo ivi indicate.
Da questi dati, oltre il fatto ben noto dell'estrema compattezza religiosa del popolo italiano, si ricava ben poco: al più questo, che il "nonconformismo" italiano è fenomeno prevalentemente cittadino, specie dei grandi centri industriali, commerciali e portuali. Più interessante sarebbe conoscere numero e distribuzione geografica degli appartenenti ai singoli culti riformati (valdesi, luterani, calvinisti, battisti, metodisti, ecc.); in particolare, quello degl'Italiani appartenenti a sette quali la Christian science, che sembrano possedere chiese in città italiane più che altro per comodo dei loro aderenti stranieri residenti in Italia. È facile supporre che gli evangelici del Piemonte e della Liguria siano in prevalenza valdesi; quelli della Venezia Tridentina, luterani o calvinisti. Fra gli appartenenti ad "altre religioni" nella Venezia Giulia e Zara predominano i greco-ortodossi (circa 92%). Del pari, sarebbe desiderabile che fossero tenuti distinti i cattolici di rito bizantino: secondo statistiche della Sacra Congregazione orientale, gl'Italo-Albanesi di rito bizantino nel 1932 erano 50.850 di cui 35.000 sotto la giurisdizione del vescovo di Lungro e 15.850 sottoposti alla giurisdizione dei vescovi latini di Palermo (colonie di Mezzoiuso e Palermo) e di Monreale (Piana dei Greci, Palazzo Adriano, Contessa Entellina).
Bibl.: Manca non solo una storia completa del sentimento religioso in Italia, ma anche per l'organizzazione ecclesiastica resta tuttora molto da fare: insoddisfacente per molti riguardi è ormai la grande opera di F. Ughelli, Italia sacra, anche nella 2ª ed., a cura di N. Coleti, Venezia 1717-33, voll. 10; G. Sbaraglia, Notae et additiones ad Italiam sacram (manoscritto nell'Archivio dei minori conventuali in Roma); G. Cappelletti, Le chiese d'Italia, Venezia 1844-71, vi rimediano solo in parte. Per l'epoca antica, fondamentali: F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300, I: Il Piemonte, Torino 1899; II: La Lombardia: Milano, Firenze 1913; F. Lanzoni, Le origini delle diocesi antiche d'Italia, Roma 1923 e meglio la 2ª ed., Le diocesi d'Italia dalle origini al sec. VII (640), Faenza 1927, voll. 2 (Studi e testi, a cura della Bibl. Vaticana, n. 35), con ricche indicazioni bibliografiche; da controllare sono invece le indicazioni per l'epoca posteriore al Medioevo, contenute nelle parti narrative della grande racolta (regesto) di documenti di P. F. Kehr, Italia pontificia, Berlino 1906 segg.; per gl'Italo-Greci e per l'Italia meridionale: P. P. Rodotà, Dell'origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, Roma 1758-63 (soggetto a cauzione): meglio J. Gay e F. Chalandon, citati nel paragrafo Storia. C. Korolevskij, art. Basiliens italo-grecs, in Dictionn. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, VI, Parigi 1932; S. Congregazione Orientale, Statistica con cenni storici della gerarchia e dei fedeli di rito orientale, Tipografia Vaticana, 1932. Per i protestanti, E. Schubert, art. Italien, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, III, Tubinga 1929; per i Valdesi, v. valdesi; sulla condizione degli acattolici, v. M. Piacentini, La legge sull'esercizio dei culti ammessi, Roma 1929.
LINGUA E LETTERATURA.
Sommario. - Lingua e dialetti: La lingua letteraria e i dialetti (p. 922); Le parlate dell'Italia antica (p. 923); I parlari italiani, partizioni e caratteristiche fonetiche (p. 923); Caratteristiche sintattiche (p. 925); caratteristiche lessicali (p. 925); La lingua letteraria (p. 926); Bibliografia (p. 928). - Dialetti non italiani: Dialetti franco-provenzali e provenzali (p. 928); Dialetti tedeschi (p. 928); Dialetti greci (p. 929); Dialetti slavi (p. 930); Dialetti albanesi (p. 931); Dialetti romeni (p. 931); Dialetti catalani (p. 932); Bibliografia (p. 932). - Letteratura: I primi conati e la preparazione tecnica (p. 933); Il periodo classico: secoli XIII-XVI (p. 934); Il periodo romantico: secoli XVI-XIX (p. 944); Nuove esperienze: sec. XX (p. 957); Principali raccolte di opere (p. 959); Bibliografia (p. 959).
Lingua e dialetti.
La lingua letteraria e 1 dialetti. - In un profilo storico-linguistico dell'Italia non può non essere data una parte notevole ai dialetti, la cui varietà e la cui ricchezza sono di gran lunga superiori alla varietà e ricchezza dei dialetti degli altri paesi neolatini. Tutto un tesoro lessicologico e grammaticale, che ogni giorno va assottigliandosi sotto l'influsso della lingua letteraria, sta nelle parlate dialettali, delle quali l'importanza è tale, che quanto più sono studiate, tanto più vediamo allargarsi il lessico della penisola e tanto più acquista profondità e valore l'esame della lingua della letteratura.
La lingua letteraria si affermò in Italia dopo un così lungo periodo di lotta per la supremazia di una parlata sull'altra (si pensi al siciliano illustre dei primi poeti, sul quale si appuntavano le simpatie di Dante, così sdegnoso degli altri parlari della penisola, e si pensi anche al prestigio assunto, in progresso di tempo, da quel tipo ibrido settentrionale di lingua lombardo-veneta che quasi oscurò il toscano nei secoli XIV-XV); i rapporti fra dialetto e lingua illustre furono sempre così vivaci e complessi in Italia (dalle origini sino al Manzoni, al Fogazzaro, al Verga, al Pascoli e al D'Annunzio); l'importanza dei dialetti nella storia della letteratura e della civiltà italiana è tanta (Ruzzante, Meli, Porta, Belli, Pascarella); i caratteri regionali furono sempre, per esigenze storiche, così distinti e intensi sino all'unificazione del regno, che ben si comprende come non si possa narrare, sia pure in una rapidissima sintesi, la storia linguistica dell'Italia, senza tenere nel debito conto i dialetti, attraverso cui possiamo, in una certa misura, risalire alle lingue degli antichi abitatori della penisola. Infatti, alcune caratteristiche delle più remote parlate si continuano ancora nei dialetti e si affacciano allo studioso in mezzo alla sicura e bella latinità degl'idiomi italiani.
Le parlate dell'Italia antica. - La conquista romana della penisola e delle isole si compì con un secolo di lotta mentre nel popolo di Roma si andava sempre più raffermando la coscienza della propria potenza. Le guerre dette sannitiche (343-283 a. C.) assicurarono a Roma il dominio della media Italia, in cui erano stanziate genti di lingua affine, gl'Italici (v.). La loro civiltà, detta sannitica, sovrappostasi a una civiltà più antica detta ausonica, fu travolta con la loro rovina politica; e le loro parlate, in progresso di tempo, subirono la stessa sorte. Seguirono le lotte per il possesso dell'Italia meridionale (282-264); poi furono conquistate la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e, infine, la Gallia Cisalpina (263-241).
Prima della conquista, la penisola era abitata, oltreché dagli Italici, da stirpi etnicamente e linguisticamente diverse.
Nella parte centrale e meridionale erano appunto gl'Italici (di stipite indo-europeo), i quali s'erano sovrapposti a razze mediterranee, che sul principio dell'età storica ancora vivevano in Sardegna, in Corsica e in Sicilia: a Roma e nelle altre città del Lazio i Latini, più a nord i Falisci, nella valle del Liri i Volsci, a sud sino alla Calabria e ad est sino all'Adriatico le genti di civiltà sannitica denominazione comprensiva che vale per i Sanniti propriamente detti, per i Frentani, gl'Irpini, i Campani, i Lucani, i Bruzî, i Mamertini, per non dire di altri nuclei sabellici o sabini, quali i Peligni, i Marsi, gli Equi, i Vestini, i Piceni, gli Ernici, i Marrucini. Gl'idiomi di queste stirpi italiche si possono suddividere in tre gruppi principali: il latino (e falisco), l'osco con designazione attinta alla lingua dei Campani, e l'umbro. Questi ultimi due gruppi costituivano la famiglia osco-umbra, di cui ci restano scarse ma preziose testimonianze (v. italici). Nella regione, che corrisponde a un di presso alla Toscana, erano stati confinati gli Etruschi che abitavano anche la Corsica e avevano occupato un vasto territorio dalla Valle Padana alla Campania, con città quali Milano, Verona, Bologna, Capua. I loro domini s'erano venuti restringendo e frazionando (una colonia etrusca rimase a lungo stanziata in quella che divenne la Campania) per la pressione degl'Italici a mezzogiorno e di altre genti a settentrione. La loro lingua, rappresentata da parecchie migliaia d'iscrizioni, non pare essere stata indoeuropea.
Nel nord della penisola erano stanziati: i Liguri (a ovest), razza preindoeuropea che non ha lasciato a testimonianza sicura della sua lingua altro che un certo numero di toponimi; i Celti (nel centro) di stipite indoeuropeo, calati dalle Alpi (Senoni, Insubri, Boi, ecc.); i Veneti (a est), imparentati agl'Illirici dei Balcani e anch'essi di lingua indoeuropea. Nell'estrema Puglia s'erano trasportati gli Iapigi e Messapî, affini agl'Illirici; nelle coste della Sicilia e in quelle meridionali della penisola i Greci avevano fondato importanti colonie (Taranto, Reggio, Siracusa, Agrigento, ecc.). Altre colonie erano fenicie, altre cartaginesi (Solunto, Panormo, ecc.).
Il latino (v. latina, lingua) s'impose a tutte queste varie favelle, non già per virtù propria, ma per l'energia espansiva di Roma, perché la diffusione di una lingua dipende dalla forza e dal prestigio del popolo e non sta in illusorie preminenze che un idioma astrattamente concepito, fuori della storia delle genti che lo parlano, possa vantare su altri idiomi. Naturalmente il latino, che la conquista romana impose ai popoli assoggettati, non fu il latino classico, la lingua letteraria, ma il latino parlato, detto da molti "volgare" e da altri "preromanzo", in quanto si sviluppò in romanzo o neolatino: un latino, cioè, vivo, vario, mutevole, con vocaboli e costruzioni proprie ai ceti diversi della popolazione, con certe tendenze a semplificare le forme grammaticali, che si fissano, invece, e s'irrigidiscono nella lingua della letteratura. Ma questo latino parlato, trapiantandosi in dominî idiomatici diversi, si assimilò non poche abitudini fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali di quei popoli, che mentre lo venivano riconoscendo come loro lingua, rinunciavano alla loro parlata originaria. Più esattamente, potremmo dire che questi popoli, linguisticamente diversi, non poterono prescindere dalle loro consuetudini e tendenze tradizionali ed etniche nell'adottare il nuovo linguaggio di Roma che urgeva con la forza delle leggi, dell'amministrazione, degli ordinamenti militari, ecc. Quel tanto di autoctono o d'indigeno che si trasfuse nella lingua latina, imprimendole un nuovo suggello e accelerandone l'ininterrotto svolgimento è ciò che comunemente si dice "sostrato etnico". Tanti furono i sostrati, quante furono le famiglie linguistiche sommerse e livellate dalla dominazione romana; ma qua l'influsso latino fu decisivo e là la vittoria fu meno completa, onde traspaiono in diversa misura queste reazioni etniche, in funzione della maggiore o minore resistenza all'elemento invasore.
I parlari italiani; partizioni e caratteristiche fonetiche. - Così è che i dialetti italiani presentano caratteri diversi, che permettono di collegarlì per gruppi alle condizioni linguistiche tramontate dopo la conquista romana. Tramonto lento, progressivo, che si protrasse per qualche secolo. Alle tre partizioni dell'Italia antica rispondono (con la relatività delle lingue e dei dialetti, che non hanno limiti definiti e che si estendono in serie o catena senza soluzione di continuità) tre partizioni dell'Italia neolatina. Queste sono giustificate da caratteristiche di natura etnica, le quali dànno un saldo fondamento a una descrizione che voglia tener conto delle ragioni della scienza oltre che delle esigenze pratiche.
Si tratta, cioè, di schemi tanto più valevoli, quanto più aderenti al processo storico, quanto più legati ai tratti più significativi, profondi, essenziali dei dialetti italiani. Soltanto così si può dare una solida base a una classificazione linguistica, restando sempre fermo che nessuna classificazione potrà mai avere un valore assoluto. La fisionomia o l'apparente individualità di ciascun gruppo risulterà dalla concomitanza e simultaneità di varî fenomeni, ognuno dei quali, preso in sé e per sé, non varrebbe a discriminare l'un gruppo dall'altro.
1. Dialetti centro-meridionali. - Sono detti centro-meridionali i dialetti che si parlano nel vasto dominio, dove furono i paleoitalici. Tratto comune preziosissimo, che stringe insieme questi parlari dal siciliano e dal pugliese all'umbro e al marchigiano, è l'assimilazione di -nd- in -nn- (quannə "quando", ecc.) alla quale fa perfetto riscontro l'altra assimilazione di -mb- (nv-) in -mm- (gamma "gamba", kjummu "piombo"). V. cartina relativa.
Altri caratteri comuni, non meno preziosi, sono dati dal volgere di -mj- in -ññ- (per es., vennéñña "vendemmia", di b- (br-) in v(vr-) (vrazzə, ecc.), di -rb- in -rv- (varva "barba") e di -sv-, -dv rispettivamente in -sb- e -bb-, per es., abbelà (advelare). È appena necessario ricordare che il primo di questi fenomeni è osco-umbro (osco upsannam = lat. operandam; umbro ostendu, che sta per ostennetod, ostentu nelle Tav. eug. = lat. ostendito). Che una siffatta risoluzione possa essersi compiuta in altre varietà neolatine, per es., in guascone, non è motivo sufficiente per rinunciare a considerarla di ragione italica nell'Italia centrale e meridionale, dove ha la sua maggiore densità, estensione e continuità. Infatti (v. cartina) pochi e ristretti sono i territori dell'Italia meridionale, dove oggi non compare, ed è lecito pensare che anche in queste località il fenomeno abbia avuto luogo e poi sia stato sommerso da un'ondata dotta.
Altro tratto caratteristico di una vastissima sezione centro-meridionale può dirsi lo sviluppo di p + l in kj, per es., chiù da plus, chianta da planta, ecc. (v. la cartina relativa, dove le isoglosse rappresentano una media approssimativa, perché ogni vocabolo ha una estensione diversa). Il limite settentrionale, in ogni modo, può essere dato da una linea che vada da Teramo e Chieti, per il contado aquilano, a Sora. È anche da tener conto del fatto che nell'Abruzzo (a Lanciano, Chieti, ecc.), mentre sono molto diffuse certe voci con kj- da pl- (chiù "più", chiazza "piazza"), in altre il nesso compare intatto (insieme coi nessi fl e bl) per effetto di anaptissi, cioè di una epentesi (pel-, bel-, fel-) seguita da etlissi. Le condizioni attuali non corrispondono certamente a quelle tramontate. Per es., l'area di chiù era per il passato molto estesa e anche in altre voci il riflesso kj si estendeva oltre i limiti odierni.
Dentro questo territorio centro-meridionale, possiamo distinguere tre zone, a determinare le quali giova soprattutto l'esame degli svolgimenti delle vocali finali e delle vocali toniche. Una zona che può essere detta "estrema" comprende la Sicilia, la Calabria e la Puglia meridionale, dove ĭ e ŭ accentati sono rappresentati da i e u (pilu "pelo"; jugu "giogo") e dove anche l'ē e l'ō subiscono parallelamente il medesimo trattamento (tila "tela", spusu "sposo"), mentre -o ed -e finali scadono a -u e -i (vuci "voce").
Non occorre, forse, pensare che a questo risultato si sia giunti attraverso la trafila di ẹ (da ĭ e da ē) o di ọ (da ŭ e da ō). Può essere che l'ĭ e l'ŭ si siano conservati in questo dominio (scrimva G. Ascoli che in siciliano appaiono intatti l'ĭ e l'ŭ", Arch. glott. ital., VIII, p. 115) come in sardo, e che, a loro volta, gli ẹ e gli ọ si siano fatti i e u per effetto delle corrispondenze con la lingua toscana che influì nell'Italia estrema più che in Sardegna. Data l'equazione: sicil. pilu: ital. pelo; sicil. jugu: ital. giọgo, era naturale che si avesse: tela: sicil. tila; sposo: sicil. spusu, ecc. L'opinione più comune è invece che ĭ e ŭ si siano fatti come nella maggior parte della Romania, ẹ e ọ, e che quindi ogni ẹ e ogni ọ si sia chiuso in i e in u.
Un'altra zona abbraccia la Puglia settentrionale, la Lucania, la Campania, il Molise e l'Abruzzo e ha, come carattere saliente, lo scadimento di tutte le atone finali in una vocale indistinta, che può essere rappresentata da ə (o e???). In genere il vocalismo atono si affievolisce in diversa misura anche in sillaba non finale.
La terza zona è costituita dal Lazio, dall'Umbria e dalle Marche, dove si distingue, o si distingueva, prima di livellamenti relativamente recenti, fra -o e -u (otto da octo e acitu da acetum). Siffatta distinzione oggi non si avverte più in gran parte della zona (per es., a Roma, Orvieto, ecc.); ma per il passato questo delicato fenomeno dové essere estesissimo e comune anche alla zona della Puglia settentrionale, della Lucania, della Campania, del Molise e dell'Abruzzo, come è dimostrato dalla metafonesi di -u (lat. -ŭ).
Questa metafonesi, insieme con quella di -i (lat. -ī), costituisce un carattere importantissimo di questi dialetti. Qui (rimandando alle trattazioni particolari sotto abruzzo: Dialetto; basilicata: Dialetto; lazio: Dialetto, ecc.), ci limiteremo a pochi cenni riassuntivi e diremo che due sono le figure principali, sotto cui ci si presenta: l'una, che può esser detta di tipo napoletano e fu certamente la più diffusa, l'altra di tipo arpinate e ciociaresco, che sorge dalla precedente. La comune figura della prima può essere descritta così. Dati i lat. -ī e -ŭ finali, le vocali toniche é??? e ó??? si chiudono in i e u (sivə "sego", ma, invece, tela; spuse "sposo" ma sposa), mentre le toniche e e o volgono a ie e uo (miéjə "meglio", ma mele miele"; fuokə "fuoco", ma vove "bove"). Ma presto i dittonghi ie e uo (che appaiono ancora aperti ię, uǫ in qualche località, come in Abruzzo, a Casalincontrada: liêttə"letto", e nel calabrese centrale) si chiusero in quasi tutto il dominio (iẹ, uọ) e, in un terzo tempo, giunsero persino a ẹ e ọ (metafonesi detta arpinate e, in quest'ultima fase, ciociaresca). Ora può dirsi che questo secondo stadio metafonetico, che diciamo, per intenderci, arpinate e ciociaresco, domini quasi tutto il nostro territorio (p. es. Castro dei Volsci: fié???rre "ferro", nuó???ve; Arpino: mié???rəkə "medico", kuó???jə "collo"; Abr. lié???tta, accanto a liêttə e a littə "letto"; Rieti bé???llu, bọ???nu; Sora: té???mpə, lọ???kə "luogo"), dalla Campania all'Abruzzo, al Lazio, all'Umbria, alle Marche e alla Puglia, dove nella sezione meridionale uo si ridusse a ue e a e (lecc. trénu "tuono"; sénu "suono"). Tralasciamo altri fenomeni (p. es., -lj- in -gghj-, ll in ḍḍ o dd- v. cartina), che, pur valendo a caratterizzare le parlate centro-meridionali, non possono essere assunti a criterio generale classificatorio di tutte insieme queste parlate e giovano a discriminare, praticamente parlando, i sottogruppi del sistema.
2. Dialetti toscani. - I dialetti toscani hanno un carattere più conservativo degli altri dialetti della penisola. In ispecie il fiorentino potrebbe dirsi l'erede più fedele e puro del latino. Il tratto positivo più saliente comune a tutti insieme questi dialetti è lo sviluppo di -rj- in -j- di fronte a -r- della restante parte d'Italia (tosc. bujo, aja di fronte a buro, ara degli altri dialetti: v. cart.); il tratto negativo più importante è la mancanza della metafonesi. Dato anche (cosa possibile, ma non dimostrabile) che i dittongamenti di e e o (lieve, buono, ecc.) - i quali costituiscono un altro carattere distintivo del toscano - abbiano avuto origine da una spinta dovuta a -u e -i finali e si siano estesi alle altre forme per livellamento, resta sempre che della metafonesi non è rimasta traccia sicuramente documentabile. D'altronde, questo dittongamento potrebbe avere una ben diversa ragione e collegarsi piuttosto coi dittongamenti alto-italiani che con quelli centro-meridionali.
In Firenze, nel Mugello, nel Valdarno, nella Val d'Elsa, abbiamo ciò che diciamo il toscano più schietto o di tipo fiorentino, con quella particolare aspirazione e fricazione delle momentanee sorde intervocaliche k, t, p (per es., la hasa; amaho; rifa "ripa") che straripa nei dominî affini e che potrebbe essere di ragione etrusca, e con quel fenomeno di i e u per e e o dinanzi a palatale e a n -l- gutturale (in casi, cioè, quali famiglia, lingua, vince, unghia, dunque di fronte ai toscani comuni fameglia, lengua, vence, onghia, donque), che basterebbe da solo ad attestare la base fiorentina della lingua letteraria, se non soccorressero altri fenomeni, per es., il trattamento delle consonanti intervocaliche, quale si riflette, salvo l'aspirazione e la fricazione, nell'italiano letterario (come fior. fatica, tosc. fadiga), il trattamento della nasale dopo la tonica nei proparossitoni (come camera, tosc. cammera, fior. amido, semola, ecc., ma femmina).
Accanto al fiorentino si può costituire un gruppo occidentale di dialetti toscani (pisano-lucchese-pistoiese) tenendo l'occhio ai seguenti fenomeni: a) -s- e -ss- per -z- e -zz-, per es., speransa, bellessa, duressa, anche per la sonora, per es., orśo, pranśo, raśśo in luogo di orźo, pranźo, raźźo, ecc. Questo tratto proprio più specialmente di Lucca (ma si trova già in Galiziano di Pisa e guizza persino in Dante: fersa, pranse, Inf. XXV, 79 e Purg. XXVII, 76) si riscontra, com'è naturale, già nei testi antichi (Bonaggiunta. Discordo II: duresse); b) -str- in -ss-, per es., mossare "mostrare", nosso, vosso "nostro, vostro", ecc. Oggi questo fenomeno è scomparso; ma lo hanno i testi antichi e lo mantiene ancora, in qualche parlata, la Corsica; c) frequenza di -ente- in luogo di -ante (braccente, lustrente); d) riduzione di -rr- in r (tera, gruera); e) o ed e protonici non passano generalmente a u-, i- come in fiorentino (cocina, focile, mesura); f) digradamento di -c- intervocalico, in voci come seguro, regare, ecc. Dei casi fameglia, vence, donque, ecc. abbiamo già discorso.
Un gruppo dialettale toscano, che maggiormente si allontana dalla lingua letteraria (e insieme dal tipo fiorentino) è quello meri dionale o senese caratterizzato dal volgere di -er- atono in -ar (vendare, debarai, ecc.; resta escluso il futuro di essere, serò), dalla mancanza della geminata nella 1ª pers. plur. del perfetto e del condizionale di tutte le coniugazioni (andamo, andaremo), dal comparire degli abbreviati ro, lo in luogo di loro, dalla frequenza dei plurali -gli per -li -lli (anegli, fanciugli), fenomeno toscano soprattutto orientale e caratteristicamente umbro.
Il gruppo aretino-chianaiuolo e i dialetti garfagnini possono essere classificati qui, qualora si tenga presente che i primi sono come il ponte di passaggio per raggiungere in pieno le parlate umbre e i secondi ci conducono in mezzo ai dialetti emiliani. Basta pensare al tratto più caratteristico del dialetto di Arezzo, cioè alla palatalizzazione di a libera in e (ballêr "ballare") per sentirci di già fuori del vero e proprio dominio toscano. Anche il trattamento di ê e ó??? (ad Arezzo ié??? e ó???, a Città di Castello íe e úo [dúolo] nella Chiana í [dici "dieci"] e ú), il comparire di b e d dopo m e ii (cámbera, gombito, sembola, cendora "cenere", fiamba), il mutamento dei prefissi re- ri- in ar- (armanire "rimanere", arnire "rivenire") e il ricorrere della particella me (da medio), che sostituisce la prep. a (per es., me te "a te"), sono tutti fenomeni che dànno a questo gruppo una fisionomia a sé e lo fanno il meno toscano dei quattro gruppi toscani.
Il còrso può essere anch'esso considerato di tipo toscano. Certo, prima dell'influsso della Toscana sull'isola, la Corsica gravitava, linguisticamente parlando, verso la Sardegna, e doveva anche congiungersi ai dialetti centro-meridionali. Di quest'antica condizione di cose restano tracce importanti, come nell'oltramontano la distinzione fra ē e ĭ e ō e ŭ (tela, piru; soli, cruci), l'-u e l'-i finali per -o e -e, la cacuminale ḍḍ per ll, ecc.; ma soprattutto nella parte settentrionale non vi può essere dubbio sull'opportunità di raggruppare il còrso coi dialetti toscani, se si tien conto soprattutto dell'antico toscano dei tempi danteschi e predanteschi. Anche il sardo gallurese e, in special modo, il sassarese possono essere messi in gruppo col còrso; ma quando veniamo al logudorese e campidanese, e quando notiamo la presenza di -s finale, fenomeno che trascina con sé un altro fenomeno capitale morfologico, cioè il trionfo dell'accusativo plurale come unica forma flessionale del nome, in luogo del nominativo, vien fatto di chiederci, come ci si chiede giustamente per il ladino (v.), se veramente al sardo non convenga fare un posto a sé fra le altre lingue romanze. Il concorrere di certi fenomeni preziosi e illustri, come la conservazione di ĭ e ŭ e quella delle velari dinanzi a vocale palatile (per es., chelu, cioè kelu "cielo") sembra ragione bastevole a giustificare questo privilegio.
3. Dialetti settentrionali. - I dialetti settentrionali comprendono le varietà lombarde, piemontesi, liguri, emiliano-romagnole, venete e istriane. In questo vastissimo territorio erano venuti a contatto, prima della conquista latina, Liguri, Celti e Veneti. E ciò, se può spiegare le differenze che intercedono, a ragion d'esempio, fra ligure e veneto, ci permette anche di raggruppare insieme tutti questi dialetti, tenendo presente che le delimitazioni regionali non sono naturalmente quelle idiomatiche. Il lombardo, ad esempio, si estende per tutto il Ticino e in parte nei Grigioni e sbocca da un lato nella provincia di Novara e dall'altro nelle valli trentine (v. lombardia: Dialetti). Della sezione occidentale (da Milano alla Leventina) era caratteristico il fenomeno ambrosiano del rotacismo di -l intervocalico (per es., ara "ala"), ora per gran tratto svanito; dell'orientale è caratteristica la caduta di n in determinate posizioni (pa "pane" vi e i "vino", det "dente", ecc.). Col piemontese e coI ligure, il lombardo ha comune il palatalizzarsi di u (ü) (v. cartina). Esso partecipa anche, per vaste zone, al palatalizzarsi di a, fenomeno che troviamo in Piemonte (dove però è limitato all'inf. -are) e in Emilia e nelle Romagne, dove è caratteristico (v. cartina). D'accordo con questi dialetti, lascia cadere ogni vocale finale che non sia -a. Non così nel Veneto e soprattutto in Liguria.
A tutti questi dialetti settentrionali sono comuni certi fenomeni di grande significato: lo scempiarsi delle consonanti lunghe (come in francese), i digradamenti delle consonanti labiali e dentali intervocaliche, l'assibilarsi di c e g dinanzi a vocali palatili (e, i), il volgere a ć e ǵ di chj e ghj (ćamà "chiamare"), con varî ulteriori sviluppi. Nel piemontese e nel veneto, cioè nelle sezioni occidentale e orientale di questo dominio, si constata non soltanto il digradamento di un -t- fra vocali, ma addirittura la scomparsa. Mentre il gruppo -ct- si svolge per -jt- (fait da factu) in Piemonte e in Liguria (fœtu), in Lombardia nelle voci non rielaborate per influsso letterario, s) è ottenuto -ć- (fać), mentre l'Emilia, la Romagna e il Veneto hanno -t-. Per informazioni più minute, rimandiamo alle descrizioni particolareggiate di ogni singolo dialetto (v. emilia; liguria; lombardia, ecc.). Escludiamo da questa classificazione, per le ragioni addotte di sopra, i dialetti di tipo ladino (v.). L'istriano, che è pur sempre un dialetto alquanto diverso dal veneto (v. istria) era esteso una volta nell'Istria (Trieste era ladina, ora veneziana) e dimezzava fra il veneto e il dalmatico oggi scomparso.
I dialetti alpini che fanno corona al ligure, al piemontese, al lombardo e al veneto sono di tipo franco-provenzale (Alpi della Liguria e del Piemonte) e ladino (Alpi lombarde e tridentino-venete). La Valsesia tramezza fra piemontese e lombardo, con prevalenza di caratteri piemontesi. Il friulano è ladino. Ma agli orli della corona dialettale franco-provenzale e ladina, s'inseriscono nel sistema dialettale italiano tratti idiomatici del franco-provenzale e del ladino (per es., ka- all'iniziale e in posizione forte in kja-, ća-).
Caratteristiche morfologiche e sintattiche. - Nell'ordine sintattico si può osservare che il cosiddetto rafforzamento pronominale (lat. me ego dico, fr. moi je dis, emil. me a dég), si estende a tutti i dialetti settentrionali, mentre il toscano e i centromeridionali non hanno questo fenomeno. Altro tratto che vale a differenziare i dialetti del nord dagli altri della penisola è costituito dall'estensione del gerundio in -ando della prima coniugazione alle altre coniugazioni (per es., kurand "correndo", come amand "amando"). Condizioni analoghe si hanno nell'uso del perfetto analitico (ho cantato) e sintetico (cantai), in quanto il primo si va facendo sempre più comune nei dialetti superiori, il secondo nei dialetti centro-meridionali. Il toscano usa le due forme con squisita distinzione semantica. Molti dialetti meridionali usano, alla latina, l'imperfetto soggiuntivo col senso del condizionale (sic. fussi megghiu "sarebbe meglio"; abr. mə sapessə dirə, ecc.). Questo fenomeno non ignoto a parecchi dialetti settentrionali (oggi è vivo nel dialetto della Val Bregaglia), è comune al ladino, ma nell'Italia settentrionale si può dire tramontato. Invece il Mezzogiorno lo mantiene; ma nel pugliese estremo l'imperfetto congiuntivo, anche in questa accezione, è stato sostituito dall'imperfetto indicativo (facia "farei"; ci putia, enia "se potessi, verrei"). Non è qui il caso di mettere in evidenza caratteri proprî di una o altra zona di dialetti settentrionali e di dialetti meridionali. Diremo, tuttavia, che appartiene all'Italia settentrionale l'uso del superlativo del tipo lombardo nöf novent (novissimo") che corre dal Piemonte al Veneto e abbraccia l'Emilia con qualche diramazione in Toscana. Anche l'uso della 3ª pers. sing. col soggetto plurale è, soprattutto nei testi antichi, alto-italiano, donde si propaggina, attraverso la Romagna, nelle Marche.
Fra i caratteri che valgono a caratterizzare questa o quella sezione dei dialetti meridionali, indicheremo i seguenti. Il complemento oggetto (animato) preceduto da ad si trova in Sicilia, Calabria, Puglia, né è ignoto alla Corsica. Per es., sic. l'aviti vistu a me frati?, còrso aghju visti a bàbitu. Nel dialetto giudeo-romanesco questo a potrebbe essere di origine spagnuola, ma potrebbe anche rispecchiare condizioni indigene tramontate, perché l'area del fenomeno dovette essere in passato più estesa (se ne trovano propaggini anche nell'Abruzzo). In parte della Sicilia, in Calabria e nella Puglia meridionale abbiamo una caratteristica sintattica che trova rispondenze nei Balcani. La proposizione infinitivale di un costrutto come: voglio fare, debbo andare, ecc., si lega alla principale per mezzo di quomodo (gr. ἴνα, romeno să) e l'indicativo, per es. lecc. ulia ku fazzu "vorrei fare"). Nella Sicilia nord-orientale e in Calabria il legamento si effettua con mu, mi, ma. Un altro tratto ha relazione col sardo e consiste nella sopravvivenza di ipse quale articolo. Ipse è usitatissimo nel Mezzogiorno della penisola col senso di "codesto", ma si hanno anche esempî di scadimento ad articolo in Sicilia, nell'Abruzzo, nella Lucania.
Caratteristiche lessicali. - Elemento latino. - Il lessico delle parlate d'Italia risulta nella sua massima parte di elementi latini, che ne costituiscono la più vera ricchezza. Vi sono termini latini che sono rimasti esclusivamente in aree centro-meridionali e meridionali (per es., nap. 'nzorá, cal. 'nzurare "sposare"; abr. nenguə, nenghə, cal. ningi "nevica"; sic. abbentu, cal. abbientu, abr. abbiendə, da adventum "riposo") e altri che si trovano soltanto in aree settentrionali (per es., lomb., emil. crodár "cadere"; lomb. crös, genovese crośa "sentiero di montagna, viuzza"; lomb. nòda "marchio sulle orecchie delle capre", ecc.). Talvolta, i significati latini hanno assunto differenziazioni profonde in aree diverse. Per es., in pugliese incumbere è passato nel senso di "appoggiare" ('ncummere); corrivo significa "credulone" (querréivə); in gran parte del Mezzogiorno planare è venuto a significare "salire" (acchianari, 'ncianari); applicare ha assunto, come in romeno, spagnolo e portoghese, il senso di "arrivare" (sic. chicari, agghicari, cal. acchicare), ecc.
Per ragione di sovrapposizioni etniche, d'invasioni, di guerre, di commerci, d'influssi letterarî, ecc., è accaduto che entro il grande tesoro lessicologico latino siano rimasti o siano penetrati filoni più o meno copiosi di vocaboli estranei alla latinità, e siano entrati, in processo di tempo, vocaboli latini in veste romanza da paesi neolatini, cioè elaborati da tendenze fonetiche non italiane.
Elementi preindoeuropei. - Resti preziosi di termini anteriori alla latinità, vestigia di condizioni preistoriche, relitti di lingue parlate nelle regioni delle Alpi e nel bacino mediterraneo, ultime testimonianze di remote civiltà, non mancano. Sono termini che concernono la configurazione del suolo, o strumenti di campagna, o piante, o animali e che sono rimasti quasi unicamente, come fossili, nei dialetti. Il sopravvivere di alcuni di essi ai margini del dominio in cui penetrarono le lingue indoeuropee, ci permette di pensare a una loro diffusione vastissima e remotissima. Fanno parte di questo gruppo assai oscuro di vocaboli, termini come i seguenti *matta "vimine, cespuglio" (le camatte, cioè "casematte", dovettero essere casupole ricoperte di vimini o di frasche, così come le "strade matte" in certe località dell'Italia settentrionale, a Mantova, erano vie fangose con reticolati di vimini per facilitare il transito); ganda (voce alpina) "scoscendimento del terreno"; *gaba, gava "torrente di montagna" (in Plinio Gabellus, emil. Gavel, nome di torrente), che ha dato nella Carnia e nel Cadore gava, ǵava, ǵao "torrente" nel Friuli gavín "palude"; *cala (p. es., ven. emil. calanca, calanc, ecc.), "pendio", "scoscendimento della montagna"; *tala "terra grassa"; *sala "terreno paludoso"; mar(r)a "scoscendimento"; *rugia, lombardo roža, toscano "roggia", ecc. Prelatino dev'essere anche il friulano alp. fiemm. cirnul, zirmo "Pinus cembra", che ha rispondenze nei Carpazî (zâmbrul). Altre voci preindoeuropee di piante saranno: nov. cropo, sicil. crópanu "specie di abete"; rumpus "tralcio della vite", parola accolta quale termine tecnico d'agricoltura nel latino (Varrone, Columella) e rappresentata nel com. romp "acero che serve di sostegno alla vite", locarn. rümp, sottocen. rompor (plur.) "olmi d'appoggio alle viti", viterb. rompazzo "diramazione della vite". Quest'ultimo termine sembra essere di origine ligure.
Elementi liguri. - Appartengono al sostrato ligure o gallo-ligure: ἰουπικέλλος (Diosc., I, 103), breg. ǵüp "ginepro", valt. ǵüba, ticin. ǵip "ginepro", piem. alto-savoi. araf, arve, arbe, arola, ecc., pino cembro".
Elementi celtici. - Lasciando i termini penetrati nel latino e da questo nel romanzo, citeremo alcuni relitti gallici: it. settentr. benna "cesta"; genov. lomb. abr. brénu, bren, vrenə (anche nella Corsica) crusca"; emil. corbèla "sorbola", incrocio del lat. sorbus con il gall. corma (cfr. fr. cormier e corbier); piem. barlèt (fr. berle) da berula "nasturzio" (irland. biroz); valt. brianz "assenzio", detta herba vermicularis da connettersi con brigantes "vermiculi" (Marcello) dal gall. *brigantios, ecc.
Elementi italici. - Anche i dialetti italici hanno lasciato termini preziosi, che talvolta possono essere sicuramente individuati grazie a un segno distintivo di natura fonetica. Vocaboli come scrofa, tufo, scofina, tartufo, sic. buffa "rospo", cal. tifa "zolla", gliefa "zolla", tofa, tufa "corno dei pastori", con un -f- per -b- tra vocali, termini con suffissi non latini (scarafaggio), doppioni come sifilo e sibilo, bubulcus e bufulcus (bifolco) non paiono lasciarsi spiegare che come relitti italici. Arduo sarà stabilire se siano di origine italica o addirittura preindoeuropea alcuni termini oscuri, che vivono nelle montagne dell'Italia meridionale, per es., nelle montagne calabresi, dove troviamo: vitorra "grande cucchiaio dei pastori", timpa "balza, rupe", calfa, carfa "ghiro", pezorra "grappolo d'uva", ecc.
Se questi influssi prelatini e italici sono difficilmente documentabili, non v'ha dubbio che si possano per contro discriminare, con buon effetto, quelli greci, arabi, germanici, ecc., i quali hanno apportato, in progresso di tempo, un forte contributo di parole e di idee alla lingua d'Italia, così ai dialetti, come all'idioma letterario.
Elementi greci. - Nella lingua letteraria l'elemento greco è abbondantemente rappresentato sia da vocaboli popolari (bottega, busta, zio, ecc.), sia da vocaboli dotti. È naturale che il maggior numero dei primi si trovi nell'Italia meridionale, dove la grecità è stata più viva e intensa. Escludere per parecchi di essi una remota origine dal greco della Magna Grecia non pare possibile, data l'espansione geografica di alcuni e le stigmate doriche di altri (per es., fitu "trottola"; nasida "striscia di terra, isoletta lungo le rive di un fiume"; calabrese casèntaru, crasèntaru "lombrico" ecc.). Ma la maggior parte dei grecismi meridionali non pare risalire oltre l'età bizantina. Si tratta di espressioni proprie all'agricoltura, o connesse alla civiltà primitiva dei popoli rurali (fusca "loppa del grano" animulu "arcolaio", grasta "vaso di fiori", ecc.). Numerosi i nomi d'animali e di piante (taḍḍarita "pipistrello" vampurida "lucciola", ornu "falco"; dafina "lauro", spronu "verbasco", famaropa "querciuola", ecc.).
Elementi arabi. - I termini d'origine araba penetrati nel lessicu della lingua letteraria non si possono dire numerosi (algebra, taccuino, darsena, gabella, ecc.). Molti ne abbiamo, invece, com'è naturale, in Sicilia (dove gli Arabi dominarono a lungo), per es.: sic. dammusu "vòlta, prigione" cafisu "misura d'olio", trap. cabusu "pagnotta", ecc. La maggior parte di queste voci è comune ad altre parlate meridionali, come i già citati dammusu (calab. tam7nusiellu) e cafisu, come cantàru "quintale", záccanu "ovile, stalla", giarra "specie di grande orcio", ciranna "ranocchio", margiu "terreno incolto", ecc. ecc.
Elementi germanici. - Numerosi sono i vocabolì derivati dal germanico (poco meno di un mezzo migliaio, di cui due terzì all'incirca comuni ad altre lingue romanze). Un primo gruppo è costituito da termini penetrati già nel latino (per es., borgo, bevero "castoro"), un secondo gruppo da parole gotiche (per es., ardire, guardare, tregua, ecc.), un terzo da voci longobarde, cioè ant.-altotedesche (quali panca, palla, zaffo, zazzera, ecc.), un quarto dal franco (bando -ire, scabino, siniscalco, ecc.), un quinto dal tedesco moderno (dal tardo Medioevo in poi). Altre voci sono venute per il tramite del francese, come: gaggio, ligio, rango, ecc. I termini germanici del lessico italiano riguardano generalmente la guerra (schiera, elmo, brando, stormo, sperone, usbergo, ecc.), la caccia, i costumi, le istituzioni, ecc. e si riferiscono piuttosto a cose materiali che alla vita dello spirito. Questa è rappresentata, in maniera particolare, da termini d'ira e di odio, che sono il modo onde gli oppressi hanno reagito agli oppressori. Se molti vocaboli sono penetrati nella lingua letteraria, altri per contro vivono soltanto nei dialetti, per es., lombardo skossdā "grembiale", lomb. emil. gudaz "padrinr" ven. lombardo piem. broàr, broà, broé "scottare" ecc.
Elementi francesi. - Anche il francese ha agito con forza sul lessico italiano, soprattutto nel periodo delle origini. Questo influsso si deve, com'è naturale, alle svariate relazioni fra i due paesi: pellegrinaggi, commerci, crociate, papi francesi, studenti, congregazioni ecclesiastiche, guerre, dominio francese, viaggi di artisti e di artigiani, scambî d'idee, ecc. Vi sono voci, penetrate intimamente nella sostanza del vocabolario italiano, che sono venute dalla Francia, come giallo, giardino, mangiare, verziere, ecc. Altre, giunte per il tramite letterario, non si rinvengono che negli antichi testi (per es., miro "medico", ciausire "scorgere, scegliere", dolzore, faglia, acievire, clero, freri, ecc.). Altre sono rimaste soltanto nei dialetti, in particolare in quelli meridionali, per effetto della dominazione normanna e angioina (per es., sic. guastedda, vastedda "pagnotta", piccardo wastel, fr. gâteau; nap. marvizzo "tordo", fr. marvis; sic. vucciria "macelleria", nnugghia "budellame", fr. nouille; custureri "sarto", vivieri "vasca", calabrese dubrettu "corpetto", ecc.).
Elementi spagnuoli. - Le impronte fonetiche valgono ottimamente, non v'ha dubbio, a individuare i vocaboli d'origine straniera. Ma talvolta a questa discriminazione non si arriva, se non si ricorre alla storia. E ciò accade per non poche parole di provenienza spagnuola, che potrebbero sembrare addirittura italiane, a giudicare dalla fonetica. Sono certamente spagnolismi: a ragion d'esempio aio, brio, casta, calma, rotta ("percorso marino"), tormenta, ecc. Altre parole vi sono che potrebbero sembrare di diretta origine francese, mentre invece sono venute in Italia dalla Spagna. Così baia, bordo, flotta, amarrare, imbarazzo, ecc. La cronologia e le testimonianze storiche sono, in questi casi, decisive. Il periodo del maggiore influsso spagnuolo fu quello che comprende i secoli XVI-XVII. Entrarono allora termini come borraccia, creanza, disinvoltura, fanfarone, impegno, lindo, premura, regalo, vigliacco, ecc. Anche nei dialetti, in particolare nei meridionali, lo spagnuolo ha lasciato tracce: per es., nap. kišare. "andare in collera" (quejar).
La lingua letteraria. - La lingua letteraria italiana è il toscano. più propriamente il fiorentino arcaico e dotto. Come sempre accade delle definizioni, anche il valore di questa non è assoluto. L'interpretazione che dobbiamo darne è che il dialetto elevato ad alta dignità d'arte da Dante, il dialetto fiorentino, strumento di diffusione della civiltà di una città, Firenze, affermatasi sulle altre città toscane nei secoli XII-XIII, il dialetto, cioè, in cui meglio si continuava, nella sua perspicuità e bellezza, l'impronta fonetica della parola di Roma e in cui erano venuti a confluire caratteri dialettali di altre città, come Lucca e Pisa (le quali nei secoli XI-XII erano state i centri più fiorenti e importanti della Toscana) finì con imporsi, per ragioni letterarie, geografiche e sociali a tutti gli altri dialetti della penisola, anche a quelli che vantavano monumenti artistici e storici più o meno rilevanti. Questa preminenza assoluta non fu raggiunta, né riconosciuta, se non dopo lunghi secoli, durante i quali il dialetto fiorentino, con sempre nuovi temperamenti e mescolanze, era venuto acquistando una nuova gloria. Il siciliano illustre dei primi verseggiatori, l'ibrida lingua settentrionale (lombardo-emiliana-veneta), come già quella dei rimatori lombardi dei secoli XIII-XIV, non erano valsi a ostacolarne il cammino. Durante il sec. XVI, la vittoria del toscano si compiva, quando la propaganda del Bembo veniva a giustificare e a riconoscere la forza di una grande tradizione, la quale faceva ormai valere i suoi diritti e s'imponeva agli scrittori. Ma questo fiorentino, questo toscano trionfante, aveva assunto una fisionomia nazionale. Aveva oltrepassato i limiti di un dialetto municipale e regionale, per assurgere a dignità di lingua, depositaria della tradizione toscana, ma potentemente arricchita del tesoro di civiltà e di pensiero di tutta la penisola.
Ciò che soprattutto colpisce, chi esamini nel loro complesso i caratteri della lingua letteraria, è la bella e perspicua continuità del latino: di quel latino, cioè, portato nella Tuscia e rimasto quivi, più che nella stessa Roma, immune da influssi italici. Questa ammirevole continuità si nota, in confronto con le altre lingue romanze e con gli stessi dialetti italiani, nei seguenti tratti: a) nella conservazione delle vocali accentuate, che si sono trasmesse inalterate o hanno subito processi di limpidità cristallina, come avviene per ê e ó??? (lat. ú, ó) che si dittongano in sillaba libera (lieve, nuovo) e si mantengono in sillaba chiusa (sette, corpo); b) nel trattamento delle vocali finali, che si sottraggono a quelle vigorose modificazioni di scadimento e di caduta che si osservano in altre lingue e nei dialetti; c) nella conservazione dei proparossitoni; d) nel mantenimento delle consonanti lunghe latine, le cosiddette geminate o doppie (cappa, fiamma, ecc.); e) nel trattamento delle consonanti intervocaliche, per cui si rispecchiano (vedremo qui sotto in qual modo) nell'italiano, meglio che altrove, le condizioni latine; f) nella conservazione dell'elemento labiale di ku̯ (qu) e di gu̯ (per es., cinque, lingua). Oscillazioni e turbamenti non mancano (nessuna lingua si svolge meccanicamente); ma le une e gli altri non sono tali da togliere all'italiano il primato che gli spetta, fra le lingue sorelle, di rappresentante più schietto e puro del latino. L'origine dotta di molti vocaboli, la derivazione straniera, gli scambî di suffisso, le analogie, le contaminazioni, gli accavallamenti di termini di significato o di forma affini, le neoformazioni, le proclisie, ecc., sono tutte ragioni di perturbazioni apparenti e di problemi da risolversi spesso caso per caso.
Nel sistema vocalico, le condizioni letterarie sono quelle toscane (per ẹ e ọ seguiti da palatale o da n + gutturale, sono, come abbiam detto sopra, quelle fiorentine). Così, ai lat. õ ŭ??? ed ÿ ĭ??? rispondono o ed e senza ulteriori modificazioni; a ú, ed ó rispondono ię ę e uǫ ǫ; ê, ū e ī si mantengono inalterati (es. vọ???ce, cró???ce; ré???te, sé???te; ma: dunque, famiglia; lięve, sętte, nuǫvo, cǫrpo; padre, muro, filo); ma appena occorre notare che al posto di ọ e di ẹ s'incontrano ǫ ed ę in voci d'origine dotta o letteraria, come: des,oto, nobile, crudele, fedele, ed f in luogo di ie (mero, medico) e ǫ invece di uo (modo, foro), ecc. Nel sistema consonantico, si verifica ciò che avviene per le vocali: le condizioni letterarie sono toscane, anzi fiorentine. Importa osservare che l'antica Toscana, compresa Firenze, sembra avere avuta più intensa e diffusa la sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche. Se così stanno le cose, se cioè la conservazione delle sorde fra vocali non rappresenta sempre condizioni fonetiche antiche, ma è il risultato di una regressione o di un ritorno, non è chi non veda che molti casi, che si vogliono spiegare sia per effetto delle vocali in contatto con le consonanti, sia movendo da influssi settentrionali, si possono chiarire con l'efficacia esercitata dalle classi colte o dal latino delle scuole, cioè per influsso dotto, nei secoli XIII-XIV, quando splendeva la civiltà fiorentina.
L'Italia, con la Romania, fa parte del grande gruppo orientale dei paesi romanzi, dove il plurale dei sostantivi e degli aggettivi è dato dal nominativo e non già (come in francese, spagnuolo, portoghese, sardo, ladino) dalla forma dell'accusativo (per es., muri, fr. murs, ecc.; buoni, sp. buenos, fr. bons, ecc.). Essendo venuto a cadere, come già abbiamo detto, l'-s finale nelle lingue neolatine orientali (e perciò nei dialetti italiani), era naturale che, per differenziare il plurale dal singolare (per distinguere, cioè, un rosa lat. rosa[m] da rosa[s], un bonu[m] bono[m] da bono[s], si ricorresse al nominativo (rosae, boni, ecc.). Per la forma flessionale del singolare, invece, il caso che finì per trionfare sugli altri fu generalmente l'accusativo.
La dimostrazione che la forma del singolare continua l'accusativo latino si può dare partendo dalle condizioni metafonetiche centro-meridionali. Qui, come abbiamo veduto, l'-ŭ dell'accusativo ha esercitato sulla vocale tonica un influsso per cui in alcuni luoghi l'ê e l'ó??? si sono dittongati (ie, uo) e in altri si sono chiusi (é???, ọ???) e l'é??? e l'ọ si sono ridotti a i e u, salvo sviluppi posteriori in abruzzese e nel pugliese settentrionale. Se abbiamo nelle parlate centro-meridionali un masch. buona accanto al femm. bona, se abbiamo, p. es., un mié???rəkə "medico" ad Arpino accanto a un mela "miele", la ragione risiede nell'essersi avuto alla finale questo -ŭ. Se vi avessimo avuto un'altra vocale, un o, un'a, un e (p. es. lat. bono, cioè un abl. o un dat.), la metafonesi non avrebbe avuto modo di manifestarsi e il dittongo non sarebbe potuto sorgere. Altrettanto si dica per i casi come sikkə "secco", allato al femm. sẹkka "secca", dove l'i è determinato sempre dall'-u. Queste condizioni centro-meridionali trovano riscontro nel ladino, dove abbiamo, a ragion d'esempio, un masch. gries (da gruos) "grosso", accanto al femm. grossa e al plur. gros (lat. grossos). In toscano non si è avuta la metafonesi, ma ciò non è una buona ragione per escludere il toscano dal processo storico degli altri dialetti. È lecito allargare i risultati delle considerazioni fatte sui dialetti centro-meridionali e concludere anche per il toscano, cioè per la lingua letteraria, che la forma flessionale del singolare si fonda sull'accusativo latino.
Se nel singolare la vittoria dell'accusativo non ha impedito che si siano avuti in italiano resti di nominativo, di ablativo e persino di genitivo (per es. frate, strido, stazzo, ant. suoro e suora "sorella", vimine, lunedì, ecc.), nel plurale il trionfo del nominativo è stato, si può dire, completo. Esso fu provocato dalla caduta di -s, fenomeno, forse, di remota ragione etrusca, e per esso anche la stessa frase latina si sistemò in modo nuovo: il soggetto venne a precedere il verbo e, per es., un Paulum amat Petrus dové mutarsi in Petru[s] ama[t] Paulu[m]. Non sono rimasti di altri casi che alcuni pronomi (loro, costoro), qualche forma antiquata (paganoro, femminoro, ecc.) del genitivo e qualche nome di luogo dall'ablativo.
Espansione dell'italiano. - Se da un lato la lingua italiana molto deve agl'idiomi stranieri, dall'altro molti termini ha immesso negli altri idiomi stranieri, e ciò sino da tempi antichi. Fra tutte le lingue che hanno subito l'influsso straniero, quella che tiene il primo posto è il neogreco, che ha attinto soprattutto al dialetto veneto. In Francia l'italiano letterario influì al tempo della Rinascenza, al quale periodo risalgono anche i vocaboli italiani penetrati nel polacco. Meno debbono all'Italia le lingue europee settentrionali, per le quali il tramite fu spesso il francese. Nei Balcani, se ne eccettuiamo il serbo-croato e l'albanese, che parecchie voci hanno derivato direttamente dai dialetti centro-meridionali, la diffusione dei termini italiani si compì attraverso il greco. Soprattutto per i secoli. XVIII-XIX, qualche influsso diretto si può notare anche in Romania. Qualche contributo ha dato altresì l'Italia alla cosiddetta "lingua franca", cioè ad una lingua nautica mista, oggi quasi spenta (v. franca, lingua).
La questione della lingua. - Sulla toscanità, o meno, della lingua letteraria si sono versati, a cominciare dal primo Cinquecento, fiumi d'inchiostro. La questione della lingua s'impostò, sin dal principio, su questa base: se l'italiano letterario fosse un dialetto (il fiorentino o, più generalmente, il toscano) o fosse una lingua indipendente da tutti i dialetti. Sorsero, così, due teorie principali: l'una della "fiorentinità", che si sdoppiò in due dottrine: del fiorentino moderno e del toscano antico; e l'altra dell'"italianità". Secondo quest'ultima teoria, la lingua italiana sarebbe da considerarsi opera degli scrittori, che, ciascuno in funzione del proprio gusto e della propria cultura, attingerebbero in maggiore o minore misura a tutti i dialetti, creando per tal modo l'italiano illustre. Era naturale che sulla tesi dell'italianità influisse il De vulgari eloquentia di Dante. G. G. Trissino aveva affermato che Dante aveva condannato il dialetto toscano. In realtà, Dante, in cerca del suo volgare illustre, aulico, cardinale (un volgare insomma proprio della poesia) aveva pensato di rintracciarlo al di sotto delle alterazioni dialettali. Ma già prima che il trattato dantesco fosse stampato, il Calmeta (Vincenzo Collo) in un'opera perduta aveva proposto di sostituire al toscano una lingua "cortese". A sentire il Bembo, la lingua cortese del Calmeta sarebbe stata la lingua della corte di Roma. B. Castiglione aveva sostenuto che la lingua illustre dovesse essere una lingua sì cortigiana, signorile, ma non quella della corte di Roma, sibbene della società nobile e colta delle corti italiane. P. Bembo, invece, nelle Prose della volgar lingua (1525) non aveva esitato a propugnare la tesi della fiorentinità arcaicizzante, insistendo sull'imitazione dei classici, cioè degli scrittori toscani del sec. XIV. Contro questa teoria dell'arcaicità si leverà poi L. Castelvetro. N. Machiavelli decisamente affermava che l'italiano letterario non poteva essere che il fiorentino vivente. Una dimostrazione della teoria fiorentina tentò B. Varchi nell'Ercolano. Discussioni lunghe, sofistiche, complicate, che stanno al di fuori della vera e propria storia della lingua, ma che ebbero una certa importanza dal punto di vista nazionale, e lasciarono un lungo strascico e influirono, più o meno, sugli scrittori dall'Ariosto al Manzoni. Si sa che il Giordani e il Leopardi avversarono il "fiorentinismo" e si riattaccarono piuttosto al Bembo nelle loro simpatie per il toscano del Trecento, nelle quali s'incontravano col più fervente dei propugnatori dei trecentisti, Antonio Cesari.
Ma il toscano s'impose al di fuori e al di sopra di queste discussioni: il toscano, diciamo, di tipo fiorentino dotto, cioè non proprio quello che andò a cercare sulle rive dell'Arno il Manzoni ma piuttosto quello che a G. I. Ascoli riuscì di caratterizzare nel suo memorando proemio all'Archivio glottologico italiano (1873).
Abbiamo veduto per quali sottili fibrille la lingua letteraria si ricongiunga al fiorentino. Ma non bisogna dimenticare che il tronco di questa lingua si è alimentato di linfe venute da altre regioni e più propriamente da tutta la cultura italiana, perché in realtà l'intera penisola ha contribuito in varia misura e contribuisce, con la Toscana, a crearla, quale possiamo studiarla concretamente nelle opere degli scrittori e quale la si rinnova, ad ogni ora, parlandola e rendendola sempre più ricca e varia.
Bibl.: La prima partizione e trattazione sintentica, di carattere scientifico, dei dialetti italiani, è quella che G. I. Ascoli tracciò nel 1880 per la 9ª ed. dell'Encyclopædia Britannica e ripubblicò nel suo Archivio glottologico italiano, VIII, pp. 98-128. I principali tratti caratteristichi di questi dialetti sono poi stati raccolti ed esaminati da G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916. Le più recenti descrizioni, sobrie e precise, sono quelle di C. Merlo nell'articolo introduttivo della rivista Italia dialettale, I (1924), pp. 11-26 e nello studio Lingue e genti d'Italia, in Genti e favelle, Milano 1933. Una preziosa classificazione dei dialetti alpini ha dato C. Salvioni, in Lettura, I, pp. 715-724. Dei dialetti è tenuto pur conto nella grammatica italiana di F. D'Ovidio e W. Meyer-Lübke (in tedesco nel Grundriss der roman. Philologie di G. Gröber, 2ª ed., Strasburgo 1904-1906 e in italiano, per cura di E. Polcari, Milano 1906, 3ª ed., Milano 1932). È limitata, come dice il titolo, alla lingua letteraria e ai dialetti toscani l'opera del Meyer-Lübke, Gramm. stor. della lingua italiana e dei dil. toscani, riduz. e trad. di G. Braun e M. Bartoli, Torino 1927 (nuova ediz.). Ai dialetti d'Italia è pure consacrata una non piccola parte della Fonologia romanza di P. E. Guarnerio, Milano 1918. Indispensabile per la dialettologia italiana, il meritorio Sprach- und Sachatlas Italiens u. Südschweiz (di cui sono comparsi quattro volumi) di K. Jaberg e J. Jud.
Per gli elementi lessicali prelatini, si hanno le indicazioni bibliografiche opportune in G. Bertoni, Ital. dial., cit., p. 200 e in P. Savj-Lopez, Le origini neolatine, Milano 1918; v. inoltre V. Bertoldi, Problèmes de substrat, in Bull. de la Soc. de ling. de Paris, XXXII (1931), pp. 93-184. Un lavoro fondamentale sull'argomento rimane quello di J. Jud, Dalla storia delle parole lombardo-ladine, in Bulletin de dial. romane, III (1911), pp. 1-18; 64-86. Sugli elementi italici, E. Ernout, Élem. dialectaux dans le vocabulaire latin, Parigi 1909, e F. Ribezzo in Atti della R. Acc. napol., n. s., I, p. 160 seg. Sugli elementi greci è da vedere: G. Rohlfs, Griechen u. Romanen in Unteritalien, Ginevra 1924 (cfr. Battisti, in Revue de linguistique romane, III, 7; N. Maccarrone, in Arch. glott. ital., 1926; G. Rohlfs, in Rev. de linguistique romane, III, 119) e soprattutto dello stesso Rohlfs, Et. Wörterbuch der unterital. Gräzität, Halle 1930; id., Diz. dial. delle tre Calabrie, fasc. 1-3, Halle e Milano 1932. Per l'influsso arabo, v. G. Rohlfs, in Zeitschr. f. roman. Philol., XLVI (1926), p. 174 segg. Per gli elementi germanici, v. W. Bruchner, Charakteristik d. german. Elem. im Italienischen, Basilea 1899; G. Bertoni, L'elemento germanico nella lingua italiana, Genova 1915 (cfr. C. Salvioni, in Rend. d. R. Istituto Lombardo, s. 2ª, XLIX, 1917; G. Bertoni, Anticritica. Per l'elemento germanico nella lingua italiana, Modena 1917); J. Brüch, Einfluss d. german. Sprachen auf d. Vulgärlatein, Heidelberg 1913. Per gli elementi francesi, R. R. Bezzola, Abbozzo di una storia dei gallicismi nei primi secoli, Zurigo 1926; per quelli spagnuoli, B. Croce, La lingua spagnuola in Italia (con un'appendice di A. Farinelli), Roma 1985, ed. E. Zaccaria, Elemento iberico (con un'appendice di A. Farinelli), Roma 1895, ed E. Zaccaria, Elemento iberico nella lingua italiana, Bologna 1927. Per l'espansione dell'italiano, cfr. B. E. Vidos, L'espansione della lingua italiana, Numega 1932.
Per la "questione della lingua", v.: V. Vivaldi, Storia delle controversie linguistiche, 2ª ed., I, Catanzaro 1925; T. Labande-Jeanroy, La question de la langue en Italie, Strasburgo 1925.
Dialetti non italiani.
L'entità numerica degl'Italiani parlanti abitualmente un idioma o un dialetto non italiano risulta dal seguente prospetto, che si riferisce al 1921, data dell'ultima rilevazione (non essendosi eseguita una speciale rilevazione al riguardo in occasione del censimento effettuato nel 1931).
Il totale di circa 800.000 persone rappresenta un po'meno del 21 per mille della popolazione. Questa percentuale, che si riferisce al 1921, dovrebbe essere alquanto discesa nel decennio seguente; è lecito perciò affermare che il 98% dei cittadini italiani parla abitualmente la lingua o un dialetto italiano; degli alloglotti, una parte può poi anche parlare l'italiano (nel 1921 più di due terzi circa dei serbocroati dell'Istria, un sesto degli Sloveni, appena il sei per cento dei Tedeschi altoatesini). Gli Sloveni formano un nucleo compatto nel Friuli orientale e nell'Istria di nordest. Circa 34.000, in gran parte bilingui, erano inclusi entro i confini del Regno anteriori alla guerra mondiale; il resto nelle provincie di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume.
Il nucleo più importante di Tedeschi è quello formato dagli Altoatesini (alto bacino dell'Adige a monte della stretta di Salorno, il quale tuttavia comprende anche aree mistilingui e zone ladine); ivi si censirono nel 1921 circa 190.000 ab. parlanti abitualmente il tedesco. Altri piccoli gruppi si trovano nel Trentino (Anterivo e Trodena; Senale, Lauregno, Proves; Fierozzo, Palù, ecc.; in tutto 4000 persone). Un altro piccolo nucleo tedesco è costituito dalla Val Canale (parte del comune di Camporosso, Malborghetto, Tarvisio e località vicine; in tutto 4100 ab.). Entro gli antichi confini i nuclei più notevoli sono quelli sparsi alle falde del Monte Rosa (Macugnaga e Formazza; Alagna, Rima e Rimella; Gressoney e Issime; poco più di 400 persone). Altri esigui nuclei si trovano nelle Alpi Carniche (Sauris e Timau; Sappada); nei Sette Comuni vicentini e nei Tredici Comuni veronesi la parlata tedesca è rapidamente abbandonata; in quelli non più di 45 famiglie (190 persone) del comune di Roana parlavano ancora abitualmente il tedesco nel 1921, in questi non rimaneva che il gruppetto della località di Giazza (125 famiglie; 711 ab.).
I Serbocroati sono raggruppati nell'Istria, soprattutto nei comuni di Pinguente, Rozzo, Montona, Orsera, Parenzo, Visignana, Albona, Antignana, Bogliuno, Fianona, Gimino, Pisino, Barbana d'Istria, Volosca. Laurana, ecc.; in una parte dell'isola di Cherso nell'isola di Lagosta e in tre località dei dintorni di Zara. Un'isola serbocroata si trova nel Molise, costituita dalle tre località finitime di San Felice Slavo, Acquaviva Collecroce e Montemitro, i cui abitanti sono tuttavia bilingui.
Il nucleo francese è costituito da una settantina di comuni valdostani, nella maggior parte dei quali la parlata franco-provenzale è in prevalenza assoluta, dai comuni valdesi delle valli del Pellice e del Chisone, da 17 comuni della Val di Susa e dal comune di Casteldelfino nel Saluzzese. I nuclei franco-provenzali e provenzali dell'Italia meridionale (Faeto e Celle nel Foggiano; Guardia Piemontese e altri nuclei valdesi della Calabria) non sono registrati nelle statistiche ulficiali.
Per l'elenco delle località ove si parla l'albanese e il greco v. alle voci albanesi d'italia e greci d'italia. La parlata albanese si conserva anche nella località di Borgo Erizzo presso Zara.
Il catalano è parlato nel comune di Alghero in Sardegna.
Finalmente il romeno è parlato da un piccolo gruppo istriano, costituito di 7 località (Lettai, Gradigne, Valdarsa, Villanova, Grobenico, Briani, Sucodru) nel comune di Valdarsa, e una (Seiane) nel comune di Castelnuovo d'Istria.
Dialetti franco-provenzali e provenzali. - Nella Valle d'Aosta, nelle alte sezioni delle valli della Stura settentrionale, dell'Orco, della Dora Riparia, nelle Valli di Lanzo si parlano dialetti di tipo franco-provenzale (v. franco-provenzale). I dialetti delle alte valli della parte più occidentale della provincia di Torino e di quelle della provincia di Cuneo sono di tipo provenzale (v. Provenza: Dialetti). Anche i dialettì valdesi, che sembrano una diretta importazione d'oltralpe, sono provenzali.
Il dialetto di Faeto e di Celle San Vito (Foggia) è franco-provenzale, quello di Guardia Piemontese è provenzale.
La lingua francese è usata nella provincia d'Aosta e, molto meno, negli antichi circondarî di Pinerolo e di Susa; è invece pochissimo nota nelle isole linguistiche provenzali e franco-provenzali dell'Italia meridionale.
Dialetti tedeschi. - È necessario fare una netta distinzione fra le penisole linguistiche dell'Alto Adige e di Val Canale (Friuli) nelle quali la parlata continua al di qua del confine le sostanziali caratteristiche e tendenze del moderno bavarese alpino, e le colonie tedesche in cui dal momento della deduzione venne a cessare ogni vitale contatto con l'unità linguistica tedesca e dove per conseguenza il dialetto a poco a poco si fossilizzò.
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Alto Adige. - La vicinanza al tirolese si tradisce nel tedesco atesino non solo nel lessico e nella morfologia (per es., nella conservazione delle vecchie forme pronominali ess, enk, enker per ihr, euch, euer) ma anche nella veste fonetica; sono, p. es., fenomeni comuni all'atesino e al tirolese l'aspirata kh (per es., dönkht per denkt "pensa"), il dittongo òa per il vecchio ei (khlòada per Kleider "vestiti"), il passaggio di st a scht (göschter per gestern "ieri"), i dittonghi ië, ue (liëb per lieb "caro", guet per gut "buono"), la pronuncia velare di a (pòh per Bach "ruscello") e la riduzione della vocale metafonizzata ä ad a (pachl per Bächlein "ruscellino"), lo sviluppo di o da au al dittongo òa (stòassn per stossen "urtare"), ecc. Ciò non toglie che sullo spartiacque del Brennero passi un piccolo fascio di isofone che distingue dialettalmente il Tirolo dall'Alto Adige; che il dialetto pùstero e quello dell'Isarco centrale abbiano particolari contatti col carinziano, come il venostano è viceversa ambientato verso occidente. I vecchi confini comitali corrispondono nell'Alto Adige intedescato a limiti dialettali ormai poco visibili in causa di un rapido e recente livellamento, ma storicamente importanti; combinano, per es., col confine della vecchia contea della Pusteria quello di iu passato non a ui ma ad oi (noi "nuovo"; foir "fuoco", contro il più comune dialettale nui, fuir) e quello di uo svoltosi a ui (schúih "scarpa", grúibe "fossa") contro ue, ua (ted. letterario, u: Schuh, Grube). Così lungo il vecchio confine orientale del meranese, a Gargazzon, decorre il limite orientale della pronuncia ü in voci del tipo geben "dare", Weg "via", cui il rimanente dell'Alto Adige risponde con göbn, wög. In altri casi il bacino dell'Isarco e della Pusteria, oppure l'alta Venosta formano delle unità dialettali che continuano al di là dello spartiacque nel Tirolo orientale o, rispettivamente, occidentale tendenze sostanzialmente identiche. Condizioni dialettali differenziate dalle vicine parlate tedesche si manifestano anche attualmente nel dialetto periferico di Nova Levante, Nova Ponente e Valdagno; esse dànno l'impressione d'una colonizzazione ben diversa dalla solita; gli abitanti, secondo una tradizione documentabile nel Settecento, sarebbero d'origine sveva.
Il tedesco è nell'Alto Adige il dialetto della maggioranza: nel censimento del 1921, i cui dati sono ormai di parecchio superati, la percentuale italiana, non tenendo conto dei 24.000 Tedeschi stranieri allora residenti nel Bolzanino, era del 25,4. Il carattere di bilinguità è accentuato dal fatto che non solo tutti i giovani, ma anche moltissimi adulti conoscono e parlano l'italiano; decisamente italiane sono le valli ladino-dolomitiche di Fassa, Gardena, Badia, Marebbe; anche dopo che la lingua dell'amministrazione e della chiesa divenne tedesca, la zona da Bolzano a Salorno rimase sempre mistilingue, giacché correnti immigratorie trentine continuarono a vivificare le minoranze italiane.
Grandi tratti dell'Alto Adige cedettero al germanesimo soltanto negli ultimi secoli. Le valli laterali del massiccio dolomitico, specialmente quelle più vicine all'italiana Gardena (Tires, Funés, Eores), più al sud Nova Levante e Trodena conservavano ancora verso il 1600 il vecchio idioma; nella Venosta superiore il romancio fu oggetto di persecuzioni all'inizio del sec. XVII, ma sopravvisse in qualche punto fino al periodo napoleonico. A due passi da Merano, a Parcines, Ulrico da Campell trovò persistere verso il 1570 il neolatino; relazioni molteplici di viaggiatori e studiosi tedeschi e italiani dell'inizio del sec. XVII comprovano la bilinguità di tutto il Tratto Atesino sottostante a Bolzano, specialmente a Salorno, Sello, Caldaro, Appiano. Per Bolzano è attendibile la dichiarazione del domenicano tedesco Felix Faber, nel 1483, che fino a pochi anni prima la vulgaris locutio era stata italiana e la città s'era intedescata solo negli ultimi tempi; quantunque l'amministrazione comunale si premunisse dal 1488 contro il pericolo italiano, l'affluenza della mano d'opera italiana e l'uso della sua lingua come lingua delle fiere continuarono a mantenere viva la tradizione italiana proprio nelle classi inferiori, che tanto facilmente sfuggono alla documentazione archivistica diretta. La superficialità dell'intedescamento di gran parte del Bolzanino traluce del resto dai nomi di luogo e di famiglia d'origine italiana e adattati alla fonetica tedesca: è compito della grammatica storica di esaminare i fenomeni di adattamento e il precedente sviluppo neolatino per ricavarne dati sull'epoca approssimativa in cui si effettuò il trapasso linguistico.
Val Canale. - Altra penisola linguistica è la Val Canale (cioè il corso superiore del Fella), fino a Pontebba nuova. La profonda diversità fra le due borgate al di qua e al di là del vecchio confine (Pontebba-Pontafel), ora notevolmente superata, si spiega col fatto che qui passò la frontiera dal 1000 circa in poi. Il problema linguistico è complicato dalla circostanza che in Val Canale s'incontrano il tedesco e lo sloveno; il primo è la lingua usuale di Pontebba nuova, Lusnizza, S. Caterina, Malborghetto e Tarvisio, il secondo quella di tre piccoli centri all'imbocco della Val Bruna: Ugovizza, Valbruna e Camporosso. Negli stanziamenti principali e più antichi di Pontebba nuova, Malborghetto e Tarvisio, che furono centri industriali e luoghi di mercato, la popolazione italiana fu sopraffatta nel corso del sec. XV, ma il veneto rimase la lingua commerciale. La colonizzazione slovena sembra anteriore alla tedesca: almeno a Camporosso essa si sovrappose certamente a elementi nostrali. Il dialetto qui parlato è di tipo carinziano.
Colonie dell'Alto Perginese, Tredici Comuni, Sette Comuni. - Mentre nell'Alto Adige il tedesco guadagnò sensibilmente terreno nell'epoca moderna, queste colonie tedesche sono da secoli in sensibile deperimento. Storia, toponomastica e onomastica insegnano che l'attuale modestissimo isolotto tedesco dell'Alto Perginese (Palù, Frassilongo) era fiancheggiato a E. O. S. da altri stanziamenti alloglotti dal monte di Roncegno alla comunità di Pinè. In continuazione geografica dell'isola veronese dei Tredici Comuni, furono un tempo tedeschi, nel Trentino meridionale, Lavarone, Terragnolo, Folgaria e la Vallarsa e, mentre oggi il tedesco è limitato alla parte più interna dei Tredici Comuni, esso arrivava un tempo a Badia Calavena e S. Pietro (cfr. L'Italia dial., VII, pp. 83-90). Lo stesso fatto si ripete nei Sette Comuni vicentini, dove il tedesco è ormai ristretto a Roana, Rozzo, Foza e Ronchi, mentre i dati toponomastici includono nella zona intedescata tutto il sistema collinare di Asiago e congiungono i Sette e i Tredici Comuni con le isole tedesche assorbite a N. e O. del Pasubio. Ma nell'interno di questo territorio montuoso le difficoltà di comunicazione non permisero la fusione in un unico tipo dialettale dei singoli e indipendenti stanziamenti baiuvari: simile ma non identico è il tedesco dei Sette e dei Tredici Comuni (chiamato, molto impropriamente, "cimbro"); esso è differenziato dal lusernate che a sua volta si stacca notevolmente dal mòcheno (Alto Perginese). Siccome, eccezion fatta per il mòcheno, per cui si tratta d'insediamento più recente, e per Lavarone e Folgaria, che sono colonie più antiche (circa 1166 e 1150), le altre isole tedesche trentino-veronese-vicentine sono fondazioni coeve della seconda metà del sec. XIII, le divergenze dialettali si spiegano ammettendo che i coloni siano pervenuti nelle loro sedi definitive da punti diversi del territorio bavarese. Caratteristica comune a tutte le colonie tedesche su suolo italiano è, com'era da attendere, l'arcaismo, di modo che non sono documentate le innovazioni bavaresi dalla metà del Duecento in poi. La seriorità della colonia perginese traluce appunto nello spostamento di a ad ò e di ä ad a che manca nelle isole dialettali vicine, che risalgono a un periodo più antico. Se dunque anche in queste ultime ê si dittonga in ea (béata da m. a. t. wêtac "malattia") o ô, anche da ei, dà òa (hòazanheissen "chiamare"); se ai dittonghi m. a. t. ou, awi, ie, uo, iu, üe, corrispondono òa, öu, ia, ua, au, üa (lòavan - laufen "correre" höbe - Heu "fieno", khnia - Knie "ginocchio", schua "scarpa" khaughe - m. a. t. Kiuwe "mascella", müade - müde, "stanco"; se ai m. a. t. î, û, iu corrispondono i più moderni dittonghi ai, au, aü (zait, haus, khraüz "tempo, casa, croce"), si tratta di evoluzioni già progredite nel bavarese all'epoca in cui furono dedotte queste colonie. Fenomeni conservativi nel consonantismo sono: il rimanere del b intervocalico come lene, senza l'ulteriore digradamento a v, la pronuncia un po' schiacciata della s, il mantenimento di v del medio alto ted. nei casi in cui il bavarese moderno usa f, la digradazione di b a w nel prefisso be - wo e in esempî del tipo wĭschof - Bischof "vescovo", wāwost - Papst "papa", la distinzione fra la forte t e la lene d, che fra vocali arriva a una spirante. Notevole nel dialetto dei Sette Comuni la conservazione del timbro delle antiche vocali atone piene, per es. di -o e -a nel nominativo dei sostantivi deboli maschili e femminili e di -or nel comparativo, fase arcaica di cui non esiste traccia nelle altre isole.
Colonie del Friuli e del Monte Rosa. - Alla stessa epoca risalgono le isole alloglotte del Friuli e del Monte Rosa. La Val Sesia fu colonizzata nel sec. XII da emigrati del Canton Vallese, Macugnaga fra il 1261 e 1291 da dissodatori della Valle del Saas, Ornavasso fra il 1275 e il 1307 da coloni di Naters. Sappada nell'Alto Cadore, Sauris nella friulana Val Lumiëi e Timau in fondo alla valle del But parlano un dialetto molto simile, di provenienza pùstera o carinziana con tratti meno arcaici del "cimbro".
Dialetti greci. - Esistono nell'estremo Mezzogiorno d'Italia due territorî, in cui si parla greco. Una di queste isole linguistiche si trova in Calabria (a levante di Reggio), ed è composta dei comuni di Bova, Condofuri, Palizzi, Roccaforte e Roghudi. L'altro territorio è in Terra d'Otranto (a sud di Lecce), e comprende i paesi seguenti: Calimera, Castrignano, Corigliano, Martignano, Martano, Melpignano, Soleto, Sternatia e Zollino. Secondo il censimento del 1921 parlavano greco in Calabria 3639 persone e in Terra d'Otranto 16.033. Mentre in Calabria il greco oggi perde rapidamente terreno, la vecchia lingua si conserva abbastanza tenacemente in Terra di Otranto. Ma il regresso del greco non data da oggi. Infatti sappiamo che nel Cinquecento il numero dei paesi greci era di 25 in Calabria, 27 in Terra d'Otranto. E lo studio dei dialetti in base alla geografia linguistica insegna che la lingua greca nel Medioevo ha dovuto abbracciare tutto il territorio a sud della linea Nicastro-Catanzaro in Calabria e a sud della Via Appia in Terra d'Otranto: fino a queste linee gli odierni dialetti romanzi sono tuttora profondamente impregnati di materiale e di spirito greco. Non si tratta solo di relitti lessicali, che sono numerosissimi nella Calabria meridionale, ma l'influsso greco si riscontra anche nella sintassi. Così a sud delle linee sopra indicate l'infinito è sostituito alla greca da costruzioni personali: catanz. volèra ma sácciu, regg. vulia mi sácciu, lecc. ulia cu ssacciu "vorrei sapere", locuzioni che corrispondono esattamente al greco volgare ἤϑελα νὰ ξέρω. Fra i relitti lessicali citiamo in Calabria: brósacu "ranocchio" (= bov. vrúϑaco) ‹ βόϑρακος, golèu "gufo" (bov. agolèo) ‹ αἰγωλιός, malóχa "malva" (bov. molóχa) ‹ μαλάχη, spronu "verbasco" (bov. splono) ‹ στλόνος, sirtu "tirabrace" (bov. sirti) ‹ σύρτης, spálassu "ginestra spinosa" (bov. spólasso) ‹ ἀσπάλαϑος, vampurída "lucciola" (bov. lamburída) ‹ λαμπυρίδα; in Terra d'Otranto: lifona "puerpera" (greco otr. leχona) ‹ λεχώνα, zánzicu "maggiorana" (otr. sánzico) ‹ σάμψυχον, spárganu "fascia da bambini" (otr. spárgano) ‹ σπάργανον, tíferu "acerbo" (otr. tiferó) ‹ τρυϕερός, cilona "testuggine" (otr. χelona) ‹ χελώνη, úscia "cimosa" (otr. uja) ‹ ᾤα.
Fonetica. - L'aspetto fonetico dei dialetti italo-greci corrisponde generalmente alle condizioni del neogreco. Sono fenomeni che del resto erano già sviluppati nei primi secoli dell'era cristiana. Così l'antico υ appare oggi generalmente come i: lico λύκος, fíḍḍo ϕύλλον, bov. iplo, otr. ipuno ὕπνος, ma d'altra parte ciuri "padre" κύριος, bov. sucía, otr. sucéa "fico" συκέα. La pronunzia i vale anche per η: iméra ἡμέρα, clima κλῆμα, bov. alíϑia, otr. alísia ἀλήϑεια. Gli antichi dittonghi sono monottonghizzati: era αἶρα, cino ἐκεῖνος, cilía κοιλία. Dinnanzi a una vocale di timbro palatale γ e κ vengono palatalizzati: bov. jeláo, otr. jeló, γελάω, cérato κέρατον. Il suono ϑ si conserva in Calabria: ϑéro ϑέρος, liϑári λιϑάριον, mentre in Terra d'Otranto è stato sostituito da t o s: tero, litari o lisari. Le finali ν e ς cadono: ólo ὅλος, aguó αὐγόν.
Morfologia. - Il futuro viene sostituito dal presente: ércome "verrò" ἔρχομαι. Invece del condizionale si usa l'indicativo dell'imperfetto: bov. íϑela, otr. ítela "vorrei". Il perfetto formato col participio in -ένος (neogreco ἔχω γραμμένος) è sconosciuto; si usa esclusivamente l'aoristo: égrafsa ἔγραψα. L'infinito sparito in Grecia, è riservato a pochi casi, specialmente dopo soźo "io posso": bov. egó sónno staϑí, ἐγὼ σώνω σταϑῆν "io posso stare". Generalmente viene sostituito da νὰ con un congiuntivo: ϑélo na páo (ἐϑέλω νὰ πάω) "voglio andare".
Tracce arcaiche. - Si osservano specialmente nel lessico. Benché l'italo-greco nel suo lessico corrisponda generalmente all'uso del greco moderno (cfr. crasí "vino" κρασίον invece di οἶνος, zzomí "pane" ψωμίον invece di ἄρτος, nerò "acqua" νηρόν invece di ὕδωρ), troviamo però, specialmente in Calabria, molti vocaboli che si riconnettono direttamente con la tradizione dorico-sicula della Magna Grecia. Citiamo dal dialetto di Bova lanó "palmento" (λανός invece di ληνός), nasída "terreno coltivato lungo una fiumara" (νασίδα invece di νησίδα), paftá "pasta di latte rappreso" (πακτά di Teocrito), ásamo "senza marchio" (ἄσαμος invece di ἄσημος), tamíssi "caglio" (τάμισος di Teocrito), cliźa "pulicaria" (κνύζα di Teocrito invece del comune κόνυζα), anápordo "specie di cardo" (sirac. ὀνόπορδον), vúrvito "sterco" (dor. βόλβιτον). Oltre a ciò, si conservano nel dialetto di Bova molti altri vocaboli, di cui nei parlari della Grecia ogni ricordo si è perduto, come αἰγωλιός "gufo", δέλλις "vespa", ζυγία "acero", μάκτρα "madia", ὀργάς "terreno fertile", πυρρίας "pettirosso", ῥῶψ "quercia", ecc. Si notino anche alcune forme femminili in -ός nella declinazione degli aggettivi come ega ásamo (ἄσαμος) "capra senza marchio", στέριϕος "animale senza latte", ἔτοιμος "gravida", forme caratteristiche del più antico greco. Ciò fa supporre che il grecismo del Mezzogiorno d'Italia non si debba considerare, col Morosi, filiazione del greco bizantino, ma che si tratti, specie in Calabria, di una grecità autoctona protrattasi fino a oggi senza interruzione.
Dialetti slavi. - In Italia si parlano dialetti slavi: 1. nell'oasi linguistica serbo-croata del Molise: 2. lungo i confini orientali: sull'isola di Lagosta; nella piccola striscia di terraferma intorno a Zara; sulle isole del Quarnaro: Lussino, Sansego, Unie, Cherso (eccettuate le città); nelle campagne istriane; nel retroterra di Trieste sino al confine d'Italia; nell'alta e media val d'Isonzo (fatta eccezione per i centri cittadini); in una parte della Val di Resia e della Val Canale. Tutti questi dialetti appartengono al gruppo slavo-meridionale, e precisamente al serbo-croato e allo sloveno, i quali s'incontrano nell'Istria su una linea che, partendo dal golfo di Pirano costeggia il corso della Dragogna, supera una profonda insenatura di tipo misto croato-sloveno (dintorni di Pinguente), piega nei pressi di Gelovizza verso nord, raggiunge la carrozzabile Trieste-Fiume e la segue fino a Passiacco, donde continua direttamente a est sino al confine italiano al sud del Monte Nevoso. I parlari slavi al sud di questa linea sono serbo-croati, quelli al nord invece sono tutti sloveni, compresi anche i dialetti della Val di Resia che Baudouin de Courtenay considerava erroneamente di tipo serbo-croato.
L'oasi linguistica del Molise è costituita da tre villaggi: Acquaviva Collecroce, San Felice Slavo e Montemitro. La popolazione alloglotta (o meglio bilingue) di questa colonia ammontava venti anni fa a circa 3000 abitanti; oggi per il continuo assorbimento, essa sarà certo di parecchio minore. Il dialetto che vi si parla è di tipo štokavo-ikavo (da što "quid" e da i per (i)je del serbo-croato letterario corrispondente a un ĕ paleoslavo) con alcuni arcaismi (per es., la mancanza della desinenza -a nei genitivi plurali) e qualche lieve infiltrazione di elementi čakavi (da ča per što). Per queste ragioni, come pure per argomenti meno sicuri di carattere lessicale e storico, è molto probabile che la popolazione di questi villaggi sia giunta in Italia dalla Dalmazia centrale (tra la Cetina e la Narenta) nella seconda metà del sec. XV. E si tratta dell'ultimo nucleo d'un numero molto maggiore di Croati (e forse anche Serbi) che fuggendo dalle invasioni turche s'erano rifugiati sull'altra sponda dell'Adriatico.
Prevalentemente čakavo è invece il dialetto di Lagosta, con j per dj (meja, serbo-croato letterario meßa "confine", cfr. medius), t′ per tj (sret′a, lett. sreća "fortuna"), n in fine di parola per -m, ecc. Si tratta però di un parlare di tipo misto, poiché vi si riscontrano non poche particolarità proprie dei dialetti štokavo-jekavi della terraferma tra la penisola di Sabbioncello e Ragusa.
I parlari croati nei villaggi dell'isola di Lussino sono in piena dissoluzione: la popolazione vi è di regola bilingue e vi sono nei due dialetti di cui si serve non pochi parallelismi anche d'ordine fonetico: per es., j per l' (kašaj per scr. lett. kašalj, accanto a dial. veneto fojo per foglio) e in linea generale una forte tendenza alla depalatalizzazione: tsekat per čekat in croato (tsinque per cinque nel dialetto veneto della regione), ecc. Caratteristica vi è inoltre, ma insufficientemente studiata, la dittongazione delle vocali toniche lunghe.
Maggiore vitalità ha il dialetto croato dell'isola di Cherso che per il suo ekavismo (e per je, ije) si distingue dagli altri dialetti čakavi e per il suo carattere conservativo, specie nel lessico, si avvicina ai parlari croati dell'isola di Veglia.
La grande varietà dialettale dell'interno della penisola istriana ha la sua spiegazione nelle condizioni storiche; gli Slavi cominciano a penetrarvi, attraverso il passo del Montemaggiore, nel sec. VII; e continuano ad affluirvi periodicamente nei secoli seguenti. Si tratta d'immigrazioni dapprima spontanee, ma poi promosse dagli stessi padroni della penisola. In quanto questi coloni provenivano da regioni limitrofe (parlanti dialetti čakavi) e in quanto, sia per il loro scarso numero, o per la superiorità numerica della popolazione slava più indigena, potevano da questa essere assimilati, i loro odierni successori parlano ancora oggi dialetti di tipo čakavo. Ciò vale per la parte orientale della penisola (la delimitazione a ovest e a nord è fornita da una linea che, seguendo dapprima il corso dell'Arsa volge ad occidente nelle vicinanze di Gimino, ritorna al nord fino a Vermo presso Pisino e da lì piega a NE. fino a raggiungere nei pressi di Obrovo Santa Maria la carrozzabile Trieste-Fiume). La popolazione campagnola a ovest di questa linea, essendo giunta nell'Istria più o meno dopo il sec. XV e provenendo in massima parte dall'interno della Dalmazia (Morlacchi) o della Bosnia, e persino dal Montenegro, parla dialetti štokavi quasi puri, oppure, tra il Quieto e la Dragogna, un parlare misto štokavo-čakavo. Nulla di particolare da osservare per i dialetti čakavi: essi hanno čr- per il cr- del serbo-croato letterario (črn "nero"); la pronuncia t′ per tj (svit′a "candela"); per la -l finale conservazione o dileguo (rekal o reka per il scr. lett. rekao), il valore di futuro del presente dei verbi perfettivi (kupin "comprerò"), ecc. I dialetti štokavi dell'Istria concordano con quelli čakavi in alcuni arcaismi; in ča per što (ne deriva anche qui, come in altri casi, che la denominazione di čakavo o štokavo è molto impropria) e in alcuni altri tratti di scarsa importanza. Per il resto essi vanno d'accordo con le principali caratteristiche dello štokavo-ikavo. Fra questi dialetti merita una menzione a parte quello di Peroi, che è di tipo montenegrino (gli abitanti, circa 300, di Peroi, rappresentano una colonia montenegrino-ortodossa); e quello della Ciceria (intorno a Gelovizza e Vodizze di Castelnuovo) perché circondato da dialetti di tipo čakavo o sloveno.
Nel territorio linguisticamente sloveno si possono distinguere i seguenti dialetti o aggruppamenti dialettali: 1. il dialetto del Carso che partendo dal Montemaggiore attraversa l'Isonzo e raggiunto, al nord della Selva di Ternova, il confine statale, lo segue (con qualche propaggine nel territorio iugoslavo) fino al Monte Nevoso. Questo dialetto che all'ovest confina con l'italiano e al sud col croato dell'Istria, ha come caratteristiche principali la vocale a per le semivocali antiche in sillabe atone, il passaggio di -m in -n in fine di parola e l'uso frequente d'infiniti del tipo zapneti (dal pres. zapnem); 2. il dialetto dell'alto Isonzo e dell'Idria che segna la transizione tra il dialetto del Carso e quelli della Slovenia (nella quale però penetra nella zona di Poljane, Škofja Loka, Logatec); 3. le ultime propaggini sud-occidentali del dialetto carinziano (dintorni di Tarvisio); 4. il dialetto della Valle di Resia, interessante soprattutto per l'influenza sistematica che le vocali toniche vi esercitano su quelle atone (armonia vocalica).
Tutti i parlari slavi entro i confini d'Italia hanno subito un forte influsso del lessico italiano; e quasi tutti indietreggiano, sia pure lentamente, al contatto con la lingua italiana, o meglio con i dialetti: veneziano e friulano. Tale espansione dell'italiano è dovuta soprattutto alla funzione culturale che in queste zone hanno avuto i centri cittadini, i quali seppero conservare il loro carattere italiano anche quando, in seguito a vicende storiche, furono più o meno circondati da zone linguisticamente eterogenee.
Dialetti albanesi. - I dialetti albanesi parlati nel regno (v. albanesi d'italia) si trovano in tre zone distinte: 1. nell'Italia Meridionale; 2. in Sicilia; 3. nella Dalmazia italiana. Le colonie dell'Italia meridionale e della Sicilia parlano dialetti di tipo tosco (vedi albania, Lingua); quella di Borgo Erizzo (Zara), un dialetto ghego.
La più settentrionale delle colonie albanesi dell'Italia meridionale è Villa Badessa, frazione del comune di Rosciano (Pescara); essa è anche la più recente, essendo stata fondata nel 1744. Il dialetto di Villa Badessa ha una posizione speciale nel complesso dei dialetti albanesi d'Italia; gli abitanti sono infatti Chimarioti, venuti da Pikernion, villaggio non lungi da Santi Quaranta. Differente è l'origine e la parlata delle colonie della provincia di Campobasso (Montecilfone, Campomarino, Portocannone, Ururi, Santa Croce di Magliano, tutte nel circondario di Larino) e dell'estremità settentrionale della provincia di Foggia (Chieuti, Casalvecchio di Puglia). Nella provincia di Foggia erano anche albanesi (e oggi sono, completamente o quasi, linguisticamente pugliesi) Casalnuovo Monterotaro, Castelluccio de' Sauri e Panni. Dopo questo gruppo di colonie albanesi, procedendo verso sud, segue un grande iato nel quale troviamo appena tre o quattro colonie albanesi e precisamente Greci nell'estremo nord-est della provincia di Avellino, Barile e Maschito nella parte settentrionale della provincia di Potenza. Isolate restano le colonie di San Marzano e Roccaforzata (un tempo anche S. Giorgio Ionico, Faggiano e Monteparano) in provincia di Taranto. Con le due colonie di San Paolo Albanese e Costantino Albanese, nell'estremità meridionale della provincia di Potenza s'inizia un denso gruppo di colonie albanesi nella Calabria (Farneta. Castroregio, Platici, Frascineto, Porcile, Civita, Lungro, S. Basile, Acquaformosa, Firmo, S. Caterina Albanese, Cerzeto, S. Benedetto Ullano, Falconara Albanese, Spezzano Albanese, San Lorenzo del Vallo, Vaccarizzo Albanese, San Giorgio Albanese, San Cosmo Albanese, San Demetrio Corone, Macchia, Santa Sofia d'Epiro e altri in provincia di Cosenza; Pallagorio, S. Nicola dell'Alto, Andali, Marcedusa, Zangarana, Vena, Caraffa, ecc. in provincia di Catanzaro). Le colonie albanesi in Sicilia sono tutte nella provincia di Palermo; originariamente erano sette, ma oggi rimangono linguisticamente albanesi solo Piana dei Greci, Contessa Entellina, e Palazzo Adriano; in piccola parte S. Cristina Gela; Mezzoiuso è già completamente siciliano. Nella Dalmazia italiana c'è solo la colonia di Borgo Erizzo in provincia di Zara.
I dialetti albanesi d'Italia (escluderemo dal presente esame il dialetto di Borgo Erizzo che essendo ghego rappresenta un tipo speciale) si distinguono per alcuni fenomeni, e precisamente per fenomeni di conservazione, preziosi per ricostruire la storia dell'albanese, e per fenomeni d'innovazione.
Fra i fenomeni di conservazione ricorderemo: il mantenimento del dittongo uo (da õ in uscita) che nei dialetti toschi d'Albania è ridotto ad ua: p. es., škruoń (Molise), to. škruaj "scrivo"; muoji "mese", gruoja "donna" (dialetti delle provincie di Campobasso, di Foggia e di Piana dei Greci) cfr. tosco muaji, gruaja. L'albanese d'Italia, accanto alla fase più antica uo, conosce anche la riduzione di uo a u nei participî (maravil′úr "maravigliato"; ǵ atšúr "ghiacciato") e nella 3ª persona pl. dell'aoristo (u fεrmún "si fermarono"); sporadicamente si ha anche la fase ue in tue: per es., tue pεskúr o pεskúer "pescando".
A Montecilfone invece del dittongo ie si trova i, p. es. δit "dieci", lipur "lepre". Le riduzioni di ie in i e di uo, ue in u sono peculiarità gheghe; la loro presenza nei dialetti d'Italia dimostra che la monottonghizzazione era altra volta assai più estesa verso il sud e che più tardi, in Albania, è andata retrocedendo.
Anche nella flessione verbale questi dialetti hanno dei caratteri arcaici e conservativi che ricordano il ghego; p. es., la semplicità del sistema dell'imperfetto nei dialetti del Molise (ove troviamo le stesse desinenze dell'aoristo). Come particolarità di conservazione, si può ricordare anche il numero considerevole di aoristi sigmatici (ǵ etš "trovai", ecc.) e il mantenimento del -v- intervocalico in -ava- -ova- -eva- -iva-, pur nella terza persona singolare dell'aoristo. Una caratteristica fonetica è il passaggio di ł alla spirante γ (gh): per es., dieyi "il sole" (alb. diełi); kieγa "il cielo" (alb. kieła).
Tra i fenomeni d'innovazione i principali sono quelli derivati dai contigui dialetti italiani e dal bilinguismo; ricorderemo il volgere della vocale finale ε ad a in una parte della Calabria (p. es., a Vena), dove i dialetti calabresi circostanti hanno la tendenza a volgere l'e finale in a: p. es., nga "non" per ngε, fialezan "la parola [acc.]" per fialezεn; la sonorizzazione delle sorde dopo nasali; p. es., prεmdóń "prometto" (alb. comune prεmtóń). Nella morfologia è interessante l'adattamento al sistema grammaticale albanese del copioso materiale lessicale italiano mutuato. I verbi o si adattano alle categorie verbali albanesi (p. es., sparańóń "risparmio"), o s'introducono col suffisso dell'infinito italiano cui si aggiungono le varie uscite verbali albanesi, p. es. kapiriń "capisco", uffendirta "io offesi", ecc. Numerosi sono gl'influssi italiani nella sintassi e nella fraseologia (p. es., ǵiϑ sor dε "ogni sorta di...", a forza zo "a forza di...", fin as "finché"). Quanto agli elementi lessicali essi sono numerosissimi; come avviene sempre nelle zone bilingui, la percentuale delle voci mutuate è tanto maggiore quanto più è colta la persona che parla.
Dialetti romeni. - Il romeno, o per meglio dire l'istroromeno (che è uno dei quattro dialetti fondamentali in cui si suddivide il romeno; v. romania: Lingua) è parlato solo in Istria, in due gruppi di villaggi divisi fra loro dal Monte Maggiore. Il gruppo settentrionale comprende ora solo il villaggio di Seiane, di 540 abitanti, nel comune di Castelnuovo d'Istria in provincia di Fiume. Il gruppo meridionale è formato dai Romeni del comune Valdarsa e comprende sette paesi con un totale di 2044 abitanti. L'istroromeno perde continuameme terreno di fronte al croato, e ora anche all'italiano. Il dialetto istroromeno ha una notevole individualità, essendosi separato in epoca considerevolmente antica; esso rappresenta, secondo alcuni studiosi, l'ultimo e più settentrionale resto di quella lingua parlata dai cosiddetti "Romeni occidentali" che dai Balcani erano risaliti fino a Veglia e all'Istria e che hanno lasciato molte tracce del loro passaggio anche in Dalmazia; secondo altri sarebbe invece da considerare quasi come una propaggine del dacoromeno. La comprensibilità fra un istroromeno e un romeno parlante uno degli altri tre dialetti fondamentali (dacoromeno, aromeno e meglenitico) è esclusa.
Fra le numerose caratteristiche dell'istroromeno ricorderemo: nella fonetica: 1. il passaggio di ă finale a ę (sia tonico sia atono); p. es., farę "afară", sęrę "seară", dę "dă", l'ę "ia" [‹ levat], ecc.; 2. la riduzione del dittongo oa in o: p. es., codę "coadă", noptę "noapte", osele "oasele"; 3. il passaggio di u̯ a v, sia in posizione intervocalica, sia come secondo elemento dei dittonghi au, eu, sia in fine di parola: p. es., dova "a doua", nova "nouă = nuova", avzit "auzit", grăv "grâu"; 4. il mutamento di nv in (n)m: p. es., (ă)nmeţå "învăţà" (‹ invitiare, cfr. alb. mεsoń); 5. la contrazione di e + a in a: p. es., cåla "calea"; 6. il rotacismo (n > r) quasi identico a quello che si trova nei più antichi testi dacoromeni, per cui n intervocalico passa in r negli elementi latini: p. es., burę "bună", bire "bine", gal′irę "găină", lărę "lână", ecc.; 7. una caratteristica negativa è l'assenza della palatalizzazione delle labiali, che si trova nei dialetti suddanubiani e in parte del dacoromeno; 8. caratteristica fonetica dovuta all'influsso slavo è l'epentesi di un l′ fra una labiale e una i̯ (fusasi poi nel l′): p. es., pl′erde "pierde", fl′er "fier" (cfr. serbocroato zdravlje da zdravje). Nella morfologia ricorderemo: 1. il mutamento di m in n nella prima persona plurale: p. es., virin "venim"; 2. la terminazione analogica -u nella terza persona dei verbi della prima coniugazione: p. es., iel'åflu "ei află"; 3. l'introduzione della forma del presente indicativo anche nel presente congiuntivo della prima coniugazione, nella terza pers.: p. es., neca åflę "sa afle"; 4. il sistema di numerazione che si differenzia da quello degli altri dialetti (quantunque fortemente influenzato dal croato); 5. un nuovo tipo di coniugazione in -êi̯ che comprende in generale i verbi mutuati dall'ital. o dal croato: p. es., gambięi̯ ‹ "cambiare", urdinęi̯ ‹ "ordinare", zecopęi̯ ‹ "zakopati"; 6. il nuovo imperfetto in -åi̯a -ęi̯a -ii̯a: p. es., aflåi̯a "aflà", sedęi̯a "Şedeà", verii̯a "venià".
Vi sono infine alcune caratteristiche sintattiche (specialmente notevole la maggiore estensione dell'uso dell'infinito) e parecchie caratteristiche lessicali, sia di conservazione sia d'innovazione. Per quanto l'istroromeno conservi alcune voci sparite negli altri dialetti (åsir ‹ asinus, ií ‹ ire, ecc.), l'isolamento dei parlanti in un ambiente straniero, il loro bilinguismo (e spesso trilinguismo), ha reso il lessico zeppo di elementi croati e italiani (veneti).
Dialetti catalani. - Un dialetto catalano si parla nella città di Alghero. Una guarnigione catalana fu lasciata in quella città da Pietro IV di Catalogna-Aragona, dopo che egli ebbe vinta nel 1353 la flotta genovese; domata nell'anno successivo, in una seconda spedizione, una rivolta, Alghero, fu annessa alla corona aragonese. Nel 1372 i Sardi furono espulsi dalla città.
Il dialetto di Alghero corrisponde sensibilmente al catalano comune: soprattutto si raccosta al dialetto di Barcellona donde provenivano i primi coloni. Poche sono le particolarità proprie dell'algherese di contro al catalano comune (per es., il passaggio di -d- primario o secondario in -r-, cat. viuria, algh. viuria, cat. moneda, algh. munera). L'influenza sarda si risente specie nel lessico.
Bibl.: - Dialetti franco-provenziali. - v. franco-provenzale. Pe l'uso della lingua francese in Val d'Aosta, v. F. Neri, in Fabrilla, Torino 1930.
Dialetti tedeschi. - Alto Adige: Oltre alle opere citate nella voce alto adige, v. J. Schatz, Die tirolische Mundart, in Zeitschrift es Ferdinandeums, XLVII (1903); id., Die deutsche Sprache in Südtirol, in Südtirol pubblicato da K. v. Grabmayr, Berlino 1919, pp. 185-195; C. Battisti, Popoli e lingue nell'Alto Adige, Firenze 1931; id., Sulla germanizzazione altoatesina, in Rassegna critica, XXIX, pp. 239-254; per singoli problemi fonetici o lessicali, v. : Berichte der Kommission für das Bayerisch-Oesterreichische Wörterbuch, XI-XVI (1924-29) e P. Pfeifer, in Zeitschrift für deutsche Mundarten, 1923.
Val Calane: Oltre al Kärntnisches Wörterbuch di M. Lexer, Lipsia 1872, v. P. Lessiak, Die Mundart von Pernegg, 1903; id., Beitr. zur Dialektgeogr. der österr. Alpenländer, in Zeitschrift f. deutsche Mund., 1906, 1909.
Colonie dell'Alto Perginese, Tredici Comuni, Sette Comuni: Per il problema complessivo delle isole tedesche veneto-tridentine, cfr. C. Battisti, Studi di storia linguistica e nazionale del Trentino, Firenze 1922, pp. 152-190. Per la colonia dell'Alto Perginese: C. Battisti, Appunti di fonetica mòchena, in Italia dial., I, pp. 27-90; id., Appunti toponomastici ed onomastici sull'oasi tedesca dei Mòcheni, in Archivio ven.-tridentino, IV (1923), pp. 56-127; G. Gerola, Alcuni documenti sul paese dei Mòcheni, in Atti Istituto veneto, LXXXVIII, ii (1929), pp. 1119-1191; A. Zieger, Ricerche e documenti sulle origini di Fierozzo, Trento 1931. Sulle condizioni di Pinè: Ber. Gerola, L'oasi tedesca di Pinè, in Studi trentini (1929); su quelle di Terragnolo: M. Filzi, Il dialetto cimbrico di Terragnolo, in Archivio trentino, 1909. La bibl. sui Tredici comuni è riportata nell'articolo di C. Battisti, Il dialetto tedesco dei Tredici comuni veronesi, in Italia dial., VII (1931), pp. 64-115, che serve d'introduzione al nuovo Glossario di G. Cappelletti, in Italia dial., VIII, 1932 segg. Per Luserna cfr. J. Bacher, Die deutsche Sprachinsel Lusern, Innstruck 1905, e E. Gamillscheg, Die roman. Elemente in deutsch. Mundart v. Luzern, in Zeitschr. für roman. Philologie, Beih. 43. Per i Sette Comuni si è ancora al vocab. dello Schmeller, in Sitzungsberichte der bayerischen Akademie der Wiss., 1855, pp. 60-274; testi in trascrizione fonetica, in I. Seemüller, Deutsche Mundarten, I, Vienna 1912, pp. 59-73.
Friuli: G. Marinelli, Appunti per un glossario delle colonie tedesche di Sauris Sappada e Timau, Udine 1900; A. Baragiola, Dialetto e costumi di Sappada, in Cadore, II (1908), p. 19; bibl. anteriore in J. Bergmann, Die deutsche Gemeinde Sappada nebst Sauris, in Sitzungsberichte der k. Akademie der Wiss. in Wien, II (1849).
Monte Rosa: A. Schott, Die Deutschen am Monterosa, Zurigo 1840; id., Die deutschen Kolonien im Piemont, Tubinga 1842; G. Breslau, in Zeitschrift der Gesellschaft für Erdkunde, XVI, pp. 173-194.
Dialetti greci. - G. Morosi, Studi sui dialetti greci della Terra d'Otranto, Lecce 1870; id., Il dialetto romaico di Bova di Calabria, in Arch. glott. ital., IV, p. 1 segg.; A. Pellegrini, Il dialetto greco-calabro di Bova, in Riv. di filol. e d'istruz. class., IV, V, VI; G. Rohlfs, Griechen und Romanen in Unteritalien, Firenze 1924; C. Battisti, Appunti sulla storia e sulla diffusione dell'ellenismo nell'Italia meridionale, in Revue de linguistique romane, III; G. Rohlfs, Autochthone Griechen oder byzantinische Gräzität?, in Rev. de ling. rom., IV; id., Etymologisches Wörterbych der unteritalienischen Gräzität, Halle 1930; id., Scavi linguistici nella Magna Grecia, Roma 1933.
Dialetti slavi. - Per le colonie serbocroate del Molise: M. Rešetar, Die serbokroatischen Kolonien Süditaliens, Vienna 1911; per l'isola di Lagosta: V. Oblak, Der Dialekt von Latovo, in Archiv. f. slav. Philologie, XVI (1894); per l'isola di Lussino: J. Karásek, Über eine Studienreise zur Erforschung des Kroatischen Dialektes in Lussinpiccolo, ecc., in Anzeiger der Wiener Akad., Phil.-hist. Classe, XVII (1900); per Cherso: M. Tentor, Der čakavische Dialekt der Stadt Cres (Cherso), in Arch. f. slav. Phil., XXX (1908); per i dialetti croati e sloveni dell'Istria: M. Małecki, Przegląd słovianskich gwar Istrji (Rassegna dei dialetti slavi dell'Istria), Cracovia 1930; per i dialetti sloveni: F. Ramovš, Slovenački jezik (lingua slovena), in Narodna Enciklopedija Srpsko-hrvatsko-slovenačka (Enc. nazionale S. H. S.), IV; id., Dialektološka karta slovenskega jezika (Carta dialettologica della lingua slov.), Lubiana 1931; J. Baudouin de Courtenay, Sull'appartenenza linguistica ed etnografica degli Slavi del Friuli, Cividale 1900; B. Guyon, Le colonie slave d'Italia, in Studi glottologici italiani, IV (1907).
Dialetti albanesi. - v. albania: Lingua.
Dialetti romeni. - v. romania: Lingua; e S. Puşcariu, Studii istroromâne, I, Texte, Bucarest 1906; II, Introducere, Gramatică, Caracterizarea dialectului istroromân, ivi 1926; III, Bibliografie critică, ecc., ivi 1929 (con la bibliografia precedente; v. aggiunte, di C. Tagliavini, in Studi rumeni, IV, p. 178 segg.)
Dialetti catalani. - G. Morosi, L'odierno dialetto catalano di Alghero, in Miscell. di filologia e linguistica Caix-Canello, Firenze 1886; P. E. Guarnerio, Il catalano d'Alghero, in Arch. glott. it., IX, pp. 261-364; A. Griera, Atlas lingüistic de Catalunya, Barcellona 1923 segg.; G. Serra, Aggiunte e rettifiche algheresi all'Atlas ling. de Cat., in It. dialettale, III, pp. 197-216.
Letteratura.
La letteratura italiana, come tutte le altre grandi letterature moderne, ha la sua prima origine in quella possente rinascita delle energie spirituali umane, che nei primi secoli del secondo millennio cristiano rinnova l'essenza e l'aspetto di tutta la vita. S'inizia allora e con vigore sempre crescente opera e si diffonde la reazione contro il regime che aveva dianzi governato il mondo con una prepotente aristocrazia fondiaria e un chiericato che improntava di sé tutta la società, e un turbinio di grandi avvenimenti non tarda a sconvolgere il consorzio civile. Rinvigoritasi l'agricoltura, risorte e organizzatesi industrie e commerci, si forma la borghesia, nuova classe dirigente, fervida di passione politica e stretta in corporazioni finanziarie potenti, onde con spirito d'autonomia sempre più gagliardo e imperioso si costituisce lo stato comunale. Il sentimento religioso si fa più intimo e sereno e profondo, e un ardore di riforma per il ripristinamento della vita apostolica s'accende nei vecchi ordini monastici e ne genera di nuovi; dall'Italia spira sul mondo l'amoroso soffio della religione francescana. Nelle scuole filosofiche e teologiche di Francia si disputa fieramente di questioni metafisiche e dogmatiche, segno del rinato spirito religioso e insieme delle cresciute esigenze della ragione. Scoppia la lotta per le investiture, che è lotta della romanità politica ed economica contro l'impero germanico. Pullulano numerose le eresie, ispirate da quello stesso fervore di religiosità che arma contro di esse gli ordini monastici ed è stimolo di riforme ecclesiastiche. Le crociate, poderosa esplosione d'un incontenibile impeto collettivo, stringono nell'unità della coscienza cristiana genti d'ogni paese e le tolgono al chiuso dei monasteri, alle piccole gare e turbolenze del vivere quotidiano, alla miseria degli stremati e maldivisi patrimonî, lanciandole all'azione, all'avventura, alla fortuna. E nel fermento di questi grandi fatti sociali, economici, politici, religiosi, militari, nelle guerre dei re cristiani di Spagna contro i Mori, dei Capetingi con i re d'Inghilterra, dei Comuni italiani con gl'imperatori svevi, s'elabora e matura e spunta la coscienza di differenziate unità nazionali, nelle quali si scinde l'universalismo medievale.
In Italia la formazione di questo nuovo mondo spirituale unitario procede più lenta e faticosa che oltralpe, forse perché la gagliarda attività che lo instaura, qui s'atteggia in modi assai varî per causa dei profondamente varî andamenti della storia delle regioni e delle città, e perché manca la forza disciplinatrice e unificatrice d'una monarchia e di potenti signori. Certo, già nella seconda metà del sec. XII c'è nelle classi colte e dirigenti il senso d'un'unità spirituale "italiana", che si contrappone ad altre simili unità transalpine ed è vincolo ideale tra le popolazioni; ma passerà ancora un secolo prima che quel nuovo mondo unitario abbia nella letteratura una piena e adeguata espressione. In Francia sbocciano i primi fiori della lirica provenzale e risuonano nelle terre del nord i primi squilli d'epopea tra la fine del primo e il principio del secondo secolo del nuovo millennio; in Italia solo nella seconda metà del sec. XIII lo spirito "italiano" s'afferma come arte nella letteratura con la scuola che Dante disse dello "stil nuovo".
I volgari italiani in cui s'era risolto il latino parlato, esistevano però già da molti secoli, e nessuno può pensare che intenzioni e attuazioni d'arte tardassero tanto a manifestarvisi, se lo spontaneo e autonomo parlare è esso stesso opera d'arte. C'è infatti tutta una letteratura, almeno intenzionale, che precede la scuola dello stil nuovo, e che come espressione di spiriti regionali o universali o d'importazione straniera, o come esperimento tecnico prepara il primo fiorire d'una letteratura veramente italiana.
I. I primi conati e la preparazione tecnica. - Il più antico esperimento d'arte letteraria di cui s'abbia memoria, è un indovinello allusivo all'atto dello scrivere, composto, par bene, nella regione veneta, al principio del sec. IX. Poi da quella remotissima età bisogna scendere al sec. XII per trovare testi che in rozzezza di stile e di metro e in primitività di linguaggio regionale o cittadino mostrino l'intenzione di conseguire insieme effetti pratici e d'arte. Sono tra altri un'iscrizione di quattro endecasillabi rimati a coppie, del 1135, che si leggeva sull'arco del coro del duomo di Ferrara; la cantilena d'un giullare toscano in tre tirate monorimiche d'ottonarî, composta poco dopo la metà del secolo; la risposta dialettale d'una popolana genovese nel contrasto del trovatore provenzale Rambaldo de Vaqueiras, che le chiede amore; e qualche frammentuccio. Col Ritmo cassinese, singolare componimento in dialetto campano e in strofe di sette o otto ottonarî monorimi chiuse da due endecasillabi a rima baciata, dove due personaggi disputano allegoricamente della vita mondana e della spirituale; con un poemetto marchigiano dello stesso metro su S. Alessio, e con un'elegia in dialetto giudeo-italiano, anch'essa probabilmente d'origine marchigiana, tocchiamo, pare, il sec. XIII, il quale poi ci manda da più regioni voci numerose di poesia, precorritrici di quella che sarà la voce della nazione.
Didascalica e narrativa, sacra e profana è la poesia di cui ci hanno tramandato documenti le terre dell'Italia settentrionale. Scritti nei vernacoli locali o di questi fortemente improntati, se li generano fantasie non del tutto inerti, quei documenti rispecchiano in certa arguzia d'invenzioni e d'immagini anche qualità proprie dello spirito lombardo e veneto, ma per lo più hanno nel loro contenuto l'universalità delle leggende e delle dottrine diffuse dalla tradizione ecclesiastica.
Nelle Noie del cremonese Girardo Patecchio (in dialetto Pateǵ), di cui è attestata la partecipazione a un atto pubblico nel 1228, una vena di buonumore avviva il carattere didascalico della canzone, calcata sul modello degli enuegs provenzali. Il milanese Bonvesin da la Riva, dotto uomo vissuto non oltre il 1315, ha nelle sue copiose scritture volgari non soltanto una singolare perizia costruttiva, che rivela una consapevole maturità d'intenti artistici, ma anche non spregevoli facoltà di narratore. Nelle rime d'un anonimo notaio genovese vissuto tra la fine del Duecento e il primo Trecento, c'è tanta fantasia da dare efficace espressione a un'anima colta, faceta, fervida d'amore per la sua terra natale. Ma più altre scritture rimate giunteci dal Duecento norditaliano, o anonime, come i Proverbia quae dicuntur super natura feminarum e altri ammaestramenti morali e leggende, o col nome dell'autore, come lo Splanamento de li proverbii di Salomone dello stesso Patecchio, il Sermone di Pietro da Bescapè, il Libro di Uguccione da Lodi, i poemetti descrittivi del Paradiso e dell'Inferno di frate Giacomino da Verona, riprendono temi di leggende universalmente note o i soliti precetti dell'ascetismo cristiano, né, quanto alla forma, hanno nulla che non provenga dalla generica ingenuità o dalle costumanze del tempo e della classe sociale cui lo scrittore appartiene.
Epica è la poesia narrativa profana fiorita nella Marca di Treviso nel sec. XIII e continuatasi molto addentro nel XIV. Un poema su Buovo d'Antona è in dialetto veneziano, solo con qualche coloritura francese. Ma perché la materia dei racconti veniva di Francia, e la lingua della terra d'origine era intimamente connaturata con la materia, gli stessi autori veneti per lo più si studiarono d'usare il francese e scrissero una lingua ibrida, la quale, secondo la loro varia cultura, va da un francese gremito d'italianismi, ma grammaticalmente abbastanza corretto, a un gergo che non è se non uno sregolato travestimento francese del dialetto veneto. Di quel primo tipo è l'ibridismo linguistico dell'Entrée d'Espagne, d'un ignoto padovano, e della Prise de Pampelune del suo continuatore Niccolò da Verona, poemi carolingi, la cui nascita italiana è attestata anche dalla parte notevole fattavi ai Lombardi e a re Desiderio, personaggio ignoto all'epica di Francia, e da alcuni caratteri organici divenuti poi peculiari dell'epopea cavalleresca italiana. L'altra più grossolana forma idiomatica si trova invece in una vasta compilazione ciclica, nella quale un anonimo giullare veneto raffazzonò racconti francesi intorno a Buovo d'Antona, alla madre e alla giovinezza di Carlomagno, a Uggeri il Danese, alla perseguitata moglie di Carlo, inserendovi anche la leggenda italiana della nascita d'Orlando a Imola.
A questi poemi altri se ne accompagnano che per la ragione della lingua sono detti anch'essi franco-veneti o franco-italiani, e che trattano, ora fedelmente ripetendo racconti francesi e ora con più o meno profonda originalità, di personaggi e fatti della leggenda carolingia o di quelle leggende classiche che il Medioevo aveva foggiato svisando o travestendo a sua immagine i racconti degli scrittori antichi. Un anonimo narrò le imprese giovanili di Ettore (Enfances Hector) e Niccolò da Verona rimaneggib nel suo francese italianeggiante la Farsaglia di Lucano. Con l'Atile di Niccolò da Casola, che ad esaltazione dei suoi signori, gli Estensi, narrò le leggende attilane in un simile linguaggio ibrido, si scende oltre la metà del Trecento e nella bassa valle del Po, dove sarà la fioritura più gloriosa dell'epopea cavalleresca italiana.
Laici o appartenenti al nuovo ordine francescano nato fuori della gerarchia, sono gli autori delle poesie religiose e morali norditaliane; non fallace conferma della tesi che pone le origini della nuova letteratura nel grande rinnovamento spirituale verificatosi dopo il Mille. Ma conferma anche più chiara le viene dalla storia della laude e del teatro sacro.
Quand'anche s'ammetta, com'è naturale, che lirica religiosa in volgare sorgesse ad un tempo in più luoghi, è però certo che fu nell'Umbria la sua prima fioritura rigogliosa per l'impulso venutole direttamente o indirettamente dal gran santo d'Assisi, autore egli stesso di alcune laudes e orazioni latine e di un cantico in volgare detto di frate sole o laudes creaturarum, che è effusione immediata di quell'amore di Dio, per cui egli sentiva affratellate all'uomo nell'unità dello spirito creatore tutte le opere della creazione. Similmente la vecchia consuetudine delle associazioni, anche religiose, divenne generale e prese modi stabili e uniformi dopo che, suscitato dall'eremita perugino Ranieri Fasani (1260), un irrefrenabile ardore di pietà si diffuse dall'Umbria per le terre d'Italia, e le folle, che dapprima erano andate pellegrinando di città in città, disciplinandosi, e cantando sacre laudi, s'ordinarono in compagnie o scuole dette dei disciplinati di Gesù Cristo o dei laudesi, che s'adunavano nei loro oratorî a preghiere, a discipline, ad altre pratiche devote. Verso la fine del sec. XIII ciascuna compagnia ebbe il suo repertorio di laudi da intonarsi nelle varie ricorrenze ecclesiastiche, e i repertorî, modificati nella loro compagine, sminuiti, accresciuti, migrarono di terra in terra diffondendo dappertutto l'uso della laude e insieme un numero considerevole di singole laudi, che ora si trovano, con più o meno profonde alterazioni, oltreché nei laudarî umbri, in quelli d'altre regioni, dal Piemonte all'Abruzzo, dalla Lombardia alle Marche, dal Veneto alla Toscana. Argomento delle laudi sono i fatti della vita di Cristo e dei santi protettori delle confraternite o delle città; metro, la ballata spesso irregolare; fonti, i Vangeli o le leggende agiografiche seguite con pedissequa fedeltà; l'arte assai rozza. Non poche laudi derivano dalla stessa loro fonte forma drammatica; e queste venivano recitate negli oratorî con un rudimentale apparato scenico da più attori truccati secondo che richiedeva la loro parte.
Tali rappresentazioni sacre non erano una novità, perché anche la Chiesa aveva dalla liturgia tratto il cosiddetto dramma liturgico, che metteva sotto gli occhi dei fedeli i fatti della vita di Cristo in forma scenica. In Francia e in Spagna, ampliatosi considerevolmente, esso uscì di chiesa e, assunto l'idioma volgare, diede origine ai misteri. In Italia invece di fronte al dramma liturgico, rimasto tenacemente ligio al latino, nasceva fuori della chiesa, per la diretta elaborazione dei testi evangelici, il piccolo dramma dei disciplinati, e movendo da questa sua autonoma origine, s'avviava a un suo autonomo svolgimento. Di contro alla tradizione teocratica, il laicato, sorto dopo il Mille a governare la società come borghesia comunale, esprimeva anche in quella modesta forma letteraria le rinate energie dello spirito, di cui esso stesso era figlio.
Quasi tutte le laudi uscite in quel primo fiorire della lirica religiosa sono anonime, né hanno caratteri intimi che le differenzino; ma un'impronta individuale distingue dalle altre il centinaio di laudi, estranee alla vita delle confraternite, di Iacopone da Todi (morto nel 1306). La poesia di esse è nel travaglio ansioso dello spirito di Iacopone per trascendere la natura umana e trasfondersi nell'Assoluto, è nell'ebbrezza dell'amore divino, è nella gioia ineffabile dell'inabissarsi, dello scomparire, dell'annichilirsi in Dio. Quando Iacopone teorizza la sua esperienza mistica, la veste di teologo soffoca e nasconde la sua personalità poetica, che viva si manifesta invece nel fare impetuoso e alogico d'altre laudi, le quali paiono esprimere essa stessa l'attualità, piuttosto che la contemplazione estetica, dello spasimo divorante dell'amor divino. Quel che il canzoniere ha di primitivo nella lingua, intrisa (né poteva essere altrimenti alla fine del sec. XIII) di elementi dialettali umbri, nella sintassi, in certo crudo realismo, in certe immagini e simboli materiali, fu scambiato per carattere di popolarita; mentre non è; ché anzi la lingua stessa regolata secondo un'idea di raffinatezza regionale, la rima perfetta, la costruzione sapiente d'ogni laude e d'ogni strofa, le formule dell'amor cortese assunte a cantare l'amor divino, mostrano chiaramente il poeta colto, cui non sono ignoti i progressi tecnici realizzati dall'arte del rimare nella scuola poetica che ebbe da Dante il nome di siciliana.
Copiosa la raccolta delle rime che le appartengono, né vi mancano lampeggiamenti di poesia; il notaio Iacopo da Lentino, Giacomino pugliese, Rinaldo d'Aquino rappresentano talvolta situazioni liriche originali e hanno immagini efficacemente espressive dei loro stati d'animo e perfino accenti di passione schietti e vigorosi. Ma considerata complessivamente come fatto storico, la lirica fiorita alla corte di Federico II e di Manfredi s'aggira tutta nella cerchia dei concetti e delle situazioni proprie della poesia trovadorica, assottigliandosi a stillare le raffinatezze dell'amor cortese col frasario, con le immagini, coi paragoni di codesta lirica. Mentre nell'Italia settentrionale una schiera non scarsa di rimatori, tra i quali si leva alto nella fama dei posteri, grazie alla magnifica figurazione dantesca, Sordello di Goito, seguiva anche nella lingua i modelli venuti di Provenza, alla corte di Sicilia i motivi e gli artifici stilistici della lirica provenzale ricomparvero, insieme con la concezione feudale dell'amore, in un linguaggio che si può dire siciliano illustre, cioè nel dialetto dell'isola conguagliato nelle sue varietà e nobilitato a specchio del latino e del provenzale. Dalla lirica di Provenza furono anche dedotte nella poesia della scuola siciliana le ben congegnate e artificiose strutture della canzone, che vi ebbero modificazioni notevoli, mentre la stanza della canzone, usata isolatamente e in una foggia particolare, diede origine (il che fu probabilmente per opera del notaro da Lentino) al sonetto, forma metrica prettamente italiana, che con vitalità prodigiosa seguì e segue lo svolgimento della letteratura.
Fiorita sotto l'imperiale protezione degli Svevi, in un ambiente estraneo e avverso al rinnovato orientamento sociale e politico del popolo italiano e nutrita di spiriti esotici da una letteratura cresciuta alle corti feudali di Provenza, la scuola siciliana non aveva in sé lievito d'avvenire. Il tributo da essa recato alla preparazione della letteratura nazionale sta principalmente in quelle novità tecniche e nell'avere per prima educato un linguaggio italiano all'espressione di raffinatezze concettuali e alla trattazione di materia nobile e aliena da realistiche peculiarità locali.
Alla caduta della dinastia sveva (1266-68) l'arte del rimare alla maniera dei Siciliani s'era largamente diffusa in Italia ed erano, specialmente in Toscana, numerosi i verseggiatori che ricantavano le sottigliezze dell'amor cortese, anche con più stretta aderenza ai modelli provenzali e con più frequente uso d'insulsi artifici verbali, che non solessero i loro predecessori meridionali, serbando alla lingua una coloritura siciliana, ormai connaturata a quella materia. Novità importante, questi Toscani trattarono spesso argomenti morali e politici in tenzoni o dispute che si svolgono in sonetti a botta e risposta fra due o più rimatori; il che valse ad allargare l'orizzonte della rimeria, accostandola alle realtà della vita e piegandola a una maggior varietà e libertà di lingua e di stile.
Fra questi sicilianeggianti toscani, Chiaro Davanzati, che poetò negli ultimi decennî del Duecento, si distingue per una notevole fecondità e certa grazia disinvolta e immaginosa; ma su tutti primeggia Guittone del Viva d'Arezzo, che in mezzo a molta pedantesca prolissità, a oscure lungaggini dottrinali, a goffe complicazioni stilistiche, mostra una non comune energia fantastica nell'esprimere le sue moralità e i suoi sentimenti d'innamorato e di cittadino. La sua importanza storica è però nell'aver rinvigorito il pensiero e quindi lo stile dell'alta lirica, addestrandola a filare il ragionamento negli ampî periodi latineggianti, talvolta con danno della chiarezza, ma in ogni modo con vantaggio delle strutture logiche delle stanze e delle poesie, salite dall'infantilità mingherlina dei Siciliani a una robusta maturità di costruzioni.
Per entro all'esotismo e al latinismo della scuola poetica siciliana sia meridionale e sia dell'Italia centrale non mancano, e non si possono dimenticare in questo quadro della preparazione letteraria, elementi di poesia popolare o comunque autoctona in vario modo trattati e in vario grado dirozzati. Di sapore popolaresco e giullaresco sono certe poesie toscane a dialogo che svolgono argomenti di tradizione universale, quali il lamento della malmaritata e le smanie della fanciulla che vuole accasarsi; e, più famoso e più antico, il contrasto di Cielo d'Alcamo, che un poeta colto, non ignaro di simili composizioni provenzali e francesi, scrisse verso la metà del Duecento. E spirito di schietta toscanità hanno molti sonetti di scherzo e di motteggio, che s'inframmettono a rime d'altra natura di poeti fiorentini, e quelli che formano la maggior parte del canzoniere di Rustico di Filippo, abilissimo nello sbozzare allegramente scene e figure della vita fiorentina.
Volgendo lo sguardo ad altre regioni e ad altre materie, il frammento d'un trattato d'amore anteriore al 1277, che va sotto il titolo improprio di Lamento della sposa padovana ed è veneziano d'origine, s'avviva pure di qualche motivo e tono di poesia popolare, mentre altri canti che ci vengono da Bologna, hanno ben rilevata un'impronta più bassamente plebea. D'altra parte il vario atteggiarsi dello spirito cittadino dinnanzi ai fatti politici trovava la sua forma umile e di rado efficace in canzoni di cui ci sono giunti frammenti, e in canti giullareschi per lo più narrativi, come il bolognese Sementese de' Geremei e de' Lambertazzi.
Nello sforzo con cui nei primi secoli dopo il Mille lo spirito umano rigenerava sé stesso, quegli uomini sentivano ribollire i femienti profondi della loro storia ed erano in grado di sempre meglio intendere e rivivere il mondo romano, così ricco d'esempî di libera e piena spiritualità. Perciò, accanto agli studî del diritto e della filosofia, rifiorì, manifestazione secondaria della rinascita spirituale, lo studio grammaticale e retorico del latino nelle varie forme del preumanesimo. Legato a un mondo politico e intellettuale già vicino al tramonto, il preumanesimo imperiale ed ecclesiastico, di cui sono cospicui rappresentanti i modelli epistolari di Pier della Vigna e di maestro Berardo da Napoli e di cui si hanno documenti nella storiografia latina dei secoli XII e XIII, non importa allo sviluppo del pensiero letterario italiano, se non cone esperienza tecnica della lingua antica, in analogia con quel che s'è detto della scuola poetica siciliana. Ma nel preumanesimo fiorito all'ombra delle signorie comunali, a Firenze, dove il poemetto De diversitate fortunae di Arrigo da Settimello (circa 1193) afferma modestamente il vigore difensivo dello spirito contro l'avversa fortuna; a Padova, dove un senso di libertà e di carità patria anima un cenacolo di dotti studiosi dell'antico, che fa capo ad Albertino Mussato, l'autore dell'Ecerinis; a Bologna dove nella scabra e talvolta bizzarra latinità dei maestri del dettare (primo tra essi Buoncompagno da Signa) covano, come nel caratteristico latino del guelfo minorita Salimbene, aspirazioni indistinte a forme di stile nazionali, s'annuncia chiara quella reazione all'universalismo del Medioevo onde si genera la letteratura nazionale.
Questo ravvivarsi degli studî del latino, come certo non fu senza qualche efficacia in alcune delle verseggiate manifestazioni del nuovo pensiero, di cui abbiamo parlato (si ricordino, ad es., la perizia costruttiva di Bonvesin, l'annobilimento del dialetto presso i Siciliani, la tecnica del periodo in Guittone), così ebbe un'azione considerevole nel formarsi del pensiero stesso in prosa volgare.
Nel consorzio civile novamente formatosi, il numero dei periti del latino si veniva sempre più diradando, mentre a desiderare di conoscere il mondo romano erano portate le menti da non so quale congenialità. Cresceva così il bisogno dei volgarizzamenti che rendessero possibile ai più la conoscenza di codesto mondo intravisto e sentito come ammirevole. D'altra parte gli esperti del latino, quando prendevano ufficio di volgarizzatori o rifacitori d'opere antiche o medievali, cercavano di riprodurre o quasi senza volerlo riecheggiavano la solenne e colorita maestà e le gravi complessità periodiche dei poeti, degli oratori, dei moralisti latini, e vi si aiutavano anche con i mezzi che loro insegnavano le Artes o Summae dictaminis. Ond'è che le numerose versioni o rifacimenti o compendî d'opere latine (Eneide, Metamorfosi, Arte della guerra di Vegezio, De inventione di Cicerone, Consolazione filosofica di Boezio, Disticha Catonis, trattati morali di Albertano Giudice, ecc.) venivano educando una prosa per costrutti, per ritmi, per colori retorici latineggiante, nella quale si specchiavano insieme atteggiamenti classici e medievali. Tutti gli artifici escogitati nel corso dei secoli dalla retorica del Medioevo confluiscono nel volgare delle lettere di Guittone d'Arezzo, ardui esercizî di stile oscuro e contorto, ricche di consonanze, di ritmi, di giuochi verbali, di peregrinità d'ogni specie; Guido Fava, dettatore bolognese del primo Duecento, nei saggi della Gemma purpurea e dei Parlamenti et epistole adatta al volgare le regole del cursus, mentre frate Guidotto nel Fiore di retorica, compendio della pseudociceroniana Rhetorica ad Herennium, e Brunetto Latini nel commento al primo libro del De inventione, dànno alla loro prosa latineggiante sapore più di classicità che di Medioevo.
Di fronte a questo tipo di prosa stava in quell'età primordiale di cui si sta discorrendo, la prosa semplice e schietta, arieggiante col suo disinvolto e piano periodare il linguaggio parlato, dei romanzi cavallereschi, arturiani, carolingi, classici (Tristano, Fioravante, Istorietta troiana, ecc.); del Novellino, raccolta di agili novelle, le più di soggetto tradizionale; del Libro dei Sette Savi, altra più breve raccolta di novelle inquadrate in una pur tradizionale invenzione; dei cosiddetti Fiori, florilegi di sentenze, osservazioni, paragoni, esempî, derivati da fonti disparate a fine di ammaestramento morale (Fiore di virtù; Fiori e vita di filosofi, ecc.); delle opere di scienza, come la Composizione del mondo dell'aretino Ristoro; delle più antiche cronache, tra le quali va collocata, come certamente autentica, quella fiorentina di Ricordano e Giacotto Malispini. In alcuni dei quali testi opera senza dubbio con la sua limpida andatura analitica l'esempio della prosa francese, spesso fonte anche dei soggetti. Il francese del resto, come la lingua "più dilettevole e più comune a tutte le genti", fu usato esso stesso nel sec. XIII da scrittori italiani in opere romanzesche, storiche, dottrinali: da Rustichello da Pisa in una compilazione di storie della Tavola rotonda e nella narrazione dei viaggi di Marco Polo scritta sotto la dettatura del grande esploratore nelle carceri di Genova; da Martino da Canale in una cronaca dei Veneziani; dal fiorentino Brunetto Latini, cancelliere del suo comune e maestro ai suoi concittadini di politica e retorica, che in francese scrisse una grande enciclopedia d'ognì scienza, intitolata Li livre dou Trésor.
II. Il periodo classico (secoli XIII-XVI). - I primi monunenti della letteratura italiana. Il Guinizelli e la scuola del nuovo stile. - A Bologna, dove intensa ferveva la nuova vita civile e politica e allo Studio glorioso accorrevano lettori e scolari da ogni parte d'Italia e d'oltralpe, l'alta lirica d'amore, di cui i Siciliani avevano elaborato la lingua e la metrica sul vuoto del pensiero e Guittone rinvigorito lo stile con una trasfusione di materia meditativa, produsse il primo fiore della letteratura nazionale per opera di Guido Guinizelli (morto nel 1276), anima di pensatore e insieme di poeta. La sua lingua, ancorché chiazzata di elementi dialettali, è quel volgare illustre che Dante considera espressione d'italianità; il suo concetto dell'Amore inseparabile da cuor gentile, cioè potenza di virtù che l'anima amata rende attuale, è originale applicazione e sviluppo d'una fondamentale dottrina scolastica; le immagini in cui il concetto s'incarna, dal paragone del cor gentile asilo d'amore con la verzura del bosco riparo degli uccelli, alla scena sublime del tribunale di Dio, cui si presenta l'anima del poeta, nella canzone famosa Al cor gentil ripara sempre amore; dalle soavi comparazioni di luminosità celeste e primaverile ai simboli terrificanti d'alcuni pochi sonetti pieni d'incisiva evidenza, sono creazioni d'una calda fantasia che rende primamente sensibile la rinnovata spiritualità umana e italiana.
Alla scuola che fu appunto quella del "nuovo stile", il Guinizelli lasciava l'eredità d'un pensiero capace di svolgersi in altre forme di vita. Seguaci e continuatori egli ebbe infatti a Firenze in un gruppo di poeti fioriti al tempo del secondo popolo e delle riforme democratiche: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni dei Ricevuti, Dino Frescobaldi, Gianni Alfani, Dante Alighieri. Come il Guinizelli, essi rappresentano l'amore ora come strazio dell'anima e smarrimento terribile di tutto il loro essere, e ora come mistica adorazione, anelito all'unione spirituale con l'anima bella della donna amata che, immagine evanescente di santità e di purezza, solleva al cielo il poeta, preso da un ardore ineffabile di bontà e di virtù. E il loro sentimento analizzano scientificamente, ampliando, discutendo, contraddicendo la dottrina guinizelliana e personificando in altrettanti spiriti e spiritelli tutte le facoltà e tutti gli stati dell'anima; maestro di siffatte analisi Guido Cavalcanti, che in una canzone assai divulgata e più volte commentata in latino, mostrò mediante concetti averroistici e metodi scolastici, come amore nasca e tirannicamente operi nelle anime.
Ma se ai contemporanei ligi all'estetica contenutistica del Medioevo, la canzone Donna mi prega parve ammirevole, agli occhi nostri il Cavalcanti si leva alto sui rimatori suoi coetanei, unico degno d'essere accostato quale lirico a Dante, per i sonetti floridi di viva poesia e per le ballate semplici e delicate, dove canta monna Vanna, la Mandetta tolosana e altre donne. La sua fantasia dà forme sensibili al mondo dello spirito analizzato dal filosofo, e le astrazioni vede ode tocca, tramutate in realtà concrete, che si muovono parlano piangono ridono, come persone vive, in scene drammatiche piene d'agitazione, dove amore è rappresentato come passione che strugge e divora, come tragica minaccia di morte. Se, più di rado, il Cavalcanti descrive la bellezza e la grazia della sua donna splendente e operante in terra come angelo, i sonetti si svolgono dolci e sereni nella dolcezza e serenità della visione paradisiaca, e le ballate riproducono con gentilezza squisita tutta la freschezza e l'ingenuo candore della poesia campagnola.
Dante. - Del Cavalcanti fu amico e in sulle prime seguace nell'arte del rimare, Dante Alighieri, la cui vita è nella sua intimità vita possente di pensiero e di passione, che prorompe in un infaticabile, flducioso, ardente apostolato per il trionfo di un'alta idealità morale e politica, perché le circostanze le vietano d'essere anche vita d'azione.
Già nelle liriche che si possono fondatamente ritenere più antiche e che risentono della tradizione poetica siciliana e guittoniana e del convenzionalismo psicologico del Cavalcanti, c'è una soavità spirituale unita a una dolce musicalità in cui pare s'assottigli e sfumi il senso delle parole. Ma la potenza lirica di Dante si manifesta piena dopo che egli, accostatosi al Guinizelli (che saluterà padre delle sue rime dolci e leggiadre, Purg., XXVI, 97-99) nella canzone Donne che avete intelletto d'amore, ha inaugurato il suo "nuovo stile". Allora il motivo della donna-angelo, forma fantastica della dottrina del savio bolognese, si svolge per una serie di sonetti e di canzoni, in cui l'anima del giovane poeta, trepida di vibrazioni mistiche, vive la sua magnifica originalità nella rappresentazione d'un mondo etereo di fantasmi e d'affetti, percorso da una lieve nota d'elegia, che sale talvolta a cupi accenti di tragedia. Più tardi il poeta, ricordando di là dalle teorie del critico, le ansie del suo aspirare ad un'arte che fosse immediata espressione di lui stesso, dirà la gioia della conquista nei versi famosi "I'mi son un che quando Amor mi spira, ecc." (Purg., XXIV, 53-54).
Una trentina delle sue liriche Dante raccolse nella Vita nuova (1293-1294), collegandole mediante prose intese per lo più a far conoscere le occasioni e gli stati di spirito da cui le poesie sarebbero nate. Così il libretto che narra la storia dell'amore di Dante per Beatrice, è la storia dell'intimità del poeta quale egli la vide nella sua fantasia; la storia del nascere e svilupparsi d'un'idealità tra d'amore e di religione, narrata con forme e parole e artifici di mistero, che ci sollevano talvolta nell'atmosfera di sogno che è pure delle poesie. Ma non si può negare che non di rado la prosa con le sottili analisi psicologiche e retoriche e l'intento troppo manifesto di dar rilievo al soprannaturale, rompa l'incanto per cui nelle rime la dottrina del nuovo stile scompariva assorbita dalla grande onda di poesia ispiratrice del giovane meraviglioso. Nuoce alla Vita Nuova che il critico vi stia accanto al poeta.
Negli anni che seguirono alla morte di Beatrice, altre esperienze d'arte e di stile furono tentate dall'Alighieri. Seguendo la teoria estetica del Medioevo, egli approfondiva il carattere pedagogico dell'arte in alcune liriche allegoriche e in altre apertamente dottrinali. Sulle orme del trovatore provenzale Arnaldo Daniello, in quattro rime dette pietrose dal nome o dall'insensibilità della donna, usava uno stile aspro d'immagini realistiche e di suoni forti per cantare un fremente ardore di passione sensuale. Da un litigio con l'amico Forese di Simone Donati prendeva occasione a tre irosi sonetti, in cui la soavità mistica del poeta del nuovo stile scende alla volgarità plebea del becero fiorentino. Infine, coronamento insigne del suo tirocinio di poeta, scriveva la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, nella quale l'allegorismo, il realismo e la perfezione rappresentativa appaiono fusi mirabilmente nell'unità di un'ispirazione drammatica.
Nei primi anni dell'esilio, cui fu condannato nel 1302, Dante pose mano al Convivio, nel quale la tradizione della prosa volgare formatasi nel Duecento sul tipo latino classico e medievale, prende a vivere la vita d'un alto e vigoroso intelletto, e genera il primo grande esempio di prosa dottrinale italiana. Così la cosmopolita scienza scolastica si nazionalizza, inserendosi nella nuova vita spirituale italiana e facendosi "sole nuovo", che illumina il nuovo mondo creato dal fervore della rinascita. Probabilmente nello stesso anno che il Convivio (1307) Dante lasciò in tronco al quattordicesimo capitolo del secondo libro il trattato De vulgari eloquentia, inteso a disciplinare la lingua letteraria italiana. Con esso, nonostante gli errori della sua età, Dante fece opera d'importanza storica insigne; ebbe mirabili intuizioni di verità scoperte dalla moderna scienza linguistica; mostrò di possedere vivo il senso dell'unità spirituale della nazione, colta nel suo maggior segnacolo, la lingua; affermò per l'arte la necessità dello studio allato all'ispirazione, il che fu presagio e forse norma di tutta la grande letteratura italiana.
Opere entrambe di dottrina e d'apostolato, per un fine morale e politico l'una, per un fine letterario e civile l'altra, il Convivio e il De vulgari eloquentia s'interrompono per sfociare nella Divina Commedia, in cui non solo l'austera e acuta e profonda razionalità ma anche la passione ardente e la fantasia illuminatrice, tutto insomma nella sua unità vasta e possente lo spirito di Dante, si rivelava ai lettori. La dottrina medievale dello stile allegorico, che già aveva modestamente servito la scienza enciclopedica di Brunetto Latini nel rimato Tesoretto, e con miglior dignità dato ammaestramenti di religione e di morale nella salda e agile prosa dell'Introduzione alle virtù del fiorentino Bono Giamboni, permetteva a Dante di raffigurare nel viaggio per i tre regni dell'oltretomba, sotto la guida di Virgilio prima e poi di Beatrice, la vita umana guidata ai suoi fini dalle due supreme autorità, l'Impero e il Papato. A questi concetti Dante, cittadino della guelfa Firenze, arrivò per gradi, che la Commedia rispecchia sino alla piena maturità del pensiero, la quale fu alla venuta d'Arrigo VII, quando l'esule credette prossimo il trionfo della giustizia e della pace sulla terra, e per affrettarlo si fece apostolo della sua dottrina e della sua fede politica in un trattato latino - Monarchia - in cui il vigore del sillogismo s'unisce all'ardore della passione, nelle epistole ai principi e ai popoli d'Italia, ad Arrigo stesso, ai Fiorentini, piene di biblica solennità, e nella ferma e precisa profezia del XXXIII del Purgatorio, che il poeta rimava prima che nell'agosto del 1313 la morte d'Arrigo ne frustrasse l'adempimento.
Ripreso e composto in un tempo in cui la più triste realtà negava ogni speranza di bene, e la grande anima dantesca, avida di bene, si struggeva in un'angoscia drammatica, l'Inferno è popolato di figure umane dominate da forti passioni, di grandi caratteri, di taglienti profili di uomini volgari: il dramma dell'anima è nella creazione della fantasia. Imminente, o presente la spedizione italiana d'Arrigo (autunno 1310), il poeta si rasserenava nella speranza fiduciosa, e scriveva il Purgatorio, dove la vita delle ombre, tutta conchiusa nei brevi istanti della loro rivelazione, è una calma e serena malinconia immemore delle passioni mondane: la trepida aspettazione dello spirito creatore è nell'elegia soavemente accorata della creazione. Il Paradiso è l'opera degli ultimi anni; anni di tristezza per le rinnovate condanne della patria implacabile, ma confortati dalla fede nella provvidenza divina, che avrebbe un giorno attuato in una umanità migliore il suo volere, che è giustizia.
Nei suoi ultimi anni il poeta, la cui fama già si diffondeva largamente, ebbe certo a sperimentare la generosità di Cangrande della Scala e di Guido Novello da Polenta. A Verona nel gennaio del 1320 sostenne pubblicamente una tesi di geografia fisica, e ne derivò l'opuscolo, a Dante rivendicato, Quaestio de aqua et terra; da Ravenna, dove pare avesse posto stanza già nel 1318 ed era venerato come maestro, tenne la sua corrispondenza poetica con Giovanni del Virgilio, lettore di retorica a Bologna. Le due egloghe con cui Dante rispose al maestro bolognese, sono documenti d'arte e di vita, singolari di bellezza e d'importanza.
Trecentisti minori. - Mentre il cielo d'Italia era percorso dal sole dell'arte dantesca, bagliori d'arte lo solcavano varî d'intensità e di durata. Venivano dalle rime degli ultimi poeti dello stil nuovo, tra i quali primeggia Cino da Pistoia, nel cui canzoniere il motivo della donna angelicata si vela d'un'ombra di malinconia ora soave ora tragica, ed è manifesta la tendenza a nuove e più umane forme d'analisi psicologica. Venivano dal Fiore, raccolta di coloriti e abilmenie scorciati sonetti, in cui un fiorentino, che invano si tentò identificare con Dante, abbreviò le lungaggini del Roman de la Rose. Venivano dai sonetti dei mesi e dei giorni della settimana di Folgòre da San Gimignano, che trasferiscono costumi e spiriti locali in un mondo più vasto di cortesia e di sollazzo. Venivano da certe prose ascetiche, per lo più toscane, vive d'una freschezza nativa, amabili insieme e potenti nell'espressione del candido sentimento, efficacissime nelle rappresentazioni: i Fioretti di San Francesco, florilegio d'ingenue leggende francescane tradotto o ridotto da un ignoto originale latino; le prediche di fra Giordano da Rivalto; le Vite dei santi Padri, il Pungilingua, lo Specchio dei peccati e altre traduzioni o opere originali del domenicano fra Domenico Cavalca. Venivano da qualche canto storico spirante la poesia d'anime fantastiche che avevano vivo il sentimento dei fatti (la ballata sulla rotta di Montecatini, 1315; il serventese in morte di Cangrande, 1327). Venivano da quella stupenda esposizione di storia vissuta o apologia politica che si voglia dire, che è la Cronaca di Dino Compagni; da scritture storiche fervide di spirito pariigiano, quali le Istorie pistolesi; da quel gran quadro di storia europea accentrato intorno alla storia di Firenze, che è la cronaca di Giovanni Villani. In queste opere di storia l'italianità si fa d'una sublimazione di spiriti locali. Così nel bel canzoniere di Cecco Angiolieri la pretta senesità s'allarga spesso a note di profonda umanità in un originalissimo impasto di tristezza e di comicità, che mal fu scambiato per umorismo.
Naturalmente s'incontrano in quei primi decennî del Trecento, come s'incontreranno ancora per secoli, felici espressioni letterarie di spiriti locali, quali sono molte altre rime giocose e familiari toscane continuatrici di quella che si disse poesia popolare o autoctona del periodo della preparazione. Ma più abbondano opere in cui tradizioni di forma o di pensiero già vecchie, proseguono, senza vere note d'individualità artistica, o con note sì lievi che non importa rilevarle, a vivere la loro vita genericamente italiana o universale. Lo stile allegorico, che Dante aveva piegato a essere quasi forma immediata e necessaria della sua anima, era usato da un anonimo, che potrebbe essere Dino Compagni, a rappresentare in un poemetto in nona rima intitolato L'intelligenza, la dottrina averroistica dell'intelletto possibile; e da Francesco da Barberino in Val d'Elsa a dare ammaestramenti di morale, di creanza e di saggezza nei Documenti d'amore e a compilare una specie di galateo femminile nel Reggimento e costume di donna; opere queste due ultime di singolare importanza storica e pregevoli per qualità d'equilibrio costruttivo, ma lontane dall'arte. Poesia meramente didascalica o per dir meglio, verseggiature di materia dottrinale s'ebbero in quel tempo per opera di Bindo Bonichi, arido e infaticabile moralista nelle sue canzoni; di Iacopo Alighieri, figlio di Dante, autore d'un poemetto enciclopedico il Dottrinale, e di Francesco Stabili detto Cecco d'Ascoli, morto per eretico sul rogo nel 1327, che nell'Acerba accumulò nozioni d'astrologia, di psicologia, di morale, di zoologia, di mineralogia freddamente, aridamente, a mostrare contro Dante, di cui è burbanzoso avversario, che la nuda verità scientifica basta a far poesia. Queste meccaniche compilazioni possono, per la natura del metodo praticato dagli autori, andare insieme con le compilazioni in prosa moralistiche, storiche, novellistiche, quali gli Ammaestramenti degli antichi di fra Bartolommeo da San Concordio, la Fiorita di Armannino giudice, l'Avventuroso Ciciliano, ehe già fu attribuito, erroneamente pare, a Bosone de' Raffaelli da Gubbio. Poveri frutti di povere fantasie, dei quali la storia letteraria deve tener conto per poter vedere e rivivere nella eoncretezza della realtà attuale l'arte dei grandi, che altrimenti sarebbe inafferrabile astrazione.
Il Petrarca. - Da quanto s'è detto deriva che la letteratura italiana non ha Medioevo. Sorta da quella potente rinascita delle energie spirituali umane che all'aprirsi del nuovo millennio crea le unità nazionali, essa si svolge senza soluzioni di continuità sino alla metà del sec. XVI, quando col sorgere del problema critico dell'arte, albeggia il secondo periodo, cui diamo il nome di romantico. Il rinnovamento degli studî classici tra il secolo XIV e il XV fu un tempo consìderato inizio d'una nuova età letteraria succeduta alla medievale, come la fine del secolo XVI inizio d'un'età di decadenza. Divisioni e suddivisioni forse didatticamente opportune, ma storicamente false, perché quel rinnovamento degli studî classici è un fatto secondario, null'altro che la conseguenza della consapevolezza, che primi ebbero gl'Italiani, del nuovo mondo creato a sé dall'umanità dopo il Mille; e la decadenza, cioè il dissolvimento del passato, non può essere contrassegno d'un'età, quando le s'accompagnano nuovi fatti di vita che annunciano e preparano l'avvenire.
Almeno letterariamente il Medioevo era finito col finire del primo millennio, e il preumanesimo (v. p. 934) aveva poco appresso infuso anche negli studî della classicità un fervore di vita, che seguendo lo sviluppo della risorta anima umana, li condusse alla filologia del Petrarca e dei suoi continuatori. Lo spirito vivificatore degli studî classici era in pieno vigore fino dal sec. XII e già Dante aveva affermato non potervi essere buon poeta volgare senza lo studio degli antichi, e confessato d'aver tolto da Virgilio il "bello stile" delle sue liriche. Ciò che di nuovo recò in quegli studî il secolo XIV giunto circa a mezzo il suo corso, non fu se non la consapevolezza dello iato che ormai separava l'antichità dal tempo corrente, consapevolezza che si contrapponeva all'idea e al sentimento degli uomini dei primi secoli dopo il Mille e di Dante stesso, i quali tenevano l'età loro e la letteratura latina e volgare del loro tempo come continuazione non mai interrotta della vita politica e intellettuale antica. Naturalmente codesta consapevolezza non poteva essere, prima che il nuovo mondo fosse stato creato; e primo la ebbe il Petrarca. Conseguenze ne furono appunto il sogno ch'egli per primo sognò, d'un ritorno all'antico, quale si cominciava a vederlo di là da un millennio di barbarie, così nella vita come nella letteratura, e il rinnovato metodo degli studî intesi a scoprirlo nella sua interezza e purezza.
Francesco Petrarca fu un uomo fortunato d'agi e d'onori; eppure una perpetua scontentezza di sé, una malinconia senza perché, un insanabile tedio della vita lo tormentava assiduamente; stato d'animo che diceva "accidia" e che analizzò acutamente in pagine stupende del Secretum (1342-43) e in alcune delle innumerevoli epistole da lui adunate nelle due grandi raccolte delle Familiari e delle Senili. Spirito di forte e piena umanità, epperò avverso al razionalismo e al vuoto formalismo degli scolastici che nella filosofia avevano dimenticato l'interesse umano (Invectivarum libri in medicum, 1355; De sui ipsius et multorum ignorantia, 1368), egli cercava una scienza che rivendicando la libertà e la dignità dello spirito, movesse dall'uomo alla conoscenza del mondo; perpetua assillante aspirazione, che, inappagata, spingeva il Petrarca a rifugiarsi nella fede avita, in lui integra e salda, ma lasciava insoddisfatto il suo bisogno di razionalità, creando il perpetuo disagio di quell'anima, scettica di fronte alla scienza tradizionale e invano anelante a una nuova.
Oltre al Secretum, il De otio religiosorum il De vita solitaria (1346-56) riflettono le incertezze dell'anima petrarchesca tra le idealità dell'asceta e la prepotente sua umanità. Ma con più chiara evidenza rivela quello che è storicamente l'aspetto più importante dell'anima petrarchesca, il ponderoso trattato De remediis utriusque fortunae (1360-1366) pervaso sì di spiriti ascetici, ma inteso a risolvere razionalmente il problema della felicità, cercando nella stessa anima umana i conforti al dolore e i freni contro l'esultare della gioia; libro di umanità, la cui enorme fortuna, pari se non superiore a quella del canzoniere, si spiega solo considerandolo appunto come espressione del primo sforzo critico verso l'interpretazione di quel nuovo mondo morale, di cui la storia dava ormai la coscienza intuitiva.
Fattasi riflessa nel Petrarca, fu appunto questa coscienza che gli rivelò il mondo antico non più come una forza immanente nella vita quotidiana, ma come un mondo per ricchezza e vigore di umana spiritualità affine a quello nuovamente creato, cui si dovesse tornare col pensiero e con l'atto per via di meditazione e di studio. Onde di là dal segno tracciato dai preumanisti veronesi e padovani, egli rinnovò i metodi degli studî sull'antica letteratura romana, ricercatore e scopritore di manoscritti e d' opere perdutesi di vista, acuto distruttore di leggende abbarbicatesi durante il Medioevo alla storia dell'antichità, felice iniziatore della critica diplomatica e della critica dei testi, rinnovatore con caratteri d'individualità dello stile latino, primo metodico fautore dello sforzo verso una visione schietta e genuina della classicità e del sogno antistorico d'una restaurazione classica nella lingua, nel costume, nella politica. Dal quale sogno nacque, tra il 1338 e il 1340, il duplice disegno di cantare Scipione Africano, quale eroe nazionale sì dei Romani e sì dei loro eredi cristiani, e di scrivere una storia di Roma per biografie da Romolo a Tito; l'Africa e il De viris illustribus.
Di esempî romani è fatta in prevalenza anche la parte compiuta dei libri Rerum memorandarum; e Roma è sempre il centro e la meta onde s'irradia e cui fa capo il pensiero politico del Petrarca; pensiero medievale quando sollecita Carlo IV a venire in Italia per consacrare in Roma la sua dignità d'imperatore; pensiero grave d'avvenire quando sente nella Roma di Cola la forza unificatrice d'Italia. E a Roma egli richiama con voce infaticata, nelle epistole metriche e nelle prosastiche, i papi fuorusciti, e vede nella loro assenza la causa della decadenza e della corruzione della curia, aspramente sferzata nelle epistole Sine nomine, in due egloghe e con più impetuosa veemenza in tre sonetti famosi.
Il sogno della restaurazione classica non poteva peraltro, in un'alta mente e consapevole della realtà, come quella del Petrarca, essere rinnegamento completo della storia. La sua umanità di toscano del Trecento non poteva rinunciare a quella ch'era la necessaria sua forma storica, il volgare toscano; e in toscano egli scrisse infatti non pure le rime d'amore, che sono la parte eccellente del canzoniere, ma rime d'argomento politico e familiare, e i Trionfi, poema di soggetto religioso-morale.
Il canzoniere è la rappresentazione dell'intimità spirituale del Petrarca quale egli la vide atteggiarsi e svolgersi, quando si risolse a raccogliere e mano mano raccolse e ordinò le sue "rime sparse"; rappresentazione che nasce e si definisce nel contrasto con quella, appena adombrata dapprima e poi via via sempre più rilevata dell'intimità spirituale di Laura, in un ambiente tra d'idillio e di elegia squisitamente disegnato, colorito e musicato. Finissima la psicologia indagatrice delle più riposte e sottili reazioni dell'anima alle più varie e delicate impressioni del mondo esterno; di novità e d'efficacia magnifiche le immagini rivelatrici di quella psicologia; non sempre tanta e tale la vigoria dell'interno dettare che non se ne stacchi la forma a vivere una sua vita autonoma, ora stupendamente luminosa e fiorita, ora arida e fredda nella ricercatezza, nell'affettazione, nel bisticcio, nel giuoco di parole. Nei Trionfi il Petrarca immaginò una storia ideale del suo spirito che dai travagli mondani sarebbe salito alla placida serenità della contemplazione celeste, e questa storia rappresentò in una serie di visioni allegoriche, nelle quali è evidente l'azione del modello dantesco. La freschezza elegante delle particolarità descrittive avvolte in un'onda soavissima di musicalità, può far dimenticare nei Trionfi l'aridità fredda del racconto, che troppo spesso si esinanisce in cataloghi di nomi; ma poesia vera e viva è soltanto là dove il lirismo dell'anima petrarchesca prorompe nel ricordo e nella rappresentazione di Laura.
Il Boccaccio. - Non meno viva, ma più ingenua e intuitiva coscienza d'umanità ebbe Giovanni Boccaccio, poco più giovane del Petrarca, e al Petrarca legato da vincoli d'amicizia e di devozione. Tradizioni e nuovi moti letterarî confluiscono in lui da ogni parte. La leggenda francese di Florio e Biancifiore dà l'argomento al Filocolo; dai medievali travestimenti dei racconti troiani salta fuori il Filostrato; intenzioni epiche ispirano il Teseida; elementi danteschi nutrono l'Ameto, l'Amorosa visione, il Corbaccio; sapore di Petrarca e più di rado di Dante hanno le liriche; Ovidio fornisce di motivi e forme il Ninfale fiesolano e la Fiammetta. Ma c'è dovunque lui, messer Giovanni, nella rappresentazione della società galante e conversevole del Filocolo e dell'Ameto, nella pittura delle volgari furberie e corruttele del Filostrato e del Corbaccio, nello svolgimento delicato della passione idillica del Ninfale, nelle sottili analisi psicologiche e nelle enfatiche confessioni della Fiammetta, in qualche nota commossa del Teseida, nel calore sensuale e nel colore paesistico di molte liriche.
Quasi tutte queste opere, altre di prosa e altre di poesia, precorrono e preparano il capolavoro, composto tra il 1348 e il 1353. Il Decameron è rappresentazione magnifica di vita su motivi quasi tutti tradizionali, dal grande artista infusi d'un'anima nuova e rappresentati con efficacia stupenda. Ogni ceto sociale, ogni variazione della moralità, ogni grado della furberia o dell'imbecillità umana, tutta la vita nel suo complesso è raffigurata nel gran libro; ma con vivezza e verità impareggiabili soprattutto la comune realtà quotidiana e di essa gli aspetti e i personaggi che siano di per sé o le situazioni rendano ridicoli. Quel mondo comico, che pur aveva esilarato le affaticate anime medievali, ma finora non aveva avuto se non frammentarie e imperfette espressioni d'arte, riceve ora forma perfetta dentro all'organica unità d'una grande opera di poesia, dove il racconto così dell'avventura amorosa, della beffa, del motto, come del dramma prende una nitidezza e una compostezza ammirevoli, e tutto circonda e nobilita uno splendore d'arte classica novissimo nella letteratura volgare.
Codesta classicità che analizzata, è colore, linea, equilibrio di rappresentazione, sintassi, ritmo, organamento di periodo, non è nel Boccaccio calcolato artificio di mente dotta, ma per lo più spontaneità d'artista, che riesce a fare del suo bel fiorentino una lingua capace delle solennità e luminosità stilistiche e delle armonie del latino, e che gioisce della sua bella creazione e della sua virtuosità. Ma è classicità, come puro senso della forma, anche la disinvolta semplicità in cui la prosa del grande novellatore si snoda quando la pompa retorica vien meno e il periodo corre breve e leggiero e dalle frasi della viva lingua fiorentina, dagl'idiotismi d'altri dialetti, dai proverbî popolari balzano stupendamente coloriti i caratteri dei personaggi e delle scene.
Vero buongustaio della poesia, il Boccaccio cerca di far rivivere nelle stesse sue opere volgari quella varia bellezza che avidamente assaporava nella letteratura classica. Nelle sue scritture latine d'arte (epistole, egloghe) la lingua è più venata di medievalismo che non sia nel Petrarca; in quelle di dottrina (De genealogiis deorum gentilium, De casibus virorum illustrium, De claris mulieribus, De montibus, silvis, ecc.) il suo scopo non è tanto di ricostruire nella sua genuinità il pensiero antico (non sdegna neppure fonti medievali), quanto d'intendere e d'offrire agli altri modo d'intendere i poeti antichi. Assai meno filologo del Petrarca, egli è più di lui nella storia, dalla quale il grande Aretino si astrae col suo sogno di restaurazione classica, senza accorgersi che quel sogno nasce appunto dal nuovo mondo creato dall'età immediatamente anteriore alla sua, mondo nel quale e del quale egli vive.
Trecento e Quattrocento volgari. - Morti il Petrarca e il Boccaccio, Franco Sacchetti lamentava mancata ogni poesia e vuote le case di Parnaso. Difatti per poco meno d'un secolo mancarono all'Italia i poeti, pur avendo essa avuto gran copia di scrittori in verso e in prosa e taluno non privo di qualche spirito di poesia.
Dante, il cui poema era letto pubblicamente nelle chiese e negli studî, ebbe commentatori numerosi in latino e in volgare fino alla metà del sec. XV, e imitatori, che della Commedia ripresero le linee schematiche e gl'intenti didascalici. Fazio degli Uberti nel Dittamondo inquadrò in un viaggio, immaginato a simboleggiare la sua conversione morale, un trattato di geografia in terzine; Federico Frezzi nel Quadriregio, alle immagini e personificazioni di carattere medievale e dantesco mescolò qualche figurazione allegorica di tipo boccaccesco per rappresentare concetti morali; Dante, il Boccaccio dell'Amorosa visione e il Petrarca dei Trionfi diedero motivi e fogge alla Philomena di Giovanni Gherardi da Prato; Matteo Palmieri trovò modo di esporre una teoria neoplatonica sulla provenienza e le sorti delle anime umane narrando un suo viaggio nei Campi Elisi, per le sfere dei pianeti e degli elementi e nelle "mansioni" dei vizî e delle virtù, e più altri andarono poveramente danteggiando e dove il Petrarca e il Boccaccio avevano danteggiato, accostandosi anche a loro.
In questi poemi e in alcune liriche del primo Quattrocento (Cino Rinuccini) la grande arte dantesca scendeva a fatto di cultura, buono a nutrire codesti pedissequi, come la finezza psicologica del Petrarca forniva di temi e di artifici i poveri canzonieri d'Antonio da Ferrara, di Simone Serdini detto il Saviozzo da Siena, di Buonaccorso da Montemagno, dell'aretino Rosello Roselli, di Giusto de' Conti da Valmontone e di molti altri poetanti d'amore fra la metà del sec. XIV e la fine del XV. Una gretta erudizione classica che s'assottiglia in filastrocche di nomi, una fatua ricerca di difficoltà tecniche, un cristallizzarsi di certi motivi in generi topici (lamenti, disperate) caratterizzano codesta povera lirica di tradizione letteraria. Alla quale alcuni verseggiatori, capeggiati dal ferrarese Antonio Tebaldeo e da Serafino Ciminelli dall'Aquila credettero, negli ultimi decennî del Quattrocento, dar nuovo vigore mediante le lambiccature di pensiero, le arguzie, le esagerazioni, le stranezze cui trassero le petrarcherie ormai vuote d'ogni significato ideale.
Se si voglia trovare meno scarsa la vena dell'ispirazione e meno sterile la fantasia, conviene rivolgersi alla lirica, che musicata dai rimatori stessi o da maestri di professione, era destinata ai giocondi trattenimenti della buona società; alla lirica amatoria d'intonazione popolare, e a quella lirica borghese o familiare, che continua, ormai nel quadro della letteratura italiana, tradizioni locali. Sono del primo genere le ballate, i madrigali, le cacce, le frottole giullaresche toscane dell'estremo Trecento e del primo Quattrocento (graziosissime quelle di Franco Sacchetti e di Alesso Donati), le canzonette veneziane, dette anche giustiniane da Leonardo Giustinian, che ne fermò i modi e i toni, e verso la fine del sec. XV le agili barzellette (dicono frottole anche queste); tutti brevi componimenti, che trattano motivi d'amore o rappresentano vivaci scene, spesso a dialogo, ora con un amabile colorito idillico, più comune nei Toscani, ora con garbato e talvolta birichino realismo. Di sì ben indovinato tono popolare sono alcuni strambotti (veramente ottave a tre rime) dello stesso Giustinian, e di qualche altro verseggiatore colto, che il popolo li fece suoi e li canta ancora, diffusi in più regioni d'Italia; ma maggiore è il numero degli strambotti che rimatori della scuola di Serafino Aquilano, e Serafino stesso complicarono di tutte le leziosaggini e le stramberie, che come s'è detto, furono da loro introdotte nella lirica petrarchesca. Della lirica borghese, infine, scherzosa e satirica, bonariamente narrativa e pianamente didascalica, innumerevoli furono i dilettanti specialmente fra i trecentisti e i quattrocentisti toscani. Famoso fra i trecentisti Antonio Pucci narratore in poemetti e serventesi dei fasti e nefasti della sua terra; e tra i quattrocentisti il barbiere Domenico di Giovanni detto il Burchiello, narratore allegro delle traversie della triste sua vita, maestro di satiriche trovate, cultore principale d'una oscura maniera di poesia, che non è se non buffonesca infilzatura di frizzi e riboboli e idiotismi, e che da lui si disse burchiellesca. Toscani anche i due suoi principali seguaci, Bernardo Bellincioni e Antonio Cammelli, detto dalla sua patria il Pistoia.
Quantunque occorra guardarsi dal confondere l'interesse storico onde hanno rilievo nella lirica del Trecento e del Quattrocento alcune rime d'argomento politico, con i loro pregi d'arte, non si può negare un certo vigore espressivo ad alcune canzoni di Fazio degli Uberti e di qualche altro verseggiatore, ispirate dalle spedizioni di Carlo IV in Italia; a rime di qualche fiorentino quattrocentista sulle guerre della sua patria contro i Visconti, e ai numerosi sonetti con cui il Tebaldeo, il Pistoia e altri accompagnarono i fatti della spedizione di Carlo VIII e le vicende politiche d'Italia allo scorcio del sec. XV e al principio del XVI.
Le forme che il Duecento e il primo Trecento avevano dato al pensiero e al sentimento religiosi rinati dopo il Mille a nuova profondità e intimità (candore di prose, lirismo di laudi), seguitano, via per il sec. XIV e nel XV, ad accogliere l'attività fantastica, per lo più modesta, delle anime pie, affinandosi, se non sempre perfezionandosi, tecnicamente e talvolta aprendosi all'espressione del riabilitato senso d'umanità. Il fiorentino Iacopo Passavanti, frate domenicano, nello Specchio di vera penitenza dà ammaestramenti d'ascetismo rincalzati d'esempî leggendarî, in uno stile limpido, robusto, coerente, che ricorda il Boccaccio; Caterina Benincasa da Siena, anima fervida di misticismo e mirabile di coraggio per il trionfo delle sue idee, in più centinaia di lettere spesso frementi d'eloquenza calda e vigorosa, che si forma in immagini di sapore biblico e in artifici dai critici della parola astratta paragonati a secentismi, propugna la crociata, la riforma della Chiesa e il ritorno della sede pontificia a Roma; discepolo di lei, Giovanni Dominici avviva dell'ardore comunicativo d'una moralità profonda le sue prose di spigliata fiorentinità (Governo di cura familiare, Libro dell'amore di carità, prediche), mentre dalla sua consuetudine con la latinità dei Padri e degli scrittori ecclesiastici deriva certa enfasi e abbondanza di stile; simile in questo al Savonarola, la cui predicazione, solenne per l'uso d'allegorie bibliche, terribile nella descrizione dei flagelli minacciati alla Chiesa e al mondo, gagliarda per la solidità dei ragionamenti propugnanti riforme morali e politiche, commosse profondamente Firenze verso la fine del sec. XV.
Dalla semplicità e dalla schiettezza delle lettere familiari e delle ricordanze domestiche del Tre e del Quattrocento non s'allontana invece la prosa delle prediche di San Bernardino degli Albizzeschi da Siena, che sferza con vigore d'eloquenza i vizî dei suoi contemporanei, spesso valendosi d'immagini tratte dalla più umile realtà della vita e di novellette argutamente narrate, e dappertutto trasfondendo il calore e il candore della sua fede. Schietta, calma, perspicua è anche la prosa delle pie leggende e delle vite dei santi, che però nel sec. XV va assumendo certa relativa complessità di costrutti e aggiustatezza di legamenti sintattici, e talvolta manifesta lo spirito dei nuovi tempi nella cura di ben determinare le notizie leggendarie, quasi tentando di umanare il fantastico soprannaturale. È di questo tipo la Vita del beato Colombini, scritta sulle tracce d'un testo latino da Feo Belcari, traduttore o riduttore d'altre prose ascetiche, autore di sonetti, di laudi, di rappresentazioni sacre.
Le laudi sacre continuarono a moltiplicarsi dovunque erano confraternite devote, giù per i secoli XIV e XV, divenendone più intensa la produzione quando speciali circostanze ravvaloravano nelle folle il sentimento religioso, come fu a mezzo il sec. XIV, quando il beato Giovanni Colombini suscitò un nuovo fervore di pietà (laudi del Bianco da Siena), e negli anni a cavaliere tra quel secolo e il XV, quando proruppe nell'Italia settentrionale e centrale il cosiddetto moto dei Bianchi, al quale forse è dovuta, chiunque ne sia l'autore, la laude Di', Maria dolce, con quanto disio, bellissima per la fusione dell'ardore religioso con un soave sentimento d'umanità. Questo sentimento appunto e una crescente regolarità di forme sintattiche e metriche caratterizzano le laudi che furono composte nel Quattrocento, forse in più gran numero che da altri, dal Belcari e da un altro fiorentino, Francesco di ser Albizzo.
Accanto alle laudi liriche s'erano diffuse dall'Umbria nelle regioni contermini le laudi drammatiche, dalle quali ha origine, come già s'è accennato, il teatro sacro. Di questo l'Umbria stessa, l'Abruzzo, Roma, Firenze ci hanno tramandato documenti quattrocenteschi di notevole ampiezza; assai più numerosi i fiorentini, i quali, se ne togli il metro, che in essi è l'ottava, mentre negli altri la sestina di endecasillabi, non sono dissimili, quanto a struttura, da quelli delle altre regioni.
Argomento delle rappresentazioni sacre sono fatti della vita di Cristo o storie dell'antico testamento o leggende di santi, tutto sceneggiato pedissequamente sulle tracce della fonte scritturale o agiografica. L'azione, meglio il dialogo, ché d'una vera e propria azione nei drammi sacri quattrocenteschi non si può parlare, passa continuamente da luogo a luogo e comprende periodi di molti e molti anni; alle quali condizioni del testo era opportunamente coordinato l'assetto scenico. Le ragioni della storia sono allegramente calpestate, onde abbondano i più strani anacronismi, specialmente in certe scene di costume, intramesse con intenti comici o satirici. Ma tutto ciò non toglierebbe valore d'arte al teatro sacro, se esso avesse intima forza drammatica, se i caratteri fossero rappresentati con intuito psicologico e i fatti con potenza di scorci ed efficacia d'espressione. Tra gli autori, anonimi i più, alcuni pochi noti anche per altre scritture (Feo Belcari, Pierozzo Castellani, Lorenzo il Magnifico, ecc.), mancò il genio creatore che potesse essere il Calderón o lo Shakespeare italiano. La libera genialità del Poliziano plasmò nelle forme del teatro sacro popolaresco il delicato pathos idillico-elegiaco della sua anima di poeta, creando l'Orfeo; la pedanteria classicheggiante di qualche altro poeta o di mezzi poeti o di semplici verseggiatori pretese disciplinarle adottando talora la divisione in atti, attenuando l'inverosimiglianza dei bruschi passaggi di luogo in luogo e di tempo in tempo o introducendo l'uso dei cori e dei prologhi di tipo classico (Timone del Boiardo; Cefalo di Niccolò da Correggio; Sofonisba di Galeotto del Carretto; Panfila del Pistoia, ecc.). E la sacra rappresentazione andò a morire nei presepî e negli oratorî dei conventi o in spettacoli sacri popolari, che ancora sopravvivono in alcune regioni d'Italia.
La letteratura cavalleresca, cominciata francese o franco-veneta nella Marca trevisana e migrata già al principio del Trecento in Toscana (abbiamo ricordato a pag. 934 il Fioravante e il Tristano riccardiano ad esempio di prosa semplice e schietta), continuò con rigogliosa fioritura di poemi in ottave e di racconti in prosa nell'Italia centrale nei secoli XIV e XV. S'ebbero allora per il ciclo carolingio poemi quali la Spagna, l'Uggeri il Danese, il Fierabraccia, l'Aspromonte, e romanzi in prosa, quali una storia di Buovo d'Antona, le Storie di Rinaldo, il Viaggio di Carlomagno in Spagna e, più famosi e più lungamente vitali (si ristampano e si leggono ancora), I Reali di Francia, vasto romanzo ciclico di Andrea di Iacopo da Barberino in Valdelsa. S'ebbero per il ciclo bretone, più gradito forse ai cavalieri e alle dame delle corti che al popolo minuto, traduzioni prosastiche di romanzi francesi, e poemi e poemetti su Febusso il forte, su Lancilotto, su Tristano, e altri, come il Gismirante e la Historia della reina d'Oriente di Antonio Pucci già ricordato, in cui le favole bretoni sono liberamente rimaneggiate e trasferite a personaggi diversi dai primitivi protagonisti. Con i quali ultimi poemetti, cose estranee all'arte epperò facilmente suscettibili di classificazione, s'entra nel genere delle novelle versificate, che numerose ci lasciarono i secoli XIV e XV, alcune composte da cantastorie plebei, come la Istoria di Ottinello e Giulia e quella di Campriano contadino, e altre da verseggiatori più colti, come la storia di Maria per Ravenna o la riduzione in ottave della boccaccesca novella di Ghismunda fatta dal fiorentino Girolamo Benivieni.
Ma più che in simili versificazioni la tradizione novellistica del Boccaccio si continuò in parecchie raccolte, che, lontane per evidenza d'arte dal Decameron, lo ricordano per la cornice in cui le novelle sono inquadrate e per certa sostenutezza di stile, che si fa quasi sempre goffaggine e talvolta arrembata sgrammaticatura. Una cinquantina di novelle, le più d'argomento storico, sono narrate freddamente nelle venticinque giornate del Pecorone da un ser Giovanni Fiorentino. Centocinquantacinque immagina di narrarne a una brigata viaggiante l'Italia nel 1374 per fuggire la pestilenza, lo speziale lucchese Giovanni Seicambi; il che, se fosse vero, darebbe vanto di grande pazienza a quella brigata, tant'è privo di spirito il racconto e tanta è l'asma dei periodi invano anelanti a un compimento. Meno boccaccesco è il quattrocentista senese Gentile Sermini, che di raro costruisce novelle complesse e per lo più ama i racconti semplici e scipiti narrati con fastidiosa prolissità e grossolana volgarità. Narratore scialbo d'aneddoti, facezie, motti scherzosi è Sabbadino delli Arienti, la cui raccolta, le Porretane, composta nel 1478, è di poco posteriore al Novellino di Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano, messo a stampa nel 1476. È questa una raccolta di cinquanta novelle, che riprendono motivi tradizionali con l'intento di dilettare, d'ammaestrare e di satireggiare, e s'aggruppano in cinque parti, mentre una chiusa moraleggiante collega ciascuna novella alla successiva. Fiacco nella figurazione dei caratteri, Masuccio ha qualche efficacia nella rappresentazione delle scene e nello sviluppo delle azioni.
Con migliore diletto che queste ed altre imitazioni boccaccesche (romanzi, come il Paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato del primo Quattrocento e il Peregrino di Iacopo Caviceo dell'estremo; dialoghi ed epistole modellati sulla Fiammetta), si leggono le novelle di Franco Sacchetti composte nei due ultimi decennî del sec. XIV e narrate alla buona, nel vivo idioma fiorentino; per lo più aneddoti semplici e spiritosi efficacemente rappresentativi della realtà contemporanea. Di tipo poco diverso sono alcune novelle spicciolate quattrocentesche, come quella del Grasso legnaiuolo, forse d'Antonio Manetti, e quella di Giacoppo, che può fregiarsi del nome del Magnifico.
Rimati e prosastici sono anche i racconti storici del Tre e Quattrocento: per lo più in ottave quelli popolari destinati alla recitazione, come i sette cantari della guerra di Pisa del 1362 d'Antonio Pucci e gli undici già attribuiti a Niccolò Ciminello abruzzese sulla guerra dell'Aquila (1424); per lo più in terzine quelli destinati alla lettura, come il Centiloquio dello stesso Pucci, riduzione metrica della cronaca del Villani, e L'altro Marte. in cui il perugino Lorenzo Gualtieri detto Lorenzo Spirito cantò i fatti dei tre Piccinini sino alla battaglia di Troia (1460). Naturalmente abbondano poi le cronache in prosa volgare o, che fa lo stesso, latina alla foggia medievale, aliene da ogni sforzo di sintesi, senz'altro ordine che il cronologico. Non v'è città che non ne abbia almeno una; ma prive come sono, non solo d'ogni valore ma d'ogni intenzione letteraria, non richiedono che qui se ne parli. Solo occorre ricordare, come uno dei maggiori prosatori del Quattrocento, Giovanni Cavalcanti, che nel narrare con spirito mediceo i mutamenti dello stato dal 1423 al 1440, mostrò d'avere una concezione insolitamente larga e penetrante dei fatti, la quale gli valse l'onore d'essere fonte del Machiavelli, e i fatti seppe talvolta rappresentare in pagine potenti. Tra gli scrittori di storie in volgare bisogna ricordare anche gli autori di biografie, principale Vespasiano da Bisticci, nelle cui Vite d'uomini illustri ci sfila dinnanzi una solenne schiera di papi, prelati, principi, letterati, uomini di stato italiani e stranieri, direttamente conosciuti, i più, dal bravo libraio fiorentino e da lui rappresentati con ricchezza di particolari pittoreschi, in uno stile di solito semplice e piano, talvolta colorito d'arguzia bonaria.
L'umanesimo latino e l'umanesimo volgare. - Accanto a questa copiosa letteratura in volgare, che continua nei secoli XIV e XV la tradizione instauratasi col primo sorgere della letteratura italiana, corre la letteratura di dottrina in latino, alla quale il Petrarca aveva insegnato i metodi della ricerca ricostruttrice dell'antico e additato la meta nel sogno d'una restaurazione classica. Le due correnti rappresentano due tappe del progressivo sviluppo dello spirito italiano: correlativo letterario del comune, generatore della signoria, la prima (letteratura in volgare); correlativo della signoria la seconda; due tappe antitetiche, se vogliamo, ma appunto per questo generatrici di progresso. La storia nel suo fatale andare travolse e superò l'antitesi, lasciando a gingillarsi col loro feticcio, il latino, quei superficiali osservatori, che l'antitesi avevano visto come opposizione statica e s'erano cullati nell'illusione che il sogno antistorico potesse attuarsi.
Perché, come s'è detto, gli studî dell'antichità erano risorti sino dai primi secoli del nuovo millennio come conseguenza di tutto il rinvigorimento delle umane energie spirituali, già i primi antesignani del movimento suscitato dal Petrarca amarono chiamarli studia humanitatis, cioè studî intesi al perfezionamento integrale dell'uomo, atti a formare una cultura che non fosse soltanto dottrina, ma anche moralità e bellezza, vita insomma nella sua unitaria pienezza. E "umanista" fu dapprima, anche se la parola entrò nell'uso solo più tardi (forse verso la fine del sec. XV), chi mediante gli studî del classicismo aspirava a un fine di compiuta educazione dell'uomo per un intento di riabilitazione dello spirito, elevato a dignità di creatore della vita e della storia. Di tal natura fu la scuola ferrarese di Guarino Veronese e più quella mantovana di Vittorino dei Rambaldoni da Feltre.
Tutti assorti nella contemplazione dell'antico, gli umanisti miravano con assidue indagini e con crescente finezza di critica a restituire all'antichità le sue genuine sembianze. Per le scoperte di Coluccio Salutati, di Poggio Bracciolini, di Giovanni Aurispa e d'altri molti, il patrimonio letterario latino s'accrebbe fino ad essere quale rimase fino ai nostri giorni. I testi, corretti nella lezione, furono dottamente commentati con ricchezza d'osservazioni grammaticali, filologiche e storiche, e nella lettura di essi gli umanisti educarono l'intelletto, il gusto e l'orecchio alle forme e ai modi del latino classico. Per la venuta di Manuele Crisolora, maestro di greco a Firenze negli ultimi anni del sec. XIV, prosperarono anche gli studi ellenistici e si formò una scuola numerosa di valenti traduttori, che ebbe rincalzo da successive migrazioni di Greci dall'Oriente in Italia. Il concilio tenutosi a Ferrara e a Firenze (1438-39) per l'unione della chiesa greca con la latina, fu occasione che s'iniziassero e s'approfondissero gli studi sulla filosofia greca e indirettamente che si formasse una scuola neoplatonica (Accademia fiorentina) per opera di Marsilio Ficino, al quale si deve il primo tentativo di sistemare filosoficamente l'umanesimo o quella scienza dell'uomo di cui il Petrarca aveva avuto un ansioso presentimento.
Mentre con l'indagine filosofica, con le traduzioni dal greco, con l'interpretazione dei sistemi filosofici gli umanisti s'affaticavano a dare al mondo antico il suo aspetto genuino, con le opere originali aspiravano a rinnovare la letteratura nelle forme e nella lingua dei classici. Leonardo Bruni d'Arezzo narrò la storia di Firenze dalle origini al 1402 con penetrazione delle cause umane e della logica connessione dei fatti, ma traducendo fatti e costumi di medievali in classici per fuggire i neologismi e rispettare la dignità della storia. Questa mancanza del colore del tempo è in generale il carattere di tutte le storie umanistiche d'intento letterario. Così nei trattati di morale e di politica i precetti e gli esempî provengono dal mondo antico, e la forma, espositiva o dialogica, è plasmata sui modelli di Cicerone e di Seneca. Pochi, e sono dei più antichi, sentono qualche soffio di vita nuova, com'è di quelli di Poggio Bracciolini, che vi trasfonde l'onda indiavolata del suo ingegno arguto, vivido, effervescente. Egli è pure il più felice tra gli epistolografi latini del Quattrocento, che tanti e tanti ne ebbe, seguitatori dapprima della maniera più grave di Seneca, di Plinio e del Petrarca, poi di quella più agile di Cicerone. Vuote esercitazioni stilistiche sono per lo più le orazioni accademiche degli umanisti, mentre le necessità della storia vincevano l'astratto sogno della restaurazione classica nelle orazioni del genere deliberativo, le quali, anche se scritte in latino, avevano - quelle tenute da Enea Silvio Piccolomini, p. es. - un sostanzioso contenuto politico e una salda compagine di pensiero. Orazioni destinate alla lettura e modellate sulle antiche orazioni giudiziarie erano le invettive, con cui gli umanisti sfogavano il loro maqlanimo contro gli avversarî, caricandoli di volgari insulti e atroci calunnie. Famose le polemiche del Filelfo e del Valla con Poggio per questioni personali e di metodo; e quella di Poggio con Guarino disputanti se superiore fosse Cesare o Scipione Africano.
L'epica latina, iniziatasi con l'Africa, riprese di rado argomenti di storia antica o di mitologia pagana; preferì argomenti contemporanei, che offrissero agli autori il destro di adulare i mecenati da cui aspettavano compensi: Francesco Filelfo, maestro di quell'arte vilissima, compose senza finirla una Sforziade tra virgiliana e omerica, piena di narrazioni mitologiche, e Basinio Basini un'Esperide, dove con larga copia d'imitazioni omeriche sono cantate le imprese di Sigismondo Malatesta contro gli Aragonesi. Facile nella verseggiatura, ma fredda e povera di colore e d'eleganza è la lirica latina dell'ultimo Trecento e del sec. XV, ligia alle forme dell'epigramma e dell'elegia secondo Marziale, Ovidio, Properzio, Tibullo. Un grosso volume di epigrammi compose il Filelfo; ma il maggior lirico del primo Quattrocento fu Antonio Beccadelli, detto il Panormita, cui l'Hermaphroditus, scollacciata raccolta di epigrammi e di elegie, procurò nome e corona di poeta. Qualche elegia colorita ed epigrammi improvvisi non senza spirito ha Giannantonio Campano; e Tito Vespasiano Strozzi, prendendo forme e modi non pure agli elegiaci, ma a Catullo e ad Orazio, riesce a rappresentare belle concretezze realistiche e a ritrarre con evidenza e con qualche aura di poesia spettacoli di natura, scene domestiche ed episodî tragici o comici della vita quotidiana. Con lui si tocca la fine del Quattrocento, quando la storia ha ormai sfatato il sogno umanistico, e l'umanesimo italiano parla già da circa mezzo secolo la sua lingua.
Dell'antichità, che la nuova filologia liberava dalle superfetazioni e deformazioni onde l'aveva travisata la scienza tradizionale, e su cui si pretendeva plasmare la nuova vita letteraria, gli umanisti consideravano parte essenziale la lingua e quindi s'illudevano di creare una nuova letteratura latina, cioè di poter esprimere sé stessi in latino, come se dall'età classica non fosse passato quasi un millennio e mezzo di storia, e il mondo delle loro anime non fosse perciò tutt'altro da quello di Cicerone o di Virgilio. L'età che comprende l'estremo Trecento e i primi decenni del Quattrocento fu quindi travagliata da un dissidio tra la fantasia astratta che del latino classico voleva fare una lingua viva, e la storia che inesorabilmente lo condannava ad essere lingua morta. E il dissidio trovò un transitorio componimento nel facile empirismo cui s'informavano allora l'apprendimento e l'uso del latino e che moderò nella pratica gl'intenti d'imitazione ciceroniana. Gli umanisti di quell'età serbarono infatti alla lingua latina una notevole duttilità, che ammetteva perfino l'infiltrazione di elementi volgari, e allo stile una grande disinvoltura e libertà di movenze. Ma quando più sottile e acuto divenne il senso storico della lingua latina, andò perduta quella simpatica scapestrataggine linguistica e stilistica, che rende a noi così attraente e rese già così benefico nella storia dello spirito umano l'umanesimo italiano della prima metà del Quattrocento. Più piena e sicura divenne allora la visione e più esatta la valutazione del mondo classico; ma l'empirismo che per breve tempo aveva conciliato il libero individualismo del sogno con la ferrea necessità della storia, soggiacque alla tirannide delle regole, e la storia fece valere i suoi diritti, consacrando il volgare come lingua dell'umanesimo nazionale italiano e componendo il latino nel suo sepolcro. Il ciceronianismo, di cui era stato primo apostolo nel primo Quattrocento Gasparino Barzizza, pur finendo col trionfare dei suoi avversarî, s'irrigidì in un proposito di gretta imitazione formale, che fu prodromo e causa della sua fine; e l'umanesimo, che non è latinismo, ma affermazione d'umanità nell'azione e nella dottrina, fu da un lato severa ricerca filologica a fine di pura ricostruzione storica, dall'altro espressione della nuova e consapevole di sé attività spirituale nelle forme dell'italiano o d'un latino che nel più spregiudicato eclettismo continuava la libertà linguistica e stilistica del primo Quattrocento: il latino di storici, come Biondo Flavio da Forlì, intesi a far opera d'indagatori e critici delle fonti piuttosto che di scrittori eleganti; di archeologi raccoglitori di monumenti, come Ciriaco d'Ancona; di filosofi, come Giannozzo Manetti e Marsilio Fieino, curanti della forma solo in quanto sia pensiero espresso.
Fu negli anni tra la prima e la seconda metà del sec. XV, che il vecchio empirismo e il nuovo avviamento storicistico della cultura si trovarono a contrasto nelle fiere polemiche tra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla. Grande campione dell'empirismo, Poggio scrive un latino che per la sua libertà di lessico e di grammatica conserva un amabile sapore di lingua viva. Il Valla invece, libera e forte mente di pensatore, che molte tradizioni filosofiche, storiche, giuridiche scosse con rigore di logica e ardore battagliero, nelle Elegantiae latinae linguae (1444) definì con studio metodico dei classici l'uso delle parti del discorso nel periodo, rilevò alcune singolari proprietà dello scrivere latino e fermò con discussioni filosofiche e comparazioni delle voci sinonime il preciso significato di molte parole. Grande teorico dello stile latino, ma infelice scrittore, perché il latino foggiato sulla sua dottrina riesce del tutto inadeguato al suo alto pensiero originale d'uomo moderno, il Valla è la vittima del suo momento storico, quando la teoria, che sarà il ciceronianismo, della cosiddetta purità della lingua si concreta in regole filologicamente accertate, e si fa palese l'impotenza di quel "puro" latino a lineare e colorire la faccia visibile del nuovo spirito maturatosi in un millennio di storia.
Suppergiù nello stesso torno di tempo (1436) un altro solenne umanista, Leonardo Bruni, rivendicava i diritti del volgare di fronte al latino, affermando avere "ciascuna lingua sua perfezione", e non importare alla grandezza d'un poeta se egli scriva "in istile litterato (latino) o vulgare". E Leon Battista Alberti, il grande architetto, precursore di Leonardo nella multiforme attività, promoveva nel 1441 una gara di poesia (certame coronario), dove la lingua del popolo facesse prova delle sue attitudini a trattare materia elevata, e difendeva il volgare contro i suoi denigratori, proclamandolo pari al latino, solo che i dotti volessero "elimarlo e pulirlo".
Questo appunto fecero e il Bruni nelle sue poche scritture volgari e Matteo Palmieri, già ricordato, nella Vita civile, trattato di morale e di politica, e l'Alberti stesso nelle molte sue opere volgari (Teogenio, Della famiglia, Tranquillità dell'animo, Iciarchia), nelle quali la genialità dell'artista conferisce alla lingua rapida efficacia di scorci, d'arguti avvicinamenti e d'immagini originali, quando l'importuna consapevolezza dell'intento di limarla e pulirla a specchio della lingua antica non l'impacci nella ricercatezza opaca del latinismo. Che è poi il difetto di troppi altri scrittori quattrocenteschi e d'alcuni di quelli che sono stati ricordati tra i rappresentanti della corrente letteraria di tradizione trecentesca.
A Firenze, passata la metà del secolo, altre opere maturarono, nelle quali il rinnovato spirito, fatto di tradizione classica, di tradizione medievale e soprattutto d'una fervida attività spirituale che l'una e l'altra animava annullandole in sé, fu arte e poesia originali, perenne abbellimento e conforto alla vita umana nei secoli.
Nelle Sylvae e in più altre composizioni latine, come negli artificiosi rispetti spicciolati e continuati, il Poliziano, artista finissimo, alessandrineggia volentieri in descrizioni di natura o d'umanità, nelle quali il critico facilmente scopre il lavoro musivo e il lettore sente un'ispirazione dottrinale, che viene di fuori. Ma quando dal latino libero e spregiudicato dell'elegia In morte di Albiera degli Albizzi, dei distici serenamente voluttuosi Alle viole, dei giambi birichini Alla sua fanciulla si levano note di poesia profonda, o meglio, quando, leggendo il materialmente incompiuto eppure così spiritualmente uno e organico poemetto per la Giostra (1475) o le ottave improvvisate dell'Orfeo (1480) o le stanze argutamente ritornellate delle canzoni a ballo, ci si sente avvolti nell'atmosfera d'un mondo idillico, aereo, fresco di giovinezza e di primavera, luminoso, melodioso, fragrante, ch'è il mondo poetico del Poliziano, gioiosamente sognato e contemplato in un abbandono attonito, cui vena una lieve ombra di malinconia per la tema ch'esso non abbia a svanire, allora a chi addita emistichî, immagini, ritmi che dice ripresi da Virgilio, da Ovidio, dal Petrarca, dal Boccaccio, da Dante, si può rispondere che se ciò è vero, non è men vero che quegli emistichî, quelle immagini, quei ritmi non ebbero mai il significato, il tono, la perlacea lucentezza, la musicale levità che hanno nei versi del dottissimo ma genialissimo amico del Magnifico, cioè non dissero mai quel che egli fa loro dire.
Note d'idillio suonano anche nei poemetti classicheggianti (Selve, Ambra, Corinto, ecc.) del Magnifico; ma ivi la natura è contemplata e amata con ardore di non idealeggiata sensualità, ed è ritratta con tocchi non di rado realistici; per i quali si fa palese l'unità dello spirito creatore dei poemetti classicheggianti, nutriti di succhi virgiliani e ovidiani, e dei poemetti di realismo toscano, borghese e campagnolo (la Caccia, i Beoni, la Nencia). Tale l'arte di Lorenzo, felicemente espressiva d'uno spirito in cui l'estetismo vagheggiante insieme il colore e il calore degli antichi poeti e la semplicità e spontaneità popolaresche, è variato e animato da un senso giocondo della vita, da una lieve tendenza all'osservazione comica e da un amabile scetticismo. A quell'arte ammicca di lontano Luigi Pulci, potenziatore plebeo della realistica toscanità affiorante o trionfante nelle rimate fantasie del suo patrono e amico.
Il Morgante del Pulci, quasi tutto ricalcato, quanto alla materia, su poemi cavallereschi più antichi, non è certo, quanto all'ispirazione, cioè all'essenza spirituale, poema cavalleresco. Se generico ispiratore ne è l'amore della colta borghesia fiorentina per l'arte e i costumi della plebe, specificamente esso è forma stupendamente rappresentativa d'un'anima pronta a cogliere il mondo plebeo della grossolanità, della malizia, della furberia, della violenza e a rilevarne gli aspetti comici o sentiti per comici, di rado con finezze d'ironia, spesso con aperti atteggiamenti di popolare realismo; poema ben lontano dalle ricercatezze e dalle erudizioni dell'umanesimo professionale, ma ricco di vivida umanità quattrocentesca e toscana.
Nel Mezzogiorno d'Italia, l'umanità nuova quale era uscita, fervida di libera attività, dal gran moto del Rinascimento, palpita nelle opere di Gioviano Pontano e di Iacopo Sannazzaro, magnifici creatori di poesia di sulle visioni incantevoli del golfo partenopeo, l'uno dei quali brucia il gran patrimonio della sua dottrina nell'ardore d'una multiforme sensualità, l'altro lo rivive e affina nella gentilezza d'un'anima squisitamente sentimentale. In quel suo duttile latino, che sa le peculiarità lessicali e le mariolerie del dialetto napoletano, nei versi d'ogni metro e d'ogni intonazione (Lepidina, Hendecasyllabi seu Baiae, Amores, Eridani, ecc.), nelle prose (Dialogi) che non hanno le pari nel Rinascimento italiano, il segretario dei re Aragonesi trasfonde il suo spirito pronto a espandersi in spontaneità di moti così dinnanzi agli spettacoli naturali, come alle realtà e alle intimità della vita galante, della vita di strada, della vita di famiglia, onde quel che a un lettore superficiale può parere imitazione, è creazione autonoma di tale cui la consuetudine degli antichi ha solo procurato un congenito arricchimento di forme espressive. Nell'Arcadia del Sannazzaro, tutta tappezzata di tessere musive d'antica e moderna origine, trema la gioia della fantastica contemplazione d'un mondo, che segregato da ogni attualità e artificiosamente immaginato dentro alla perenne immutabilità della natura e d'una vita ingenua che non sa progressi, poteva dare illusione di sopravvivente classicità. È questa la poesia del dotto umanesimo anticheggiante, la quale il Sannazzaro vive commista a una poesia di più larga e profonda umanità, germogliante dall'aspirazione a una vita dolcemente idillica e da un vago senso di mestizia per la consapevolezza dell'irrealtà di quel mondo sognato e accarezzato nella fantasia (Piscatoriae, elegie, epigrammi).
Un mondo sognato come una bella idealità, ma più vasto e più variamente e universalmente umano, è anche quello che creò e soleggiò di poesia Matteo Maria Boiardo. Dotto umanista, volgarizzò più opere greche e latine, e verseggiò latinamente, imitando con grazia il bucolico Virgilio. Rivisse nell'intimità gagliarda del suo spirito l'essenza della sua nobile vita di cavaliere e d'uomo di governo, e della sua dottrina, e fu poeta d'ala ampia e robusta. Fra le tante rime di scialba e fredda imitazione petrarchesca o popolarescamente sciamannate o gravi di artificiose gonfiezze, che infestano il sec. XV, il suo Canzoniere è veramente una meraviglia. Aerato da fresche e serene visioni di natura e tutto pervaso d'un caldo e soave spirito d'amore, che non s'abbandona mai a volgare tripudio, ma esulta in temperanza di gioia; che non s'abbuia mai di nera disperazione, ma dolcemente si vela di tenere malinconie, esso vive d'una perenne ispirazione originale, che nei vecchi suoni petrarcheschi e virgiliani infonde un'anima nuova.
Ma la pienezza della poesia ond'è capace l'anima del Boiardo, è nel poema, trepido del fervido vagheggiamento d'un'umanità amorosa ed eroica. Il connubio del ciclo epico carolingio con l'arturiano, di cui si suole dar vanto al poeta dell'Orlando Innamorato, è forma spontanea dell'anima sua, vivente nel sogno di quel mondo d'amore, di cortesia e d'eroismo. Sorride il poeta di certi smisurati colpi di spada e di lancia e non si fa scrupolo di gettare il ridicolo su Orlando e sul buon re Carlo. Sono le astuzie e le arguzie del narratore, che di quando in quando strizza l'occhio maliziosamente come per tenersi in stretta comunione spirituale con i suoi colti uditori, lasciando intendere che è d'accordo con loro nel non prestar fede, nonostante l'autorità di Turpino, alle avventure portentose, alle magie, agl'incanti e nel gustare le ingenuità, le goffaggini, il buon umore che attribuisce alle creature della sua immaginazione. Ma verso di queste è pieno di sincera simpatia, e si dorrebbe se per quei pochi scherzucci altri pensasse che volesse farne la caricatura o la satira. O non sono appunto quei cavalieri, ardenti d'un amore impetuoso e pronti per esso a ogni cimento, la forma della sua commossa ammirazione per quel mondo dell'amore e della volontà eroica, ch'è l'intimo spirito e la poesia dell'Innamorato?
Da questa idealità adorata dal conte traggono palpito di vita e lume di poesia le innumeri e variamente concepite figure del suo poema, quelle che vi migrarono dal vecchio mondo cavalleresco ed egli rifece liberamente foggiandole ex novo con bella risolutezza di tratti, e quelle che egli creò con geniale fecondità: Brandimarte, Rodamonte, Agricane, Marfisa, Angelica. Le sue figure egli sbozza alla brava con rapide presentazioni e narrandone l'azione con efficacia di tocchi incisivi, più che non le finisca con minute analisi psicologiche. Ed è questo uno dei caratteri che dànno all'Innamorato quel non so che di semplice, di rude, di arcaico, che ne forma una delle principali attrattive. Anche vi conferiscono lo stile, alieno da ornamenti retorici, il verso amabilmente trasandato e asprigno, la lingua intrisa di elementi dialettali. Poema di piena e varia umanità, l'Innamorato segna il culminare trionfante dell'umanesimo italiano del Quattrocento, fresco d'una sua bonaria cortesia borghese, giovane d'un suo raffinato primitivismo.
L'Ariosto. - Perché cavalleresca ne è la materia, anzi perché l'Ariosto stesso disse di aver voluto continuare l'invenzione del conte, l'Orlando furioso può in un discorso come questo, che per essere di storia letteraria non può non essere anche di storia della cultura, seguire immediatamente all'Innamorato, anche se tutt'altra ne sia l'ispirazione: eroico-amorosa nell'uno, placidamente e universalmente umana nell'altro.
Due sono, a prescindere da qualche lirica e capitolo spicciolato, le opere di poesia del gran Lodovico: le Satire e il Furioso, forme magnifiche di due aspetti diversi della limpida serenità in cui sta l'essenza della sua poesia. Scritte in più anni dal 1517 al 1524, le sette satire sono epistole confidenziali in terza rima a parenti e amici, nelle quali l'autore si lamenta prega si stizzisce forma propositi, disegnando quadri vivaci delle condizioni e dei casi della sua vita, giudicando uomini e cose secondo una morale mediocre e arguta. Scrive con amabile sprezzatura, familiarmente, e rappresenta sé stesso qual è, anima buona, semplice, mite, senza grandi aspirazioni, aperta agli affetti domestici, e le abitudini e i vizî del suo secolo con bonaria indulgenza. Spirito profondo di quella poesia, un desiderio nostalgico di pace serena, rassegnato alle contrarietà e alle necessità della vita.
Ma serenità attuata dall'arte è l'essenza profonda del Furioso; serenità nelle invenzioni, nello stile, nell'ottava, nel verso, la serenità del sogno sognato dal poeta. Azione centrale, la guerra d'Agramante contro Carlomagno in terra di Francia; ma azione che si perde continuamente fra i mille episodî, che si susseguono alternandosi e intrecciandosi a formare lo svolgimento di molte e svariate altre azioni. Due di queste primeggiano fra tutte, la pazzia d'Orlando che dà nome al poema e le imprese di Ruggiero, il guerriero che, fatto cristiano e sposo di Bradamante, sarà il capostipite degli Estensi. Principali fonti della materia i romanzi bretoni e i classici latini, le cui invenzioni possono parere logicamente elaborate, mentre sono in realtà fantasticamente rivissute in immagini nuove, da uno spirito calmo ed equilibrato.
In quel mondo fantastico in cui si è rifugiato, vive il poeta serenamente, passando dal fragore delle battaglie al bisbigliare sommesso delle scene d'amore, dalla tragedia all'idillio, dall'elegia alla commedia con interesse costante, con simpatia viva per gli eroi e per i fatti, ma senza vera commozione, con l'aria di chi si diverte a star a vedere, ma si compiace d'esser fuori del giuoco. Da uomo savio, che alla saviezza dei suoi paladini non crede troppo, egli guarda con occhio birichino il tramenio del mondo cavalleresco e certe azioni portentose, e dall'alto del suo osservatorio di spettatore curioso increspa le labbra a un sorriso. Negli esordî dei canti, nei trapassi da racconto a racconto e in più episodî si volge alla realtà contemporanea, ma pur nel deplorare la decadenza del costume, la corruttela degli uomini di chiesa, i guai dell'Italia, che sente e ama come unità spirituale (solo qualche zelante poté pensare ad attribuirgliene il senso politico), non s'accende mai d'ira. Tuttavia la contemplazione dell'artista non annulla la sensibilità dell'uomo buono, retto, amoroso, devoto all'amicizia; e certi spettacoli che passano dinnanzi alla sua immaginazione (la morte dell'eroica Isabella; l'amore di Brandimarte e Fiordiligi, ecc.), lo conquidono, incrinando di commozione la fondamentale serenità del suo spirito e della sua arte. La quale serenità pacata e luminosa si riflette pure nell'euritmia delle costruzioni narrative e periodiche, nella magia coloritrice dello stile, nella varia omogeneità del tono, insomma nella precisione e coerenza della visione fantastica; nella perfetta corrispondenza tra il respiro del pensiero e la capacità dell'ottava; in quell'accordo del ritmo del pensiero col ritmo del verso e della stanza, per cui pare che l'Ariosto pensi in ottave.
Grande fu nel sec. XVI la fortuna del Furioso; fortuna d'edizioni lussuose e popolari, commentate e graficamente illustrate, di dissertazioni erudite sulla lingua e sulle fonti, di traduzioni in dialetto e in lingue straniere, d'innumerevoli imitazioni. Di queste non ce n'è forse una che meriti ricordo perché l'autore abbia saputo infondere la vita d'uno spirito ben individuato nell'inerte materia, come avevano fatto il Pulci, il Boiardo, assai debolmente un Francesco Cieco detto da Ferrara nel Mambriano composto nell'ultimo decennio del sec. XV, e l'Ariosto.
Ultimo venne - ma con sì energica e sbrigliata originalità che nessuno pensa a metterlo, nonostante qualche reminiscenza, tra gl'imitatori del ferrarese - Teofilo Folengo col Baldus.
Delle favole cavalleresche abilmente parodiate il Folengo si valse a esprimere un suo mondo di realismo plebeo e di grossolana giocondità in forme che rivelano una certa aspirazione e ispirazione epica. Pienamente conforme a questo comico, perché contraddittorio, momento spirituale, è il linguaggio maccheronico da lui usato, curioso miscuglio di parole classiche e di voci italiane o dialettali latineggiate, che il Folengo non inventò ma perfezionò dandogli una mirabile duttilità. Con amabili anacronismi la realtà contemporanea entra liberamente nel poema, oltreché mediante le immagini e le similitudini coloritrici del racconto, in molti episodî e scene della vita popolare e borghese, che spesso divengono saporite canzonature delle superstizioni del volgo e satira mordace dei varî ceti sociali, soprattutto del ceto ecclesiastico. Contro i frati dissoluti e crapuloni egli rivolge anche tutto un episodio del suo poemetto italiano l'Orlandino; le convinzioni anticattoliche d'un periodo della sua vita inspirano pure il Chaos, curiosa operetta varia di lingua e di materia. Contro gl'insulsi canzonieri d'amore e l'artificiosa poesia pastorale è invece la satira della Zanitonella, breve raccolta di liriche maccheroniche che efficacemente dipinge la vita e la psicologia dei contadini.
La grande e la minor prosa del sec. XVI. - Col Folengo la materia cavalleresca finiva di adempiere l'ufficio, cui l'aveva chiamata la moda del sec. XV, d'accogliere ed esprimere spiriti di poesia. Col Machiavelli e col Guicciardini il pensiero morale e politico di quel secolo stesso, fecondato da studî e da esperienze personali, si concludeva in dottrine e disegni che invano grandeggiarono intellettualmente nel momento storico che segnò la rovina dell'indipendenza d'Italia; e di quei forti pensamenti s'alimentava, salendo al suo culmine, la grande prosa del sec. XVI.
Il segretario fiorentino, fatto esperto dall'osservazione della realtà e dalla meditazione dei fatti storici antichi e recenti, deriva dal concetto, affermato già dai moralisti del Quattrocento, dell'uomo dominatore della fortuna e artefice del proprio destino, il concetto della "virtù" intesa come pura energia di volontà indirizzata e valida al conseguimento d'un fine. Ma con profonda novità di vedute, egli s'oppone, purtroppo invano, all'astrattezza del sogno umanistico di libertà individuale, per cui gl'Italiani si segregavano dal mondo della storia, limite inesorabile di quella libertà; e alla morale che non guarda di là dai rapporti tra i singoli, sostituisce una morale che condanna i fini egoistici della "virtù", ed esalta il fine collettivo, l'interesse dello stato, cui ogni interesse vuol essere sacrificato e che deve essere norma della moralità delle azioni.
Nascono così le due maggiori sue opere, il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, nelle quali egli dà precetti per la fondazione, l'organizzazione, la conservazione d'uno stato, inculcando la massima fondamentale che nel bene di questo sta la meta suprema delle azioni del capo e dei cittadini, alla quale ogni altro bene deve essere subordinato. Limpido, diritto, esatto, inflessibile nelle deduzioni procede il ragionamento, onde lo stile si plasma in forme di perfetta classicità senza che l'agile popolarità della lingua incespichi in complicazioni periodiche o sia aduggiata da vani ornamenti. Un fervore di convinzione profonda cova sotto l'austera severità dello scienziato e lampeggia qua e là in energia luminosa di frasi, perché un grande amore anima il pensiero del Machiavelli, l'amore dell'Italia, che divampa nella chiusa del Principe; e per l'Italia, che vorrebbe salvata dalla "virtù" d'un principe educatore e unificatore degl'Italiani, formula la sua dottrina.
Preparano le due opere maggiori le relazioni delle missioni e alcune brevi monografie che delle relazioni raccolgono il succo ideale; fanno loro corona i dialoghi Dell'Arte della guerra (1520) che iniziano la scienza della strategia e svolgono ampiamente e particolarmente il concetto che il Machiavelli s'era sforzato di attuare quale segretario dei Nove della milizia, dovere il servizio militare essere un obbligo morale di tutti i cittadini; la Vita di Castruccio Castracani, con la quale il Machiavelli volle, più che narrare storia veridica, dimostrare con un esempio la bontà delle sue teorie; gli otto libri delle Istorie fiorentine che narrano la storia della città, e in particolare degl'interni rivolgimenti, dalle origini al 1492 con mirabile vigore di sintesi governata dalle stesse idee che il Machiavelli aveva esposto nelle sue opere teoriche.
Dalle stesse virtù d'osservazione profonda della realtà e dalla stessa intuizione della vita come energia e volontà, che si rivelano nelle scritture politiche, nascono le commedie, la Clizia e soprattutto la Mandragola. In questa fanno mirabile prova le disposizioni allo scherzo, all'arguzia, all'ironia, che il Machiavelli mostra nelle lettere familiari e nella novella Belfagor arcidiavolo, ed eccellono nella figurazione dei personaggi, nella struttura delle scene, nell'andamento dell'azione, quelle attitudini artistiche, che dànno tanta vivezza e tanto vigore alla stessa sua prosa scientifica.
Alta individualità fortemente operante nella storia del suo tempo, Francesco Guicciardini ha comuni col Machiavelli l'amore della patria italiana, l'attitudine e l'abitudine dell'osservazione acuta della realtà, la penetrante sagacia dei giudizî storici. Ma egli ama più del suo amico fare i conti con la storia e non ha fede in quel rinnovamento profondo della morale e della coscienza su cui poggia l'altissima idealità politica del Machiavelli. Agli Italiani del suo tempo non chiede tanto, e mira a un ristabilimento dell'equilibrio fra gli stati italiani per afforzarli contro gli stranieri, piuttosto che all'unificazione statale della penisola, che è il grande presagio del Machiavelli. Anche in lui la solidità quadrata dello stile è figlia della saldezza nitida del pensiero. Nella Storia d'Italia, poi, la grande opera che corona la molteplice e feconda attività di scrittore del Guicciardini (due Storie fiorentine, relazioni, il dialogo Del reggimento di Firenze, Considera-zioni sui discorsi del Machiavelli, Ricordi civili e politici, ecc.) lo stile emula la maestà del racconto liviano, non per sciocco intento retorico, ma perché così vuole l'organica complessità d'un pensiero che vede i fatti quali risultamenti unitarî di forze convergenti o contrastanti e come tali vuole che li percepisca, sia pure con uno sforzo mentale, il lettore. Più semplice è lo stile del Machiavelli, che maggiore importanza attribuisce nel corso della storia alla "virtù" individuale.
Insieme con la grande prosa del Machiavelli e del Guicciardini, fioriscono nel sec. XVI la prosa, più modesta di concezione e costruzione, ma pure ben equilibrata e salda, dei moralisti, i quali dai classici e da un'ormai tradizionale costumanza di vita classicamente temprata hanno appreso la saggezza dei loro ammaestramenti, e la prosa degli storici minori, cui quella stessa costumanza di vita e la pacata osservazione della realtà politica suggeriscono una larga e penetrante visione dei fatti, anche se talvolta macchiata di adulazione. E ne esce, là e qua, una prosa che non a specchio dei classici, ma per un'acquisita affinità d'atteggiamenti spirituali con i classici, dà regola e dignità alla parlata comune: è l'ultimo perfezionamento della prosa moraleggiante dell'Alberti e del Palmieri "elimata" a specchio dei Latini, e della prosa storica del Cavalcanti, alquanto goffa per pretensioni di latinismo, ma insipida non mai.
Dei moralisti i più sono toscani: Giambattista Gelli, autore dei Capricci del Bottaio e della Circe, ragionamenti e dialoghi che raccomandano agli uomini la sottomissione ai dettami della ragione e non ai capricci del senso; monsignore Giovanni Della Casa, scrittore fecondo in prosa e in versi, il cui Galateo è una delle più graziose scritture del secolo; Anton Francesco Doni, bizzarro ingegno che scombiccherò numerose opere e operette d'argomento e di forma svariatissimi e dai titoli capricciosi, e che nei dialoghi I Marmi parlò d'ogni cosa un po', combattendo superstizioni, mordendo vizî, dando alla buona insegnamenti di vita pratica. Ma ce ne sono anche nativi d'altre regioni, come il veneziano Pietro Bembo, gran dittatore della letteratura cinquecentesca, che negli Asolani trattò platoneggiando dell'amore con gravità di stile boccaccesco; il padovano Sperone Speroni, scrittore di varia e pesante dottrina, non infelice elaboratore nei numerosi dialoghi (Dell'amore, Della discordia, Della vita attiva e contemplativa, ecc.) delle idee correnti al suo tempo intorno a disparate questioni, e, per tacere d'altri, il mantovano Baldassar Castiglione e il nolano Giordano Bruno, che su tutti primeggiano per virtù di pensiero e di forma.
Nel Cortegiano, il Castiglione tratteggia la figura del perfetto "cortegiano" e della perfetta "donna di palazzo", teorizzando quella pratica di vita colta, raffinata, piena di decoro in ogni sua manifestazione, che il sec. XV aveva elaborato specialmente nelle corti dell'Italia settentrionale, e formando così il tipo dell'uomo di società, che l'Italia del Rinascimento diede all'Europa. Il Castiglione trasse dall'eletta realtà che aveva sott'occhio e di cui egli stesso era parte, e dalla sua educazione classica gli elementi della sua opera, che rivissuti e unificati dalla sua fantasia, s'atteggiarono a forma semplice e dignitosa. Quanto alla lingua, egli usò quella loquela fondamentalmente toscana, ma variegata di parole e forme latineggianti e provinciali, nella quale taluni intendevano attuare nel secolo XVI il volgare illustre o cortigiano di Dante, contro il fiorentinismo d'un'altra scuola. Del Bruno, la prosa stravagante incondita dialettale, ma fervida immaginosa gagliarda è il suo stesso pensiero assetato di verità, concreto e originale, energico propulsore della filosofia italiana per nuove vie. Nei dialoghi morali e metafisici del Bruno c'è ora lo slancio d'un'anima che in una specie d'ebbrezza anela alla verità assoluta, e ora la violenza o il sarcasmo della polemica contro gli avversarî effigiati argutamente in tipi caricaturali; tutto questo compaginato in una prosa che s'abbandona a un pittoresco disordine, a fughe di sinonimi e d'antitesi, a bizzarrie d'artifizî per lo più non vuoti di significato ideale.
Numerosi anche gli storici fiorentini, dei quali Iacopo Nardi, fervido amatore di libertà, ha sì pagine vive e spigliate nel suo racconto dei fatti della patria dal 1375 al 1538, ma in generale manca di vigore di sintesi e quindi di stile; Benedetto Varchi, vario scrittore e nell'Ercolano filologo non spregevole, è narratore alquanto disuguale ma, non ostante lo spirito mediceo, fidato della storia di Firenze, e migliore sarebbe se non pensasse ad essere, oltreché storico, stilista; Pierfrancesco Giambullari per primo scrisse in volgare un'opera che come certe vaste compilazioni latine del Medioevo, spazia largamente di là dai confini d'una nazione, la Storia d'Europa, per gran parte compilata sull'Antapodosis di Liutprando, mirando più a sfoggiare la sua perizia descrittiva e oratoria in una prosa piuttosto floscia, che a fare opera di storico; Bernardo Davanzati, traduttore e riduttore di storici, più che storico, acquistò fama di prosatore stringato e vigoroso con la sua versione di Tacito e con la Storia dello scisma d'Inghilterra composta sull'opera latina d'un gesuita inglese. Fuori di Toscana il veneziano Pietro Bembo, in latino e in volgare pomposamente classicheggiando, i genovesi Iacopo Bonfadio e Uberto Foglietta, i napoletani Angelo di Costanzo e Camillo Porzio narrarono la storia delle loro terre; e dovunque ci furono più o meno copiosi notamenti cronistici, preziosi come documenti di storia, ma appena sfioranti, e di rado, i margini della letteratura.
Affine alla prosa storica fiorì invece di spontanei o intenzionali effetti d'arte la prosa, vivida e argutamente rappresentativa di uomini di costumi di cose, delle lettere sull'India del mercante fiorentino Filippo Sassetti, quella alquanto piatta, ma facile e decorosa, delle Vite de' più eccellenti pittori, ecc., dell'aretino Giorgio Vasari, e lasciando da parte molt'altri nomi, quella in cui vive stupenda di colore e di rilievo l'anima di Benvenuto Cellini. Quivi una magnifica fantasia, vincendo la tentazione, che talvolta fa capolino, della sintassi letteraria e raggiungendo un equilibrio mirabile tra la spontaneità dell'idioma popolare e la maturità delle sane abitudini classiche ch'erano nell'aria, creò un capolavoro d'evidenza rappresentatrice e di lucidità conversativa.
Meno benevolo giudizio merita la prosa oratoria, cui l'enfasi e l'affettazione classicheggiante nella tornitura dei periodi tolgono in generale l'aria di sincerità e il vigore persuasivo, che hanno solo alcune poche orazioni cinquecentesche, come la difesa degli Straccioni lucchesi tumultuanti di Giovanni Guidiccioni (1533), l'arringa del Della Casa per indurre i Veneziani ad allearsi col papa e col re di Francia contro Carlo V (1547), e soprattutto l'Apologia di Lorenzino de' Medici, l'uccisore del duca Alessandro, la cui prosa, mossa incisiva nervosa, ha in più luoghi la virtù di conquidere il lettore, anche se questi sappia che il tirannicida non era poi quel candido amatore di libertà che vuol farsi credere.
Le questioni linguistiche nel sec. XVI e la costituzione in dignità della letteratura italiana. - Il secolo XVI non si può dire che ereditasse dal precedente la questione della preferenza da darsi al latino o al volgare negli usi letterarî. Già dalla metà del Quattrocento il grande umanesimo italiano s'era fatto, come s'è detto, italiano anche di lngua. A usare il latino rimasero nella prima metà del Cinquecento alcuni che sapevano infondervi, come già il Poliziano e il Pontano, insieme col fremito dell'amore per la classicità, un più o meno alacre senso della nuova vita; lirici, quali Giovanni Cotta, Andrea Navagero, Marcantonio Flaminio, artista squisito di carmi amorosi soffusi d'un tenue velo di malinconia; poeti epici, come il Sannazzaro del De partu virginis, sinceramente religioso e paganeggiante, e Marco Girolamo Vida, che compose una Cristiade, meno mistica e meno paganeggiante del De partu, piuttosto perfusa di poesia umanistica arcaizzante; poeti didascalici, come Girolamo Fracastoro, autore della Syphilis sive de morbo gallico; e deliziosi descrittori di bellezze naturali e d'arte, quali il Bembo del Benacus e del Sarca, e Iacopo Sadoleto, che in un poemetto d'esametri descrisse il gruppo statuario di Laocoonte dissepolto a Roma nel 1505. In prosa, accanto ai filosofi che senza riconoscere diritti alla tradizione linguistica, affidavano alla lingua universale i loro pensieri, scrivevano latino i pochi rimasti fuori della storia, fedeli al vecchio sogno sfatato e propugnatori dell'uso letterario del solo latino, e i molti rispettosi della pacifica convivenza delle due lingue (storici, oratori, moralisti, ecc.); ciceroniani i più, perché le dispute dibattutesi nel sec. XV tra i fautori dell'esclusiva imitazione del grande Arpinate e i fautori d'un largo eclettismo stilistico, finirono col trionfo del ciceronianismo, il quale ebbe sanzione ufficiale quando Leone X elesse a suoi segretarî Pietro Bembo e Iacopo Sadoleto, due apostoli della religione ciceroniana. Ma a mezzo il sec. XVI il ciceronianismo era finito sotto i colpi della satira di Erasmo, talché un grande latinista francese, Marcantonio Mureto, asseriva nel 1556 che non restava neppure l'eco del plauso toccato ai ciceroniani del principio del secolo.
Un'altra questione era germogliata dalla risoluzione della prima: la questione della lingua nazionale. Dianzi e fino ai primi decennî del nuovo secolo c'era stata un'aspirazione a una lingua comune a tutte le provincie italiane, lingua che s'era persuasi di dover modellare su quella dei tre grandi trecentisti, sul toscano insomma. Tale l'idealità linguistica che avevano procurato d'attuare gli scrittori non toscani quattrocenteschi; ma elementi fonetici, morfologici e lessicali dei loro dialetti s'erano naturalmente inseriti nelle loro scritture, dando luogo a un ibridismo linguistico, che solo la pratica o la conoscenza teorica dell'idioma toscano poteva far cessare. Ora, furono le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, pubblicate nel 1525, che di su spogli delle opere dei dugentisti e dei trecentisti toscani, ma specialmente delle opere del Petrarca e del Boccaccio, fermarono le regole della grammatica, della sintassi, della metrica e del ritmo, e resero facilmente possibile ai non toscani colti d'evitare i loro idiotismi, e d'attuare così la vecchia idealità linguistica, che il Bembo elevava a teoria, proclamando l'eccellenza del fiorentino su tutti gli altri volgari italiani e propugnando la tesi che d'esso dovessero valersi gli scrittori di tutta Italia; non però del fiorentino vivo sulle labbra del popolo, sì di quello usato dagli autori che meglio avevano scritto, i trecentisti. Il che era un classicizzare la lingua viva, adunandone il materiale nello stesso modo che s'usava per il latino. Al Bembo s'opposero il Castiglione, Giangiorgio Trissino e alcuni altri, che facendosi forti dell'autorità di Dante, di cui il Trissino pubblicò primo in una cattiva versione il De vulgari eloquentia, propugnavano l'uso d'una lingua, partecipe di tutti i dialetti, ma da tutti diversa. Dottrina questa, che nell'attuazione pratica non s'allontanava poi da quella del Bembo se non per un più largo concetto dell'elaborazione letteraria della lingua e del contributo che vi recavano le provincie, e necessariamente finiva col riconoscere pure i diritti del toscano. Molte discussioni si continuarono a fare nei secoli sulla proprietà della lingua letteraria italiana; ma sostanzialmente si può ben dire che anche la questione cui aveva dato origine l'umanesimo decidendosi a parlare italiano, fu risolta nella prima metà del Cinquecento con la generica affermazione bembesca della fiorentinità della lingua nazionale italiana.
Da tale stato di cose attinsero nuovo valore e significato le letterature dialettali, che se prima erano state per lo più espressione d'una impossibilità o d'una inettitudine degli autori a uscire dalle forme del loro vernacolo, ora assunsero un carattere intenzionale di comicità o di realismo in contrapposto al carattere serio o più eletto d'una letteratura che dalla lingua stessa riceveva stigma di nazionalità. S'ebbero allora le commedie, i dialoghi, i ragionamenti del padovano Angelo Beolco detto Ruzzante, stupendo rappresentatore dei costumi, dei sentimenti, della lingua dei contadini della sua regione, e le commedie e le lettere ghiribizzose del veneziano Andrea Calmo; e in Toscana, dove pure furono composte farse rusticali in dialetto (la congrega senese dei Rozzi ne produsse in gran numero), ebbe nuovo risalto il già notato carattere prettamente locale della poesia faceta, familiare, borghese, burchiellesca. Sonetti, sonettesse, capitoli, madrigali, madrigalesse, di Francesco Berni, il più nobile e garbato fra codesti allegri verseggiatori, d'Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, il più fecondo, e di parecchi altri, fondatori o soci della gioviale accademia fiorentina degli Umidi, continuarono la tradizione non molto sapida e spesso addirittura insulsa di quella poesia, accentuandone l'aspetto dialettale con l'abbondanza dei riboboli e degl'idiotismi, che la lingua letteraria, nonostante la sua fondamentale fiorentinità, respinge da sé perché educata dalla gravità e dalla genericità degli argomenti a forme più raffinate.
Il Quattrocento aveva creduto, come s'è detto, che ad innalzare a dignità letteraria il volgare fosse necessario "elimarlo e pulirlo" a specchio del latino; principio che veniva a teorizzare e a materializzare in chiara consapevolezza e in determinatezza astratta quella ch'era stata fin dai primordî tendenza innata della letteratura italiana, vago desiderio di classicità. Ai trattati morali - qui si parla sempre di scritture in volgare - il Quattrocento stesso aveva posto modelli Cicerone e Seneca, non senza qualche alito di spiriti lucianei; il Cinquecento volle estesa l'aspirazione anticheggiante a tutti i generi letterarî, che assumendo forme classiche raggiunsero agli occhi di quegli scrittori il grado di nobiltà necessario ad appartenere degnamente a una letteratura per bene.
Se non proprio il primo a foggiare classicamente una commedia, certo il primo il cui esempio riuscisse efficace, fu l'Ariosto, che dalla corte ferrarese, dove primamente (dal 1486 in poi) s'erano recitate, tradotte, commedie terenziane e plautine, ebbe impulso a scrivere e a presentare sulla scena, nel 1508 la Cassaria e l'anno dopo i Suppositi. Scrisse allora queste commedie in prosa, ma poi le ridusse a endecasillabi sciolti sdruccioli, verso che per il numero delle sillabe e per l'atonia della penultima pareva rendere il trimetro giambico acatalettico dei comici romani, e nello stesso metro ne compose poi altre due, Il Negromante (1520) e La Lena (1529) e ne cominciò una terza Gli Studenti, che lasciò incompiuta. Specialmente nel Negromante e nella Lena alcune figure sono rappresentate con tocchi efficaci e con aspetti di modernità, e ci sono scene vive nella spigliatezza del dialogo; ma in complesso le commedie dell'Ariosto mancano di comicità che nasca dall'intimità spirituale dell'autore e non dagl'intrighi accattati dalla commedia antica, della quale esse hanno la divisione in cinque atti, l'unità di luogo e di tempo, l'uso frequente delle agnizioni e i modi tutti della sceneggiatura.
Con tali caratteri strutturali e con argomenti o motivi spiccioli derivati da commedie latine e men di frequente dalla novellistica, ci si presentano le commedie italiane del sec. XVI. Tranne la Mandragola già ricordata, non ce n'è una che mostri sì vigorosa l'azione d'una fantasia individuale da riuscire una vera opera d'arte; molte ce ne sono degne di ricordo per qualche pregio di costruzione o di rappresentazione o di comicità: la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena (1513), ricca d'un superficiale e salace spirito comico; l'Aridosia di Lorenzino il tirannicida (1536), dove il vecchio Aridosio, che ne è il protagonista, è figura disegnata con sobrietà e naturalezza di linee, e molte scene hanno vera forza comica; le commedie del Lasca già ricordato, pittrici non fredde della burlevole società fiorentina del tempo; quelle di Giammaria Cecchi abilmente costruite, e notevoli, se non pregevoli, per la schietta fiorentinità della lingua; quelle del napoletano Giambattista della Porta, di semplice struttura, vivaci nel dialogo, ben riuscite nella figurazione di alcuni caratteri. Per la loro indipendenza dai modelli classici nelle favole e nella struttura vanno poi segnalate le commedie di Pietro Aretino, temuto libellista e scrittore originale e fecondo di lettere, di dialoghi, di poemetti, di rime, e il Candelaio di Giordano Bruno. Tirate giù alla lesta, quelle ritraggono efficacemente col dialogo vivo e spezzato, con cento figure colte dal vero, con qualche scena animata di mordace spirito comico la vita cinquecentesca nei suoi aspetti più varî; questa, il Candelaio, tecnicamente assai difettosa, ha profondità nuove d'osservazione e intensità e fervore singolari di visione fantastica nella dipintura della dabbenaggine, della volgarità e della furfanteria umana.
Il Trissino, che anche all'annobilimento della commedia portò il suo tributo miserello con i Simillimi ricalcati sui Menaechmi, fu il rinnovatore della tragedia con la Sofonisba (1515), coscienziosa opera, non di poeta, ma di critico, che quanto alla materia segue fedelmente Livio, e le dà forma con Aristotele e le tragedie greche alla mano, in particolare con l'Antigone di Sofocle e l'Alcesti d'Euripide. Sulle orme del Trissino si mise Giovanni Rucellai drammatizzando, a specchio dell'Antigone, un episodio di storia longobarda nella Rosmunda e liberamente rielaborando l'Ifigenia in Tauride nell'Oreste; ma pochi altri li seguirono in vario modo imitando i tragici greci, perché nel 1541 Giambattista Giraldi Cinzio venne fuori con l'Orbecche di pretta imitazione senechiana; e ne derivò un nuovo indirizzo del teatro tragico, perché alla dignità di quell'umanità d'eccezione che si voleva rappresentare nella tragedia, parve più consentaneo il fare solenne e sentenzioso del tragico latino che la naturale semplicità dei Greci, e l'atrocità dei casi da lui preferiti meglio corrispondente al fine morale della tragedia. A Seneca s'attennero il Giraldi stesso nelle altre sei tragedie, che scrisse con qualche spirito d'indipendenza nella tecnica, ma senza vero alito di poesia, lo Speroni nella Canace (1542), Luigi Groto detto il Cieco d'Adria nella Dalida e nell'Adriana, Orlando Pescetti nel Cesare e molti altri. All'azione del teatro tragico latino non si sottrae neppure l'Orazia dell'Aretino, la meno infelice delle tragedie del Cinquecento.
Al poema didascalico fu modello il Virgilio delle Georgiche, e ne nacquero, in endecasillabi sciolti, Le Api di Giovanni Rucellai, fresco e agile poemetto spirante un grato profumo di campagna, e la squallida e monotona Coltivazione di Luigi Alamanni, così generica, da aver ben poco di poetico. Con i poemi didascalici di Luigi Tansillo (La Balia e Il Podere) in terzine e con quelli del friulano Erasmo di Valvason e di Bernardino Baldi rispettivamente in ottave e in sciolti, il genere ormai canonizzato s'allarga a varia materia e dà precetti per l'allattamento, per la costruzione d'una villa, per la caccia, per navigare, garbatamente, signorilmente non senza rari bagliori di poesia.
Ancora un suggello di autenticazione la letteratura italiana ebbe dalla classicità per mezzo della poesia satirica, che già nel sec. XV s'era accostata a Giovenale nelle morali ternarie e nelle satire del Vinciguerra, e ora messasi tra Giovenale e l'Orazio dei Sermoni, si fece nei suoi più felici cultori (Ariosto, Ercole Bentivoglio, Pietro Nelli e qualche altro) vivace e festosa, deplorando biasimando castigando in capitoli ternarî i vizî del tempo e dei ceti sociali, senza le vuote moralizzazioni e le languide imitazioni, che sono dei satirici classicheggianti da dozzina, senza le censure e i vituperî personali che sono delle pasquinate e di certi velenosi sonetti caudati del Berni, dell'Aretino, del Giovio, del Lasca e d'altri molti.
Ovidio e in minor misura Teocrito diedero alimento e dignità ai poemetti epico-lirici, quali la Ninfa tiberina di Francesco Maria Molza, elegante, armoniosa, perfusa d'un poetico senso idillico, e le Stanze di Luigi Tansillo, lirico di bella vena, in cui riappare la calda e colorita e voluttuosa ispirazione meridionale d'Ovidio, del Pontano, del Sannazzaro. Alla lirica si tentò di dare sanzione di classicità con la riproduzione di metri latini elegiaci e oraziani (fu Claudio Tolomei con le Regole della nuova poesia e con Versi suoi e di molti altri foggiati su quelle, 1539); tentativo mal riuscito e vano, perché la venerazione che circondava il Petrarca, criticamente esaltato e praticamente imitato dal grande archimandrita della letteratura cinquecentesca, il Bembo, elevava il petrarchismo e di riflesso il bembismo a dignità quasi classica. E petrarchesca o bembesca fu, dopo le stranezze del Tebaldeo e di Serafino Aquilano, tutta la lirica del Cinquecento, povera imitazione di motivi e di forme, espressione d'anime che non avevano nulla di proprio da esprimere. Pochi i lirici del Cinquecento che abbiano detto nelle loro rime qualche cosa di nuovo, o di vecchio con accento personale: oltre al Tansillo, Galeazzo di Tarsia; il grande Michelangelo, nelle cui rime migliori, scabre e disarmoniche, freme la lotta del pensiero alto nobile vigoroso con la parola, a lui non così pronta a rispondere come il marmo e il colore; Vittoria Colonna, che nelle forme petrarchesche, novamente atteggiate, trasfuse il tremore del suo sentimento femminile di vedova pia e l'ansia della sua religiosità; la giovinetta padovana Gaspara Stampa, che ha sonetti d'un'immediatezza, d'un realismo, d'una passionalità sconcertanti, e forse nessun altro, a non voler esaltare per qualche verso discreto o per qualche motivo singolare i troppi mediocri.
La novella, modesta forma d'arte, nata a sollazzo delle brigate, non aveva a rigore esempî classici su cui modellarsi. Ma le aveva già conferito dignità classica il Boccaccio con la saldezza organica delle strutture e la mirabile varietà del suo stile. Al Boccaccio hanno infatti l'occhio tutti i novellatori cinquecentisti, ancorché ognuno si studi di dare ai suoi racconti un carattere speciale. Comiche sono quasi tutte le ventidue novelle che formano le Cene del Lasca, deboli nell'invenzione, fiorentinescamente graziose e vive nella figurazione di persone e scene; fantastiche, quelle che Gianfrancesco Straparola adunò nelle Piacevoli notti, spesso seguendo fedelmenle la trama di fiabe popolari; semplici leggiere pungenti quelle di Agnolo Firenzuola, squisito riduttore in toscano dell'Asino d'oro d'Apuleio e, attraverso un rifacimento latino, del Panciatantra nella Prima veste dei discorsi degli animali; per lo più di tipo romanzesco quelle di Matteo Bandello, il più fecondo dei novellatori cinquecenteschi. Nelle sue 214 novelle, ciascuna preceduta da una lettera di dedica, tutti gli aspetti della vita italiana, tutti gli atteggiamenti della coscienza sono in cento modi rappresentati, più felicemente là dove la natura dell'argomento (vicende fortunose, strane avventure, amori romanzeschi) meglio si confà alle attitudini dell'autore, vago del fantastico e del meraviglioso. Tuttavia è certo che assai più storica che artistica è l'importanza delle novelle bandelliane; né altra era l'intenzione del loro autore che volle appunto raffigurare la società del suo tempo.
Se alla novella era difficile dare un blasone classico, facile doveva parere darlo al poema, che tanta nobiltà d'esemplari epici vantava nel mondo antico, mentre il sec. XVI aveva dal XV ereditato e onorato di accoglienze magnifiche l'indisciplinatezza plebea del poema cavalleresco. E se a far poesia bastasse l'ingegno d'un critico ragionatore, il problema l'avrebbe risolto il Trissino, che tra il 1547 e il '48 pubblicò in tre volumi L'Italia liberata dai Goti. La materia viene da Procopio; una, grande, compiuta è l'azione, secondo che Aristotele, eletto dal Trissino a maestro, insegnava dover essere nel poema epico; la variano e adornano episodî, interventi soprannaturali, erudizioni, secondo l'esempio d'Omero, eletto "per duce e per idea". Ma l'Italia liberata nacque morta.
Così al chiudersi della prima metà del sec. XVI, l'avviamento classicheggiante che la letteratura d'Italia, quasi per uno spontaneo bisogno, aveva preso fino dai secoli XII e XIII e che Dante aveva visto come dottrina, là dove predica necessario lo studio dei classici al dicitore per rima che voglia esser poeta (De vulg. eloq., II, iv 9, vi 7), era giunto materializzandosi a una meta estrema. Tutto il complesso dei fatti letterarî che abbiamo passato in rassegna, lo dimostra: la formazione della prosa morale e storica, la soluzione delle due questioni della lingua letteraria, e, più cospicuo d'ogni altro, l'autenticazione classica della nuova letteratura, la quale s'era acquistato il diritto d'essere riconosciuta nella pienezza della sua dignità, s'era insomma creato il proprio blasone con l'accompagnarsi alle antiche nella regolarità canonica non pure della lingua e della prosa, ma della commedia, della tragedia, del poema didascalico, della satira, del poema epico e, grazie ai due minori, ma allora tenuti maggiori fra i tre grandi trecentisti, della lirica e della novella. Viene ora il teorizzamento delle raggiunte attuazioni; ma col teorizzamento, che continua a svolgersi per oltre due secoli, s'inizia e s'accompagna la reazione che caratterizza il secondo grande periodo della nostra letteratura. È il periodo in cui la letteratura italiana rivendica in teoria e in pratica la sua autonomia, sì che per essere non abbia bisogno di chiedere alle antiche sanzione di legittimità. Lo diciamo romantico dal grande fatto, non solo letterario, che lo chiude e che per entro ad esso matura.
III. Il periodo romantico (secoli XVI-XIX). - Critica e letteratura della Riforma cattolica. - Finita già, con la prima metà del Quattrocento, l'età delle grandi scoperte letterarie, migliorati e sagacemente interpretati i testi classici latini dalle ricerche e dall'acume degli umanisti quattrocenteschi, fermate principalmente dal Valla le regole del corretto scrivere latino, approfonditisi sempre più gli studî ellenistici, la prima metà del sec. XVI aveva sopra tutto operato come sistematrice in grandi compilazioni non sempre ben organate (Celio Calcagnini, Lilio Gregorio Giraldi), e come divulgatrice per mezzo della stampa (basti ricordare il principe degli editori cinquecenteschi, Aldo Manuzio), delle cattedre universitarie, delle biblioteche e dei musei, dei grandi risultati conseguiti dall'umanesimo filologico. Lo spirito critico, come rievocatore e interprete del mondo letterario antico, non dava abbondanza di frutti notevoli (solo grande filologo, il fiorentino Pier Vettori), e si volgeva piuttosto allo studio delle antichità romane e della storia medievale ed ecclesiastica (Onofrio Panvinio, Carlo Sigonio, Scipione Ammirato, Cesare Baronio) e con Vincenzo Borghini e Lionardo Salviati, principale tra i fondatori dell'Accademia della Crusca, anche allo studio della moderna filologia linguistica.
Ma a mezzo il secolo la pubblicazione del primo commento della Poetica d'Aristotele dovuto a Francesco Robortello (1548) richiamava i dotti al problema dell'essenza della poesia, e ne scaturiva quel nuovo avviamento della critica, che teorizzando la classicheggiante pratica della letteratura e suscitando discussioni e reazioni, apre il secondo periodo della storia letteraria italiana.
Fino allora l'arduo libretto, quantunque messo a stampa nel 1498 in una traduzione latina e dieci anni dopo nel testo greco, non aveva destato grandi risonanze. Gli umanisti, tutti presi dal fascino della bellezza antica e intesi ad assaporarla voluttuosamente e a riprodurla come simbolo del passato, non vi avevano posto mente. Il problema critico trattato nel frammento aristotelico era estraneo al loro interesse; la poesia era per essi una divinità che si doveva adorare senza pretendere di penetrarne il mistero. Ora l'aristotelismo, cui tornavano la Chiesa e la scienza ortodossa a difesa delle loro posizioni, prendeva a dominare anche fra i dotti di letteratura ed era stimolo a nuovi o rinnovati pensamenti.
Da Aristotele, interpretato in servigio delle tendenze del tempo, nasceva la dottrina, ch'ebbe largo corso nel Cinquecento, della poesia imitatrice della vita e intesa ad ammaestrare dilettando. Quell'ammaestramento non poteva allora essere se non di religione e di morale. Ravvivatasi infatti negli spiriti più elevati e pii la religiosità intima, messasi la Chiesa, premuta dalla ribellione protestante, sulla via delle riforme disciplinari, ch'ebbero la loro sanzione dal Concilio di Trento, e istituitasi da questo la Congregazione dell'Indice, la letteratura dovette secondare questi nuovi avviamenti spirituali. Il classicismo, chiusosi nell'ambito dell'arte decorativa, finì con l'essere una semplice fonte di formule poetiche; i varî generi letterarî si piegarono a intenti morali, e così nella prosa come nella poesia si moltiplicarono le opere d'argomento sacro. La novella, p. es., di solito così scollacciata, assume intenti di moralità negli Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio (1565); Bernardo Tasso, il padre di Torquato, prende ad argomento del suo poema (1560), voluto di tipo ariosteo, la leggenda di Amadigi, non dissimile quanto al carattere delle avventure dalle leggende arturiane, ma per l'indole degli amori santificati dal matrimonio, per la qualità dei personaggi, per l'alto e nobile fine delle imprese, evidentemente intesa a moraleggiare i lettori; il Tansillo scrive le Lagrime di S. Pietro più volte imitate; Pier Angelo da Barga canta in latino la prima crociata e Torquato Tasso comincia il Monte Oliveto e la Vita di S. Benedetto, e compie (1594) il Mondo creato, lungo poema in endecasillabi sciolti, che narra la creazione dell'universo. Frattanto la Chiesa provvede a far rassettare e pubblicare, espurgate secondo i nuovi ristretti criterî, vecchie opere letterarie.
I principî enunciati da Aristotele erano il fondamento su cui dovevano essere costruite le teorie regolatrici dell'arte. Sviluppandoli, interpretandoli, deducendone conseguenze anche non del tutto legittime, si formularono le leggi del dramma, tra le quali acquistò luogo precipuo e carattere d'inviolabilità quella delle tre unità, primamente fissata da Ludovico Castelvetro nella sua esposizione della Poetica (1570). Dai brevi e frammentarî accenni all'epica contenuti nel libretto aristotelico, si svolse una compiuta e rigorosa dottrina del poema epico; e così per analogia o per estensione furono determinate nelle varie Poetiche (Trissino, Minturno, Muzio, ecc.) le regole d'ogni genere letterario, le quali disciplinavano non pure la materia e la struttura dei componimenti, ma la forma, prosastica o metrica, e l'elocuzione, considerata con la più insensata e la più tenace delle astrazioni come ornamento sovrapposto alla espressione del pensiero.
Alla stregua delle regole si esaminarono e giudicarono le vecchie e le nuove opere letterarie, e ne nacquero lunghe controversie, talvolta inasprite da risentimenti personali e da gelosie regionali. Dante, che soprattutto a Firenze era oggetto di culto e di studî, offrì materia a lunghe e dotte dispute sulla regolarità della Divina Commedia, sostenendo gli uni che questa non meritava neppure nome di poema, perché del tutto difforme dalle regole di Aristotele, adoperandosi gli altri a difenderla con inutili sottigliezze e anch'essi con Aristotele alla mano; nessuno curando di rendersi conto della grand'arte dell'Alighieri e, quel che più sarebbe importato, di studiare il poema nell'ambiente culturale in cui era nato. A mezzo il secolo, quando già era uscita l'Italia liberata del Trissino e Luigi Alamanni nel Girone il cortese aveva tentato di dare regolarità e autenticazione classica alle favole cavalleresche (più tardi, l'Alamanni foggerà di materia bretone una nuova Iliade, nell'Avarchide), s'accese intorno al Furioso una discussione durata a lungo e allargatasi a discussione teorica sui caratteri del poema epico in generale. A difendere il Furioso, poema di molte azioni di molti eroi, misto di serio e di faceto, cui non si trovava una nicchia tra i generi classici, si levarono nel 1554 Giambattista Giraldi Cinzio col Discorso intorno al comporre de' romanzi, e Giambattista Pigna nel libretto I romanzi; quello innalzando a regola la stessa opera d'arte riuscita, ma poi cedendo a pregiudizî classicistici, fino a mettersi a comporre un miserabile Ercole (1557), poema di molte azioni d'un unico eroe; questo, il Pigna, con più saldo vigore di ragionamento e qualche osservazione di schietta modernità.
Il problema era di creare un tipo di poema che si mantenesse fedele alle regole classiche e in pari tempo dilettasse il lettore e gli porgesse utili ammaestramenti di sapienza e di morale. Mentre si discuteva, Gio. Andrea dell'Anguillara da Sutri pubblicava una sua prolissa versione in ottave delle Metamorfosi, e Annibal Caro marchigiano, famoso anche per la sua polemica velenosa e dotta col modenese Ludovico Castelvetro, traduceva stupendamente, ma senza nessuna fedeltà allo spirito virgiliano, l'Eneide; l'uno quasi a rivelare agl'ignari di latino, un Ariosto classico, l'altro il tipo del poema epico cui si tendeva. Naturalmente discussione ed esemplificazione furono vane, perché la critica non fu mai madre di poesia. Il poema epico venne, sì, per opera di tale che sul problema aveva lungamente meditato e le sue meditazioni aveva sperimentato; e fu la Gerusalemme liberata. Ma questa ebbe la sua vitalità non dalle elucubrazioni del critico, bensì dal temperamento tutt'altro che epico e dalla fantasia del poeta.
Torquato Tasso. - Il Tasso nella sua travagliata esistenza compose opere numerose di vario genere: liriche a centinaia, tra le quali non poche d'ispirazione nuova e profonda; lettere, che abbracciano tutto l'ultimo trentennio di quella vita, filosofiche, letterarie, autobiografiche; dialoghi d'argomento morale, letterario, psicologico, limpidi d'argomentazioni e quindi di stile dove ragionano; piani, vivaci, pittoreschi dove descrivono; e orazioni e trattati e poemi e una tragedia e una commedia. Ma la gloria di poeta gli viene essenzialmente dalla Liberata e dall'Aminta, opere nate nel pieno fiore della sua giovinezza, prima che lo cogliesse quello squilibrio mentale che in forme più o meno gravi lo afflisse nei due ultimi decennî della sua vita.
Voltosi fin da giovane a speculare sui problemi estetici del tempo, il Tasso pubblicò diciottenne il Rinaldo, in cui s'industriò a fare di materia cavalleresca un poema d'un'unica azione d'un unico eroe, procurando di conciliare il rispetto di Aristotele col diletto dei lettori, l'unità dell'epopea con la varietà dilettosa del romanzo. In quegli anni stessi le condizioni storiche del tempo e circostanze familiari gli suggerivano l'idea di cantare la prima crociata, idea che dopo lungo ordine di studî e di esperimenti poté dirsi attuata col compimento della Liberata nell'aprile del 1575.
Epica ed epicamente atteggiata e organata la materia principale, che il Tasso derivò dai cronisti della prima crociata; romanzesche le invenzioni episodiche, suggerite dall'Ariosto, dal Trissino, da latinisti recenti, da classici greci e latini, e romanzescamente intrecciate fra loro e all'azione principale, sì da formare una coerente unità. Ma uomo del Rinascimento, non fatto per i grandi ardori della fede, né fervido di passione nazionale, il Tasso non seppe infondere nell'opera sua vero spirito d'epopea, né creare personaggi di gravità e dignità epica. Troppo spesso l'epico degenera nell'enfatico e nel retorico, o, com'è nelle descrizioni delle battaglie e dei duelli, sente l'epicità dei romanzi di cavalleria. Ai quali il poeta era tratto dall'indole sua e dalle sue attitudini; sì che lo stesso episodio di Rinaldo e Armida, che forma il vero nocciolo del poema, se anche faccia evidentemente riscontro al ritiro di Achille sotto la tenda, ha uno svolgimento del tutto romanzesco, e in generale il mondo dell'epopea è sopraffatto dal mondo dei cavalieri ariosteschi, che costituisce la parte più viva e più importante del poema. Nella rappresentazione di questo mondo il Tasso reca il palpito del sentimento, e tutta effonde la poesia dell'anima sua, svelando la vita intima dei suoi personaggi, che è spesso la vita intima sua. Così una soave melodia elegiaca trascorre per tutto il poema, accompagnandosi, specie negli episodî di Erminia e di Armida, a note d'idillio dolci e profonde. Ma purtroppo questa bella individualità del poeta resta spesso vinta da quella che potremmo dire la comune individualità letteraria del suo tempo, talché i personaggi principali hanno quasi sempre alcunché di teatrale, ch'è tutt'una cosa con lo stile spesso artificioso e oratorio, con l'ottava d'ampiezza sproporzionata all'ampiezza del pensiero, con la lingua piuttosto generica e scolorita.
Più fresca, più schietta, più vivida prorompe la poesia di quell'anima nella breve favola pastorale Aminta (1573), dove il tenue filo dell'azione si svolge con piena naturalezza per scene ed episodî in tal modo intrecciati che l'Aminta ne acquista aspetto di dramma regolare senza perdere della sua bella semplicità. Facile indicarne le fonti classiche; ma l'ispirazione viene dall'anima appassionata del poeta che, giovane e felice, s'inebria del sogno d'un mondo ideale, tutto raffinatezze cortigiane - e la corte Torquato descrive e celebra velatamente - tutto armonioso di melodie arcane, tutto perfuso di tenerezza molle e soave. L'idealizzazione del costume pastorale, già operata dai bucolici antichi e più o meno grossamente dai tanti autori di egloghe latine e volgari dei due ultimi secoli, è qui soffusa d'un sentimento tutto moderno di cara malinconia, che pare annunciare la moderna voluttà del dolore.
Prodromi di novità nei secoli XVI e XVII. - È questa, nel Tasso, una nota individuale che di lì a due secoli, scadendo da fatto espressivo a fatto di cultura, sarà nota caratteristica d'un gruppo d' opere, e poco dopo diverrà carattere spirituale di tutta un'età. Ma più importano, fra il tenace teorizzamento del passato, come primi barbagli d'un avvenire lontano, le polemiche dibattutesi intorno al Pastor fido, la tragicommedia pastorale del Guarini. Tragedia a lieto fine, mista di serio e di comico, formata dall'accostamento più che dalla fusione di due, anzi di tre, azioni, il Pastor fido non si sapeva bene a quale dei generi letterarî sanciti dall'autorità di Aristotele appartenesse. Il pubblico leggeva avidamente e applaudiva sulle scene quel dramma, in cui il sogno d'un'umanità ideale e generica sottratta all'immondo contatto della realtà storica, appariva realizzato dall'arte con una ricchezza e uno splendore di forme non mai veduti. Ma gli aristotelici lo criticavano per quel suo sfuggire alle regole canoniche e per la mancanza d'un ammaestramento morale; mentre il Guarini e i suoi fautori sostenevano l'indipendenza della poesia dalla vita e quindi il puro diletto come fine della poesia e difendevano, sia pure cercando di farlo rientrare entro ai cancelli delle regole, il nuovo genere, la tragicommedia, che allargava la rappresentazione drammatica della realtà della vita e adombrava principi di libertà artistica non privi d'audacia in quel tempo. Sono i primi presagi di dottrine e di realizzazioni artistiche che vedrà l'avvenire; ai quali andavano compagne le affermazioni teoriche del Pigna, che difendendo il Furioso e discorrendo del vero e del verosimile nei romanzi, distingueva la verità empirica dalla verità fantastica e osava asserire che "una bugia d'un buon poeta ogni verità seppellisce", e del platoneggiante Francesco Patrizi, che dichiarava non potere i precetti di Aristotele, come insufficienti a costituire una poetica, vincolare la libertà dell'artista. Il Giraldi stesso, così poco saldo nei principî difensivi del Furioso, mostrava un certo spirito d'indipendenza prendendo a soggetto delle sue tragedie favole di sua invenzione, dando ad alcune duplice azione e lieto fine, facendo qualche strappo alle unità, togliendo ogni intervento nel dialogo ai cori, che lascia a far da intermezzi fra un atto e l'altro. Si vedono insomma, già in questa seconda metà del Cinquecento, albeggiare lontani i principî critici del romanticismo.
Il dramma pastorale, che tra i suoi numerosi poeti pochi ne ebbe, dopo il Tasso e il Guarini, meritevoli di menzione (Antonio Ongaro, autore dell'Alceo; Guidobaldo Bonarelli, della Filli di Sciro), poco dopo un secolo di vita venne a confondersi col melodramma, grande creazione dell'estremo Rinascimento, nella quale era lievito gagliardo d'avvenire. Dalle ricerche erudite della fiorentina camerata de' Bardi sulla musica dei Greci e specialmente sui suoi rapporti con la recitazione delle tragedie, era nato infatti nel 1590 con la Dafne di Ottavio Rinuccini, agile e fresco verseggiatore, e del dotto contrappuntista Iacopo Peri, lo stile recitativo o declamazione cantata, che per via dei grandi avanzamenti fatti dalla musica nell'espressione della vita drammatica dell'anima umana, strinse musica e poesia in un fecondo connubio, che mise capo alla grande opera musicale romantica, italiana e straniera, del sec. XIX. Altrove il presagio del nuovo era, come s'è detto, in una reazione al rigido teorizzamento del classicismo; qui, rinnovandosi i tempi, nell'attuazione stessa, nutrita di passionalità, di teoriche elaborate dalla meditazione dell'antico.
La Riforma cattolica, di cui già s'è visto l'effetto nella letteratura d'invenzione, operò allora anche nella scienza politica, che, libera e gagliarda, era stata dianzi la prosa libera e gagliarda del Machiavelli e del Guicciardini, e ora, pure nel più vigoroso dei suoi rappresentanti, Paolo Paruta, è una prosa alta, nobile, dignitosa, ma un po' fredda e come tramortita (forse inconsapevolmente, perché il Paruta è un sincero cattolico) dal freno che le impone la ricerca d'una conciliazione della politica con le rinnovate massime della moralità individuale; conciliazione che è l'intento perseguito dal Paruta nei dialoghi Della perfezione della vita politica e nei Discorsi politici. Anche più scialba è la prosa di Giovanni Botero, che nella Ragion di stato ferma i principî dell'assolutismo ormai trionfante dappertutto e disegna la figura d'un principe che d'ogni suo atto fa regola e giudice la religione. Ma il Botero s'eleva a più solide forme di pensiero e quindi di stile quando, precursore e iniziatore della moderna scienza economica, espone nelle Cause della grandezza delle città dottrine che gli economisti del Settecento e dell'Ottocento nuovamente formularono e discussero, e nelle Relazioni universali raccoglie una messe preziosa di materiali economici e statistici su tutti i paesi del mondo. Così il Paruta trae dalla devozione alla sua patria un insolito calore di sentimento e di stile in alcune pagine della sua Storia della guerra di Cipro e dei dialoghi, e più nei dispacci e nella relazione della sua ambasceria a Roma.
Impavido e gagliardo, Paolo Sarpi difese le ragioni di Venezia nella lotta di giurisdizione con Paolo V, e fermo nella sua avversione alla curia romana, ne trasse ispirazione a tutte le sue numerose scritture, tra le quali primeggia l'Istoria del Concilio tridentino. Quivi lo scrittore, che vive la sua materia, crea una prosa sobria e concisa, aliena da lenocinî letterarî, talvolta scabra, altra da quella, ricca di studiate eleganze e perciò meno efficace, di Sforza Pallavicino, autore anch'egli d'una Storia dello stesso concilio intesa a confutare la tesi del servita veneziano: l'uno e l'altro nel loro giudizio di storici rispettivamente non immuni da preconcetti moralistici e curialeschi. Del resto la storiografia seguita sin oltre la metà del sec. XVII la tradizione formale umanistica, adattandosi, quanto alla materia (fatti e pensiero), alle correnti spirituali del tempo, alle disposizioni e agl'interessi degli scrittori, che sono non di rado volgari avventurieri della penna. Tra gli storici del primo Seicento più nobili e degni basti ricordare Enrico Caterino Davila, autore d'una storia delle guerre civili di Francia, e il cardinale Guido Bentivoglio, che narrò la sollevazione dei Paesi Bassi contro il dominio spagnolo.
A suffragare i motivi dell'assolutismo il Botero nella ricordata Ragion di stato citava Tacito, lo storico dell'impero, ch'era succeduto nel culto degli scrittori politici a Livio, lo storico della repubblica, venuto in sospetto insieme col suo chiosatore, il Machiavelli, le cui opere erano state poste all'Indice fin dal 1559 e il nome vietato. E Tacito, di cui non s'intendeva il pathos profondo e che s'interpretava come maestro della nuova ragion di stato, dava il salvacondotto alle dottrine dell'odiato statista fiorentino, che svisate ma riconoscibili si venivano ripetendo, perché la pratica della politica non cessava di attestarne la verità. Della qual cosa ben mostrava, sotto il velo delle sue ironie, d'accorgersi Traiano Boccalini, fecondo e arguto ingegno, che commentando il grande storico imperiale, se ne valeva per censurare arditamente il malgoverno, la crudeltà, le ipocrite arti della monarchia spagnola ed esortare gl'Italiani insonnoliti a liberarsi dalla soggezione straniera. Fautore di libertà, il Boccalini vagheggia una forma di governo simile alla repubblica aristocratica dei Veneziani, e, quantunque non scevro di vieti pregiudizî, propugna l'istruzione popolare e l'ab0lizione dei privilegi, esalta il lavoro e deride i titoli nobileschi, annunciando il primo nascere di quella borghesia politica che in un avvenire ancora lontano creerà l'unità statale italiana.
Non solo la vita politica, ma anche la letteratura del suo tempo il Boccalini giudicò acutamente e liberamente nei Ragguagli di Parnaso, invenzione non nuova, ma da lui animata d'un nuovo spirito, ora ironico e ora faceto, ora fieramente satirico e ora bonariamente canzonatorio, e spesso imitata nel sec. XVII. Egli non ha, ben s'intende, una dottrina estetica diversa da quella classicheggiante dei suoi coetanei; ma tra i giudizî da questa ispirati, e sia pure in contraddizione con essi, s'insinuano osservazioni di bella novità, come il rilievo del significato più storico che precettistico della Poetica di Aristotele e la condanna delle vuote eleganze formali nelle opere della storiografia. Covava nel Boccalini quello spirito di ribellione incomposto e avventuroso che, caratteristico del suo tempo, si manifestava qua e là in osservazioni e teoriche spicciolate sparse nei commenti, nei trattati di retorica, nelle discussioni critiche, nelle stesse opere di grave erudizione, senza investire le dottrine fondamentali ereditate dal Rinascimento. Ma lo spirito bizzarro d'Alessandro Tassoni si levò a ribellione, nei Pensieri diversi, contro lo stesso canone d'arte che il Rinascimento aveva bandito, combattendo la servile adorazione e l'imitazione degli antichi con osservazioni che precorrono la francese querelle des anciens et des modernes, mostrando irragionevole la cieca devozione ad Aristotele e lasciando intravedere fra mille stranezze e puerilità e ridicolaggini, presentimenti felici di verità. Inoltre, nelle Considerazioni sopra le rime del Petrarca, volse gli strali della sua arguzia contro il petrarchismo, mostrandosi sempre fautore convinto dei diritti della ragione contro l'autorità e propugnatore d'un avviamento della letteratura conforme ai gusti e ai bisogni moderni.
Maggiori e più decisive battaglie contro l'aristotelismo imperante nella scuola sostennero non pure il genio di pensatori quali Giordano Bruno e Tommaso Campanella, ma l'eloquenza inconfutabile del metodo e delle scoperte galileiane, che a noi, l'uno e le altre, interessano solo per i riflessi che se ne ebbero nell'arte letteraria e in particolare nella prosa volgare. Quel che di semplice, di preciso, di lineare ha la prosa del Galilei nel Saggiatore, nei Massimi sistemi, nei Dialoghi delle nuove scienze, nelle bellissime lettere, la pone in gruppo con la prosa di Dante nel Convivio, di Leonardo, del Machiavelli e di pochi altri; prosa di schietta fiorentinità temprata in forme di spontanea classicità dal vigore del pensiero e dalla limpidezza della visione fantastica; prosa della quale il volger del tempo e l'intensificarsi dello spirito d'autonomia creerà, anche per l'azione della prosa scientifica, una tradizione che, contrapposta alla tradizione della prosa studiosamente ornata, sboccherà nella prosa moderna. Ma quelle qualità, che astratte dalla realtà galileiana consentono codesta classificazione, hanno la loro vita specifica, individuale e inclassificabile, negli stupendi dialoghi e ragionamenti dove palpita l'anima stessa di Galileo con le sue commozioni profonde dinnanzi alle grandi scoperte, con le sue ironie demolitrici delle ragioni degli avversarî, con i suoi entusiasmi, con la sua festività, con quello insomma ch'è il dramma d'un altissimo spirito, che nel rinnovamento della scienza da lui operato sente il rinnovamento della vita.
Seicento e secentismo. - Accanto a questi effettivi prodromi di novità onde vanno gloriosi l'estremo Cinquecento e la prima metà del Seicento, stanno nella letteratura di quella stessa età conati di novità, nei quali l'umanesimo letterario, mentre cerca di superare sé stesso, degenera e si esaurisce nell'inaspettato e nell'artificioso, di cui è maestro Giambattista Marino, nell'enfatico e nel turgido cui tenta di sollevarsi pindareggiando Gabriello Chiabrera.
Nella Lira, raccolta di liriche, nella Galleria, dove, rinnovando un genere caro ai decadenti greci, illustra disegni pitture sculture, reali o immaginarie, nei poemetti di vario metro celebrativi d'illustri personaggi, nella Sampogna, raccolta d'idillî mitologico-pastorali, infine nell'Adone, grande poema mitologico, il Marino esprime qua e là con bella efficacia di colori e di musiche la poesia d'una anima sensuale che si commuove e s'inebria degli spettacoli voluttuosi; che ha il senso, non raro nelle età decadenti, della caducità delle umane cose; che ferve d'ammirazione per la bellezza antica. Ma questi sono lampi, le pause riposanti d'una tensione intellettuale, che logicizza nei modi più strampalati il fantastico, e riduce a freddo e sottile artificio la tecnica dell'espressione. Giacché a questo si riduce l'arte del Marino, il rappresentante più cospicuo d'un morboso indirizzo letterario che da lui fu detto marinismo e dall'età secentismo; e che ha riscontro in altre forme degenerative dell'arte, proprie nello stesso tempo d'altre nazioni europee. Era la naturale conseguenza della dottrina che considerava astrattamente forma e materia, e quella come ornamento di questa.
Imitatori il Marino ebbe molti, specie nella lirica e nell'idillio (Claudio Achillini, Girolamo Preti, Giambattista Mamiani, Antonio Bruni, Giuseppe Artale, ecc.); ma nessuno possedette l'ingegno e la consumata perizia tecnica del maestro, nessuno seppe con altrettanta vivacità di colori e abbondanza di ritmi riprendere e rielaborare motivi, immagini, favole, di poeti greci e latini specialmente della decadenza, nonché di poeti moderni d'ogni nazione. Egli stesso diceva d'avere imparato a leggere "col rampino", e la materia così adunata sfruttò non di rado con la fedeltà del plagiario.
Conato di novità il marinismo; conato di novità il pindarismo, che con tanto meno d'ingegno e di sincerità che non ponesse nella sua arte il Marino, tentò il Chiabrera. Ne ebbe l'esempio dal Ronsard, e nelle canzoni eroiche e lugubri, composte a esaltazione degli eroì d'Italia, dedusse da Pindaro l'uso, che diviene sterile abuso, del mito, certi rapidi trapassi dall'antico al moderno, certe ardite trasposizioni e composizioni di parole e perfino la struttura metrica dell'ode. Enfasi e turgore, affettazione di solennità e di sublimità, il pindarismo è, già lo si è detto, un'altra forma di secentismo, che si continua poi nelle sonorità e nelle gonfiezze retoriche di Vincenzo da Filicaia, nella pompa smagliante e nelle armonie solenni di Alessandro Guidi e giù per il sec. XVIII nella magniloquenza impetuosa e vuota di Carlo Innocenzo Frugoni. Emulo, com'egli scherzosamente si diceva, del suo corregionale scopritore dell'America, il Chiabrera altro "nuovo mondo" si studiava di scoprire riproducendo in italiano con ingegnose unioni e modificazioni di versi italiani l'alcaica e l'asclepiadea oraziane, e componendo in agilissimi congegni metrici certe graziose anacreontiche. Povero mondo anche questo, di pure virtuosità tecniche.
Tempra di veri poeti non ebbero neppure Fulvio Testi, Francesco Redi, Carlo Maria Maggi. Ma nell'oraziano moraleggiare del primo pur senti qualche spirito di poesia: un senso di sconforto e di sfiducia nelle umane sorti, una deserta aspirazione alla quiete, alla pace, all'agiatezza onorata, un soffio gradevole di sincerità umana. Il Redi, magnifico seguitatore nella prosa scientifica della tradizione galileiana, recò nelle platoneggianti rime d'amore e nel lungamente elaborato Ditirambo la sua larga e sicura dottrina di filologo, il suo brio d'uomo sollazzevole, il suo sano e corretto equilibrio d'uomo di scienza. Carlo Maria Maggi, men freddo e stucchevole nelle liriche d'argomento civile che in quelle d'amore e di morale, ha il vanto d'avere iniziato con bella spontaneità la letteratura vernacola milanese e se non creato, certo fissato nel suo aspetto divenuto tradizionale, il personaggio comico di Meneghino. Immuni, o quasi, tutti e tre dai vizî della poesia del loro tempo. Ma il più originale per vigore di pensiero di quanti verseggiarono tra la fine del sec. XVI e il XVII, e il più poeta per la rude espressione (anche in metri barbari) del suo tormento di pensatore, fu Tommaso Campanella, l'audace filosofo della morale e della politica.
Vanto d'innovatore in quel secolo avido di novità, si diede anche il Tassoni per la Secchia rapita, poema che, modellato sulle forme della perfetta epopea, mescola il serio al faceto in un comico travestimento di fatti e personaggi contemporanei all'autore posti con ridevole intreccio di anacronismi a figurare e agire in momenti disparati della vita medievale. La novità sarebbe stata l'epopea eroicomica italiana, ben diversa dall'epopea eroicomica greca, che aveva avuto nel Cinquecento qualche scialbo imitatore; ma fu novità, che in quel tempo di vita letteraria riflessa si riprodusse sì in altri poemi (l'Asino di Carlo Dottori, il Torracchione desolato di Bartolomeo Corsini, ecc.); ma in sostanza rimase quel che era stata nella Secchia, una costruzione artificiale voluta dall'autore per esibire il suo spirito comico e satirico; formale varietà d'un'arte giocosa, ch'ebbe nel Seicento e nel Settecento innumerevoli altre forme in sonetti e capitoli di stirpe burchiellesca e bernesca (tra gli autori di tali insipide monellerie mette appena conto citare Francesco Ruspoli e Lodovico Leporeo, secentisti; Vittore Vettori e, più fecondo e ingegnoso di tutti, Giambattista Fagiuoli, settecentisti) e in poemi quali Lo Scherno degli dei di Francesco Bracciolini, il Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi, il Ricciardetto di Niccolò Forteguerri, il rifacimento in ottave del Bertoldo, tutta roba che con l'arte propriamente detta poco ha che vedere. Grande macchiettista e caricaturista, il Tassoni pupazzettò e satireggiò nella Secchia amici e avversarî, e nel tempo stesso riuscì, forse senza un originario proposito deliberato, a una parodia dei grami poemi (meno grami di tutti, ma povera cosa anch'essi, la Croce racquistata del Bracciolini e il Conquisto di Granata di Girolamo Graziani), in cui languiva l'imitazione tassesca.
Trattò la critica letteraria, giudiziosamente analizzando i vizî della poesia del suo tempo, anche Salvator Rosa, bizzarro spirito d'artista, in una di quelle sue sette satire, che per la briosa arguta esuberante espressione d'una caratteristica individualità e per la concretezza di alcune rappresentazioni lo pongono primo fra i molti e scialbì satirici del suo tempo. Ai quali seguirono, artisticamente poco diversi da loro, i molti del Settecento, generici, astratti, loquaci anch'essi, quando spirito d'ira e intenzioni di vendetta personale non acuiscano e facciano concrete le loro censure, com'è nelle satire in viva lingua toscana di Benedetto Menzini e in quelle, magistralmente foggiate nei modi e nella lingua d'Orazio e di Giovenale, di Lodovico Sergardi o Quinto Settano.
Malata di secentismo fu allora anche la prosa del romanzo, dell'oratoria, delle lettere di cerimonia e d'ogni altro genere, quando non ne la difendesse, come accadde, per esempio, nella prosa scientifica di tipo galileiano di Vincenzo Viviani, di Lorenzo Magalotti e, di là dai confini del sec. XVII, di Lazzaro Spallanzani, un pensiero fortemente vissuto e quindi intollerante di astrattezze formali. Il romanzo, che morale o politico o eroico-galante s'era sostituito come lettura amena al poema e al romanzo cavalleresco, mise in mostra i fiori più spampanati del secentismo. Gran voga ebbero la Dianea di Gianfrancesco Loredan e il Calloandro fedele di Giovanni Ambrogio Marini. Meno goffa la prosa della novella, rimasta fedele alla tradizione boccaccesca, della quale sono tracce nell'invenzione della cornice anche del Pentamerone di Giambattista Basile. Ma tali sono le note dell'individualità di questo scrittore napoletano, non pure nel genere dei racconti, vere fiabe popolari, ma nello stile magnificamente secentesco, ch'egli balza su tra i contemporanei in un inclassificabile aspetto di grande artista del suo dialetto.
Dell'oratoria sacra, la sola forma d'eloquenza che avesse nel Seicento un'abbondante fioritura, pare che non più la commozione e la persuasione, ma la meraviglia dei fedeli avesse ad essere lo scopo; onde i predicatori fondavano per lo più le loro orazioni su un paragone (il concetto predicabile), cercando di far vedere con grande copia d'erudizione e con un asfissiante incalzare d'artifici retorici, come la verità che volevano inculcare fosse simbolicamente contenuta in una parola della Scrittura, in un fatto della storia, in un fenomeno della natura. Reagì a questo andazzo, senza però riuscire a sottrarsene in tutto, Paolo Segneri, prosatore semplice, agile, disinvolto in opere dottrinali, ma nelle prediche grave di soverchia dottrina, retorico, enfatico nella polemica, freddo per l'evidentemente artificiale calore nella mozione degli affetti.
Su tutti i prosatori d'arte del Seicento primeggia, se non per profondità di pensiero vissuto, per calda commozione d'esteta, Daniello Bartoli, che narrò la storia delle missioni dei suoi confratelli gesuiti in Oriente, e in altre opere trattò argomenti di morale e di scienza. Egli e il Basile sono forse i due soli scrittori, che talvolta in qualche modo ricordino i grandi artisti del barocco. La religiosità del Bartoli è sentimento poetico della creazione divina, che egli ritrae col magistero d'uno stile magnifico di costruzione e di colore, la sua ammirazione per le gesta santamente eroiche che narra, si confonde con la compiacenza dell'artista che sfoggia una abilità di descrittore potente, e l'incanto d'una visione fantastica incarnata in una mirabile ricchezza e duttilità di lingua.
L'Arcadia. - Del nuovo che il marinismo aveva instaurato fu ben presto palese l'inanità, e lo sforzo che la ricerca dell'inaspettato e dell'artificioso richiedeva a poeti e a lettori, non tardò a stancare gli uni e gli altri; talché quando nel 1690 alcuni degli uomini di lettere che a Roma solevano frequentare il salotto di Cristina di Svezia morta poc'anzi, si radunarono primamente nell'orto di San Pietro in Montorio e fondarono l'accademia dell'Arcadia col preciso intento di rigenerare la poesia italiana sterminando il mal gusto, essi furono gl'interpreti d'uno stato d'animo assai diffuso anziché gli antesignani d'una reazione nata pur allora.
La semplicità e la naturalezza del costume pastorale simboleggiato nella zampogna, che fu l'impresa dell'accademia, furono contrapposte agli artifici e ai razzi stupefacenti del primo secentismo, e ne derivarono le grazie leziose di Francesco di Lemene, le rime smascolinate e civettuole di Giambattista Zappi, tutto un fiorire di pastorellerie, di frivolezze, di sdolcinature, di cascaggini, che si raccoglie nell'opera di mille versicciolai ascritti all'Arcadia o alle colonie da essa dedotte in ogni terra d'Italia. Così si suole rappresentare, con giudizio unilaterale più di moralisti che di storici, l'Arcadia. Storicamente, essa fu l'espressione letteraria di tutto un mondo morale che si svolse vario di concetti, di avviamenti, di aspirazioni, giù per il secolo XVIII, e come espressione letteraria essa va studiata, escluso ogni giudizio di moralità. Non bisogna dimenticare la molteplicità delle forme, dei metri, dei toni, delle materie, onde gli arcadi variarono le loro composizioni, dai sonetti striscianti sulle orme del Petrarca e del cinquecentista Angelo di Costanzo, colati dai cervellini dei devoti al primo custode d'Arcadia, il modernizzante Giovan Mario Crescimbeni, alle gravi tragedie di Gian Vincenzo Gravina, legislatore dell'accademia e ammiratore intransigente dei classici; dalle canzonette svelte nei brevi ritmi, rappresentanti amoretti superficiali, paesaggi ben pettinati, idealeggiate scene di vita campestre, piccole miniature o gruppetti biscuit, agli sciolti magniloquenti del già ricordato Frugoni e a quelli di soggetto variamente dottrinale dell'Algarotti e del Bettinelli. L'arte per lo più fallisce; ma la colpa non è dell'accademia, sì delle povere fantasie. Escono pure dall'Arcadia Pietro Metastasio e Giuseppe Parini, veri, se non proprio grandi, poeti. L'ambiente li educa a quel culto del classicismo inteso non come imitazione di date forme, ma come senso della forma nitida, ben equilibrata, precisa, che il Seicento per la pretensione d'integrare e perfezionare Aristotele aveva travisato, e ch'era nei propositi riformatori d'Arcadia. Ma ben alto sulla mediocrità, anonima anche se blasonata di nomi che passavano per illustri, li solleva la loro arte.
Il Metastasio. - Il melodramma nel sec. XVII era decaduto come opera letteraria, essendosi la poesia ridotta alla mercé dei maestri di musica, dei cantanti e dei macchinisti. Ma nei primi decennî del Settecento, Apostolo Zeno s'era proposto di ridare alla poesia la sua dignità, componendo i suoi melodrammi con regolarità, per lo più su soggetti storici svolti con ragionevolezza, distribuendo con sobrietà ai loro luoghi naturali le arie, portando sul teatro musicale una coerenza di caratteri e di sviluppi scenici quale ormai non usava da molto tempo. Ingegno più di critico che di poeta, lo Zeno non poté dare ai suoi intenti riformatori la virtù persuasiva dell'arte. Questo fu merito del Metastasio.
Dalla Didone abbandonata (1724) all'Attilio Regolo (1740), il Metastasio compose una lunga sequela di melodrammi, nei quali l'arte del poeta si perfeziona e s'affina, salendo dalla semplice passionalità della Didone alla complessità d'intrecci dell'Alessandro nelle Indie e dell'Artaserse, alla bella saldezza e sobrietà strutturale dei melodrammi (Clemenza di Tito, Achille in Sciro, Temistocle, Attilio Regolo, ecc.) composti dopo che l'autore fu succeduto allo Zeno nella corte di Vienna (1730). Nei melodrammi del Metastasio l'amore ha sempre una parte essenziale ed entra in conflitto con altri sentimenti, quali sono la gratitudine, l'amor patrio, l'amore paterno; ma di rado quei conflitti raggiungono altezze tragiche, e se per un momento vi pervengono, la concitazione dei sentimenti si calma nell'onda tranquilla delle ariette che chiudono le scene. Tale era l'indole del poeta, tali i gusti del pubblico rifuggente da tutto ciò che potesse produrre impressioni violente e sgradevoli. L'eroismo, impersonato in alcuni personaggi, non vive drammaticamente sulla scena metastasiana; resta una pura astrazione intellettuale. Ivi, la vita è nella rappresentazione di affetti elegiaci, idillici, blandamente sensuali, nella quale il poeta con brio, con una concisione, un'esattezza, una lucidità d'espressione inimitabili, con una soavità, una scorrevolezza, una varietà di ritmo incantevoli, raffigura la spirituale galanteria del suo tempo. Quella società superiore e d'eccezione, che l'umanesimo aveva sognato colta, raffinata, piena di dignità, e la letteratura della Riforma cattolica, moralmente perfetta, si colora nelle fantasie del Settecento di sentimentalità idillica e di mollezza rococò e si culla in un mondo ove l'immagine s'assottiglia in suoni e melodie. E forma stupenda di questo sogno in cui si risolve e finisce il sogno del Rinascimento, è il melodramma metastasiano. Ivi l'arte redime la frivolezza arcadica.
Per dare sanzione di legittimità al melodramma, il Metastasio, fattosi critico, volle dimostrarlo continuatore della tragedia classica; e questo concetto era proprio anche del suo tempo che, morto il poeta gli decretò una medaglia con la scritta "Sophocli italico". La vecchia età, usa appunto a non considerare degna del nome di letteraria, opera che non avesse i suoi modelli nella classicità, aveva tramandato le sue abitudini alla nuova. Ma in realtà il Metastasio, mentre si volge all'antico, precorre piuttosto il futuro; ché per la rappresentazione, sia pure non voluta, dell'anima contemporanea, per l'attenuazione del tragico nel sentimentale e nel patetico, per l'intreccio dei fatti pubblici ai domestici e per certe libertà tecniche (violazione delle unità), nel suo melodramma sono presagi non dubbî del dramma romantico.
Il Parini. - Arcade il Metastasio; arcade il Parini. Anche questi ha gran copia di sonetti, capitoli, sciolti, canzonette, madrigali, epigrammi, dove sono gli scherzi insulsi della rimeria bernesca, le arguzie svenevoli o maliziose che dilettavano le dame, la frivolezza elegante della melica metastasiana. Ma sull'anima mollemente settecentesca ispiratrice di codesti versi, prevale nel Parini l'anima della nuova borghesia, che, a Milano soprattutto, si viene formando nel clima corroborante creato dai principi riformatori e che non tarderà a essere guida e reggitrice delle fortune d'Italia. Codesta anima, più intera più robusta più libera, sente il classicismo altrimenti che non solesse l'anima arcadica; ne penetra più a fondo le virtù formali, ne avverte la maschia vigoria nel pensiero nel sentimento nell'espressione, apprezza il primitivismo o gli echi di primitivismo dell'antica letteratura. È un ritorno alle fresche impressioni del Rinascimento con intenti imitativi diversi, non più di forme, ma della forma; è la prima manifestazione di quell'essenza classica, che la letteratura italiana, liberatasi dalla tutela del classicismo, serberà come suo carattere e sua difesa contro ogni specie d'indisciplina.
Ecco dunque di contro ai modesti cultori della melica metastasiana, a Lodovico Savioli, ad Aurelio Bertola, a Iacopo Vittorelli, sorgere una sequela di poeti, non migliori, ma diversi da quelli nei modi e nelle forme, i quali ostentano una più severa educazione classica e una varia cultura scientifica e filosofica: Agostino Paradisi che orazianamente intreccia sentenze a immagini in odi prive non di nobiltà stilistica, ma d'intima poesia; Luigi Cerretti, che sa dare alle sue volgarità e frivolezze un certo splendore di classicità; Francesco Cassoli, non infelice imitatore d'Orazio nella lieve malinconia del suo epicureismo; Angelo Mazza, incline al pindarismo frugoneggiante e al poetare filosofico nelle odi sulle cause e gli effetti dell'armonia, e, lirico di men debole ala, Giovanni Fantoni, cui una tutta esteriore imitazione di tecnica e di metri, procurò presso i facili contemporanei il nomignolo di "etrusco Orazio".
Nel Parini, poeta, quella nuova concezione della vita, che matura, e questo neoclassicismo, viventi intensamente la vita profonda del suo spirito, pensiero e sentimento, balzano alla fantasia, forme dell'anima sua, impareggiate per limpidezza e precisione; e nascono le diciannove odi famose, nasce il Giorno, solennemente aprendo la via all'arte del secondo periodo letterario italiano.
Non tutte le odi toccano un'uguale altezza poetica: nelle prime, che pure affermano principî innovatori dell'arte, c'è tuttavia un sentore d'Arcadia; in altre viene meno quell'intima organizzazione lirica del contenuto ammaestrativo, per cui questo vivendo, unità indissolubile, insieme con la forma, non uccide la poesia. Ma la pacata ala dell'ispirazione pariniana trae nel suo volo la moralità e la trasforma in fantasma d'esattezza, di luminosità, di concinnità perfette, quando nella Caduta prorompe il grido d'una coscienza inflessibile ai consigli della fiacca coscienza contemporanea o nel Bisogno suona l'esortazione a sensi di pietà per i miseri trascinati al delitto da quel "persuasore orribile di mali"; quando nell'ode A Silvia sul vestire alla ghigliottina il poeta si leva a detestare il pervertimento della moda come pericoloso all'innocenza dell'anima, o in quella Alla Musa accarezza la figurazione della vita domestica, benedetta dall'amore e dalla virtù, e del poeta, sereno nel culto del buono, del vero, del bello. In queste, e in altre odi dove il dolce rapimento provato dinnanzi alla bellezza muliebre muore nella rassegnata mestizia del vecchio prete, il classicismo, fievole e agghindato nella canzonetta metastasiana, si fa modernamente vivo e sostanzioso nelle ben coerenti costruzioni, nella varia snodatura dei vecchi ritmi, nell'icastica efficacia della lingua, in una parola nelle visioni d'un'anima che si rinnova.
Queste virtù d'arte caratterizzano anche il Giorno, che satireggia il costume frivolo, smanceroso, corrotto dall'aristocrazia lombarda. Dal contrasto tra la frivolezza e le apparenze fastose e cerimoniose di quella vita, contrasto di cui la coscienza intemerata e sincera del Parini sente tutta la profondità e la ridevolezza, nasce spontaneo nella fantasia l'atteggiamento ironico, che un atto di volontà, atto retorico, perpetua attraverso le centinaia dei versi del poema. Sta qui il principale difetto del Giorno, perché l'ironia non è disposizione di spirito che possa durare lungamente, quando non si trasformi, o, meglio, non abbia radice in quella non già disposizione, ma organico temperamento spirituale, che è l'umorismo. Sennonché l'anima fervida e la fantasia del Parini reagiscono talora alla volontà retorica, e l'ironia si fa sarcasmo o sdegno non velato.
Lontano da ogni specifica imitazione di modelli classici, il Giorno con la ricerca d'una ben equilibrata struttura, con la finitezza mirabile nella figurazione dei personaggi e delle scene, con la novità d'efficacissime costruzioni stilistiche, con la tempra salda e varia dell'endecasillabo, non a torto paragonato all'esametro virgiliano, incarna primamente quel classicismo essenziale, che sarà viatico indefettibile e salutare della nostra letteratura. Didascalico nella sostanza, il poema riesce squisitamente descrittivo del costume del primo Settecento, come descrittive di quella stessa vita, ma con tanto minore penetrazione e convinzione di satira, sono altre opere poetiche di quell'età, quali i sermoni di Gasparo Gozzi, in cui la riprensione della mollezza contemporanea è soffusa di un velo di rassegnata mestizia, e il Cicerone di Giancarlo Passeroni, immenso poema di troppo facili ottave, che bonariamente critica e deride ogni sorta di gente dappoco o viziosa.
La commedia. - Il teatro comico era in sostanza rimasto nel secolo XVII quale lo aveva foggiato il Cinquecento, teatro d'intrigo modellato sulle commedie classiche, né aveva avuto fortuna d'ingegni che gli dessero i contrassegni della nobiltà artistica. Sostituitisi ai comici d'occasione i comici di mestiere, era prevalso il costume della recitazione improvvisata sulla trama d'un canovaccio e s'erano fissati certi tipi comici, le maschere; era così nata la commedia dell'arte (v.), che si svolgeva anch'essa intorno ai vecchi motivi trattati dai commediografi eruditi e perfino dai classici, abbarbicandovi intorno scene buffonesche.
Accanto alla commedia a braccia vivacchiava la commedia scritta, che ne sentiva l'influsso nell'uso dei dialetti, nell'abbondanza delle buffonerie, in certa spigliatezza del dialogo; qualità che si riscontrano nel teatro di Giambattista Andreini, figlio di due famosi comici dell'arte, Francesco e Isabella. Giacinto Andrea Cicognini ebbe invece presenti nello scrivere le sue commedie modelli spagnoli, dai quali ebbe incitamento a mutazioni formali: la divisione in tre atti e la violazione delle unità. È probabilmente suo il Convitato di pietra, che per la prima volta porta sulla scena italiana, riprendendolo dal Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, la figura del libertino Don Giovanni. Fiorentino, oltre che di nascita, anche nella sua produzione letteraria è Michelangelo Buonarroti il Giovane, un pedante d'ingegno, espressione di spiriti locali piuttosto che italiani, che mentre si proponeva di apprestare materiali linguistici al Vocabolario, riuscì nella Fiera, cumulo enorme di scene slegate, a una rappresentazione, non priva di certa realistica efficacia ancorché aliena da ogni sforzo di sintesi artistica, della fiorentina realtà d'una fiera, e continuò nella Tancia la tradizione del teatro campagnolo popolaresco.
Appartiene appena alla letteratura "italiana", come ogni versificatore burlesco o familiare o burchiellesco, anche il fiorentino Giambattista Fagiuoli, le cui piacevolezze liriche e drammatiche degnamente amompagnarono l'agonia del granducato mediceo. Le sue farse e commedie dall'ordito semplice e chiaro, realistiche immagini della vita popolare, meritano un ricordo insieme con le commedie in dialetto del milanese Carlo Maria Maggi e del lodigiano Francesco di Lemene, come tentativi non infelici d'una commedia di carattere e di costume, che sul principio del sec. XVIII si contrapponeva, non sempre con chiaia coscienza di propositi, alle sguaiate e stranamente avviluppate commedie improvvise e spagnoleggianti. Con più larga visione del consorzio umano, volgendo alla vita delle classi medie piuttosto che del popolo il loro acume di osservatori e di satirici, trattarono in quel tempo lo stesso tipo di commedia due senesi: Iacopo Angelo Nelli e Girolamo Gigli, rimaneggiatore nel suo Don Pilone e travestitore alla toscana del Tartufe del Molière. Ma il grande rinnovatore del teatro comico nel sec. XVIII fu Carlo Goldoni, che, figlio della più caratteristicamente settecentesca fra le città d'Italia, Venezia, portò sulle scene la vita del suo tempo in tutta la varietà dei suoi multiformi aspetti con una rappresentazione che spesso si colora di satira indulgente.
Il Goldoni. - La cosiddetta riforma goldoniana del teatro comico nasce spontanea da quello spirito, portato da natura all'osservazione della vita sociale e ad una visione comica di tutto ciò che urtasse il buon senso e il buon gusto; non da quella consapevolezza e da quei propositi critici che il Goldoni stesso si piacque di narrare e di ragionare nelle prefazioni alle sue commedie e nei suoi amabilissimi Mémoires, teorizzando il già fatto.
Il Goldoni esordì scrivendo per le pubbliche scene veneziane tragicommedie, tragedie, commedie a soggetto, drammi per musica e intermezzi comici, nei quali ultimi faceva manifeste timidamente le specifiche qualità del suo ingegno. Poi salì gradatamente dal Momolo cortesan, primo esperimento d'una commedia di carattere scritta solo nella parte dell'attore principale e lasciata nel resto all'improvvisazione, e dalla Donna di garbo, la prima commedia che il Goldoni scrivesse per intero, dove c'è ancora molto dello scenario ma già irrompe sul teatro dalla vita settecentesca la donna arguta, birichina, dominatrice, al miracolo delle sedici commedie (1750-51), tra le quali è la Bottega del caffè, saporita pittura d'ambiente, allietata da una schiera di macchiette comiche con a capo Don Marzio, alla Locandiera, tutta luminosa del sorriso onesto, vivace, malizioso di Mirandolina, ai Rusteghi, alla Casa nova, al Curioso accidente, alle Barufe chiozzotte, al grazioso e facile intreccio del Ventaglio, all'agile e perfetta struttura del Bourru bienfaisant, mirabile di tempra fra patetica e comica.
Dai suoi stessi casi, da persone vedute, da aneddoti osservati nella realtà il Goldoni con mirabile fecondità d'invenzioni, con vero impeto creativo, fa scaturire intrecci semplici e naturali, caratteri pieni di vita, situazioni comiche innumerevoli. Nelle sue commedie l'azione solitamente si svolge rapida e senza impacci né complicazioni; i caratteri, disegnati nelle loro note fondamentali fin dalle prime scene, si determinano e coloriscono, veri motori dell'azione, mano mano che le fila dell'intreccio s'aggrovigliano e si sciolgono; una vena perenne di festività zampilla dall'intima gaiezza dello scrittore. Non tutte, si sa, le cento e tante commedie che il Goldoni scrisse in prosa e in verso, in lingua comune e in dialetto, con o senza le maschere, sono modelli del genere; anzi molte ce n'è di scadenti e alcune sono addirittura cattive, scipite nella favola, scolorite nel dialogo, con i caratteri appena sbozzati; pure anche in queste tralucono qua e là le note essenziali dell'arte, che vuol dire dell'anima goldoniana. Recare sulla scena la vita senza alterarne o guastarne gli aspetti: tale era il suo canone d'arte; ma la vita si fa commedia, dopo che l'ha rivissuta quell'anima buona pacifica, innamorata del giusto e dell'onesto, incapace di sdegni profondi e di profonde esaltazioni, temperata nel biasimo, pronta a trasformare in tenerezza affettuosa la lode. Qualche traccia della vecchia tradizione classica è anche nella commedia goldoniana; ma il suo vero classicismo è nella nitidezza della struttura, nella chiara luce che illumina i caratteri, nella formazione artistica insomma di quella naturalezza e di quella verità ch'erano ormai un bisogno dell'arte, le novità con le quali e per le quali la letteratura italiana veniva conquistando la sua autonomia e, bella del suo blasone classico, ma non più impacciatane, batteva alle porte dell'avvenire.
Ond'è che solo tardi, nella seconda metà del sec. XIX, apparvero nella scia d'arte segnata dal Goldoni nuovi creatori. I suoi continuatori immediati, Francesco Albergati, Giovan Gherardo De Rossi, Alberto Nota e, men scialbo di tutti, Giovanni Giraud, non dànno se non la confemia storica di quel bisogno. Altre tendenze dell'arte, un nuovo amore del fantastico narrativo, il proposito di creare un nuovo tipo di letteratura popolare, l'inclinazione alla mescolanza del serio col faceto, del sentimentale col comico, trasparvero allora nelle opere di coloro che avversarono a Venezia il rinnovamento teatrale portato a maturità dal genio del Goldoni. Non si allude tanto a Pietro Chiari, grande scombiccheratore, secondo che voleva la moda, di lettere, di dialoghi, di novelle, di romanzi, e come tale non inutile agitatore d'idee e divulgatore di fogge letterarie transalpine, il quale in invida gara col grande commediografo, fu per qualche tempo il poeta dei teatri veneziani, quanto a Carlo Gozzi spirito fervido e contraddittorio, che contro il Goldoni e il Chiari volse le armi del ridicolo e dell'ironia a difesa della morente arte della commedia improvvisa e finì col creare, fuori dei vecchi moduli e degl'intrecci tradizionali, un nuovo genere drammatico nutrito di fantasiose invenzioni orientali e fiabesche, cui arrise fortuna specialmente presso i romantici tedeschi, ma che in Italia cadde presto in dimenticanza, forse appunto perché nelle Fiabe del Gozzi i geniali concepimenti non riescono a essere forme d'arte consentanee al mediocre gusto del tempo.
La tragedia. - Secolo di tenui passioni e di vita elegantemente assettata, il XVIII ebbe nel melodramma metastasiano la sua tragedia, nata spontanea dalla condizione dei tempi. Ma un consapevole proposito critico gli diede insieme una moltitudine di tragedie nel senso tradizionale della parola, quale non s'era mai vista in addietro. Nel Seicento le forme tragiche venute in uso nel sec. XVI avevano continuato a vivere straccamente, solo ampliando la cerchia dei soggetti, tratti ora anche dalla Bibbia, dalla storia recente, dalla novellistica, dall'epopea, facendo più larga parte ai sentimenti teneri e attingendo elementi varî dal teatro sacro spagnolo, dalle tragedie francesi, dal dramma pastorale. Nelle quali trasformazioni la tragedia era andata snaturandosi in certi ibridi drammi dove pompose goffaggini s'accompagnavano a scurrili facezie, ogni convenienza d'arte era calpestata e ogni più strampalata invenzione tollerata.
Sennonché verso la fine del secolo la conoscenza diffusasi in Italia dei grandi tragici francesi e la coscienza dell'inferiorità italiana in codesto arringo misero in ogni facitore di versi l'ansia di provvedere al decoro nazionale creando o rinnovando la tragedia; onde un profluvio di componimenti di tal genere, le numerose dissertazioni critiche sull'arte tragica, e il concorso a premi annuali bandito nel 1770 dal duca di Parma. Grecheggianti sono le polimetre Tragedie cinque di Gian Vincenzo Gravina, forte ingegno critico che s'ostinava a reputarsi capace di poesia; franceseggianti quelle di Pier Iacopo Martelli, imitatore anche del verso alessandrino da lui detto martelliano, e quelle del padovano Antonio Conti, che forse dallo Shakespeare ebbe l'impulso a trattare soggetti romani. Né dall'uso francese s'allontanava per qualità tecniche importanti la sola tragedia del primo Settecento, cui la naturale e non decorativa o regolistica classicità della forma, unita a certi pregi d'efficacia rappresentativa, abbia assicurato una modesta vitalità anche fuori del mondo dell'erudizione: la Merope di Scipione Maffei, che fermò il tipo della nuova tragedia italiana nella struttura e nel metro, l'endecasillabo sciolto.
L'Alfieri. - Ma agl'innumeri tragedi del sec. XVIII mancava, oltre alla figuratrice fantasia, l'anima atta a concepire l'essenza prufonda dei drammi umani. La forma della tragedia maturata nelle languide elucubrazioni dei predecessori fu espressione di fervida vita solo quando vi infuse l'impeto della sua irruente soggettività Vittorio Alfieri, che la storia civile d'Italia saluta precursore e artefice della risurrezione politica nazionale e la storia letteraria creatore gagliardo di caratteri e scene di concreta e viva umanità.
Il mondo che la fantasia figurava come aspetto visibile dello spirito alfieriano, era un mondo di maestà e d'eroismo, tutto pervaso e scosso da passioni violente e smisurate; e ne erano personaggi ed elementi gli eroi sublimi di Grecia e di Roma, i miti simboleggianti nel prepotere della passione il dominio inflessibile del fato sulla volontà umana, le ferocia della barbarie medievale, i delitti del dispotismo freddamente meditati e implacabilmente eseguiti, la vendetta inesorabile del Dio biblico. A foggiare quel mondo nella sua struttura scenica e nel suo stile conferirono indubbiamente i ragionati propositi del poeta e l'azione del teatro tragico francese; ma più che per virtù di logica o di modelli, quel mondo nelle sue forme scarne contratte schematiche dense di significato veementi balzò alla fantasia su dall'intimità di quell'anima risoluta, imperiosa, passionale. Ond'egli fu il poeta magnifico della passione, scrutata nelle complesse profondità di grandi coscienze. Nei suoi capolavori, il Saul e la Mirra, e in più altre sue tragedie, come nell'Agamennone, nell'Oreste, nel Filippo, sono scene d'efficacia stupenda, battute di dialogo piene di espressione, frasi che illuminano i più reconditi penetrali delle anime e rivelano nella breve vicenda d'un giorno la storia delle lotte, delle ansie, dei dolori che mettono capo alla catastrofe. Scorci e quadri psicologici che hanno riscontro nelle liriche dell'Alfieri, soprattutto nei bellissimi sonetti autobiografici, espressivi di tetre malinconie, di sdegni, d'amori, di nobili ambizioni, e nella Vita, dove in una prosa di robusta solidità, d'andatura disinvolta, di schiettezza ed efficacia singolari, lo scrittore scolpisce la figura di sé stesso quale si volle e si vide e fu nell'impostasi attuazione d'un'alta idealità morale, che riuscì nobilmente educativa.
Animato da un ardente amore di libertà e da un fiero odio di ogni tirannide, e persuaso che l'arte dovesse istillare negli uomini sentimenti di moralità, e la letteratura esercitare un vero apostolato civile, egli ragionò questi concetti nelle minori sue opere di prosa, e loro subordinò la concezione delle sue opere di poesia, non di rado con danno dell'arte. Nelle tragedie per lo più due volontà operose si contrappongono, a rappresentare il conflitto fra la tirannide e l'amore di libertà, e mentre nasce così una certa conformità degli schemi scenici, i caratteri, assottigliati nella sola passione che li domina, prendono aspetto di tipi astratti, piuttosto che di uomini veri viventi nella storia la molteplice vita della natura umana, e la creazione poetica si risolve in commosse pagine d'eloquenza stimolatrice. Tale è la condizione anche delle minori opere verseggiate dell'Alfieri, dell'Etruria vendicata, truce esaltazione del tirannicidio, delle Satire, aspre fustigatrici di tutto ciò che il poeta odiava nella vita del suo tempo, dei mordenti epigrammi e del Misogallo, raccolta di prose e di liriche in cui l'Alfieri espresse la sua avversione alla nazione francese e il suo sdegno per gli eccessi della Rivoluzione. L'anima poetica dell'Alfieri sprigiona anche in codeste scritture lampi di luce; ma l'intento di educazione conduce l'autore a forme o ragionative o di violenza aggressiva, che restano fuori del dominio dell'arte.
Rinnovamento del pensiero e dell'arte letteraria nel sec. XVIII. - Primo l'Alfieri volse con intimità profonda di sentire l'ammaestramento della sua arte a fini politici, epperò fu grande la sua importanza anche nella storia civile. Ma il proposito di dare alla poesia sostanza di dottrina era del tempo in cui egli visse. Fu infatti quasi propria del Settecento la favola in versi di tipo esopiano, che moraleggiò e satireggiò per bocca del Passeroni, del Pignotti, del Clasio, e, ampliatasi a epopea animalesca, morse argutamente i vizî delle corti, le ingiustizie dei governi, le doppiezze della politica e tutte le altre magagne della vita sociale contemporanea negli Animali parlanti di Giambattista Casti, che menò lo staffile della satira anche nel Poema tartaro, sferzando la corruzione e la barbarie della corte russa di Caterina II. E caratteristica del Settecento fu pure l'abbondanza dei poemi didascalici, che per lo più in sciolti ammannivano ai lettori avidi di scienza, non solo virgiliani precetti di agricoltura, ma qualsiasi più arida, più scabra, più astrusa materia, teorie di filosofi antichi e moderni, di economisti, di sociologi, di giureconsulti, relazioni di nuove scoperte fisiche astronomiche fisiologiche, dottrine estetiche, fiaccamente, dimessamente, senz'altro ornamento che d'una certa leggiadretta agghindatura stilistica e di qualche goffa invenzione. Misera e presuntuosa poesia, della quale si può dire che oggi non sopravviva se non l'Invito a Lesbia, di Lorenzo Mascheroni, che mostra di sentire poeticamente i fatti e i fenomeni naturali.
La vuotaggine della melica e di tutta la colluvie della rimeria d'occasione e le fatue artificiosità d'una letteratura prosastica e poetica preoccupata della forma come d'una veste da sovrapporsi al pensiero, avevano stanche le menti, educate dalla nuova scienza e assuefatte dagli esempi stranieri a gustare meno insipidi nutrimenti. Cresceva via via un certo disdegno per i cosiddetti ornamenti formali: raffinatezze retoriche, immagini mitologiche, purezza di lingua; e d'altro canto ci s'industriava, come si è visto or ora dicendo della poesia satirica e didascalica, a rinsanguare il cosiddetto contenuto mediante le nuove dottrine scientifiche, filosofiche e sociali, indigene o che venivano di Francia. L'aspirazione, che sino dalla metà del Cinquecento s'era manifestata in spontanei e inconsapevoli balenii d'anime e in isolate e ragionate infrazioni delle regole imperanti, alla piena autonomia della letteratura italiana liberata da ogni esigenza d'autenticazione classica, s'era venuta sempre più diffondendo e intensificando; ma la tenacità d'una tradizione venerata, cui davano rincalzo le astrattezze razionalistiche conseguenti al sensismo di marca inglese e francese, e sanzione d'attualità le opere letterarie francesi del gran secolo, teneva tuttora in vita le dottrine estetiche classicheggianti che il tardo Rinascimento aveva discusso e formulato; ond'è che il pensiero estetico e critico del sec. XVIII era un curioso impasto di vecchiumi e di novità e si dibatteva in incertezze alle quali non avrebbe potuto dar fine se non un'idea che mutasse le basi della speculazione sul concetto dell'arte. Il Gravina nella Ragione poetica si propone bensì di trovare "i principî di pura e semplice ragione" da cui dedurre le regole della poesia antica e moderna e manifesta qua e là nuove e ardite idee sui generi letterarî e sui precetti irrazionali dei retori, ma non sa svincolarsi dai concetti tradizionali dell'arte imitatrice della natura e del fine didattico conseguito mediante il diletto. E a quei concetti si mantiene fedele anche il Muratori, che nel trattato Della perfetta poesia, pure attribuendo grande importanza alla fantasia nella formazione dell'opera d'arte, non sa considerarla altrimenti che come facoltà riproduttrice del vero. La sciatteria e il francesismo dello stile e della lingua, che si diffondono per tanta parte della letteratura filosofica e filosofeggiante della seconda metà del sec. XVIII, sono teorizzati dai compilatori del Caffè, combattivo periodico milanese, i quali immaginano di stendere per man di notaio una rinunzia "alla pretesa purezza della lingua italiana", e con maggiore temperanza d'idee e d'intenti da Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue; ma quelli e questo imbevuti di razionalismo e contrattualismo francese, e quindi ligi al concetto della lingua segno convenuto del pensiero, credono di poterla liberare dalle pastoie cruschevoli con un capovolgimento di regole, e il Cesarotti con l'istituzione d'una nuova Crusca (Consiglio italico della lingua), come se la lingua non fosse essa stessa il pensiero e potesse altrimenti rinnovarsi che col rinnovamento e il rinvigorimento del pensiero e della cultura.
Nella critica letteraria già circolava certo spirito di novità, che quantunque fosse alimentato dal buon senso o dall'amore del paradosso anziché da meditate teorie, e non di rado trascorresse a eccessi e a giudizî inconsulti, pure valse a scuotere opinioni e indirizzi di cultura inveterati e a corrodere la saldezza della tradizione dottrinale. Francesco Algarotti combatté le vanità accademiche e la pedantesca continuazione di certe forme e maniere letterarie non più rispondenti al carattere della moderna civiltà, lamentò la mancanza d'una prosa viva e augurò che la stanca poesia del tempo si rinnovasse e l'Italia avesse il suo poeta filosofo. Devoto ai rigidi canoni della poetica classica, Saverio Bettinelli in loro nome combatteva la sua temeraria battaglia contro il culto di Dante (Lettere virgiliane; Lettere inglesi) e ad essi informava la sua arte nelle tragedie che compose per i teatri dei collegi gesuitici; ma nel suo trasmodante opporsi al vezzo d'imitare gli antichi scrittori italiani, e nel suo assiduo auspicare una poesia nobile, forte, nutrita d'idee, esprimeva un disagio spirituale che non tarderà a far capo a novità di dottrina e d'arte. Gaspare Gozzi, multiforme ingegno di giornalista e di poligrafo, non sapeva altrimenti difendere Dante contro l'assalto del Bettinelli, che ricorrendo ad Aristotele e ai suoi interpreti; eppure con molte buone osservazioni su singoli problemi s'avvicinava a una meglio ragionata comprensione del poema divino. Per contro Giuseppe Baretti, battagliero e non sempre equo censore, nella Frusta letteraria, della letteratura del suo tempo, non s'elevava di là dalle regole della retorica classicheggiante alla concezione storica della grandezza di Dante; ma difendendo lo Shakespeare contro le censure del Voltaire, mostrava di saper considerare e giudicare l'arte nella storia, e animoso ribelle ai vincoli della tradizione retorica latineggiante, cercava di rivendicare in libertà, nella teoria e nella pratica, la prosa italiana.
Solo Giambattista Vico, il grande pensatore che precorrendo il moderno idealismo sostenne contro il metodo analitico e deduttivo della filosofia cartesiana il concetto della sintesi costruttiva dello spirito e nella Scienza Nuova trasse dai miti, dalle tradizioni, dalle leggi, dalla lingua le linee direttive dell'universale andamento della società, concepiva una nuova dottrina estetica organica e coerente, e per primo riconosceva l'autonomia dell'arte, facendo della poesia una forma della coscienza e il frutto d'un'attività dello spirito creatrice d'immagini, diversa dall'attività logica, creatrice di concetti. Applicando questi principî alla critica letteraria, egli intuì e spiegò la differenza tra la poesia spontanea e la poesia d'arte riflessa e l'afforzarsi del raziocinio a danno della fantasia nelle età più mature dell'uomo e dei popoli; vide nei poemi omerici il frutto d'una secolare elaborazione di poesia popolare e lo specchio dei costumi e del sentimento d'un'età primitiva e fantasiosa, e per primo seppe penetrare nelle intime ragioni della fresca e giovanile arte di Dante. Solo mezzo secolo dopo la sua morte le idee del Vico cominciarono a diffondersi e a fruttificare; ma agli occhi dello storico egli grandeggia nella prima metà del Settecento come spirito gagliardo di facoltà non solo logiche, ma anche fantastiche, perché dal suo profondo pensiero esce una prosa scabra, involuta e perfino scorretta, ma potente d'espressione, immaginosa e precisa.
Un'anima ben individuata d'uomo e di scrittore si manifesta pure talvolta nella prosa, forse non ancora degnamente apprezzata, di Lodovico Antonio Muratori, nel quale s'afforza e culmina quel movimento di ricerca, di catalogazione, di critica, di ricostruzione storica, che, iniziatosi nel sec. XVI (vedi sopra), si continuò, intensificandosi e allargandosi dall'archeologia e dalla storia civile ed ecclesiastica alla storia delle lettere, delle accademie, delle biblioteche e via dicendo, nel sec. XVII, e s'affinò, fissò concetti metodici al suo sviluppo, prese organiche sistemazioni, nel Settecento. Allora le biblioteche già fondate nei secoli anteriori ebbero cospicui incrementi e stabili ordinamenti e sorsero nuove biblioteche e musei d'antichità classiche e d'arte; e accanto alle accademie dei Lincei e del Cimento, ereditate dal Seicento, si formarono altre accademie che, liberandosi dalla vanità pomposa e cerimoniosa di troppe altre loro consorelle, attesero a promuovere gli avanzamenti della scienza, a illustrare monumenti archeologici, a pubblicare documenti di storia. Intorno al Muratori, mirabile indagatore dei fatti, dei costumi, degl'istituti del Medioevo italiano, raccoglitore, ordinatore e editore infaticabile delle fonti storiche di quell'età, fiorì una legione d'eruditi intesi a esplorare con più o meno di senno, d'acume e di metodo, la storia d'una regione, d'una città, d'un'istituzione, d'una particolare attività dello spirito, da Apostolo Zeno a Scipione Maffei, da Giammario Crescimbeni a Girolamo Tiraboschi, da Francesco Saverio Quadrio a Ireneo Affò, da Giammaria Mazzuchelli a Cristoforo Poggiali; operosi e benemeriti illustratori d' ogni aspetto del passato, i quali prepararono i materiali a quel rinnovamento della storiografia, che il romanticismo compirà dandole l'anima e la spina dorsale d'un pensiero basato sull'idea di svolgimento. Allora, nel sec. XVIII, essa o era posta al servigio di tesi politiche attuali, come nell'Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone, poderoso assertore dei diritti dello stato laico contro le affermazioni della Chiesa; o s'informava alle concezioni astratte d'un progresso senza svolgimento, come nel Risorgimento d'Italia dopo il Mille di Saverio Bettinelli e nelle storie di Carlo Denina, l'uno e l'altro nutriti di spiriti razionalistici francesi.
D'oltralpe vennero infatti allora in Italia e dottrine filosofiche rinnovatrici dei concetti di religione, di societa, di stato, di ricchezza, ed esempî dì nuovi avviamenti e di nuove forme letterarie. Degno riscontro agli enciclopedisti francesi, ma da questi diversi in quanto diverse erano le condizioni politiche e l'Italia portava nella speculazione una tendenza tutta sua alla concretezza realistica, una schiera di pensatori, filosofi giureconsulti economisti, costruiva con vera originalità dottrine in ogni campo riformatrici: nel regno di Napoli, Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, magnifico ingegno d'artista e di scienziato, Gaetano Filangieri, Mario Pagano; in Lombardia, Pietro Verri, Gian Rinaldo Carli, Cesare Beccaria. Con assai meno d'originalità la letteratura italiana d'immaginazione riprendeva dalla francese, rielaborato e perfezionato nella tragedia, nella favola, nella commedia, il classicismo che le aveva trasmesso; ma dalla letteratura inglese e dalla tedesca, direttamente o indirettamente per via di traduzioni francesi, derivava l'amore della malinconia e della sentimentalità, del lugubre e del fosco, che andò con crescente intensità contrapponendosi alla tradizionale serenità frivola e gaia. Grande voga di traduzioni e d'imitazioni ebbero, accanto alle opere del Pope, alle stagioni di John Thompson, ai romanzi del De Foe, dello Swift, dello Sterne, i Pensieri notturni di Edoardo Young e l'Elegia sopra un cimitero campestre di Tommaso Gray, che suggerirono agl'Italiani composizioni di genere affine (Le Notti romane di Alessandro Verri; Le Notti Clementine di Aurelio Bertola) e valsero a diffondere quasi in ogni genere letterario il gusto dei pensieri cupamente dolorosi, delle immagini fosche, delle flebili lamentele. Tradotti dall'inglese del Macpherson da Melchiorre Cesarotti, i canti d'Ossian ebbero anche in Italia largo consenso d'ammiratori e d'imitatori, attraendo con le loro fosche visioni le menti stanche della retorica compostezza e della luce monotona dell'arte neoclassica. L'affettata semplicità, la patetica sensibilità e la perizia descrittiva del bucolico Salomone Gessner, tradotto dal Bertola, accarezzavano il gusto arcadico e accademico e insieme il languore sentimentale del Settecento, mentre in traduzioni francesi e italiane il Messia del Klopstock sollevava gli spiriti a un ideale d'arte cristiana (che Alfonso Varano tentò di attuare nelle sue Visioni) e il Werther del Goethe appagava le anime passionali e avide di commozioni dolorose.
Così la letteratura italiana, che nel Rinascimento aveva detto la sua parola di vita e imposto un suo regime d'ispirazioni e di forme a tutte le letterature europee, si piegava all'imitazione del genio transalpino e s'avviava a uscire dal suo isolamento per partecipare al grande colloquio culturale europeo. Era la caduta di quel concetto della necessaria autenticazione classica, che, trionfante a mezzo il sec. XVI, quel secolo stesso e i successivi erano venuti lentamente corrodendo. Le idee, gli spiriti, le forme che avevano prodotto tale effetto, e che in questo schema di storia sono stati via via rilevati, acquistarono piena consapevolezza di sé e furono coordinati in un corpo di dottrine per opera del romanticismo, stato d'animo prevalente in Europa già alla fine del Settecento, che in Italia s'affermò come fenomeno letterario subito dopo la caduta di Napoleone, negli anni tra il 1816 e il 1820.
Il Romanticismo. - Dalla Germania, che aveva ripudiato il classicismo accademico francese ed esaltato lo spirito e le tradizioni nazionali contro il romanesimo, mentre celebrava il trionfo della passione sulla ragione e dell'individualismo più sfrenato su ogni limitazione dell'io; dalla Francia, dove la signora di Staël col libro De l'Allemagne (1813) aveva, con l'intento di rinvigorire l'anima francese, propagato la conoscenza dei costumi, dell'arte, della letteratura, della filosofia dei Tedeschi, venne all'Italia la coscienza critica d'un rinnovamento di vita spirituale e, con qualche idea direttiva, il nome di "romantico", che fu anche in Italia l'appellativo dei novatori, ancorché altre da quelle dei romantici tedeschi fossero le loro tendenze spirituali.
Un articolo della Staël (1816) fu il segnale d'una polemica tra romantici e classicisti, che si dibatté vivace e ciarliera fino al 1819. Nel primo fervore della polemica, verso la fine del 1816, uscì la Lettera semiseria di Grisostomo di Giovanni Berchet, che fu il manifesto del romanticismo italiano; il Conciliatore (1818-19) ne fu l'organo periodico, fondato da alcuni nobili spiriti (tra i quali il conte Luigi Porro Lambertenghi, finanziatore, e Silvio Pellico, redattore) per fronteggiare la Biblioteca italiana, che, sussidiata e vigilata dall'Austria, s'era a poco a poco ridotta per necessità di circostanze ad essere il portavoce dei classicisti.
Combattevano i romantici l'uso della mitologia e l'imitazione servile dei classici, la distinzione aprioristica dei generi letterarî e le regole fondate sull'autorità dei retori; volevano che la poesia prendesse a soggetto il vero storico e morale, e si proponesse di migliorare i costumi degli uomini e d'ingentilirne gli animi, prendesse argomento e ispirazione dalla natura e da sentimenti, da dottrine, da tradizioni, da storie moderne, sì che potesse essere "popolare", cioè interessare non soltanto una ristretta cerchia di dotti, ma tutte le persone di qualche cultura. Così e promovendo lo studio delle moderne letterature straniere, allargavano i romantici confini del bello poetico, mostrando come ogni tempo, ogni nazione possa produrre, in virtù di cause svariatissime, un'arte sua propria, e sia dannoso mortificare gl'ingegni imponendo loro certi modelli determinati. I fondamenti dell'estetica romantica (imitazione del vero, intento educativo) non erano diversi da quelli dell'estetica classica; ma di quei principî i romantici volevano una più rigorosa applicazione, intendendo per vero l'esistente e l'accaduto e volgendo l'ammaestramento ad alti fini morali e civili, e rivendicavano all'arte la pienezza della sua libertà, valendosi di quei principî per combattere, in nome della spontaneità dell'ispirazione, quelle leggi di regolarità e d'equilibrio strutturale che la poetica classica inculcava con assolutezza meccanica.
Lombarda nel suo periodo più fervido, la polemica classico-romantica andò languendo dopo il 1819, ma s'allargò a quasi ogni regione d'Italia, di tratto in tratto ravvivandosi, quando nuove opere dei romantici davano nuova esca al fuoco. Il classicismo tradizionale, favorito anche dalle fogge e dai titoli classicheggianti messi in voga dalla Rivoluzione e dall'Impero, ebbe ancora nei primi decennî del secolo un nucleo di seguaci non spregevoli, ancorché scarsi d'originalità intellettuale: Cesare Arici, modesto fabbro di ammodernate eleganze virgiliane nei suoi numerosi poemi didascalici; lo storico Carlo Botta, autore anche d'un poema epico, Il Camillo; Pietro Giordani, architetto sapiente di periodi, apostolo coraggioso d'italianità e con maggiore larghezza d'idee compagno ad Antonio Cesari e a Basilio Puoti nell'opera di purificazione della lingua dalla sciatteria franceseggiante del Settecento. Ma la letteratura italiana fu ben presto tutta romantica, d'un suo proprio romanticismo s'intende, ben diverso dal romanticismo inglese, tedesco, francese. Il buon gusto ortodosso, rifuggente da ogni forestierume non pur di parola ma di pensiero, infatuato del "magistero dello stile", che voleva poi dire dei pedanteschi periodi rotondi e sonanti, ligio a concezioni artistiche pacate, misurate, scialbe, andò mano mano restringendosi e accentrandosi in una scuola che raccoglieva i suoi proseliti specialmente nello Stato Pontificio tra Roma e Romagna, e che protrasse la sua vita sin oltre la presa di Roma. Come suo capo glorioso essa riconosceva Vincenzo Monti, autore nel 1825 d'un sermone Sulla mitologia in bellissimi sciolti, diretto appunto contro "l'audace scuola boreale".
Il Monti è un magnifico settecentista attardato, che fu sopraggiunto dalla nuova scuola al tramonto della sua attività di poeta, quando il romanesimo imperiale aveva rinvigorito e rinfrescato il suo neoclassicismo settecentesco. All'esotismo del secolo che lo vide nascere e che lo educò all'arte, egli pagò largo tributo; ma più continua e profonda fu la sua devozione al classicismo, a quelle "favole argive e latine" che lamentava spregiate dai romantici e che mise a profitto volgendole a significati allegorici e adulatorî. Spirito sensibilissimo ad ogni impressione, egli gustò la bellezza di tutte le forme letterarie antiche e moderne, italiane e straniere, classiche e religiose, e ne fece suo pro nelle sue rime. Ma la sua fantasia, agile e ricca di colori e di suoni, ha scarso il vigore creativo, ristretto il campo d'azione, corto il respiro. Nelle rappresentazioni idilliche e nell'espressione di sentimenti domestici e di tenere commozioni, egli riesce a far arte delle dirette esperienze della realtà, anche qui avvicinando l'arte sua a quella dei romantici; il resto è poesia di seconda mano, forma magnifica della commozione in lui destata dalle svariate letture, poesia fatta sulla poesia. Di qui le incoerenze e le stonature estetiche di questo romantico avanti lettera, che ostinatosi ad essere classico, dimentica sé stesso nell'esercizio della sua bravura imitatrice o emulatrice dei pezzi di poesia dovunque ammirati; ma di qui anche l'eccellenza del Monti come traduttore dell'Iliade e il fascino del suo verseggiare, che esprime una commozione puramente letteraria, ma sincera.
Anima romantica nutrita di cultura straniera, specialmente inglese, ebbe Ippolito Pindemonte, coetaneo del Monti e letterariamente lui pure settecentista, per il suo neoclassicismo e le tendenze sentimentali consone all'esotismo di quel secolo. Buon traduttore dell'Odissea, dopo avere in una serie non breve di opere risentito fortemente gl'influssi del Gray, dello Young, dell'Ossian, del Klopstock, dello Shakespeare, anch'egli rimane a mezza strada tra classicismo e romanticismo, non avendo il suo spirito, simpaticamente superficiale, tanto di vigore da superare quel dualismo in una risoluta concezione teorica e in un originale atteggiamento dell'arte.
A questo appunto si levarono i tre grandi poeti che al principio del nuovo secolo diedero alla letteratura italiana opere tra le più insigni di cui essa si glorii, inclassificabili naturalmente: Ugo Foscolo, il più romantico dei classicisti; Alessandro Manzoni, il più classico dei romantici; Giacomo Leopardi, grande romantico variato di propositi e abiti di classicità.
Il Foscolo. - Nell'Ortis, l'anima dello scrittore è falsata da esotiche truccature settecentesche nella rappresentazione d'un personaggio esteticamente incoerente e nell'enfasi d'una prosa declamatoria e ostentatamente "poetica". Solo qua e là quell'anima traluce in semplice schiettezza di forma, tenera qual era, di domestici affetti e di carità umana fra il pessimismo rousseauiano, pervasa d'un senso profondo di religiosità fra le negazioni razionalistiche dell'Enciclopedia, sdegnosa d'ogni viltà, innamorata del bene, piena di fede eroica nella virtù fra l'aridità del sensismo che proclamava illusione ogni valore morale. E forma magnifica di poesia originale l'anima del Foscolo diviene nella maggior parte dei dodici sonetti e nei Sepolcri. Amorosi e dolorosi, i sonetti rappresentano con una efficacia e una sincerità commoventi la passione che travolge e la stanca malinconia che assilla lo spirito del poeta. Carme di virile, pacato, solenne dolore e insieme di conforto e di speranza, i Sepolcri sono dominati dall'idea della fatale infelicità degli uomini, e intorno a quest'idea raccolgono un'onda amplissima di sensitività, che, umana e patria, balza alla fantasia, composta in densità gagliarda d'immagini, in armonia larga di suoni. Ne spira un'aria di elegia tragica, rotta da squilli d'epopea, che suonano alti e larghi nella seconda parte, rasserenata qua e là da lucidi orizzonti, sublimata da quella coscienza profonda della spiritualità umana che sale rettilinea con progressiva intensità di passione dal principio alla fine del carme e ne suggella l'unità estetica e concettuale.
Col maturare delle esperienze di vita, il senso del dolore, la pessimistica concezione dell'essere, le passioni vengono, non attenuandosi, ma approfondendosi (i sonetti), e mentre da una parte si placano nella reintegrazione del mondo spirituale e nel restaurato culto delle illusioni (i Sepolcri), dall'altra risentono l'azione catartica della bellezza; e l'anima del poeta, che ha già superato il suo dolore, si rasserena nella contemplazione del forte misurato armonico mondo classico: insieme con i sonetti nascono le odi; ai Sepolcri succedono le Grazie. C'è nelle une e nelle altre sfoggio di virtuosità tecnica e raffinatezza alessandrina, e nelle Grazie anche artificio di costruzione e di allegorie mitologiche; ma nelle odi, specialmente in quella Per l'amica risanata, sulla passione temperata e atteggiata a compostezza classica, alita un senso di commozione religiosa dinnanzi alla visione della bellezza antica ricreata e contemplata dal poeta, e nelle Grazie il rito celebrato dalle tre dive fra gli aerei poggi di Bellosguardo, assume virtù espressiva d'una quasi mistica elevazione dello spirito, purificato nel culto d'un mondo di bontà, di sapienza, di bellezza, cui domina suprema reggitrice l'armonia. Così la poesia del Foscolo involge tutta la trama complessa della realtà, e rappresenta in commossa unione gli opposti motivi della vita e della morte, e quella non pur come dolore, ma come volonta, e questa non pur come sintesi d'ogni male, ma come inizio d'una vita di là dalla vita.
Con gl'incompiuti inni alle Grazie, il Foscolo poeta finisce. In Inghilterra il poeta cede al critico e col Discorso sul testo della Divina Commedia, con i Saggi sul Petrarca e con molte altre scritture, egli instaura la moderna critica letteraria; una critica, storica nel suo fondamento e quindi indagatrice della psicologia e della vita esteriore degli scrittori, ma avvalorata da un vivo sentimento della poesia come rivelazione e intensificazione di vita.
Il Manzoni. - Spirito energicamente unitario, Alessandro Manzoni è nell'arte e nella dottrina estetica quello ch'è nella vita e nella dottrina morale. La sua opera di poeta è profondamente morale senza avere intenti morali; le sue dottrine estetiche si formano e maturano in perfetto accordo e, per così dire, in una specie di parallelismo con le sue dottrine morali. Cominciò classicheggiando secondo la tradizione settecentesca e l'insegnamento del Monti; ma già il carme In morte di Carlo Imbonati ha luce d'originalità nello sviluppo della vecchia favola (una visione) tratto direttamente dalla vita, nello stile scevro di ornati mitologici e maneggiato con bella disinvoltura e più nei concetti di savia ponderatezza, di rettitudine, di rigida onestà, d'indipendenza, di sincerità che vi sono enunciati, norme insieme d'arte e di vita.
La sua nuova poesia sboccia e s'afferma quando per il cospirare della ragione e del sentimento in un complesso moto spirituale, la cu; vigorosa autonomia non è scemata da influenze esteriori, specie giansenistiche, egli ritorna alla fede avita, e scrive i primi quattro inni sacri, nei quali si propone - e in ciò sta la novità di questi Inni - di ricondurre alla religione quei sentimenti di carità e di fratellanza che naturalmente ne germogliano. In pura spontaneità d'anima che in sé unisce il senso del mistero religioso e il fervore d'un'alta idealità umana, codesto principio si risolve in una magnifica forma di poesia, nella Pentecoste, il quinto e ultimo degl'Inni sacri, con cui il Manzoni esce poeta del gran moto idealistico, che riconsacrava nella fede l'umana spiritualità, già rivendicata dal Foscolo contro il razionalismo sensistico del Settecento. A forme d'arte di coerente unità, il Manzoni piega l'espressione dell'umano e del divino anche nelle liriche politico-storiche, Marzo 1821 e Cinque maggio; in quella confortando le aspirazioni italiane con la fiducia nella giustizia divina; in questa proiettando l'epica figurazione di Napoleone su uno sfondo d'eternità dominato dalla Provvidenza reggitrice delle cose terrene e promettitrice di bene di là dalla vita.
Ancora per ragioni non pure estetiche, ma religiose e morali, il Manzoni preferisce alla classicheggiante tragedia francese la tragedia storica shakespeariana, nella quale vede i caratteri svolgersi e manifestarsi interamente attraverso il corso degli avvenimenti, e la vita prendere l'aspetto d'un giuoco tragico che non ha spiegazione e giustificazione se non nell'eterno. E codesta tragedia storica teorizza libera dalla legge delle unità di luogo e di tempo nella lettera a M. Chauvet, mentre tenta rinnovarla nel Carmagnola e nell'Adelchi. Quivi l'anima del poeta pensante cristianamente il mistero della sorte umana, s'incarna, oggettivata dalla fantasia, nella tragica vicenda del venturiero quattrocentista e della casa regnante longobarda. Una concezione pessimistica della vita tutte pervade codeste tragedie, onde viene a essere attenuata la drammaticità delle catastrofi; ma il senso immanente d'una giustizia superiore all'umana, che trae il bene da ciò che gli uomini stimano male, dà loro un significato profondo che l'arte plasma in scene e in figure indimenticabili e interpreta liricamente nei cori stupendi.
Uno spirito di pessimismo cristiano circola anche nelle pagine dei Promessi Sposi, il grande romanzo che forma con la Divina Commedia e l'Orlando furioso la costellazione più luminosa di poesia nel cielo della letteratura italiana. Costruito con perfetta proporzione di parti, scritto con intenso rilievo e limpida nitidezza di visione fantastica, tutto percorso dalla vita d'uno spirito appassionato della verità storica, avido del concreto, sagace, arguto, portato all'umorismo, esso è in una rappresentazione potente di uomini e di cose, espressione classicamente temprata d'un'idealità religiosa e umana; nell'intento, non altro che opera d'arte, ma perché nato in quell'anima, anche serenatrice opera di fede e d'amore. L'idealità che vagheggia, il Manzoni trova affermata o negata dalla storia, e nella storia non superficialmente indagata e mirabilmente intuita, egli immerge la tenue favola di sua invenzione, creando anche nella figurazione psicologica ed esteriore dei personaggi non storici, l'illusione della storia. Con la finezza che è tutta la sua anima stupendamente espressa, egli infonde nella narrazione quel senso del divino che è nell'intimo del suo spirito contemplante l'andar della storia; talché nello sfondo del quadro sta invisibile eppur presente Dio, nella sua alta funzione di reggitore degli umani destini, e nell'esercizio della sua tremenda giustizia.
Tutti gli elementi intellettualistici che il pensiero del Manzoni aveva elaborato nelle sue tenaci meditazioni e in una serie d'opere filosofiche, estetiche, storiche, dalla Morale cattolica alla Storia della colonna infame, dalla lettera sul romanticismo alle dissertazioni intorno alla lingua, sono nei Promessi Sposi assorbiti superati annullati in una forma artistica, che nella sua graduale maturazione, li ha a poco a poco esclusi da sé come materialità dottrinali; ma inclusi in sé come assimilato nutrimento spirituale. Il romanzo ebbe presto una straordinaria fortuna di edizioni, di traduzioni, di riduzioni poetiche e drammatiche, d'insipide continuazioni. E grande ne fu l'influenza non pure nella letteratura narrativa fantastica, ma in tutto l'andamento delle lettere italiane, avendovi instaurato e diffuso con la sua prosa agile, sciolta, varia, senza lambiccature, il senso della forma moderna, che è classicismo, finalmente e per sempre liberato da ogni rancida velleità d'imitazione classica.
Il Leopardi. - Nel 1827, l'anno stesso dei Promessi Sposi, uscirono in luce le Operette morali di Giacomo Leopardi; forma poetica d'una concezione pessimistica della vita confortata dalla fede, quelli; forma poetica d'una dottrina pessimistica priva d'ogni consolazione, queste. Dal sensismo settecentesco in cui era stato educato, il Leopardi pervenne a un arido materialismo, nel quale tutte le idealità, tutti i valori morali erano svalutati e annullati come illusioni, e la vita, priva d'un fine, si riduceva a "inutile miseria". Sennonché la sua anima di poeta risaliva verso l'ideale per la via della riacquistata consapevolezza della spiritualità umana, perché appunto il poter l'uomo interamente comprendere e fortemente sentire la sua nullità, era per lui la miglior prova che si potesse desiderare, della grandezza dell'umano intelletto e dell'altezza e nobiltà dell'uomo. Così dalla coscienza dell'eterna universale necessità del dolore risorgevano le illusioni, che sfatate dal pensiero raziocinante, trovavano nel pensiero stesso e nel sentimento i motivi della loro rinascita. Ed ecco negl'idillî giovanili splendere la grande poesia d'uno spirito dolorante che si conforta in un dolce abbandono alla contemplazione della natura; ecco nel Bruto minore, che qui si cita a rappresentare la lirica oratoria, la poesia dell'eroismo che s'accampa impavido contro i "marmorei numi" (la fatalità del destino) e la natura insensata; ecco nel Canto notturno d'un pastore errante diffondersi dalla chiusa tragica d'ogni stanza la poesia d'un'anima orgogliosa della sua straziante scoperta; nei canti di ricordanza gemere il rimpianto delle rivalutate illusioni; e la bellezza ideale, l'amore e la gioia della fratellanza degli uomini sorridere nel Pensiero dominante, in Amore e morte, nella Ginestra. Anche le Operette morali, esposizione e difesa in forma di racconto allegorico, di dialogo, di discorso, del pensiero pessimistico dell'autore, s'animano non di rado d'un vivo soffio di poesia e risolvono la cupezza delle loro negazioni in un'esaltazione delle condannate illusioni e in ammaestramento di vita vissuta eroicamente, di dedizione all'amore del prossimo, di resistenza consapevole dello spirito libero alla cecità necessaria della natura. Sulle rovine seminate dallo spirito distruttore delle sue creazioni (i valori morali) e quindi di sé stesso, s'accende una nuova energia dello spirito, che nella sua opera distruttrice sente sé stesso. Dal pathos di questo superamento scaturisce il fiotto irruente della poesia leopardiana.
Romantico nel disagio spirituale che lo affligge per il contrasto di ragione e sentimento, romantico in certa sua indisciplinatezza di forme metriche e nella bizzarria lucianesca delle sue prose, il Leopardi ha del classico in qualche peregrinità di lingua che lascia vedere sotto il poeta il letterato, nella nitidezza della visione fantastica e soprattutto in quella, più calcolata che spontaneamente ispirata, lirica eloquente, che con i suoi latinismi, le sue complicatezze strutturali, la sua studiata densità d'espressione tramezza fra la schiettezza semplice e fresca dei primi idillî e l'altezza limpida e naturale delle poesie dell'ultimo decennio.
Sviluppi del primo romanticismo. - Liberatasi da ogni velleità o esigenza di classicismo come imitazione di forme, ma provvista dì quel viatico di classicismo che è puro senso della forma e che circa sei secoli di vita le hanno connaturato per sempre, la letteratura italiana entra per opera del romanticismo nel colloquio letterario mondiale, e più o meno intensa, più o meno continua ne risente l'efficacia, sia in un generico riflesso di forme, di tendenze, d'atteggiamenti, sia in particolari imitazioni d'opere o di maniere.
Il romanzo del Manzoni, nel quale è pure qualche traccia, senza importanza per l'arte, di romanzi scottiani, e la gran voga europea dei racconti appunto di Walter Scott, promossero in Italia una larga fioritura di romanzi storici, i quali mentre appagavano il gusto allora dominante della storia come contemplazione del passato rivissuto nella sua concreta realtà pittoresca, potevano anche esercitare un'azione pratica nel fermento sempre più vivo e operoso delle aspirazioni nazionali. Assai più scottiani che manzoniani sono i romanzi storici di Giambattista Bazzoni e di Carlo Varese; manzoniano nelle situazioni, ma per la natura dell'argomento e per certe qualità tecniche scottiano è il fortunato Marco Visconti di Tommaso Grossi, autore anche di novelle romantiche in versi e d'un poema eroico, che sa di novella e deve pur molto allo Scott. L'ispirazione d'un'idealità patriottica è evidente nei due romanzi Ettore Fieramosca e Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio, narratore semplice, disinvolto e talora vivace, che sa costruire saldamente i suoi romanzi e rappresentarvi con efficacia il pittoresco della storia, ma riesce fiacco e superficiale nella figurazione intima dei suoi personaggi. La violenta passione che infiammò la vita politica di Francesco Domenico Guerrazzi, arde anche nei suoi romanzi, nei quali la retorica classicheggiante si mescola a convulsioni e gonfiezze di stile e la sentimentalità enfatica di certo romanticismo straniero a foscaggini byroniane. Eppure il Guerrazzi sa essere semplice e naturale nella graziosa allegoria della Serpicina e nel romanzo di costumi moderni Il buco nel muro, dove una vena d'umorismo dà la vita d'una ben differenziata individualità di scrittore alla schietta parlata toscana. Antiromantico nella dottrina e nei propositi puristici di raccoglitore e consumatore di leccornie linguistiche, ma nella pratica dell'arte romantico come ogni altro scrittore del primo Ottocento, fu Antonio Bresciani, che al liberale Guerrazzi fa riscontro come il romanziere fecondo e iracondo della reazione seguita alle rivoluzioni del Quarantotto; autore di pagine di prosa degne di vivere nella storia letteraria italiana, solo per l'opera Dei costumi dell'isola di Sardegna.
Parallela alla voga del romanzo storico procede la copiosa fioritura del dramma storico, alimentata da intenti imitativi dei grandi modelli inglesi e tedeschi e a suo tempo anche della tragedia manzoniana. Edoardo Fabbri e Francesco Benedetti, classicisti tenaci nella teoria e nei primi esperimenti d'arte, romanticheggiano nei loro drammi più tardi per la scelta dei soggetti medievali, per l'estendersi delle azioni di là dai limiti delle unità, per certo studio storico di caratteri, per la teatralità pittoresca d'alcune scene. Medievali sono i soggetti, largo e complesso lo sviluppo dei casi e dei caratteri, libera la forma nelle tragedie di Carlo Tedaldi Fores e di Carlo Marenco. Dalla storia medievale e biblica trae le sue Silvio Pellico, dalla Francesca da Rimini all'Erodiade, senza molto scostarsi dalle forme classicheggianti alfieriane, ma nutrendo di reminiscenze shakespeariane e schilleriane la sua povera arte e sfiaccolandola con la sentimentalità cara al suo tempo. Dalla tragedia classica, con la quale esordì, Giambattista Niccolini passò gradatamente, seguendo gli esempî stranieri e del Manzoni, al dramma romantico, non senza soste o ritorni né senza qualche persistenza di spiriti classici, proponendo all'arte sua anche intenti politici, che s'assommano e culminano nell'Arnaldo da Brescia, giudicato il suo capolavoro. E per vero certi pregi di struttura e di colorito storico non gli mancano; ma anche nell'Arnaldo i personaggi sono figure di pura esteriorità, oratori magniloquenti poveri d'intima vita drammatica. Argomenti medievali trattò in forma drammatica anche Leopoldo Marenco, figlio di Carlo; argomenti storici più moderni Giuseppe Revere, l'uno e l'altro artificiosamente, quello per leziosaggini sentimentali, questo per pedanterie letterate. Nelle libere forme dell'arte romantica sono pure condotti i drammi di Pietro Cossa, ultime propaggini della fiumana drammatica che scende dal principio del secolo. Ivi soggetti romani, Nerone, Messalina, ecc. (e meno felicemente altri, medievali e moderni) sono tratti a vivere una vita d'umanità varia e piena secondo le leggi eterne della natura, in una rappresentazione che trascorre dalla solennità epica alla concitazione lirica e alla semplice e piana andatura della commedia borghese.
Questi romanzi e drammi, in cui era rappresentata o ci si attendeva che fosse rappresentata la storia nella realtà specifica dei suoi momenti, corrispondevano a quella medesima tendenza che dalla storia filosofica settecentesca, assertrice del progresso subitaneo della ragione nel secolo dei lumi, aveva condotto gli spiriti a una concezione della storia che rimettendo in onore le poderose ricerche dei grandi eruditi settecenteschi e proseguendole, ne traeva una rappresentazione del passato (del Medioevo con particolare predilezione) ben individuata in concretezza di fatti, d'istituti e di costumi, e la interpretava in funzione d'uno svolgimento d'idee e di forme sociali generatore del presente e dell'avvenire. Spirito di reazione alle storie settecentesche è nel mirabile Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di Vincenzo Cuoco, tutto nutrito di succhi vichiani; nelle storie di Carlo Botta, frigide di morte forme umanistiche, e nella Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta, che il fervore della passione politica e la sincerità dell'ispirazione salvano dal pericolo dell'artificio classicistico. Ma muove dal Manzoni, autore del solido Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, la nuova scuola storiografica che dal passato cercava trarre suffragio d'autorità e di speranza alla sua idealità cattolico-liberale. A codesta scuola appartengono Carlo Troya, Cesare Balbo, autore d'un Sommario della storia d'Italia, insigne per dottrina e per pensiero, Gino Capponi, Luigi Tosti, nobili figure di storici e di patrioti, Niccolò Tommaseo, i cui libri di storia sono viziati da gravi incertezze di giudizio e da una acerba passionalità, e Cesare Cantù, poligrafo infaticabile, storico di scarsa originalità e incapace di giudizî sereni. Altra è l'ispirazione politica d'altri storici, quali Giambattista Niccolini, debole ricercatore di storie a preparazione delle sue tragedie, Atto Vannucci, Antonio Ranieri e qualche altro, che del problema nazionale auspicavano una soluzione indipendente dall'autorità del papato e che in generale portarono nella loro trattazione una preparazione erudita di gran lunga inferiore a quella degli storici neoguelfi.
Ispirata da un pensiero politico, e insieme severamente curiosa della verità filologicamente accertata, è la Storia del Vespro siciliano di Michele Amari, grande orientalista, la cui opera segna il trapasso dalla storia di pensiero nutrita d'indagini e di materiale documentario alla storia così detta scientifica, non ispirata da sentimenti politici. Di questa s'erano avuti tentativi e saggi pregevoli già nella prima metà del sec. XIX per opera di Carlo Cattaneo; di Luigi Cibrario, d'Ercole Ricotti, ecc.; ma la storia scientifica venne decisamente prevalendo e sempre più restringendosi a pura erudizione e filologia nel primo trentennio del regno, quando con fortunate ricerche d'archivio e taluno con larga visione dei fatti tentarono la risoluzione di problemi storici o curarono la critica delle fonti Pasquale Villari, Giuseppe De Leva, Bartolomeo Capasso, Isidoro Del Lungo, e, più giovani, Carlo Cipolla, Amedeo Crivellucci, Ettore Pais con altri molti, mentre le Società e le Deputazioni di storia patria, coordinate poi a un Istituto storico italiano (1883), aiutavano il lavoro individuale con la pubblicazione, non sempre retta da severi concetti metodici, di grandi serie di monografie e cronache e documenti.
Similmente la storia letteraria e artistica passava dalle trattazioni puramente erudite del sec. XVIII a indagare sagacemente nelle espressioni letterarie e artistiche la vita morale, religiosa, politica del popolo italiano, facendo notevoli e talvolta insigni prove di sé nelle pagine critiche del Foscolo, del Mazzini, del Gioberti, del Tommaseo, di Carlo Tenca, salendo dalla Storia delle belle lettere in Italia di P. Emiliani Giudici alle Lezioni di letteratura italiana di L. Settembrini, dalla Storia della scultura di L. Cicognara alla Storia estetico-critica delle arti del disegno di P. Selvatico, e culminando nella Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis, che nelle grandi opere letterarie, sentite e magnificamente interpretate come forme d'individualità privilegiate, cioè come forme d'arte, vide riflesso lo svolgimento della vita storica italiana.
Nutritasi in gran parte della materia erudita che avevano apprestato i grandi ricercatori del sec. XVIII, questa scuola, nata anch'essa dal fervore storico instaurato dal romanticismo, aveva col De Sanctis adempiuto il suo ufficio, e pareva necessario che altre indagini, radunando un'altra congerie di documenti, ponessero altri problemi storici nei quali e per i quali nuove verità superassero le già raggiunte. Sorse così anche per la storia letteraria e artistica, intorno al 1860, una scuola tutta intesa a rivedere sulle fonti prime notizie e giudizî, a scoprire nelle carte inesplorate di archivî e biblioteche nuovi fatti, a restituire i testi alle loro genuine sembianze, a ficcare lo sguardo nella vita fantastica dell'età media, a studiare la lingua e i dialetti con i metodi comparatistici instaurati oltralpe, e a fare tutto questo con rigore di metodo così nella ricerca come nella forma espositiva. Iniziatori e maestri ne furono nei varî domini dell'indagine Adolfo Bartoli, Giosue Larducci, Alessandro D'Ancona, Domenico Lomparetti, Giovanni Flechia, Graziadio Ascoli, i quali per due generazioni alacri e feconde ebbero continuatori Pio Rajna, Francesco D'Ovidio, Ernesto Monaci, Girolamo Vitelli, Remigio Sabbadini, Francesco Toiraca, Rodolfo Renier, Arturo Graf, Francesco Novati, Cesare de Lollis, Ernesto Giacomo Parodi, Carlo Salvioni con tutta una schiera d'altri valenti studiosi.
Tornando dopo questo intermezzo di storia della cultura (per altre notizie v. filologia) alle velleità creatrici e ai radi spiriti creatori, occorre far cenno delle forme e degli atteggiamenti che per l'azione del romanticismo prevalsero nella letteratura italiana giù per il sec. XIX. Frutto non sempre consapevole, ma certo dei più gustosi, del romanticismo italiano, che tra i suoi canoni dottrinali poneva la popolarità della letteratura, fu il rincalzo ch'ebbe dappertutto l'uso dei dialetti come forme d'espressione di particolari mondi poetici. Ancora settecentesco e arcadico è Giovanni Meli, delizioso nelle armonie dei suoi facili ritmi e nelle mollezze del suo bel dialetto siciliano, il quale in seguito felicemente espresse sensi tra di misticismo e d'umanità buona nei poemi d'Alessio Di Giovanni. A Venezia la poesia vernacola da certa grazietta rococò del Goldoni, di Francesco Gritti, d'Antonio Lamberti, dichina alla faciloneria spesso scurrile di Pietro Buratti e di Camillo Nalin e poi s'annobilisce nella squisita venezianità e nell'arguzia signorile di Riccardo Selvatico. Più tardi Verona dà all'Italia le liriche di Berto Barbarani, aperte a un senso di larga umanità e alla poesia del pittoresco. Nella vecchia tradizione della musa meneghina s'inserisce per dominarla Carlo Porta maestro insuperabile nel creare figure e scene di vita e nel piegare il dialetto ambrosiano alle più varie espressioni, del comico e del patetico, del satirico e del drammatico. In Piemonte Angelo Brofferio morde con l'arguzia, spesso velenosa, delle sue canzonette dialettali, difetti del tempo e atteggiamenti politici a lui odiosi. Descrittore stupendo dei costumi, dei sentimenti, delle superstizioni del popolo di Roma, sorge Giuseppe Gioacchino Belli, al quale si collega nei suoi primi esperimenti Cesare Pascarella, ma se ne allontana presto per raggiungere una singolare profondità nella rappresentazione, pur nell'arguzia fine dei suoi sonetti, degli aspetti più serî e più tragici della vita; e, più giovane, Carlo Alberto Salustri (Trilussa) tratta motivi satirici e narrativi di carattere popolaresco. Il vernacolo pisano assurge a dignità d'arte nei sonetti di Renato Fucini, narratore piacevole e descrittore squisito anche in prosa italiana d'aneddoti e di costumi. Nell'Abruzzo chietino Cesare De Titta affida alle svanenti sonorità del suo dialetto la tenerezza accorata della sua vena soffusa d'ingenuità popolaresca. E a Napoli la poesia vernacola, lirica e drammatica, di Salvatore Di Giacomo con la sua sognante contemplazione e la sua molle musicalità solleva la realtà in un mondo di spiritualità misteriosa.
La natura degli argomenti, alcune figure di perenne umanità (ma ne ha di ben più profonde il Porta) e il consenso fattosi rapidamente generale al concetto manzoniano della lingua, escludono solitamente dal novero dei poeti dialettali Giuseppe Giusti; ma poeta dialettale egli è per la pretta toscanità non pur della lingua e della materia, ma delle allusioni, del costume, dello spirito, in quei suoi Scherzi, che quando non li appesantiscano soprastrutture artificiali, sgorgano, zampillano, spumeggiano fuori d'una fantasia agilissima in cui si forma alla nostra vista un'anima libera, onesta, coraggiosa. Queste osservazioni sul Giusti mostrano quanto sia inconsistente e artificiale e arbitraria la categoria dei poeti dialettali; tanto che ad essa non ascriveremo, ad esempio, Tommaso Grossi per quella sua Fuggitiva, che sebbene scritta in dialetto rappresenta o simula un mondo di sentimentalità alieno dalla natura del popolo ambrosiano. Ma il Grossi secondava con la Fuggitiva, con l'Ildegonda e con l'Ulrico e Lida (quella tradotta, queste scritte originariamente in italiano) i gusti del tempo, ai quali si confaceva la novella narratrice di patetiche storie. E questo genere ebbe cultori numerosi: in Lombardia col Cantù, con Giovanni Torti, col Pellico; in Toscana con Bartolomeo Sestini; in Calabria, dove novelle e poemetti d'ispirazione tra grossiana e byroniana scrissero Domenico Mauro, Giuseppe Campagna, Vincenzo Padula e più altri. Con maggior vigore trattò anche la novella in versi, storica e psicologica, Niccolò Tommaseo, ingegno forte e versatile, che le dottrine e la pratica del romanticismo temperò e sorresse con un ben digerito corredo di cultura clasgica anche nelle altre innumerevoli sue opere d'arte e di critica letteraria, di storia e di politica, di filosofia e di filologia, di pedagogia e di morale. Delle sentimentalità romantiche parve tarda rifioritura la Miranda del Fogazzaro.
Trapiantata in Italia dalla letteratura tedesca, auspice Giovanni Berchet, la ballata o romanza epico-lirica ebbe in Italia larga fortuna e sviluppi varî anche per l'intrecciarsi della nuova importazione con la vecchia tradizione della canzonetta. Da Pietro Paolo Parzanese, cantore in forma studiatamente modesta delle miserie e dei dolori della pia moltitudine villereccia, ad Arnaldo Fusinato, facile verseggiatore nel patetico e nel giocoso, l'uno e l'altro talvolta ispirati anche da amore di patria; da Luigi Carrer, elegante espositore di leggende italiane ed esotiche e buon prosatore e poeta in generi varî, a Giacomo Zanella, fine cesellatore d'immagini nella trattazione poetica d'idealità umane, scientifiche, religiose, familiari, l'uno e l'altro rappresentanti di quel romanticismo temperato di classicismo che fu caratteristico della regione veneta, è lunga la schiera dei lirici che nelle forme dell'ode e della ballata così detta romantica, dello sciolto e della sestina o ottava, e talvolta in metri più peregrini, dissero la parola della loro anima o più di frequente ripeterono e variarono la parola di moda.
Ebbero fra tutti, e meritamente, fama più larga e durevole Giovanni Prati e Aleardo Aleardi, maestri e duci di quello che fu detto il secondo romanticismo. Il Prati, anima aperta a ogni impressione e nutrita di cultura tedesca, inglese, francese, cantò con inesauribile vena, ma non sempie con intensità e nitidezza di visione fantastica, i più svariati argomenti: storia, leggende, politica, religione, vita quotidiana, natura, in liriche e poemi e poemetti di vario metro, facile, armonioso, giocondo di freschi soffî di poesia, ma non immune da vacuità, da sciatterie, da leziosaggini, da oscurità. Poeta di più intenso immaginare, l'Aleardi è fabbro d'endecasillabi di tempra quasi foscoliana, e canta la storia e la preistoria, la natura e i problemi umani, con audacia romantica e compostezza classica, purtroppo lasciandosi andare a languide cascaggini e a querule sentimentalità, che gli diedero peggior fama ch'egli non meriti.
Cuori devoti all'idea nazionale, tanto il Prati quanto l'Aleardi appartengono alla categoria dei lirici patriottici, tra i quali si possono ben annoverare anche il Manzoni, il Leopardi, il Niccolini; ma vera popolarità e più immediata efficacia nella grande opera del Risorgimento ebbero altri poeti più facili, più impetuosi, più roventi e nella minor perfezione dell'arte meglio proporzionati all'intelligenza del popolo: Giovanni Berchet, che per primo concreta nella dolcezza malinconica della domestica intimità la poesia della patria dianzi cristallizzata nell'astrattezza di parole che la letteratura aveva vuotato di significato; Gabriele Rossetti, che fu il poeta della rivoluzione napoletana del 1820; Pietro Giannone, romantico esaltatore del pathos delle cospirazioni; Alessandro Poerio, Goffredo Mameli, Luigi Mercantini, l'autore dell'inno di Garibaldi. Ai quali, rappresentanti d'una letteratura che fu ardente fucina di guerra contro lo straniero, si possono accompagnare Silvio Pellico, poeta, nella prosa delle Mie prigioni, d'una rassegnazione cristiana che aveva in sé lievito di ribellione, e Vincenzo Gioberti, apostolo dell'idea neoguelfa in quel suo Primato morale e civile degli Italiani, che merita ricordo anche letterario per i pregi d'una fervente eloquenza.
Cadute nel 1849 le illusioni che le rivoluzioni e la guerra dell'anno precedente avevano creato, ed esauritosi così l'ufficio politico che la letteratura aveva dianzi adempiuto, il romanticismo, nato con spiriti di ribellione a ogni accademia, finì col degenerare in una nuova accademia: le rievocazioni artistiche del passato già state presagio e auspicio d'avvenire, s'isterilirono in vani ricordi di scuola; i leziosi sdilinquimenti sentimentali e le affettate malinconie divennero ostentate consuetudini; l'immagine andò a sfumare in fantasmi vaporosi e in molli armonie, mentre nella compagine delle strutture e dello stile venne a dominare una sciatta faciloneria, che si gabellava per spontaneità d'ispirazione. A codesta sfiaccolaggine di sentire, di pensare e d'immaginare, caratteristica del secondo romanticismo anche nei suoi corifei, tentò reagire negli anni fra il 1860 e l'80 la cosiddetta scapigliatura milanese, cioè un gruppo di scrittori (Giuseppe Rovani, Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti, Arrigo Boito, Carlo Righetti in arte Cletto Arrighi, Alberto Pisani Dossi), che profondamente diversi fra loro per temperamento e per vigore di fantasia (si leva alto fra tutti il Boito, cui la gloria di musicista oscurò la fama di poeta singolare), erano uniti dall'intento di contrapporre la rappresentazione del vero alle immagini evanescenti, l'ardore della passione alle svenevoli sentimentalità e prestavano amorosa attenzione alle letterature straniere contemporanee, specie alla francese. Ma reazione più vigorosa e più efficace venne, in nome del classicismo, da un gruppo di giovani toscani (gli Amici pedanti: Giuseppe Chiarini, Torquato Gargani, ecc.), di tra i quali uscì fuori, restauratore del senso della forma e maestro di robustezza spirituale, il primo grande poeta della nuova Italia, Giosue Carducci.
Il Carducci. - Nel Carducci il classicismo non è imitazione estrinseca di forme antiche; è anzi la forma immediata e naturale di quella sua anima aliena da ogni sentimentalità, fidente nel libero svolgimento delle umane energie, anelante a un ideale di vita diritta, sincera, governata da un'alta coscienza del dovere; è nitidezza di rappresentazione, dignità di stile, purezza viva di lingua. Tant'è vero che il classicismo carducciano non disdegna né lo studio delle moderne letterature, specie della francese e della tedesca, né la modernità romantica di certo esotismo e della poesia delle rovine, né soprattutto le rappresentazionì del forte Medioevo comunale, congeniale a quel robusto spirito maremmano, come l'austera romanità primitiva e repubblicana, come il florido Rinascimento, come la grande riscossa dei popoli che muove dalla Rivoluzione francese e scende sino al primo compimento della rinascita politica della nazione italiana. Innegabile che l'opera poetica del Carducci si risenta della grande erudizione e storica e filologica e dello spirito critico di lui; ma nella produzione tutta della sua maturità (Rime nuove, Odi barbare prime e seconde) dottrina e critica sono così connaturate alla sua anima, che ne scaturisce un soffio possente di poesia più che non ne venga gravezza di letteratura. La stessa riproduzione dei metri classici da lui sperimentata nelle odi barbare nacque da un'intima necessità espressiva; tant'è vero che se i cosiddetti metri barbari ebbero lì per lì qualche fortuna, non tardarono a cadere in dissuetudine come forme d'una individualità che non si ripete. Ciò che dell'insegnamento poetico carducciano rimase e rimane, è l'educazione al rispetto dell'arte, è il ripristinamento di quel nobile senso della forma che, tradizionale nella letteratura italiana, era stato intaccato dalla sciatteria romantica.
Amici, discepoli, ammiratori del Carducci tentarono con più tenue ala, lungo la scia da lui segnata, i cieli della poesia: Giuseppe Chiarini, Severino Ferrari, Guido Mazzoni, Giovanni Marradi; mentre altre voci, più o meno libere da influenze carducciane, si levavano nell'ultimo trentennio del secolo con loro proprî caratteri, ad attestare anche nell'arte le rinate energie del popolo italiano. Tardo seguace delle scenografie montiane, Mario Rapisardi volle in più poemi simbolici trarre poesia dal materialismo naturalistico, ma fu poeta migliore quando romanticamente cantò le deserte aspirazioni dell'anima umana stretta nel mistero inesplorabile della realtà. Poeta di singolare originalità, Arturo Graf espresse con fosche immagini, con simboliche visioni, con fantastiche leggende il senso doloroso del male che incombe sugli uomini. Con bella larghezza e facilità d'ispirazione poetò Enrico Panzacchi; di Francia e in particolare dal Baudelaire derivò nutrimento alla sua vena birichina Olindo Guerrini, arguto canzonatore della sentimentalità romantica, e Domenico Gnoli, uscito dalla pallida scuola poetica romana d'avanti il '70, rinfrescò di vivezza nuova, sotto il nome di Giulio Orsini, non nuovi motivi di poesia e seppe talvolta crearne di nuovi. Più giovane di questi, Giovanni Alfredo Cesareo plasma nelle forme liriche tradizionali la sua molteplice sensibilità d'uomo dotto e appassionato; e già prima della fine del sec. XIX avevano pure rivelato la loro tempra di poeti Giovanni Cena, schietto cantore d'affetti dolorosi, Giulio Salvadori, ispirato da idealità civili e religiose, e Ada Negri, che in prosa e in verso esprime la sua intima passionalità umanante le impressioni dell'universo sensibile, non senza risentire nei metri, nelle strutture periodiche, nella materia gl'influssi di nuove tendenze letterarie.
Il Pascoli e il D'Annunzio. - Ma su tutti i poeti si levarono alti tra l'ultimo decennio del sec. XIX e il primo del XX, Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio, che messisi nelle loro prime prove per la via aperta all'arte dal Carducci, percorsero poi vie proprie, donando all'Italia splendore di nuova e originale poesia e all'arte lirica e narrativa fecondi spunti d'ispirazione e di tecnica.
Spirito mistico, profondamente innamorato della vita campestre e della natura, combattuto tra la sua perenne aspirazione al bene e la vista della sperimentata malvagità umana, tutto assorto in un desiderio d'amore e dolorante per quanti sono dolori nel mondo, il Pascoli ebbe vivo, angoscioso, profondo il senso del mistero di dolore e di morte che incombe sulla vita universa e cercò superarlo e consolarlo in un accorato impeto e in una fervida esortazione di amore per tutti gli esseri. Con anima ingenua di fanciullo egli gustò la dolcezza d'un'intimità affettuosa nella vita inconsapevole e innocente delle piccole creature umane e irrazionali, sentì con simpatia umana ogni spettacolo di natura tranquilla e serena, colse con finezza, non mai da altro poeta raggiunta, i tenui pispigli, le voci sommesse, i silenzî suggestivi salenti su dal mistero dell'essere. E questo intenso lirismo della sua anima espresse in notazioni di vita frammentarie e fugaci, in ampie strutture di quadri agresti e storici, in rinnovamenti d'antichi miti, derivando dai simbolisti francesi e dai laghisti inglesi generiche ispirazioni, e dalla classicità della sua cultura quello squisito senso della forma italiana e latina, che lo immette sì nel fiume della grande tradizione poetica italiana, ma che talvolta, specie nelle composizioni della maturità, s'astrattizza in un culto del genere poetico, della parola, del suono: poesia che viene di fuori e non s'accorda a sincerità d'intima ispirazione.
Lirico, romanziere, drammaturgo, il D'Annunzio affermò piena e perfetta la sua individualità di poeta nelle Laudi; individualità che è un senso profondo e un bramoso vagheggiamento delle forze primordiali della vita, un fervente naturalismo che tende a ricondurre l'uomo, quando per sua virtù d'intelletto e di corpo ne sia degno, alla libertà sfrenata del piacere e del dominio e alla fruizione illimitata della vita. Così egli celebra la gioia della passione amorosa trionfante, della bellezza d'arte passionatamente contemplata, dello spirito refluente nel seno della natura misteriosa; e come spettacolo di bellezza e di forza rivive nella fantasia anche la storia, indagata con senso d'artista e rappresentata stupendamente. Nella sua arte il D'Annunzio trasferisce, rifoggiate e armonizzate con essa, le preziosità dei più raffinati scrittori d'ogni nazione e vi mette a profitto per ricavarne mirabili effetti di stile, di suono, di ritmo, le più peregrine ricchezze e proprietà della lingua italiana; talché si potrebbe dire un virtuoso della forma, se della sua anima poetica non fosse parte questo stesso suo sogno di bellezza formale, che s'accompagna vivo e palpitante a ogni moto del suo essere profondo e illumina tanto le sue pagine naturalistiche quanto le sue prose d'eroismo e di contemplazione mistica, ispirate dalla guerra e dalle successive vicende della storia italiana allo strenuo milite e condottiero, all'apostolo vigoroso di fede e d'azione.
I narratori. - Il romanzo storico, che dal fine civile aveva derivato le ragioni e gli elementi della sua vita, dopo la metà del secolo perdette voga e si venne trasformando, anche per l'azione dei romanzi francesi dello Stendhal, del Balzac e di Giorgio Sand, in romanzo di costumi e di fatti privati contemporanei. Vasta, ma inorganica rappresentazione del mondo italiano dalla pace d'Aquisgrana alle Cinque Giornate sono I Cento anni di Giuseppe Rovani, ai quali si possono accostare per l'ampiezza della tela Le Confessioni d'un italiano d'Ippolito Nievo; ma li superano di gran lunga per il valore dell'arte, stupenda pittrice d'ambienti e di caratteri, e ormai risolutamente intesa a trarre dal romanzo storico il romanzo psicologico, ch'ebbe forme di vita, figuratrici d'una moralità derivata da esperienze personali, anche per opera del Tommaseo e di Giovanni Ruffini. Ma al romanzo psicologico contese negli ultimi vent'anni del sec. XIX il favore del pubblico il romanzo naturalista, che fu reazione in parte autonoma e in parte condotta sulle tracce del Flaubert, dello Zola, del Maupassant, all'accademia e al manierismo dei romantici decadenti, con una grande pretesa d'oggettività, con un'ostentazione di teorie scientifiche, con una cura minuziosa nelle descrizioni del mondo esteriore. Interprete nei suoi scritti critici e felice realizzatore della dottrina nei suoi romanzi (Giacinta, Il marchese di Roccaverdina) fu Luigi Capuana; ma il grande artista di quel moto letterario fu Giovanni Verga, che dallo psicologismo di maniera dei suoi primi romanzi, salì con l'ala del genio alla rappresentazione schietta, austera, profonda della vita del ceto medio e delle classi umili specialmente della sua Sicilia, infondendovi il senso d'una dolorosa fatalità tragica e d'una religiosità umana in cui si nobilita la rudezza primitiva delle anime poste in scena (I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, Novelle rusticane, ecc.).
Il verismo artistico, mentre era parte del largo movimento positivista europeo, corrispondeva al bisogno, mal soddisfatto dal primo romanticismo, di far uscire la letteratura italiana dalle astrattezze della vecchia tradizione classica tutrice d'una dignità scioccamente nemica del concreto. Ond'è che, accanto al grande romanziere siciliano, altri se n'ebbero, rappresentanti, ciascuno con caratteri proprî, del realismo regionale, quali Matilde Serao, balda evocatrice della vita borghese napoletana, il ricordato Renato Fucini e, più giovani, Grazia Deledda, che ritrae l'austerità primitiva e malinconica della sua Sardegna, e Ferdinando Paolieri, descrittore dei paesaggi e della vita di maremma con tocchi e atteggiamenti che lo fanno partecipe d'altre recenti tendenze dell'arte narrativa.
Verismo che s'approfondisce nell'analisi e nella rappresentazione d'anime e di periodi storici è quello di Federico De Roberto, che con L'illusione, d'ispirazione flaubertiana, e I Vicerè, diede alla letteratura opere di non caduca originalità. Del verismo risentono certo l'influsso anche Emilio De Marchi e Alfredo Oriani; ma le loro tendenze più spiccate sono anzi verso uno psicologismo che implica maggiore intimità di rappresentazioni; libero e felice continuatore del Manzoni, il primo, in romanzi (Il cappello del prete, Demetrio Pianelli, Giacomo l'idealista, ecc.), che recano l'impronta d'un'accorata e indulgente contemplazione delle tristezze della vita e d'una bonaria arguzia ambrosiana; indagatore acre e tenace della vita dello spirito, il secondo, che nei romanzi della maturità (La disfatta, Il vortice, L'olocausto, ecc.) la rappresentò con sincerità di convinzione, con vivo rigoglio d'immagini, con quel soffio d'alta poesia che alita anche sulle sue opere storiche (Fino a Dogali, La Lotta politica, ecc.).
Come narratore il D'Annunzio seguì dapprima (Terra vergine, Novelle della Pescara) la suggestione dei veristi italiani e francesi; ma poi lo attrasse lo psicologismo del romanzo russo e ancora francese, ed egli scrutò e descrisse le complesse raffinatezze della sensualità umana nei primi romanzi dal Piacere all'Innocente, e rappresentò il tipo nietzschiano del superuomo posto, per le sue qualità di dominatore, di là dal bene e dal male, nei romanzi che seguirono, dal Trionfo della morte a Forse che sì forse che no, sempre sfoggiando le sue magnifiche doti di stilista e di creatore d'immagini umane e paesistiche, mirabili d'evidenza e di vigore rappresentativo; doti che più tardi in opere di contemplazione e meditazione autobiografica si manifestano in tritumi piuttosto che in organiche compagini di stile, forse per l'azione dei nuovi indirizzi letterarî.
Coetanea a quella del D'Annunzio è la maturità artistica d'Antonio Fogazzaro, che nei suoi romanzi (Malombra, Piccolo mondo antico, Piccolo mondo moderno, Daniele Cortis, Il mistero del poeta, ecc.) incarnò un suo mondo morale e religioso nobilissimo, ritraendo con finezza d'analisi le anime e questa rappresentazione d'intimità spirituali accordando, nelle sue cose migliori, in omogenea unità con la rappresentazione del mondo esteriore. Come nei più dei suoi contemporanei, anche nel Fogazzaro sono tracce dello psicologismo russo e francese; egli anima spesso il suo racconto d'un soffio d'arguzia, che non gli faremo il torto di dir manzoniana, perché è tutta sua; disegna e colorisce quadri d'ambiente pieni di carattere e, specie tra i personaggi secondarî, figure vive di palpitante verità; ma purtroppo la tesi morale o religiosa o civile nuoce non di rado all'arte del Fogazzaro, che negli ultimi suoi romanzi ha un troppo palesemente voluto intento di propaganda.
Fra gli scrittori che, suppergiù nel tempo stesso che gli ultimi nominati, trattarono con intento d'arte pura o di educazione, materia narrativa o descrittiva, vanno ancora ricordati Vittorio Bersezio, autore fecondo di novelle e romanzi non segnati di vigorosa stampa personale; Anton Giulio Barrili, che le sue doti non volgari di versatilità, di penetrazione psicologica, di simpatia umana, forse sciupò per la fretta del comporre; Alberto Cantoni, singolare per le sue qualità d'umorismo critico; Salvatore Farina, schietto piano bonario; Alberto Pisani Dossi (Carlo Dossi) che un suo mondo d'arguzia aristocratico e schivo espresse in una prosa energica e preziosa; Carlo Lorenzini (Collodi), caro per le sue Avventure di Pinocchio a molte generazioni di bambini, e, di tutti più fortunato, Edmondo De Amicis, autore di libri di viaggi, narratore di novelle e di episodî storici, acuto osservatore e descrittore di psicologia sociale, spirito agile, cui il senso pietoso dei dolori umani temperò nell'età matura il languido ottimismo degli scritti giovanili. Più con l'esempio che con i precetti insulsamente arguti dell'Idioma gentile, egli fu pure efficace apostolo di quel tipo di prosa svelta e senza affettazioni. che anche per l'opera dei migliori giornalisti ha cacciato di seggio col suo vero classicismo intimo il classicismo artificioso di marca cinquecentesca.
Più giovane, tra i narratori, Alfredo Panzini, la cui formazione intellettuale cade negli ultimi decennî dell'Ottocento, e il miglior fiore della sua arte negli anni del nuovo secolo avanti la guerra. Di tra le volgarità, le falsità e le fatuità della vita sociale moderna il Panzini accarezza un suo nostalgico amore del vecchio mondo provinciale, tranquillo, sereno, casalingo. C'è in lui il senso della poesia che spira dai dolci sogni, dai teneri affetti, dalla coscienza onesta; e dal dissidio tra l'ideale e la realtà, nasce uno stato d'animo che si forma in ironie, in scherzi amari, in sorrisi malinconici, in atteggiamenti umoristici: nella bella prosa dei migliori scritti del Panzini (Le fiabe della virtù; La lanterna di Diogene; Santippe; La madonna di mamà; Il viaggio d'un povero letterato, ecc.); una prosa di tempra classica per la sua semplicità limpida e melodiosa, per l'ingenuità primigenia delle sue strutture, per l'aura d'umanità che ne spira. Peccato che la consapevolezza critica del suo essere faccia ormai degenerare l'arte del Panzini in maniera, e ch'egli la creda forma possibile non pur di concezioni fantastiche, ma di scritture storiche, che non riescono a vivere la vita del suo pensiero.
Il teatro. - Nel teatro, dove il romanticismo aveva finalmente distrutto, almeno nella pratica, il pregiudizio d'una separazione del genere comico dal tragico, il dramma storico, senza del tutto scomparire, cedeva al dramma di psicologia o di costume moderno e verso il dramma di psicologia e di costume piegava la commedia. Dopo i fiacchi continuatori che il Goldoni aveva avuto nella prima metà dell'Ottocento, Venezia dava al teatro, eredi dello spirito di lui, ma interpreti d'una più seria (se non più profonda) visione della vita Francesco Augusto Bon. Riccardo Selvatico e Giacinto Gallina. Il Bersezio, piemontese, e Alfredo Testoni, bolognese, creavano rispettivamente nei loro dialetti, un teatro che dal Goldoni trae l'intento di rappresentare la realtà senza guastarla, e sul riso comico diffonde un lieve e non meno realistico velo di malinconia. Parecchie commedie in dialetto napoletano scrisse Achille Torelli, più noto per alcune belle commedie in lingua italiana, tra le quali eccelle I mariti. In Toscana Vincenzo e Ferdinando Martini e Tommaso Gherardi del Testa, in agili e limpide commedie e in argutí "proverbî" rinsanguarono d'un più largo spirito d'osservazione la tradizione del grande commediografo settecentista. Copioso e frettoloso autore di commedie, drammi, tragedie, il ligure Paolo Giacometti di rado s'accostò al Goldoni, amante piuttosto, com'era, di romantiche evocazioni storiche e di complesse situazioni d'effetto a sfondo sociale. Goldoniano nei suoi esordî e storicizzante, Paolo Ferrari passò, anche per l'azione del teatro francese, al dramma a tesi, viziato, com'è naturale, da astrattezze declamatorie, ma non mai del tutto privo di quelle che sono le doti migliori del Ferrari: l'abilità costruttiva, la fantasia inventrice di situazioni indovinate, certa perizia rappresentativa dei caratteri.
Delle nuove correnti letterarie che venivano d'oltralpe (teatro libero, teatro d'idee; Becque, Hervieu, De Curel, Ibsen, Sudermann, Hauptmann) risentirono qual più qual meno l'influsso i drammaturghi italiani, che tennero i cartelloni nel ventennio a cavaliere dei due secoli: Giuseppe Giacosa, passato dall'idillio sentimentale alla rappresentazione veristica della storia e al dramma psicologico, sociale, di costume, artista di non grande originalità, ma limpido, equilibrato, pieno di garbo; Girolamo Rovetta, romanziere non volgare e autore fortunato nel suo ultimo periodo di drammi storico-patriottici, forse artisticamente inferiori alle sue precedenti commedie d'amaro realismo borghese; Marco Praga, che nelle sue migliori commedie creò figure di bella verità psicologica non ostante la stranezza delle situazioni; Enrico Annibale Butti, ibseniano convinto, ma con notevole originalità d'idee, in forme d'arte non profonde, ma ben costruite e corrette; Robeno Bracco, seguace del verismo in alcuni drammi, ma nel più e nel meglio dell'opera sua interprete d'un energico psicologismo, dominato da una piuttosto triste concezione della vita e da un vivo senso d'umanità; Giannino Antona Traversi, Sabatino Lopez, Lucio D'Ambra, Dario Niccodemi, ecc.
Grande iniziatore del cosiddetto teatro di poesia, che riprese con spiriti e forme mutati e con velleità di ricostruzione filologica il vecchio dramma storico o mitico, fu Gabriele D'Annunzio, che al mondo morale espresso nei romanzi volle dar forma drammatica in una serie di tragedie di lussuria e di violenza, che, magnifiche spesso d'arte descrittiva, di rado riescono a rappresentazione di viva e vera umanità. Temperamento essenzialmente lirico, il D'Annunzio fa dei suoi personaggi simboli della sua concezione della vita, onde viene loro a mancare un'autonoma consistenza artistica. La sua romantica vaghezza del primitivo e del barbarico nella storia e nel costume gl'ispirò quelli che sono i capolavori del suo teatro, la Francesca da Rimini e La figlia di Iorio, dove il fervore della passione sensuale e la rude vita del Medioevo e dei montanari abruzzesi balzano in forme d'arte di nuova e vigorosa evidenza.
IV. Nuove esperienze (sec. XX). - Carattere essenziale della letteratura italiana nel primo trentennio del sec. XX è uno spirito di reazione a quella tendenza, manifestatasi negli ultimi decennî del XIX, che pareva accennare a una degenerazione (a ritroso dei secoli) del senso della forma - preziosa conquista d'un'educazione classica molte volte secolare - in studio di rinnovamento o imitazione di forme. Reazione dunque al carduccianesimo e al dannunzianesimo in quel che c'era di caduco nell'opera dei maestri e diveniva maniera negl'imitatori: la ricostruzione erudita di forme sintattiche e metriche, la ricerca di squisite raffinatezze e peregrinità di lingua e di stile, il culto filologico del passato nella storia, nel mito, nella leggenda. E il moto, come suole accadere d'ogni reazione, fu violento e talvolta insensato, sì da provocare altre reazioni anch'esse eccessive. Ond'è che, pur essendosi conseguiti ragionevoli temperamenti di esagerate dottrine e pratiche d'arte, la letteratura italiana oscilla oggi fra avviamenti diversi e tenta esperienze nelle quali è forse il germe d'un nuovo equilibrio.
Preparata dal Leonardo di Giovanni Papini e dall'Hermes di Giuseppe Antonio Borgese, uscì a Firenze dal 1908 al 1915 La Voce, rivista che agitò con impeto e sincerità giovanili idee in ogni campo della vita spirituale e pratica: in filosofia propugnando il pragmatismo di tipo piuttosto americano che francese, non senza far qualche parte al nuovo idealismo italiano; in letteratura e in arte combattendo il tradizionalismo retorico, accademico, professionale; in politica trattando con spirito di avanguardia problemi sociali, economici, culturali. Proruppe nella Voce quella stessa aspirazione, ancora incomposta né ben consapevole dei suoi fini, a un ravvivamento e rinnovamento in serietà e concretezza della vita italiana, che negli stessi anni generava in politica il nazionalismo (e non importa che fosse invece radicale la tinta politica della Voce) e nella poesia, nella pittura, nella scultura, nella musica, il futurismo. Nella chiarificazione che per entro a quel fervore di concordi e discordi attività teoretiche si veniva a poco a poco compiendo, il gruppo dei giovani che avevano creato e alimentato la rivista fiorentina, si divise: nel 1912 diresse la Voce il Papini, che poi fondò e diresse fino al 1915 Lacerba, organo del futurismo, mentre la Voce seguitava, letteraria, sotto la direzione di Giuseppe De Robertis, e il Prezzolini, primo direttore della Voce, pubblicava (1914-1915) una Voce esclusivamente politica.
Il movimento futurista era venuto di Lombardia e ne era stato iniziatore fino dal 1908 Filippo Tommaso Marinetti, eccentrico autore di prose e di versi in francese e in italiano, che aveva levato, lui e i suoi seguaci, gran rumore con i manifesti, con le conferenze, che spesso finivano in volgari chiassate, con le mostre d'arte; clamoroso apparato inteso a diffondere la dottrina e il gusto della scuola. Nemico dichiarato di tutto ciò che venisse dal passato, bellezze d'arte, tradizioni storiche, consuetudini di pensiero, di sentimento, di vita, glorificatore dell'energia, della violenza, della lotta, il futurismo voleva che l'arte chiedesse ispirazione alla modernità industriale meccanica fulminea, e rinnovasse i suoi mezzi d'espressione, partendo in guerra, per ciò che riguarda l'arte letteraria, contro la lingua e la grammatica tradizionali, disgregando in brevi respiri il periodo, isolando le immagini, ricorrendo alle onomatopee di puro suono, a segni estranei all'alfabeto comune, all'eloquenza ermetica degli spazî bianchi, lanciando a libertà le parole fuori dei nessi sintattici, rompendo ogni vincolo di metro nel verso libero. Stravaganze in gran parte, intese a far trasecolare il buon pubblico; sotto alle quali però si nascondeva una sostanza di dottrina, che allargava la materia dell'arte e rendeva sempre meglio rispondenti all'interna dettatura le forme là dove fosse vero lievito di poesia. Più tradizionalista che non volesse essere, il futurismo riprendeva e intensificava, nella stranezza dei titoli, nel tecnicismo scientifico delle immagini, nella mania delle onomatopee, propositi, sforzi, abitudini del vecchio Seicento, nel tempo stesso che lo emulava in quella vaghezza di novità e di libertà, buone e cattive, che già il romanticismo aveva teorizzato e appagato.
Come suole sempre accadere, non per virtù della scuola, ma grazie all'intima liricità della loro anima, uscirono dalle file dei futuristi scrittori che prima e durante la guerra mondiale diedero alla letteratura italiana opere non indegne di ricordo. Ultimo erede della scapigliatura milanese, Giampietro Lucini quasi impersona il vincolo che lega il romanticismo al futurismo; ingegno esuberante, disordinato, instabile, dichiarato avversario dell'arte dannunziana, autore d'un volume di versi, futuristi almeno nel titolo, Revolverate, eppure talvolta fantastico creatore d'un mondo soavemente idillico. Pittore e poeta, Ardengo Soffici, che fu il teorico del futurismo, riesce a dare nelle frammentarie impressioni ritratte nei primi suoi libri (Arlecchino, Giornale di bordo) il senso d'una energica e singolare vita fantastica e a rivelarvi un'anima d'artista seriamente pensosa dei problemi della vita, quale, superati i pregiudizî del futurismo e sempre più riaccostandosi con originalità di spirito alla tradizione tecnica italiana, egli manifesta, nel romanzo Lemmonio Boreo, nei suoi libri di guerra e nelle scritture prosastiche e verseggiate del dopoguerra. In Aldo Palazzeschi, che apparve come il corifeo della scuola, la servitù alla dottrina fissa talvolta le impressioni nella rigidità dell'istantanea vietando loro di spiritualizzarsi; ma altrove, nelle sue poesie più caratteristiche e in quell'originale romanzo ch'è Il codice di Perelà, fresche immagini uscite dalla fantasia in una loro ingenua nudità esprimono nitidamente l'individualità del poeta con la sua serietà meditabonda e malinconica, con la sua ilarità sbarazzina, col suo spregiudicato tedio delle cosiddette buone usanze e delle convenzioni sociali.
Per questi scrittori il futurismo fu soprattutto scuola di libertà e ben più essi gli diedero che non ne ricevessero. Per altri fu breve episodio della loro carriera letteraria, esperimento d'arte che li condusse a meglio ritrovare sé stessi in forme discendenti dal vecchio romanticismo. Clamoroso apostolo di futurismo in certo periodo della sua attività fu Giovanni Papini, la cui vita intellettuale va interpretata e giudicata in sé stessa, di là da ogni costrizione di scuola. Spirito irrequieto e turbato da un'ansia di misticismo doloroso, dotato d'uno straordinario vigore d'assimilazione e di reazione e bisognoso di ruminare e rifare in sé il mondo fluttuante del pensiero contemporaneo, istintivamente portato alle astrattezze e alle costruzioni concettuali e avido delle posizioni nette e risolute, egli è stato con i libri e con le riviste uno dei più fervidi agitatori e propagatori d'idee nei primi decennî del nuovo secolo; battagliero avversario dell'insincerità, dell'eleganza ricercata, del vago dottrinarismo, assertore e propugnatore "del fatto, del sapere certo, delle teorie semplici e simmetriche, della dura filosofia". Più che alla poesia, la fama del Papini è. raccomandata alla prosa che, felice impasto d'eletto tradizionalismo e di viva toscanità, si snoda agile e robusta nelle amare e passionate confessioni dell'Uomo finito, in pugnaci pagine di critica letteraria e filosofica e nelle opere d'argomento storico, interessanti forse solo perché pervase dal suo infrenabile lirismo autobiografico.
Futurista nelle Poesie elettriche e nelle Rarefazioni, Corrado Govoni, dopo qualche tentennamento, trovò la forma della sua individualità immaginosa, rude, amante delle minuziosità descrittive nell'Inaugurazione della primavera e nel Quaderno dei sogni e delle stelle. Così Luciano Folgore dal futurismo del Canto dei motori, passò alla bonaria e quasi benevola ironia delle sue parodie, che contraffanno poeti moderni. La quale o stanca o ironica o malinconica o lievemente umoristica visione del mondo umano, in forme di piana semplicità domestica, che o sfuggono ai vincoli del metro o frantumano il verso, avevano annunziato di lontano, già innanzi al futurismo, Vittorio Betteloni fresco poeta dalle ispirazioni modeste, aneddotiche e familiari, e buon traduttore del soave idillio goethiano Arminio e Dorotea, e Ceccardo Roccatagliata, che ove non lo aduggiano atteggiamenti letterarî, canta pianamente la malinconia delle deserte aspirazioni a un rinnovamento della vita; e avevano fatto nobile oggetto della loro poesia i cosiddetti "crepuscolari" fioriti nel decennio avanti la guerra. Tra i quali vanno segnalati Sergio Corazzini, che ama e canta la vita semplice delle cose e degli uomini, i singhiozzi degli organetti di Barberia, con l'accoramento d'una malinconia presaga della morte vicina, e Guido Gozzano, il più significativo del gruppo, che in aria dimessa e quasi dinoccolata, esprime la poesia delle cose tenui e comuni, immagini sfumate del passato, ricordi sconsolati e sbiaditi, sogni distrutti dall'ironia della realtà. E con i crepuscolari potrebbe anche essere mandato Francesco Gaeta, musicale poeta d'indefinite tristezze. Più giovani, se non d'età, di maturità artistica, e quindi diversi dai precedenti anche nei processi tecnici, vennero poi Arturo Onofri, forte poeta d'uno sfumato frammentismo descrittivo e di fantastici sogni; Umberto Saba, ispirato da una sottile malinconia che si diffonde dall'uomo alle cose, Giuseppe Ungaretti, il poeta delle brevi notazioni frammentarie, addensanti in una frase, in una parola, meditate impressioni; Diego Valeri, buon traduttore di poeti francesi e, nell'opera sua originale, poeta ben disciplinato di emozioni delicate, in forme semplici e colorite tra di crepuscolare e d'impressionista; Giovanni Titta Rosa, piacevole narratore e fine cesellatore di liriche impressioni di natura; Eugenio Montale, dalle immagini precise, dure, taglienti nei paesaggi assunti a simbolo d'anima in visioni spiritualizzate, Ugo Betti, delicato poeta, sì nelle liriche e sì nelle commedie e negli scritti in prosa, di gioie e di tristezze sentite nell'unità della vita, Nicola Moscardelli, e altri più o meno felici interpreti poetici di fuggevoli stati d'animo.
Se il futurismo, che aveva imperversato nei cinque o sei anni preccdenti alla guerra, era andato a poco a poco moderando i suoi eccessi, e aveva finito col mettere la sordina ai suoi fragorosi strumenti e con l'acchetare nelle accennate forme di frammentismo psicologico il suo sforzo di rinnovamento dell'arte e insieme della vita, una più disciplinata concezione dell'arte, meglio conforme alla tradizione letteraria italiana, fu attuata da alcuni poeti più anziani, che, silenziosi da più tempo, felicemente rinnovarono la loro vena dopo la guerra mondiale: Pietro Mastri, che in forme tra libere e tradizionali elabora nella Via delle stelle sottili introspezioni autobiografiche, e Vincenzo Gerace (1876-1930), creatore d'un mondo poetico di non comune profondità; e s'affermò nella dottrina e nella pratica d'arte d'alcuni giovani, cooperatori della Ronda, rivista vissuta dal 1919 al 1923, la quale senza rinunciare alle vere conquiste di libertà e modernità fatte dalle più recenti scuole letterarie, prese a combatterne gli eccessi e le stravaganze, tutto ciò che di sciatto, d'informe, di retorico, di mediocre avevano prodotto, cercando di ricondurre l'arte all'equilibrio, alla precisione, al decoro dello stile, a quel senso della forma insomma che, indefettibile eredità dei secoli, i rondisti trovavano squisitamente espresso nelle prose e nelle poesie del Leopardi. Furono con altri, tra quei giovani, Vincenzo Cardarelli, fondatore della rivista, lirico e prosatore di composta originalità; Emilio Cecchi, figura originale d'artista della penna nato dal pensatore e dal critico, nutrito di cultura italiana e straniera, denso, preciso, colorito (Pesci rossi, 1920; L'osteria del cattivo tempo, 1927; Qualche cosa, 1932; Messico, 1932); Antonio Baldini, che nel suo libro di guerra Nostro Purgatorio e in Michelaccio diede forma in pagine di prosa limpida e schietta all'arguzia fine del suo spirito, atteggiato a un'indulgente ironia verso le cose del mondo; Riccardo Bacchelli, che dall'ironia di Lo sa il tonno, passò alla narrazione tra fantastica e storica nel Diavolo al Pontelungo e in Oggi domani e mai, e alla narrazione storico-critica, acuta e penetrante, nella Congiura di don Giulio d'Este, scrittore di limpidezza ed evidenza singolari.
Caratteristica negli scrittori del Novecento questa unione dello spirito creatore con lo spirito critico, unione che, contemporaneità o successione, è in ogni caso bisogno d'una consapevolezza dell'opera creativa, che torna a vantaggio e forse più spesso a danno dell'arte. Critico acuto della letteratura moderna e contemporanea fu nei suoi esordî Giuseppe Antonio Borgese, che acquistò poi un posto cospicuo fra i narratori italiani con i romanzi Rubè e I vivi e i morti e con libri di novelle, quelli e questi in vario modo materiati di esperienze personali dell'autore (ispiratrici anche d'un volume di poesie), condotti con finezza penetrante d'analisi psicologica, scritti in una prosa di salda e nobile costruzione, dalla quale balzano energicamente individuate le figure degli attori. Venuto alla letteratura dal giornalismo e dal giornalismo militante difeso contro i pericoli della letteratura, il Borgese è tra quegli scrittori-giornalisti o giornalisti-scrittori che, critici o creatori, furono e sono divulgatori nel miglior senso della parola di questioni e d'idee letterarie e artistiche, cronisti eleganti, artefici d'un tipo di prosa garbatamente plasmato sul tono e sul ritmo della vita moderna. Del qual genere d'arte giornalistica oggi mirabilmente rappresentato da Ugo Ojetti, era stato precursore e iniziatore fin dal periodo sommarughiano Edoardo Scarfoglio, narratore di novelle e di viaggi, polemista gagliardo, prosatore di tempra originale anche se di tinta leggermente carducciana.
Con alcuni dei qui ricordati, moltissimi altri furono e sono, negli anni dopo la guerra mondiale, i cultori della prosa narrativa. Scrittori che già dianzi o s'erano provati a narrare o avevano piuttosto sperimentato l'arringo poetico, diedero allora il meglio delle loro possibilità in prose di romanzi o di novelle o di bozzetti: Italo Svevo, fine osservatore e forte descrittore d'anime, il cui ultimo romanzo, La coscienza di Zeno, degnamente rinverdì la fama dei suoi romanzi precedenti; Francesco Chiesa, ticinese, che attraverso un lungo e nobile tirocinio di poesia tra lirica ed epica, venne elaborando la sua individualità d'artista, giunta forse a pienezza nel romanzo Tempo di marzo, bella figurazione di psicologia del fanciullo cinta d'un simpatico alone di poesia; Virgilio Brocchi, romanziere fecondissimo, cui la facilità toglie finezza, e certa ingenua mobilità di giudizî e d'impressioni, fermezza e chiarezza di carattere artistico personale; Lucio D'Ambra, spigliato e leggiero narratore di storie argutamente inventate; Antonio Beltramelli, curioso e non sempre organico impasto di dannunzianesimo verbale e di regionalismo romagnolo, di rude passionalità e di voluto cerebralismo; Guido da Verona, divulgatore d'un dannunzianesimo imborghesito. Artisti più profondi sono Carlo Linati, spirito di scrittore solido e pacato, che mette nelle descrizioni paesistiche una certa aria di domesticità lombarda; Federigo Tozzi, narratore di tendenze autobiografiche, in parte seguace del verismo regionale, ma dotato d'una sua specifica rude ed energica individualità drammatica che lo avvicina ai Russi; Marino Moretti, che le note e i colori tenui e sbiaditi della sua poesia crepuscolare, rinnova nelle figure e nelle immagini deboli, delicate, un po' tristi dei suoi romanzi; Fausto Maria Martini, di origine crepuscolare anche lui e drammaturgo di non comune penetrazione, che nei suoi romanzi autobiografici atteggia in forme limpide e corrette una concezione austera e delicata della vita; il pensoso e caustico Piero Jahier; Salvator Gotta, la cui arte, limpida e schietta in alcuni romanzi d'ispirazione regionale, è turbata in altri da preoccupazioni e da intenti pratici. E qui va ricordato anche il triestino Scipio Slataper, caduto nei primi mesi della guerra, amico dei vociani, ma da loro diverso nell'aspro lirismo del suo libro Il mio Carso.
Più giovani, almeno di maturazione spirituale, altri tentarono e tentano nuove vie: Umberto Fracchia, che nei suoi romanzi rappresenta efficacemente la tendenza generale della nuova letteratura a superare il contrasto tra l'umana spiritualità e il mondo della natura; Corrado Alvaro, geniale rinnovatore del verismo regionale in una rappresentazione d'anime e di paesaggi che in tono d'epopea illumina quelle della luce di questi, e anima questi della vita di quelle (La siepe e l'orto; L'uomo nel labirinto; L'amata alla finestra; Gente in Aspromonte; Vent'anni; La signora dell'isola); Curzio Malaparte, versatile ingegno di narratore, di poeta e di polemista politico e letterario; G. B. Angioletti, agile spirito di critico e di creatore forse non ancora rivelatosi in tutte le sue possibilità; Massimo Bontempelli, novellatore, romanziere e commediografo, ormai più giovane di propositi che d'età, creatore di situazioni paradossali e di contrasti esasperanti d'anime e amuienti; Paolo Monelli, che ne Le scarpe al sole ha dato all'Italia uno dei libri più freschi e immediati sulla sua guerra; Orio Vergani acuto indagatore di anime semplici, con un'arguzia tutta venata di malinconia (Io, povero negro; Domenica al mare; Levar del sole); Lorenzo Viani, pittore e scrittore che trasforma spesso in cifra l'icasticità del suo dialetto viareggino; Bonaventura Tecchi, che nello sforzo di compenetrare l'umano e l'ambiente in una rappresentazione di consensi o di contrasti, porta una sua acuta e tutta personale intuizione degli stati dell'anima umana (Il nome sulla sabbia, Il vento tra le case; Tre storie d'amore); Delfino Cinelli, notevole per la sua originale visione e rappresentazione dell'ambiente campestre; Alberto Moravia, che nei suoi Indifferenti mostra, pur tra inesperienze e acerbità, caratteri suoi proprî di narratore nuovo e robusto.
Narratore in versi, limpido, brioso, sciolto, Riccardo Balsamo-Crivelli (Boccaccino, La fiaba di Calugino, ecc.) ebbe non immeritato un plauso di critica, che mostra qual fascino abbia in Italia certo garbato e delicato arcaismo, in cui s'appaga il tradizionale senso della forma. Ed è questa una delle ragioni del successo anche dei drammi di Sem Benelli, drammi d'effetto, ma poveri di vitalità vera, che sanno di letteratura nelle invenzioni, nella lingua, nella verseggiatura. Con questi drammi il Benelli, che già aveva in Tignola tentato una sottile analisi d'anime moderne, prese a trattare quel teatro di poesia, storico, archeologico e mitologico, che, come s'è visto, aveva avuto iniziatore il D'Annunzio. Ma ciò che al grande artista era più o meno felicemente riuscito, non ebbe fortuna nei seguaci, che spesso amarono complicare d'interpretazioni e di simboli civili o patriottici la rappresentazione storica, e quel tipo di teatro, non ostante la nobiltà degl'intenti e il vigore degl'ingegni, può dirsi ormai tramontato. Qui basterà ricordare, ad esemplificazione, il Solco quadrato e il Giuda di Federico Valerio Ratti, la Carlotta Corday e il Giulio Cesare d'Enrico Corradini, i drammi del Risorgimento (La giovane Italia, Re Carlo Alberto, Garibaldi, ecc.) e la Trilogia della Tavola rotonda di Domenico Tumiati, Madame Rolland e Ginevra degli Almieri di Giovacchino Forzano, il Tristano e Isotta di Ettore Moschino; Il Beffardo di Nino Berrini. Siano a parte ricordati l'Orione, il Glauco e il Belfagor di Ercole Luigi Morselli, singolari per la malinconia dell'idillio e per lo sforzo, sebbene non sempre riuscito, di profondità simbolica.
Di vitalità tenace e feconda diede prova il dramma psicologico, o meglio, borghese, di cui si videro già sviluppi e atteggiamenti varî sul cadere del sec. XIX e all'aprirsi del nuovo secolo. Finezza di psicologo e senso d'umanità rivela Fausto Maria Martini, già ricordato fra i narratori, nel Giglio nero, in Ridi pagliaccio! e nel Fiore sotto gli occhi, mentre in L'altra Nanetta, affacciando il problema dell'influsso della finzione sulla realtà, anche s'avvicina a quella forma di teatro in cui sbocca, negando sé stesso, il teatro borghese e che per l'opera e l'azione d'un grande artista, Luigi Pirandello, riuscì a conquistare il favore del pubblico. È il teatro del grottesco, così denominato dalla qualificazione data alla sua commedia La maschera e il volto (1916) da Luigi Chiarelli, che da situazioni paradossali, svolte e sceneggiate con singolare abilità, riesce a una specie di satira grottesca del teatro psicologico, ponendo quella che è la realtà pratica della vita di fronte agli atteggiamenti, alle illusioni, agl'infingimenti che sono una fatale necessità degli uomini. Intorno a questo tipo di teatro s'aggruppano, diversi per il genere delle invenzioni e, naturalmente, per energia di rappresentazione, i drammi di Pier Maria Rosso di San Secondo, autore anche di romanzi e novelle, che con Marionette, che passione! (1918) diede al teatro un'opera di singolare vigoria nella figurazione d'un mondo incolore schiavo della passione; di Luigi Antonelli, di Enrico Cavacchioli e di qualche altro.
Nella sua ricca produzione, che fu prima di narratore originalissimo, ed ora è essenzialmente di fortunato drammaturgo, il Pirandello s'affatica intorno al problema del significato sempre sfuggente della vita umana; e dall'antitesi, studiosamente messa in evidenza, tra la nuda essenza della vita e le apparenze di cui gli uomini devono rivestirla, tra quello che la vita è nella sua realtà inconoscibile e quello che gli uomini devono credere che essa sia, balza un umorismo tragico squisitamente e inesorabilmente espresso dall'arte. Accade talvolta, sì nella prosa narrativa e sì nei drammi del Pirandello, che il problema filosofico aduggi d'un importuno cerebralismo l'arte del poeta; ma in generale la vivida creatività della sua fantasia e, nei drammi, la mirabile sua perizia della tecnica teatrale vincono le astruse complessità logiche e offrono al lettore o allo spettatore figure e scene di viva e vera umanità. Forse nulla di più alto e perfetto offre oggi la letteratura italiana, che l'arte del Pirandello; ma nel dato culturale, tormentoso e malinconico, ch'essa domina e spesso annulla in sé, si riflette la condizione odierna della letteratura stessa, ondeggiante incerta tra ispirazioni disparate ed esperienze diverse, quasi in attesa dello scrittore possente per la cui bocca, rivendicata la sua indipendenza anche dalle coetanee letterature straniere, come già dalle classiche, essa dica al mondo una sua nuova parola di vita.
Storiografia e critica. - Negli studî storici l'avviamento erudito, pur così fecondo di utili risultati, tendeva verso la fine del sec. XIX a restringersi all'indagine e all'illustrazione dei fatti estrinseci, rinunciando, in omaggio a una pretesa oggettività scientifica, alla guida di concetti atti a graduare l'importanza dei problemi e a fornire il fondamento logico d'una qualsiasi costruzione di complesso. Così la storia si disgregava nell'aneddoto e nell'episodio; la ricerca bibliografica e documentaria diveniva fine a sé stessa, e l'esumazione, pur che fosse, d'un documento storico o letterario o la descrizione d'un codice ignoto rischiava di parere opera più meritoria che la paziente e sapiente restituzione filologica d'un testo famoso, o la ricostruzione criticamente ragionata d'un periodo di storia o d'un'anima di statista o di scrittore.
Ma al principio del nuovo secolo la rinascita dell'idealismo, promossa principalmente da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile, e con essa e per essa il ravvalorarsi, non soltanto in Italia, delle tendenze speculative, infusero una nuova vita in ogni branca degli studi storici, ormai non più dimentichi del loro fine, la rappresentazione dello spirito umano nel suo svolgimento. Così la storia civile e politica, mentre aguzza lo sguardo su larghi orizzonti, anima il frutto delle oculate ricerche metodiche d'un pensiero interpretativo, che umanizza e con discrezione individualizza il racconto, dianzi invano aspirante a un meccanicismo agnostico e impersonale; e la storia letteraria, risalita a dignità di critica, vede al lume delle nuove o rinnovate dottrine estetiche i fini e i confini del suo ufficio, ben consapevole ormai della gradazione gerarchica delle varie operazioni che ad essa confluiscono, e disposta a scernere tra i fatti e i documenti, quelli che ne formano l'oggetto immediato da quelli che vanno considerati in vario modo concomitanti.
Liberatasi dai pregiudizî esclusivistici del materialismo storico, la storia del mondo antico e delle età moderne procede guidata da larghi concetti d'ispirazione idealistica e rivissuta nell'attualità, e vanta cultori d'alto valore, quali Gaetano De Sanctis, Benedetto Croce, Francesco Ercole, Francesco Ruffini, Gioacchino Volpe e non pochi altri. La critica letteraria invece, che già vide prima della guerra fiorire la giovinezza di Enrico Thovez, di G. A. Borgese, di Renato Serra, di Emilio Cecchi e ardere le polemiche dei vociani, seguaci o contraddittori dell'estetica del Croce, ondeggia ora in una, forse più pratica che teorica, incertezza d'indirizzo; ché mentre da una parte la critica che è o vuol essere di pensiero e si volge di preferenza (ma non esclusivamente) alla letteratura moderna e contemporanea, facilmente si perde in una presuntuosa superficialità chiacchierina, dall'altra la critica ben ferrata di preparazione storica e di esperienza metodica o par temere, sia peritanza o incapacità, le energie autonome del pensiero o gioca a nascondere quella sua preparazione e magari a svalutarne la necessità, per timore di non parere abbastanza moderna. Sono pochi quelli che, prestando ascolto ai maestri della nuova estetica non pure nella speculazione teorica, ma nel culto e nell'uso d'una salda erudizione e dei sani procedimenti pratici, accolgono volentieri le novità, senza rinnegare, anzi perfezionando nel rinnovato ambiente spirituale dottrina e metodo, e fecondando e illuminando con le nuove idee la presunta aridità e opacità d'indagini minuziose, nelle quali sta tanta parte della probità e dell'utilità del lavoro scientifico. E già per questo cammino, che non conduce né alla fusione del vecchio col nuovo, né ad un temperamento di quello con questo, ma all'annullamento dell'uno e dell'altro in concetti e metodi nuovi, pare che si avviino i giovanissimi.
Principali raccolte di opere della letteratura italiana. - Edizione delle opere classiche dedicata a S. E. il signor Melzi D'Eril, duca di Lodi, ecc., Milano 1803-14, collez. dei Classici italiani in 255 voll., alla quale fa seguito l'Edizione delle opere classiche italiane del sec. XVIII, Milano 1818 segg., in 153 voll.; Parnaso italiano dell'Antonelli, Venezia 1832-51, in 12 voll., Biblioteca Nazionale Le Monnier, Firenze 1847 segg.; Collezione gialla Barbera, Firenze 1855 segg.; Collezione diamante, Firenze 1858 segg.; Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli della lingua per cura della R. Commissione pe' testi di lingua, Bologna 1863-1929, voll. 109; Scelta di curiosità lett. ined. o rare dal sec. XIII al XVII, in append. alla precedente, Bologna 1861-1899, voll. 254; Biblioteca rara Daelli, Milano 1862-65, in 65 volumetti; Biblioteca classica economica Sonzogno, Milano 1873 segg.; Raccolta di opere ined. o rare di ogni secolo della letterat. ital., Firenze 1880 segg.; Piccola biblioteca ital. Sansoni, Firenze 1883 segg.; Documenti di storia letteraria, pubbl. per cura della Società Filologica Romana, Roma 1904 segg.; Scrittori d'Italia, Bari 1910 segg. (finora se ne sono pubblicati 144 voll.); Scrittori nostri, Lanciano 1910 segg. Raccolte di scrittori italiani commentati, le quali si vengono di giorno in giorno accrescendo, sono: la Biblioteca scolastica di classici italiani della casa editrice G. C. Sansoni di Firenze; i Classici italiani con note dell'Unione tipografica editrice torinese; la Biblioteca classica Hoepliana dell'editore U. Hoepli di Milano; la Biblioteca dei classici italiani della casa G. B. Paravia di Torino; la Biblioteca di classici italiani annotati della casa Francesco Vallardi di Milano; i Classici italiani commentati dell'editore Vallecchi di Firenze; la Collezione scolastica della casa Barbera di Firenze; la Biblioteca classica italiana dell'editore Perrella di Napoli; gli Scrittori italiani con note della casa Zanichelli di Bologna; la Biblioteca di classici italiani commentati per le scuole, dell'editore Giusti di Livorno, ecc. Antologie di varia ampiezza e d'importanza più che scolastica, con notizie biografiche più o meno ricche e talune con quadri di complesso dei secoli: A. D'Ancona e O. Bacci Manuale della letterat. ital., nuova ediz. interamente rifatta, Firenze 1900-901, in 5 voll. più un sesto di supplemento (1910); T. Casini, Lett. ital. Storia ed esempi, I, Roma-Milano 1909 (del II vol. solo la prima parte, 1910); F. Torraca, Manuale della letterat. ital., 8ª ed., Firenze 1928 segg., in 4 voll.: A. Momigliano, Antologia della letterat. ital., Messina 1927 segg.; V. Nannucci, Manuale della letterat. del primo secolo, 3ª ed., Firenze 1878, in 2 voll.; E. Monaci, Crestomazia ital. dei primi secoli, Città di Castello 1889-97; E. Falqui, Antologia della prosa scientifica ital. del '600, Roma-Milano 1930; G. Mestica, Manuale della letterat. ital. del sec. XIX, Firenze 1885-87, 2 voll. in tre tomi; I poeti futuristi con un proclama di F.T. Marinetti e uno studio sul verso libero di P. Buzzi, Milano 1912; G. Titta Rosa, I Prosatori, Milano 1921, in 2 voll.; G. Papini e P. Pancrazi, Poeti d'oggi (1900-925), 2ª ed., Firenze 1925; E. Falqui e E. Vittorini; Scrittori nuovi, Lanciano 1930.
Bibl.: Storie generali. G. M. Crescimbeni, L'istoria della volgar poesia, Venezia 1730-31, voll. 6; G. Gimma, Idea dell'Italia letterata, Napoli 1723; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, Bologna-Milano 1739-52, voll. 4 in 7 tomi; G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, Brescia 1753-1763, voll. 2 in 6 parti, dizionario bio-bibliogr. degli scrittori, che arriva solo alla fine della lettera B; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena 1772-82, voll. 9, ristampata dall'autore con correzioni e aggiunte, Modena 1787-94, e poi molte volte; P. L. Ginguené, Historie littéraire d'Italie, Parigi 1824-35, voll. 14, dei quali i tre dal VII al IX furono compiuti da F. Salfi su manoscritti dell'autore, e i seguenti sono opera del Salfi, che arriva sino al Seicento (la traduz. ital., Milano 1823-28, è condotta sulla prima edizione); F. Salfi, Résumé de l'hist. de la littérature italienne, Parigi 1826, voll. 2 (traduz. italiana, Milano 1834); G. B. Corniani, I secoli della letteratura ital. dopo il suo risorgimento, commentario (1804-13) con le aggiunte di C. Ugoni (1820-22) e S. Ticozzi e continuato per cura di F. Predari, Torino 1854-56, voll. 8; E. Ruth, Geschichte der ital. Poesie, Lipsia 1844-47, voll. 2; P. Emiliani Giudici, Storia della letteratura ital., Firenze 1855, più volte ristampata; C. Cantù, Storia della letterat. ital., Firenze 1865; L. Settembrini, Lezioni di letterat. ital., Napoli 1868-70, voll. 3, ristampati più volte; F. De Sanctis, Storia della letteratura ital., Napoli 1870, voll. 2 (notevole l'edizione curata da B. Croce, Bari 1912); A. Bartoli, Storia della letterat. ital., della quale uscirono, Firenze 1878-89, solo i primi 7 voll., che arrivano solo a Dante e, senza inframmesse, al Petrarca; A. Gaspary, Geschichte der ital. Literatur, Berlino 1884-88, voll. 2, che non esauriscono neppure tutta la letteratura del sec. XVI (traduz. ital., 2ª ed., I, Torino 1914; II, 1900-901, in due parti); B. Wiese-E. Percopo, Gesch. der ital. Litteratur von den ältesten Zeiten bis zur Gegenwart, Lipsia 1899 (traduz. ital., Torino 1904); G. Zonta, Storia d. letterat. ital., con note bibliograf. di G. Balsamo-Crivelli, Torino 1927-1932, voll. 3; V. Rossi, Storia d. letterat. ital., 11ª ed., Milano 1933, voll. 3; H. Hauvette, Littérature italienne, 2ª ed., Parigi 1932. Cfr. anche G. A. Borgese, Il senso della letterat. ital., Milano 1931.
Storie di secoli e periodi letterarî. - Una storia della letteratura italiana, nella quale a ogni secolo corrisponde un volume e un diverso collaboratore, pubblicò per la prima volta, negli anni tra il 1878 e l'80, la casa ed. Francesco Vallardi di Milano; la ripubblicò, mutati i collaboratori, negli anni tra il 1898 e il 1926; e sta ora dandola in luce per la terza volta, rinnovata e in parte con altri collaboratori. Delle due prime serie s'indicano qui i volumi che serbano ancora una loro importanza; della terza i volumi finora pubblicati: A. Bartoli, I primi due secoli della letteratura ital., 1880; F. Novati-A. Monteverdi, Le origini, 1926; G. Bertoni, Il Duecento, 1930; G. Volpi, Il Trecento, 1907; V. Rossi, Il Quattrocento, 1933; U. A. Canello, Storia d. letterat. ital. nel sec. XVI, 1880; F. Flamini, Il Cinquecento, 1902; G. Toffanin, Il Cinquecento, 1929; A. Belloni, Il Seicento, 1929; G. Natali, Il Settecento, 1929; G. Mazzoni, L'Ottocento, 1913. - Inoltre: G. Carducci, Dello svolgimento della letterat. nazionale (secoli XII-XVI), in Opere, I, pp. 27-187; A. Gaspary, Die sicilianische Dichterschule des 13. Jahrhund., Berlino 1878 (traduz. ital. Livorno 1882); F. Torraca, Studi su la lirica ital. del Duecento, Bologna 1902; G. A. Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia siciliana sotto gli Svevi, 2ª ed., Palermo 1924; E. Gebhardt, Les origines de la Renaissance en Italie, Parigi 1879; A. Symonds, Renaissance in Italy: The revival of learning, Londra 1877; id., Italian literature, Londra 1881, in due parti; L. Geiger, Renaissance und Humanismus in Italieb u. Deutschland, Berlino 1882 (traduz. ital., Milano 1891); G. Körting, Die Anfänge der Renaissancelitteratur in Italien, Lipsia 1884; J. Burkhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, traduz. ital. di D. Valbusa, 3ª ed. accresciuta per cura di G. Zippel, Firenze 1921, voll. 2; G. Voigt, Die Wiederbelebung des classischen Alterthums, 3ª ed curata da M. Lehnerdt, Berlino 1893, voll. 2 (trad. ital., Firenze 1888-91; con Giunte e correzioni di G. Zippel, Firenze 1897); F. Monnier, Le Quattrocento. Essai sur l'histoire littéraire du XVe siècle italien, Parigi 1901, voll. 2; F. Flamini, La lirica tosana del Rinascimento, Pisa 1891; G. Toffanin, La fine dell'Umanesimo, Torino 1920; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte. Studî sulla poesia ital. dal Tre al Cinquecento, Bari 1933; id., Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929; id., Saggi sulla letterat. ital. del Seicento, Bari 1911; 2ª ed., 1924; id., Nuovi saggi sulla letterat. ital. del Seicento, Bari 1931; G. Maugain, Étude sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ, Parigi 1909; E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti nel sec. XVIII e dei contemporanei, Venezia 1834-45, voll. 10 (le biografie sono di molti autori); A. Lombardi, Storia della letterat. ital. nel sec. XVIII, Modena 1827-30, voll. 4; Vernon Lee, Il Settecento in Italia: Letteratura, teatro, musica, vers. dall'inglese, Napoli 1932, voll. 2; M. Landau, Geschichte der. ital. Litteratur im 18. Jahrh., Berlino 1899; F. Monnier, Venise au XVIIIe siècle, Parigi 1907; E. De Marchi, Lettere e letterati ital. del sec. XVIII, Milano 1882; A. Graf, L'anglomania e l'influsso inglese in Italia nel sec. XVIII, Torino 1911; Collezione settecentesca a cura di S. Di Giacomo, Palermo 1900 segg. (raccolta di monografie su argomenti settecenteschi); P. Hazard, La révolution française et les lettres italiennes (1789-1815), Parigi 1910; J. Luchaire, Essai sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1815 à 1830, Parigi 1906; G. Zonta, L'anima dell'Ottocento, Torino 1924; G. Barzellotti, La letterat. e la Rivoluzione in Italia avanti e dopo il 1848 e 49, in Dal Rinascimento al Risorgimento, 2ª ed. Palermo 1910; F. De Sanctis, La letterat. ital. nel sec. XIX, Napoli 1898; B. Croce, La letterat. della nuova Italia, Bari 1914-15; 3ª ed., 1929, voll. 4; G. A. Borgese, La vita e il libro, Bologna 1910-13, voll. 3; F. Flora, Dal romanticismo al futurismo, 2ª ed., Milano 1925; K. Vossler, Ital. Literatur der Gegenwart, Heidelberg 1914 (trad. ital., 2ª ed., Napoli 1922); P. Nardi, Novecentismo, Milano 1926; B. Crémieux, Panorama della litt. ital, cont., Parigi 1928; A. Momigliano, Impressioni di un lettore cont., Milano 1928; C. Pellizzi, Le lettere ital. del nostro secolo, Milano 1929; G. Ravegnani, I contemporanei, Torino 1930; G. Bellonci, Introduzione alla letteratura d'oggi, in Annali dell'istruzione media, VIII (1932), quad. 3-4; G. B. Angioletti, Ragguaglio delle nostre lettere, in Il giornale di politica e di letterat., VIII (1932), fasc. 6; A. Bocelli, La letteratura nell'ultimo decennio, in Scuola e cultura (Annali della istruzione media), VIII (1932), quaderno 5-6; F. Casnati, Novecento, Milano 1932; P. Mignosi, Linee di una storia della nuova poesia italiana, Palermo 1933.
Storie dei generi letterarî. - Una storia dei generi letterarî italiani fu disegnata dalla casa Francesco Vallardi di Milano, che ne affidò l'esecuzione a molti collaboratori, e che la viene pubblicando a dispense. S'indicano gli scritti di cui sia completo, o quasi, almeno uno dei volumi in cui dovrebbero dividersi: A. Albertazzi, Il romanzo, 1904; F. Foffano, Il poema cavalleresco, II, 1905 (il primo vol. doveva essere scritto da V. Crescini); E. Bertana, La tragedia, 1906; E. Carrara, La poesia pastorale, 1908; I. Sanesi, La commedia, I, 1911; O. Bacci, La critica dall'antichità classica al Rinascim., 1911; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, 1912; C. Trabalza, La critica dai primordi dell'umanesimo all'età nostra, I, 1915; V. Cian, La satira, I, 1923; L. Di Francia, La novellistica, I, 1924; G. Lisio, La storiografia, I, rimasto interrotto al secolo XIV con la p. 528; A. Galletti, L'Eloquenza, vol. I, che fa la storia dell'eloquenza sacra sino alla Controriforma e inizia appena la trattazione dell'eloquenza politica e politico-accademica. A questo libro fanno seguito i due volumi di E. Santini, L'eloquenza ital. dal Concilio tridentino ai nostri giorni, I: Gli oratori sacri, Palermo 1923; II: Gli oratori civili, Palermo 1928. - Altre opere intorno a generi o motivi letterarî: A. D'Ancona, Origini del teatro ital., 2ª ed., Torino 1891, voll. 2; L. Torelli, Il teatro ital. dalle origini ai giorni nostri, Milano 1924; V. De Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica ital. Bologna 1924; F. Neri, La tragedia ital. del Cinquecento, Firenze 1904; G. Guerzoni, Il teatro nel secolo XVIII, Milano 1876; E. Bertana, Il teatro tragico italiano del sec. XVIII prima dell'Alfieri, in Giorn. stor. d. letterat. ital., suppl. n. 4; A. Parducci, La tragedia classica ital. del sec. XVIII anteriore all'Alfieri, Rocca S. Casciano 1902; A. Galletti, Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel sec. XVIII, I (1700-1750), Cremona 1902; S. d'Amico, Il teatro italiano, Milano-Roma 1932; G. B. Marchesi, Romanzieri e romanzi ital. del Settecento, Bergamo 1903; L. Russo, I narratori (1860-1922), Roma 1923; B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1917; id., Storia della storiografia ital. nel secolo XIX, Bari 1921, voll. 2; E. Spingarn, La critica letter. nel Rinascimento, Bari 1905; G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, 2ª ediz., Milano 1923; L. Tonelli, La critica letteraria italiana negli ultimi cinquant'anni, Bari 1914; F. Piccolo, La critica contemporanea, Napoli 1921.
Bibliografie della letteratura di secoli o generi: B. Gamba, Serie dei testi di lingua dal sec. XIV al XIX, 4ª ed., Venezia 1839; F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, 4ª ed., con appendice, Bologna 1884; e con un Supplemento con gli indici generali, a cura di S. Morpurgo, Bologna 1929; G. Melzi e P. A. Tosi, Bibl. dei romanzi di cavalleria italiani, Milano 1865; G. B. Passano, I novellieri ital. in verso, Torino 1868, voll. 2; id., I novellieri italiani in prosa, Bologna 1878; Guide bibl. per la produzione dal 1860 in poi, pubblicate dalla Fondazione Leonardo: L. Tonelli, La critica, 1920; L. Piccioni, Il giornalismo, 1920; C. Levi, Il teatro, 1921; G. Bustico, Il teatro musicale, 1924.
Periodici letterarî. - Il Propugnatore, Bologna 1868-87 con indice, n. s., 1888-93; Giornale storico della letteratura italiana, Torino 1883 segg., con due indici, uno dei primi 24 voll. (1883-94), l'altro dei primi 50 (1883-1907) e se ne promette un terzo dei primi cento; Supplementi al Giornale storico, Torino 1898 segg.; Rivista critica della letterat. italiana, Firenze-Roma 1884-92; La Rassegna bibliografica della letterat. ital., Pisa 1893-1915 con indice alla fine del vol. X (1902), divenuta poi La Rassegna, Napoli 1916 segg.; La Rassegna critica della letterat. ital., Napoli 1896-1925; Studi di letterat. ital., Napoli 1899-1922, voll. 13; La Cultura, n. s., Roma, Bologna, Milano 1922 segg.; Leonardo, Roma, Milano, Firenze 1925 segg.; Convivium, Milano 1929 segg.; Pègaso, Firenze 1929 segg.; La nuova Italia, Firenze 1930 segg.; Fanfulla della domenica, Roma 1879-1916; Il Marzocco, Firenze 1896-1932; L'Italia letteraria, Roma 1929 segg., succeduta a La Fiera letteraria, Milano 1925-28.
ETNOGRAFIA E FOLKLORE.
Sommario. - Etnografia: Abitante rurale (p. 960); Arte popolare (p. 962); Il costume (p. 964); Amuleti (p. 965); Ex-voto (p. 965); Tatuaggi (p. 965); Collezioni etnografiche (p. 966). - Folklore: Nascita (p. 966); Nozze (p. 966); Funerali (p. 967); Feste (p. 967); Letteratura popolare (p. 968); Musica popolare (p. 968); Bibliografia (p. 970).
Etnografia.
Abitazione rurale. - L'Italia ha una grande varietà di abitazioni rurali, sia per ciò che riguarda le differenze di struttura, sia per le forme architettoniche e i materiali adoperati nella costruzione. Le strutture più semplici e primitive possono essere date dalla casa composta di un vano unico, senza finestre né camino, col focolare nel mezzo, di cui si trova ancora qualche esempio in certi villaggi della Sardegna (Orgosolo) o della Calabria (Vallelonga) e nelle capanne di paglia tuttora superstiti per i pastori e per qualche villaggio di contadini nel Lazio (v. capanna). Ma sono, fortunatamente, reliquie affatto eccezionali. Meno rara è in Italia la casa rurale costituita dal solo piano terreno: questa struttura prevale tuttavia in alcuni tipi che hanno caratteri di indubbia arcaicità e si distinguono anche per i materiali di costruzione. Uno di essi è dato dai trulli pugliesi e dalle casite istriane. Bisogna tuttavia distinguere, nei trulli, due oggetti assai diversi: vi è la costruzione fatta interamente di pietre soprammesse a secco, a pianta circolare e a forma di tronco di cono o a coni tronchi sovrapposti, che serve ormai solo per ricovero temporaneo o per custodia di utensili o provviste, tipo indubbiamente antico e di origini primitive; e vi è la casa in muratura a pianta quadrangolare, nella quale ciascun vano è coperto da un cono di pietre soprammesse.
Questa copertura, adoperata in un distretto della Puglia per le comuni case rurali e anche per interi paesi (Alberobello), tien luogo delle coperture a vòlta (làmia) comuni in tutta la Puglia ed è in rapporti genetici con esse. Le une e le altre tendono a essere sostituite da piccoli tetti a due spioventi, ma sempre uno per ciascun vano, e la struttura della casa, che comporta molto raramente un piano superiore e consiste di "stanze" costruite l'una accanto all'altra (abitazione, stalla, magazzini, ecc.), rimane inalterata. È in complesso un tipo con affinità egee e nord-africane, determinato dall'estrema scarsità di legname: possiamo dirlo dunque tipo mediterraneo. In Italia si è diffuso soprattutto nell'intera Puglia, dove però la vòlta a padiglione è stata di regola coperta, in tutto o in parte, da una terrazza chiusa tutto intorno con un muretto e utilizzata per la raccolta dell'acqua piovana da versare alle cisterne. Lo troviamo poi alle isole Eolie e nella pianura litoranea del golfo di Napoli e di Salerno e nelle isole adiacenti, dove si è sviluppato, talvolta anche in altezza, in forme varie e pittoresche, con le vòlte di forme diverse (a botte, a crociera), i loggiati, le terrazze, i muri a scarpata necessarî a reggere la spinta della copertura a vòlta, che costituiscono lo stile caprese (Capri, Amalfi, Positano).
Nella categoria delle case a un sol piano sono da collocare anche i casoni della bassa Pianura Padano-veneta: col quale nome s'intende una costruzione caratterizzata da un alto tetto piramidale di paglia, poggiante su pareti di mattoni d'argilla seccati al sole. Nei casoni, tuttora adibiti a dimora permanente nel padovano e veneziano, un portichetto tagliato nella facciata serve a disimpegnare i vani interni: alla cucina è addossato esternamente un ampio e alto camino in muratura; un abbaino permette di accedere, con la scala a mano, al sottotetto. I casoni, che stanno scomparendo del tutto ma dovevano essere una forma molto comune nelle pianure del nord, ci mostrano pure l'uso di due materiali assai primitivi: la paglia per il tetto e i blocchi d'argilla cruda per le pareti. Della copertura di paglia si hanno residui anche in tutta la regione alpina orientale e in qualche luogo della penisola. Le case d'argilla, per lo più mescolata con paglia triturata, che tendono di per sé a limitare le costruzioni al solo piano terreno, si ritrovano con nomi diversi (pinciaia, brestara) anche in varî distretti argillosi della penisola (alta valle del Liri, colline teramane e chietine, Lucania centrale, Calabria) e delle isole maggiori (Sardegna meridionale): la copertura del tetto è di tegole ed embrici. Nella pianura della Ciociaria si hanno basse costruzioni a un sol piano di mattoni e d'argilla cruda o d'assi di legno, con rozzo loggiato anteriore o laterale e tetto poco inclinato, che non offre quindi nemmeno spazio per un solaio, coperto di tegole. Erano in origine ricovero stagionale, ma son divenute in molti casi dimore permanenti per il fissarsi degli agricoltori nel piano. Abitazioni col solo pian terreno sono frequenti del resto anche nei borghi rurali agglomerati della Calabria e Sicilia; a un piano è anche la casa tipica della Barbagia (Sardegna), costruita con muri a secco, dalle anguste finestre e dalle porte dipinte a strisce multicolori: nella piccola corte che le sta dinnanzi non vi è altro annesso che il babizone, ripostiglio-legnaia, che serve anche di stalla per l'asino. Non come persistenza di forme primitive, ma come effetti locali e molto limitati di pauperismo, si devono considerare le abitazioni parzialmente scavate nella roccia (Matera, Nicosia).
La ricorrenza di queste strutture elementari non altera la normale prevalenza dei tipi più evoluti di abitazione. Quello che possiamo chiamare il tipo italico tradizionale, e che, per la presenza di determinati elementi strutturali, il Ferrari chiama "latinou, è dato dalla costruzione in muratura, a due piani, con tetto a due spioventi poco inclinati, coperto di tegole e di embrici. L'accesso al piano superiore, per risparmio di spazio e per semplicità di costruzione, è dato da scale esterne addossate alla facciata o a un lato della casa e coperte per lo più, almeno allo svolto, da una tettoia a loggetta. La casa è divisa verticalmente in due parti congiunte ma di regola non comunicanti: l'una con la cucina al terreno e le camere al piano superiore, l'altra con la stalla e il fienile sovrapposto. Il solaio può servire da magazzino. La facciata è data dal lato delle gronde del tetto. Le costruzioni accessorie sono poche e piccole: il forno, il porcile, il pollaio, qualche tettoia per gli attrezzi. Questo tipo di casa incontriamo all'incirca inalterato un po' dappertutto, dalle Alpi alla Calabria e alle isole. Le varianti, come s'intende, sono numerose: in molte plaghe dell'Italia meridionale e delle isole, dove le case coloniche isolate sono di costruzione recente, mancano le scale esterne; nella Sila, per contro, c'è ancora qualche esempio di ponte levatoio fra la scala e l'ingresso al piano superiore. La copertura di laterizî può essere sostituita, dove abbonda il materiale adatto, da lastre di calcare o di ardesia (Liguria): le dimensioni e la complessità interna degli ambienti possono essere in alcune aree (Val di Chiana) molto maggiori. Il tipo è conservato anche dalle case di paese nei più vecchi borghi dell'Italia peninsulare (Abruzzo) e della Sicilia (Randazzo) e si associa in combinazioni varie tanto con le forme alpine delle vallate meridionali, quanto con il tipo architettonico a lamie o terrazze. Una varietà comune nel mezzogiorno presenta tutta la facciata tagliata da un doppio loggiato ad arco, dentro il quale si sviluppano anche le scale. Ad Agerola e Scala, nella penisola sorrentina, lo sviluppo in altezza e la copertura del tetto con scandole ricordano le forme alpine.
Queste sono numerose, ma nell'attesa di rilievi che ne consentano la classificazione, si possono riunire sotto certi caratteri comuni. Il tipo alpino del versante meridionale è costruito di regola, almeno in parte, in muratura: si compone di due piani e d'un sottotetto, più o meno aperto, o chiuso con assito di legno: il tetto, a due spioventi poco inclinati, è coperto di scandole (assicelle) di legno oppure da lastre di pietra: tegole ed embrici sono d'introduzione esterna. La facciata tende a stabilirsi sotto il comignolo del tetto. Questo è assai sporgente e protegge i ballatoi e poggioli di legno che corrono sulla facciata, e che hanno la funzione (e spesso forme particolarmente adatte) di facilitare l'essiccamento dei prodotti del campo. Si ha alle volte un rustico (fienile) separato: ma in generale, come costruzione apposita, esso sta lontano dalla casa, o da solo, o in connessione alle abitazioni temporanee scaglionate a diversi livelli sulla montagna. La casa del paese tende, per contro, a raccogliere tutto sotto il medesimo tetto, abitazione, magazzini, granai, fienile, aia: e si sviluppa in altezza. La divisione degli ambienti in generale è fatta in modo da lasciare l'abitazione sul davanti e il rustico posteriormente. La prevalenza del legname sulla pietra, nella costruzione, è un sintomo d'influssi transalpini. Si osserva difatti specialmente in corrispondenza della colonizzazione tedesca, nell'alto Adige e in qualche altro luogo (Sappada), mentre la casa della Carnia, del Trentino e delle Alpi Lombarde è quasi totalmente in muratura. Nel Piemonte, è da segnalare la struttura singolare delle case di Courmayeur, nelle quali un unico ampio vano raccoglie cucina, camera e stalla e tutto il resto dell'edificio è adibito a magazzino.
Un posto a parte spetta alle forme slavo-tedesche della Venezia Giulia, che hanno una loro variante anche nei Sette Comuni vicentini: sono di regola grandi casamenti massicci con tetto a padiglione, coperto di paglia, a due o tre piani, e scarsi aggetti in legname.
Alle forme menzionate, che rappresentano meglio le vecchie costruzioni dell'edilizia rurale del nostro paese, sono da aggiungere quelle imposte dalle esigenze di sistemi più complessi di economia agricola. Il tipo più antico, di questa categoria, è probabilmente quello della corte: riunione di più edifici, abitazioni, stalle, fienili, ecc. intorno a uno spazio chiuso quadrangolare; tipo molto diffuso nella Pianura Padano-veneta, che si ripresenta anche nell'agro campano e, sporadicamente, in varî luoghi dell'Italia meridionale e della Sicilia. È di solito congiunto a un notevole sviluppo dell'allevamento animale o all'industria dei latticinî, oppure alle esigenze di colture speciali (riso, canapa, barbabietola di zucchero), e in ognuna delle sue aree principali ha dato origine a insediamenti per più famiglie. Struttura più recente, per scopi non molto diversi, hanno le aziende a elementi disseminati entro a uno spazio talvolta cinto da siepe, della pianura emiliana e veneta: casa, stalla e fienile sono separati e assumono grandi dimensioni. Abitazione e rustici tendono invece a star raccolti insieme, per lo più in costruzioni addossate, nella fattoria toscana, la quale risponde alle molteplici esigenze di una coltura intensiva e promiscua con un edificio principale a pianta quadrata (portico, loggiati) e varî annessi minori, o con varie costruzioni raccolte intorno alla casa del fattore o del padrone. I vecchi compatti e massicci casali dell'agro romano, le grosse masserie delle pianure pascolative del corso inferiore del Volturno e del Sele ci portano pure in presenza di tipi connessi con forme particolari di economia agraria.
Un elemento degno di particolare menzione è quello delle torri e torrette colombarie caratteristiche di varie regioni d'Italia (Emilia occidentale, Valdarno, Sannio), anche perché in certi casi la torre assume proporzioni tali da far ritenere che l'uso a colombaio sia derivato da un'anteriore funzione difensiva. Disposizioni e strutture di difesa non sono rare, del resto, nelle vecchie masserie, p. es. nella Puglia, nei già citati casali del Lazio o nelle corti lombarde e friulane, testimonianza di un periodo in cui l'azienda rurale isolata era costretta ad affrontare condizioni di scarsa sicurezza pubblica.
Arte popolare. - Interessanti sotto l'aspetto etnografico, sono i lavori che i pastori e i contadini preparano col legno, l'osso, il corno, la zucca, la canna e altre materie. Tali lavori che comprendono attrezzi e utensili di varie specie (bicchieri di corno, tabacchiere, corni da polvere per la caccia, borracce, cavicchi, stampi per il burro, bolli per il pane, cucchiai, scodelle, conocchie, stecche da busto, collari da mucche e da pecore, ecc.) portano incisi a punta di coltello disegni varî, fra cui prevalgono quelli erotici e religiosi. Fra i primi le rappresentazioni di un cuore trafitto, di due cuori incatenati, di due mani congiunte, di un ramo fiorito, di un uccello o di un cane che recano il lieto messaggio, e altre figure simboliche per indicare la fede data o la promessa di due amanti; fra i secondi l'albero del bene e del male, l'Arcangelo che uccide il demonio in forma di dragone, i segni della Passione di Gesù Cristo.
Fra i singolari oggetti di legno, che pastori e i contadini lavorano per i proprî bisogni, nei villaggi e nei borghi, son da ricordare le trombe e le serrature. Queste sono costruite a imitazione di quelle di ferro, con chiave anche di legno, e sono applicate alle porte delle capanne e ai cancelli degli ovili (Sicilia, Calabria, Lucania); quelle sono fatte di castagno, si custodiscono nell'acqua e mandano un suono simile a quello delle sirene dei bastimenti. Questo tipo di tromba, che è adoperata a richiamare i porci (Morra, comune di Città di Castello), imita nella forma la cosiddetta tofa o bugna o brogna, conchiglia univalve (Trinonium nodiferum L.), che, smussata all'apice, serve ai pastori per gli armenti (un tempo, forse, serviva ad atterrire il lupo). Il suo uso risale a tempi remoti, essendosene trovati esemplari, oltre che presso gli antichi Romani, presso i cavernicoli (eneolitico delle caverne di Bergeggi, del Sanguineto, della Pollera; neolitico delle Arene Candide, ecc.).
Un ramo ammirevole dell'arte rustica o popolare è quello dei tessuti che vengono preparati col lino, con la ginestra, col cotone, con la lana o la seta, su telai a mano, talvolta da due tessitrici di cui una fa la trama e l'altra il fondo a panno. Vecchie mostre tramandate dalle madri alle figlie, forniscono i disegni ornamentali, che possono essere di due specie: geometrici e rappresentativi, come quelli in uso tra i pastori. Dei primi i più comuni sono detti: a dente di lupo, a dente di cane, a occhio di pulcino, a mosca, a grano di pepe, a spina, a palma, a spiga, a fava, a nocciuola, a mandorla, a felce, a verghe, a fettucce, a fiocchi, a gomma, a corello, a onde, a felpa, a iride, a fiamma, a sedia, ad arco, a mattone, a crocetta, a stella; degli altri i più notevoli si chiamano la Caccia, la Fontana d'Amore, la Danza, le Nozze; ma la difficoltà di eseguirli per intero costringe le tessitrici ad abbreviarli riproducendo qualche particolare o qualche figura adatti a dare l'idea del tema, e cioè il falcone o il falconiere per la Caccia, il centauro per la Danza, l'uccellino che si disseta per la Fonte d'Amore, ecc. Le tinte, nei luoghi ove perdurano i sistemi tradizionali, vengono estratte da materie vegetali (radici di robbia, fronde d'olmo, talli di salice o di rovo, fiori di ginestra, corteccia di melograno, d'ontano o di noce, galle di quercia, ecc.).
Nel tessere i copertoi, i bancali, i copricassa, le contadine seguono uno schema elementare, che dà al tessuto la forma di un quadro, di cui uno o più scomparti, in forma di rombi o di rettangoli, occupano il campo centrale, chiusi all'intorno da una grande fascia che gira a guisa di cornice. In questa si svolgono i motivi floreali intramezzati da animali simbolici e araldici, mentre negli scomparti centrali si collocano i motivi rappresentativi.
I più pregevoli tessuti popolari che per lo stile decorativo richiamano alla mente quelli delle corti del sec. XV, provengono dall'Abruzzo (Pescocostanzo), dalla Campania (Arpino), dalla Calabria (Longobucco), dalla Sardegna (S. Giusta).
Fino a non molti anni fa, in varie provincie, fu fiorente l'arte figulina, che ora esiste soltanto in piccoli centri della Sardegna (Dorgali, Banari, Castelsardo), della Sicilia (Caltagirone), della Calabria (Seminara), della Puglia (Ruvo), del Molise (Venafro, Ariccia, Guardiaregia), dell'Abruzzo (Palma e Castelli), della Toscana (Montelupo), del Piemonte (Ronco Biellese, Bansera, Castellamonte). Materia prima è la creta, ora bianca, ora nera, preparata mediante l'aggiunta di un po' di sale, che, si dice, ha la proprietà di conferire al recipiente, specie se serve per l'acqua, un senso di freschezza, e d'influire sul colore della terracotta. Strumento di lavoro è il tornio, che consiste in una ruota mossa dal piede, e su cui si pone la creta, che il figulo manipola e plasma con le dita e con la stecca. Le forme delle terrecotte sono svariatissime, a seconda degli usi cui servono: vasi, brocche, orci, piatti, boccali, pentole, borracce, lucerne, ecc.; ma le più caratteristiche sono quelle zoomorfe, o addirittura antropomorfe (brocche sarde a forma di gallo o di oca; borracce calabresi a figura di pesce, di serpe, ecc.; lucerne siciliane a figura umana). La colorazione varia dal verde al giallo, dall'arancio al marrone, e spesso brilla per la lucentezza degli smalti. Un ramo speciale è rappresentato dalle figurine per presepio, di cui esistono artefici in molti paeselli del Centro e del Mezzogiorno, talvolta eccellenti o rinomati come furono il Bongiovanni e il Vaccaro di Caltagirone.
Il costume. - Il costume tradizionale, che nella maggior parte d'Italia tende ora a scomparire per il livellamento delle condizioni generali di vita, dimostra, specialmente nelle vesti l'influenza di differenti fattori: climatici, religiosi, politici. In vari luoghi la tradizione ne fa risalire la foggia e altre particolarità (forma, colore, ornamenti, ecc.), specie per quanto concerne l'abito femminile, alla propaganda ecclesiastica e ad altri avvenimenti religiosi. Le donne di Gallo, nella Campania, si dice che vestono di panno fratesco per voto fatto dalla popolazione allorché una voragine di fuoco si aperse in mezzo all'abitato minacciando di inghiottirlo; le donne di S. Giovanni in Fiore, nella Calabria, vestono di nero per devozione al gran santo del luogo, l'abate Gioacchino. Alla predicazione di S. Bernardino si attribuisce, nella Tuscia, la scomparsa degli sfarzosi vestiti femminili, che vennero sostituiti con altri di "panno monachino" volgarmente "borgonzone". Al detestato diritto signorile riporta la tradizione, in alcuni paesi della Calabria e della Sardegna, l'uso per cui le donne nell'uscir di casa ripiegano sulla fronte il telo posteriore della gonnella.
Ma indipendentemente da questi fatti, che rappresentano casi eccezionali nella carta etnografica dei costumi popolari, la scelta del colore, negl'indumenti, ubbidisce a norme tradizionali, la cui origine è antichissima. Secondo una di tali norme, il colore delle spose è il rosso; il colore delle nubili, e specialmente delle giovinette, è il verde o il celeste; il colore delle vedove il marrone o il nero. Ad essa si uniformano gli usi locali, per quanto riguarda sia la parte sostanziale del vestito (sottana, gonnella), sia alcuni ornamenti (nastri, fiocchi, intrecciatura, cinturino, ecc.), che stanno come distintivi delle tre categorie.
In gran parte dell'Italia meridionale, a preferenza in alcmi paesi della Campania, della Lucania, della Calabria, le donne se nubili indossano la sottana e l'intrecciatura di color celeste, e se maritate la sottana e l'intrecciatura di color rosso fuoco. Anzi la sottana fa parte dei doni che lo sposo manda alla futura moglie alla vigilia delle nozze.
Dove l'antico abito è decaduto, sopravvive l'idea dei distintivi per le nubili e le maritate. In qualche località del Trentino le fanciulle legano ai capelli un fiocco verde, avendo cura di sostituirlo con altro rosso allorquando si fidanzano o si sposano. Questa regola o tradizione trova conferma attraverso una grande varietà d'usanze, in quasi tutte le regioni. Distintivi della sposa sono, nel Piemonte, il fazzoletto rosso attorno al collo; nel Lazio, i manichini di raso rosso al giubbetto; nella Campania (Casalvieri e altrove) il panno scarlatto; nella Lunigiana (Val di Magra) la reticella di seta rossa, e via dicendo.
Accanto al color rosso, che spicca come nota gaia nei costumi popolari femminili della Val d'Aosta (Gressoney), dell'Irpinia, del Lazio, del Molise, della Terra di Lavoro, della Calabria, della Sicilia, della Sardegna, se ne trovano in uso degli altri. In alcuni paesi marittimi è preferito il colore azzurro (contadine istriane di Muggia, calabresi di Reggio, ecc.); in altri il giallo (donne sabine di un secolo fa; popolane di Buia, ecc.); e in altri invece il bianco. Di questo colore era anticamente l'abito della sposa friulana.
Oltre che per il colore, l'abito popolare femminile è caratteristico per la foggia. La gonnella raramente corta, in molti paesi (Sardegna, Sicilia, Calabria, Valsugana, Venezia Giulia, ecc.) non termina alla cintola, ma costituisce un tutto col corpetto o col busto, e può essere a campana o a pieghe grosse e piccole (cannelli, cannellini, colonne, ece.) e adorna di falde e balze. Quest'ultime non sono senza significato, tant'è vero che, nella Val Dora, la condizione sociale ed economica della sposa si rileva dal numero delle balze scarlatte. Il busto, alto o basso, può essere schiacciato ai fianchi, o sul petto o al di dietro; ripreso sulle spalle, fornito di bretelle, pettorina, che talvolta ha forma di scudo o di cuore; il giacchetto è piccolo e aperto sul davanti; il grembiule ora quadrato ora ovale, ora ampio e ora breve, di tela, di seta, di velluto o di cuoio. Nella Sicilia è caratteristico il manto nero, in uso per le maritate. Completano l'abbigliamento scialli, pezzuole, fazzoletti, che si portano incrociati sul petto o cadenti a pizzo sulla schiena, o annodati sulla nuca o sotto la gola. Notevoli i pannelli di scarlatto che le Ciociare portano a triangolo sulle spalle; le spinolette delle donne di Grado; i pezzotti ed i mezzani della Liguria; le cartonelle del Lazio; le cuffie del Piemonte e dell'Alto Adige; i cappellini della Lunigiana, i cappelli di feltro a larghe tese della Val d'Aosta; le mitrie o tube o turbanti di Scanno; lo zendado delle Veneziane.
L'abito maschile è in decadenza più di quello donnesco, e dell'antica foggia del vestire dei nostri popolani rimangono solo poche vestigia. Capi fondamentali sono: le brache strette al ginocchio, il farsetto o panciotto, la casacca, i calzettoni, le ciocie o le scarpe, il berretto a punta o il cappello di feltro. Il colore, la forma, gli ornamenti dei varî capi che compongono l'abito, variano da regione a regione, e perfino da paese a paese. Il panciotto spicca per la tinta vivace, che spesso è rossa; la giacca e le brache sono di colore nero (Istria) o turchino (Molise, Lucania, Calabria, Sicilia, eec.) o marrone (Lunigiana). Singolare è il tipo sardo: le brache, increspate alla vita, discendono a ventaglio sui fianchi; il farsetto è vermiglio o paonazzo o verde; sopra di esso risalta una specie di clamide bianca, o nera, e talvolta sopra di questa la villosa mastruca, senza maniche, fatta di pelle di capra o di pecora o di muflone. Il copricapo sardo, come quello dei contadini del Mezzogiorno dell'Italia e della Sicilia consiste in una berretta lunga, nera o turchina. Nella Calabria un tempo, e tuttavia se ne vedono esemplari, s'adoperava nel ceto contadinesco il cappello di feltro duro, adorno di fettucce cadenti sulla spalla, conosciuto col nome di cervune per la sua forma conica. Nella Valsugana e in altre contrade delle Alpi i montanari portano sul cappello una penna di fagiano.
Amrleti. - Comune a varî luoghi della penisola è l'uso dei piccoli anelli d'oro, che gli uomini portano alle orecchie e che, talvolta, si riducono a uno soltanto, per l'orecchio destro, come a Dignano nell'Istria. Ma questa specie di orecchini che, si dice, servono a mantenere acuta la vista, non hanno carattere di veri e proprî ornamenti, ma di amuleti.
L'uso di questi (v. amuleto) è largamente esteso nel popolo, sebbene in maniera non uniforme. Nell'innumerevole massa compariscono armi e attrezzi litici delle epoche preistoriche, conosciuti volgarmente coi nomi di "tuoni", "fulmini", o "saette"; ciottoletti di differente natura indicati, secondo l'ufficio loro, coi nomi di pietre gravide, pietre latteruole (agate), pietre del sangue o sanguinelle (diaspri colorati), pietre stellarie (poliporiti); avanzi scheletrici (difese di cinghiale, zanne di lupo, mascelle di riccio, corna di cervo e di muflone, speroni di gallo, unghie di volpe, ecc.), frammenti di pelle di animali, specie di lupo; ciuffi di peli (tasso, caprone); conchiglie marine; legni (agrifoglio, ecc.), radici, frutti (noci a tre gherigli), foglie e fiori; nonché oggetti di metallo di varia forma (cornetti, medaglie, ranocchielle, mani falliche, ecc.). A ciascun amuleto si attribuisce uno speciale potere contro i fenomeni naturali (fulmini, grandine, ecc.) o contro i malefizî (fattura, ecc.), a propiziarsi la sorte o a guarire dai mali. Il Bellucci espresse la distribuzione degli amuleti assegnando alle provincie settentrionali il 5%, a quelle centrali il 20%, e a quelle del mezzogiorno il 75%. Ma queste cifre hanno un valore molto relativo, perché la collezione Bellucci, sulla quale esse si basano, non rappresenta il risultato di ricerche metodicamente condotte nelle differenti regioni. Lo stesso Bellucci ha potuto dimostrare la persistenza di amuleti che risalgono o alla prima (ossa di rapaci, estremità di corna di cervo, denti canini di volpe o di cane, denti di suino, chele o pinze di gambero, ecc.) o alla seconda età del ferro (forme di pesce, ecc.) o all'epoca romana (forme falliche, pietre dell'occhio, ecc.).
Ex-voto. - Espressioni della religiosità popolare (v. voto) gli ex-voto consistono in offerte, per grazie ricevute, ai santi tutelari o patroni, ovvero venerati per le loro speciali attribuzioni (S. Paolo perché preserva, dai morsi dei rettili; S. Rocco dalla peste; S. Lucia dai mali d'occhi, ecc.). Le offerte sono svariate: danaro, ceri, fiori, frutti, cereali, abiti e altri oggetti, fra cui caratteristiche le figure in cera, in gesso, in argento riproducenti gli organi guariti per la divina intercessione.
Presso le genti dei villaggi simili voti sono anche fatti in forma di pani, che si portano nella chiesa o in processione, nel giorno della festa del santo; senza ricordare i pani devozionali che sono diversamente manipolati, in forma di occhi, di mammelle, di gola, barba, ferro di cavallo, buoi, pecore, serpi ecc., in onore di S. Lucia, S. Agata, S. Biagio, S. Giuseppe, S. Eligio, S. Antonio, S. Nicola, S. Zoca, S. Paolo, ecc. Tra gl'innumerevoli oggetti che compariscono negli ex-voto, non mancano le armi, i remi infranti, le ancore spezzate, le cassette funebri e altre offerte di reduci, di naufraghi, d'infermi ritornati miracolosamente in salute. Ma i più caratteristici ex-voto sono i quadri votivi, tabelle di legno o di latta che recano dipinta la scena del miracolo o del prodigio con in alto la figura del santo invocato. Ex-voto sono offerti anche per gli animali domestici. Tipici i due piedi di cavallo in cera, dal Pitrè raccolti nel Museo etnografico di Palermo.
Tatuaggi. - Sopravvivono in Italia, in qualche categoria sociale. Hanno forma di emblemi, distintivi, marchi, a seconda del motivo, che va dall'amore all'odio, dalla lussuria al vituperio, dalla fede alla superstizione. Tatuaggi gerarchici si trovano fra gli aggregati ad associazioni segrete di delinquenti; tatuaggi di mestiere fra gli artigiani e in basse categorie sociali (l'ancora in Sicilia è il distintivo dei marinai, la sega dei falegnami, ecc.); tatuaggi religiosi (i segni della passione di Gesù Cristo, l'Ostensorio, la croce con raggi, la figura del patrono, ecc.), in varie categorie di devoti. Degni di nota, in Sicilia, i tatuaggi riproducenti l'effigie delle anime dei decollati, e nelle Marche quelli dei pellegrini alla Santa Casa di Loreto, rappresentanti i simboli della Passione, il SS. Sacramento, la Croce, il Cuore con croce, la SS. Trinità, l'Addolorata, la Madonna del Santuario. Tatuaggi-amuleti sono quelli in forma di ferro di cavallo o di mano fallica; di odio quelli in forma di cuori morsi da serpenti; di vendetta quelli in forma di teschio, di capestro, di cassa da morto, ecc.
Per altre importanti manifestazioni dell'etnografia e del folklore italiani, v. carnevale; carro e carrozza (il carretto siciliano; i carri sacri); feste; insegna (insegne popolari); maschere; ecc. Per il diritto popolare, v. diritto, XII, p. 987 segg.
Collezioni etnografiche. - Fra tutti i musei etnografici, il più notevole, per il suo carattere nazionale e per il numero degli oggetti che contiene, è il Museo di etnografia italiana fondato da L. Loria in Firenze nel 1906, regificato nel 1923 e trasferito nella Villa d'Este a Tivoli. Carattere regionale hanno, invece, il Museo etnografico siciliano organizzato a Palermo da G. Pitrè; il Museo etnografico della Carnia, in formazione a Tolmezzo, a cura di M. Gortani; il Museo Bellucci, che conserva, a Perugia, gli amuleti e ex-voto italiani raccolti dal Bellucci stesso; la Sezione di etnografia lunigianese, formata da G. Podenzana nel Museo civico della Spezia; e varie altre sezioni regionali che figurano nei musei di Forlì, di Cagliari, ecc.
Folklore.
Le tradizioni popolari italiane rispecchiano le complesse vicende storiche (etniche, sociali, religiose, politiche, ecc.) del popolo e del territorio. In molte è facile scoprire residui di credenze, cerimonie e costumi antichissimi o addirittura primordiali. Ma il fatto che la raccolta del materiale non è proceduta con la stessa alacrità e con criterî uniformi per tutte le regioni storiche rende oggi ancora praticamente impossibile determinare con la precisione desiderabile - fatta eccezione per i proverbî e per i canti popolari - le aree di diffusione di credenze, costumi, ecc., e quindi - pur senza pregiudicare una questione di metodo (v. folklore) - una rappresentazione cartografica.
Il presente articolo ha perciò un carattere soprattutto descrittivo, pur senza perdere di vista il criterio della diffusione geografica e prendendo in considerazione elementi del folklore italiano più generalmente nazionali. Esso va pertanto integrato con gli articoli dedicati al folklore delle varie regioni storiche.
Nascita. - Le popolazioni del Mezzogiorno credono ciecamente nel destino, che ognuno porta con sé fin dalla nascita, e che spesso si ritiene determinato dagli astri, dalla costellazione sotto la quale si è venuti al mondo: infelice chi nasce in una notte illune o negli ultimi mesi dell'anno. Questa idea ricorre nei canti, i quali immaginano che la natura sorridente o squallida determini la sorte, buona o cattiva, del neonato. A segnare il destino presso la culla attendono le fate (v. fata), le quali si sbizzarriscono a lasciare sul corpo della creatura il segno della loro visita, sotto la forma di un neo materno. La benefica fata, soccorritrice degli umili e dei deboli, si confonde in qualche luogo con la fortuna che il popolino invoca in varî modi e crede di allettare con la cosiddetta "tavola della fortuna": l'imbandigione è più sontuosa quando si festeggia la nascita d'una creatura o il possesso d'una nuova casa.
Gli alberi sono chiamati a influire sulla vita umana. Al nascere d'un bimbo i genitori si affrettano, in qualche villaggio, a piantare un arboscello, che riguardano come il simbolo vivente del loro caro; le fanciulle, nel giurar fede all'amato, affidano trepidanti la propria sorte a un pesco o a un mandorlo perché preannunzii col suo fiorire la gioia d'un lieto amore. Se il querciuolo o l'olmo, appositamente spaccato in due nella lunghezza del fusto, si ripigli, dopo aver fatto passare attraverso le branche divaricate il fanciullo ernioso, questi guarirà dal male e la sua "rottura" o "crepatura" si reintegrerà.
"Punti di stella" o "di luna" (v. luna) sono detti i giorni infausti, segnati nel calendario popolare come apportatori di cadute, uccisioni, naufragi e altre disgrazie. Alla loro influenza non si sottraggono né gli animali, né le piante, onde non c'è da sperar frutto dalla vigna piantata il 17, il 19 o il 27 di febbraio, come dal frumento seminato il 7, il 17 o il 27 di ottobre. Durante l'anno bisestile si ritiene che vi sia un momento, ed esso solo, particolarmente propizio alle piantagioni: l'agricoltore che faccia le propaggini in quell'istante, avendo cura di gettare in aria un tralcio, avrà una vigna rigogliosa e prospera.
Nozze. - I riti nuziali conservano ai giorni nostri cerimonie che furono caratteristiche di epoche lontane e costituirono sacre e imprescindibili formalità nella procedura del matrimonio. Accanto al rito dell'anello (v.), che è comunemente detto la fede (nel Veneto la vera), esistono negli sponsali popolari quelli del toccamano (la dextrarum coniunctio) nella Toscana e nella Romagna, dell'abbraccio nella Sardegna, del bacio (l'osculum interveniens) nella Campania e in altre regioni dell'Italia meridionale della veste del fidanzamento (vesti di lu 'nguaggiu) nella Sicilia. Quest'ultima cerimonia, che si concreta nel fatto di mettere indosso alle fanciulle alcuni indumenti e ornamenti offertile dal fidanzato, anticipa la solenne vestizione della sposa, che ha luogo nel giorno della celebrazione delle nozze e che è regolata da norme che variano da paese a paese e anche secondo le classi sociali.
A Canossa, a Bibbiano e in altri luoghi del territorio matildico (vedi emilia) alla benedizione precede la "scappata" (finta fuga) degli sposi, e quando gli sposi sono prossimi parenti, si "brucia la parentela" - cioè si toglie il presunto o reale impedimento canonico - facendo tener loro in mano una candela accesa durante la messa. In qualche regione (Sardegna), recandosi a rilevare la sposa, per la celebrazione, lo sposo si esprime con termini figurati, chiamandola agnella, colomba, ecc.; altrove (Alto Adige) prima della vera, riceve la "falsa sposa", di solito una zitellona o una vecchia. Durante l'accompagnamento della coppia alla casa coniugale si ha "la parata", di cui la forma tipica si osserva nella Lucchesia, dove al ritorno dalla chiesa i nuovi coniugi sono fermati da quattro individui, due in veste militare, uno di sacerdote e il quarto di paggio, i quali, parodiando la cerimonia nuziale, lasciano libera la via al corteo, dopo avere ottenuto una mancia. Se la coppia poi, o per l'età senile o per vedovanza o per altri motivi è meritevole di biasimo, schiere di adulti e di fanciulli organizzano la "scornata" o "tempellata" (Toscana) o "ciocada" (Cremonese) o "baterela" (Veneto), facendo strepito con vecchi utensili da cucina e altri arnesi. Resta nella memoria del popolo il ricordo della costumanza di far cavalcare alla rovescia sopra un asino il marito sopraffatto nel governo della casa o reso ridicolo dalla moglie, e di menarlo per le vie dell'abitato; come pure dell'altra di lapidare fittiziamente gli sposi in peccato, prima di farli avvicinare all'altare per la benedizione nuziale.
Funerali. - Parecchie sono le tracce di pratiche e credenze arcaiche, di tipo animistico: nell'atto di vestire il defunto, lo si chiama per nome; gli si pone nella tasca, nella mano o nella bocca una moneta (territorio di Piacenza) o un fiore (Romagna); si scoperchia un poco il tetto della casa (perché l'anima possa uscire liberamente), o si lascia socchiuso l'uscio per tre giorni, ponendo un pane e un lume sopra una sedia; durante il trasporto, si buttano confetti, danaro, frumento; si regala un pane a chiunque visiti la salma o si reca ai superstiti il "consuolo", che talora (Gioiosa di Sicilia) un asinello porta dietro la bara. Nell'Abruzzo si ha cura di raccogliere la "lacrima del moribondo", per poterne usufruire all'occorrenza contro alcune indisposizioni; in varie altre regioni (Calabria, Sicilia, Sardegna, Puglia, Basilicata, Marche), ad alleviare il rantolo di una lunga penosa agonia si colloca sotto il letto del morente un giogo. Col nome di rèpitu nella Sicilia e nella Calabria e di attitidu nella Sardegna si indicano le nenie che donne sia della famiglia sia, talvolta, prezzolate, cantano sulla bara in lode del morto. In alcuni luoghi il cadavere di un congiunto si porta al sepolcro con le mani legate; quello di un celibe con le braccia distese, e quello d'un bambino con una candela fra le mani, a mo' di croce. In qualche parte della Puglia, la fanciulla fidanzata che muore viene seppellita con l'abito nuziale e la fotografia del fidanzato, e non di rado tocca a questi di vestire il cadavere. Il destino dell'anima dipende dal genere della morte: l'anima dell'ucciso vagola sul luogo dell'omicidio, onde i passanti vi buttano delle pietre, nel pensiero di seppellirla sotto il cumulo; l'anima del suicida va immediatamente all'inferno; quella dell'impiccato rimane sospesa nell'aria e quella del decapitato, poi, gira aspettando chi l'implori in aiuto. Su questa credenza si fonda il culto dei Corpi decollati, di cui numerosi sono gli esempî nella Sicilia (specialmente in Trapani e in Palermo), mentre usanze simili non mancano nel culto popolare di altre regioni e provincie, come nel territorio bresciano, ove parecchi sono i santuarî dedicati ai morti di peste, come quello antichissimo di Monticelli e quello di Barbanie in Val Sabbia, meta del pellegrinaggio di quante spose anelano alla maternità. Si crede nei morti risuscitati, ritenuti spiriti malvagi, e qualche racconto ricorda l'uso della loro immediata soppressione. Queste superstizioni mostrano come la religiosità popolare sia informata al concetto di tre ordini di spiriti, celesti, infernali e terreni, di cui i primi oggetto di venerazione, i secondi di esorcismo, gli altri (come le fate, il folletto, l'incubo, i nani, ecc.) di propiziazioni o di scongiuri a seconda della loro natura benefica o malefica.
Feste. - Una delle principali forme in cui si estrinseca il culto dei santi è rappresentata dalle feste, le quali a seconda dell'epoca in cui avvengono, del voto che significano, del miracolo o della leggenda a cui si riportano, vanno distinte in feste di stagione, espiatorie e leggendarie. Le prime coincidono quasi sempre con le principali operazioni dell'agricoltura e della pastorizia, come dimostrano i riti speciali che in esse hanno luogo: benedizione degli animali (S. Antonio Abate); delle messi (Assunzione; S. Giovanni Battista); delle acque, del pane (S. Nicola); delle uova, del burro, del formaggio (S. Bartolomeo), ecc. Le seconde, che si celebrano in occasione di pubbliche calamità o per ricordare lo scampato pericolo, sono caratterizzate dall'intervento di penitenti scalzi, seminudi, coperti di spine, di cilici, ecc.; le ultime si confondono spesso con le feste patronali, anzi il racconto leggendario rappresenta il titolo del patronato e spiega le caratteristiche delle processioni (cavalcate di guerrieri, Madonna della Bruna a Matera; cortei di vergini che trasportano la statua; sfilata di carri con le primizie, S. Nardo a Larino) e di varie altre cerimonie che variano da paese a paese. Si considerano come feste extraliturgiche i pellegrinaggi ai santuarî fuori dell'abitato, e per lo più in luoghi elevati; talvolta assai lontano. Celebri i pellegrinaggi al M. Pellegrino presso Palermo, alla Madonna della Montagna sull'Aspromonte, a Montevergine in prov. di Avellino, a San Michele sul Monte S. Angelo, all'Incoronata presso Foggia, a S. Nicandro Garganico, alla Madonna del Divino Amore a Castel di Leva (Roma), al Santuario della Trinità sul M. Autore, al Santuario della Libera a Pratola Peligna, alla Madonna di S. Luca sul Monte della Guardia presso Bologna, alla Madonna della Neve sulla vetta del Rocciamelone, al Santuario di S. Besso nel Canavese. Ogni pellegrinaggio ha i suoi riti tradizionali particolari, che attestano, attraverso il culto, il carattere della leggenda sacra. Alla chiesetta di S. Paolo a Galatina (Salento) si recano ogni anno, il 29 giugno, i tarantolati, eseguendo la caratteristica danza che deve liberarli dal male del morso della tarantola; a Santa Maria del Monte in Acquaformosa (Cosenza) i devoti, dopo aver raggiunto la vetta su cui è il santuario, per ottenere la grazia debbono lanciare nel sottostante burrone una pietra. Tra i pellegrini che vanno a Boccadiori (Bologna) nel giorno dell'Assunta, si vede un fanciullo in veste d'angelo che, tenuto in piedi sul dorio di un asinello, reca alla Madonna i bariletti d'olio delle parrocchie di Castro e Traversa. La superstizione pretende che, per aver preso parte a tale funzione, il fanciullo sia destinato a morire entro l'anno.
Calendimarzo e Calendimaggio (v. maggio), il S. Giovanni e altre festività hanno i loro speciali riti, tra cui i fuochi o falò o focheracci (v. fuoco); e altri ne hanno le feste campestri con cui si aprono o chiudono le opere dell'agricoltura, e principalmente quelle della raccolta delle messi e delle olive. In quest'ultima circostanza i contadini staccano un grosso ramo d'olivo e lo portano, in segno d'omaggio, alla casa del proprietario del fondo.
In occasione della mietitura, il capo della comitiva dei falciatori annoda in croce i primi manipoli di spighe e li offre, in qualche luogo (Puglia) alla padrona, per attaccarli al letto; in qualche altro (Bologna) alla Madonna. Secondo una vecchia costumanza di Cassano (Calabria) i mietitori, reduci dalla falciatura, con banderuole di spighe e preceduti da un tamburo e cennamelle, menavano in trionfo il massaro. Persiste in alcune regioni (Abruzzo, Lucania, ecc.) l'uso delle incanate, che consiste nello schernire (dar le grida) da parte dei mietitori, con improperî, invettive e sarcasmi, quanti transitano per le strade contigue.
Nelle solennità del Natale, dell'Epifania e della Pasqua il popolo fa rivivere tuttavia vecchie rappresentazioni rituali su tema liturgico, come il Presepio mobile, i Re Magi, la Passione. Del dramma della Natività si ha il ricordo in un paesello della Calabria, a opera dei pastori e dei contadini del luogo, i quali recando doni al Bambino recitano uno per volta la propria parte avanti alla grotta appositamente costruita nella chiesa; del dramma dei Re Magi a Bologna, nella chiesa arcipretale di S. Giovanni a Calamosco; e del dramma della Passione un po' dappertutto. A Siracusa la domenica delle Palme un uomo, che personifica Gesù, va in giro per le vie sopra un asinello, accompagnato dalla folla, che grida e agita rami d'olivo. Sulla piazza di Adrano (Catania) nella domenica di Pasqua, si mette in scena la Diavolata, così detta dai diavoli in lotta con gli apostoli, gli angeli e S. Michele, che riporta il trionfo finale sopra Lucifero. Reliquie di rappresentazioni liturgiche e sacre si vedono qua e là, nelle processioni del giovedì e del venerdì santo, le quali prendono differenti nomi a seconda del tema e dei personaggi, come: processione del Cristo alla Colonna, del Cristo morto, delle Marie, delle Bare o dei Misteri, del Cireneo, dei Giudei. Il corteo dei devoti accompagna, a Carovigno, un uomo che fa da Giuda; a Martina Franca, un personaggio che rappresenta il Cireneo, e a Gioia, i Giudei, di cui alcuni recano gli strumenti della crocifissione (chiodi, martelli, scale), altri fingono di colpire e malmenare Gesù. A S. Fratello (prov. di Messina) si chiama festa dei Giudei la scorribanda che durante le sere del giovedì e del venerdì santo alcuni popolani camuffati fanno percorrendo le vie dell'abitato. Né mancano i flagellati o flagellanti (Nocera Terinese, ecc.) i quali con discipline o altri ordigni si flagellano a sangue, durante la visita ai sepolcri.
Alle processioni figurate si aggiungono talvolta i quadri plastici, che rappresentano le scene della Passione nei sepolcri costruiti lungo il percorso dei processionanti e delle confraternite.
Il carnevale viene festeggiato con mascherate su carri, di soggetto storico e mitico alcune, pompose e arieggianti gli antichi trionfi; di carattere satirico altre, che mettono in burla arti, mestieri e professioni. Per quanto decadute dal vecchio splendore, le principali maschere italiane sono: Arlecchino a Bergamo, Meneghino e Cecca a Milano, Giacometta e Gianduia a Torino, Persuttino, il Bulo e la Bula a Bologna, Pantalone a Venezia, il Marchese a Genova, Stenterello a Firenze, Pulcinella a Napoli, Coviello in Calabria, Pasquino a Palermo. Le maschere organizzano rappresentazioni all'aperto, denominate, secondo i luoghi, contrasti, testamenti, zingaresche, bruscelli, farse, zupinate, ecc.
Cerimonia caratteristica della quaresima è quella della Segavecchia, che come dice il nome, significa il sacrificio della vecchia, raffigurata da un fantoccio. Il rito è molto diffuso nelle differenti provincie dell'Italia con piccole variazioni nei particolari della messa in scena. A Carlentini (Sicilia) la Quarantana o Mamma-serva è un personaggio in carne ed ossa, che a sera gira per le vie con la falce in una mano e con un campano da mucche nell'altra.
Letteratura popolare. - Tra le svariate manifestazioni del pensiero e della vita del popolo hanno un posto considerevole i racconti, i canti, i proverbî, gl'indovinelli. Il fondo dei cosiddetti conti, o narrazioni di carattere meraviglioso, si può dire comune a tutta l'Italia, e spesso anche a più paesi dell'Europa, con maggiori o minori impronte locali. Meno comune è il fondo delle leggende storiche, i cui cicli (Attila, Teodorico, Alboino, ecc.) sono quasi localizzati. Emanazione delle leggende cavalleresche i cui echi in Italia si trovano in varie regioni (Abruzzo, Campania, Sicilia) sono le rappresentazioni dei paladini, altrimenti dette l'Opera dei pupi, il teatro delle marionette, ecc. I due terzi all'incirca del patrimonio paremiografico si riscontrano in quasi tutte le regioni; il resto ha caratteristiche regionali e talora interregionali. Alcuni tipi di proverbî si trovano sopra un'area che dalla Sicilia arriva all'Abruzzo.
In seguito agli studî del D'Ancona, del Nigra e di altri, i canti popolari italiani nella loro duplice forma di canti epici o narrativi e di canti lirici, possono essere distribuiti in due grandi aree geografiche, e cioè quelli della prima forma nella parte settentrionale del continente, e quelli della seconda nella parte meridionale. Il ciclo dei canti narrativi s'irradia dal Piemonte nella Lombardia, nell'Emilia, nel Veneto, e pur avendo come linea di confine le Alpi occidentali e le creste dell'Appennino ligure e tosco-emiliano, e pur estendendosi fino al mare Adriatico presso Rimini, diffonde le sue propaggini in forma intensa nella Lucchesia, e nel tratto di territorio che va dal Tirreno all'Arno e in forma attenuata nell'Aretino, nel Senese, nella Maremma, nella Campagna Romana, nella Campania marittima, nella Sicilia orientale. Il ciclo dei canti lirici irradiandosi dal centro siculo attraverso il continente meridionale e centrale fin nella Toscana e nelle Marche, valica l'Appennino presso Pistoia, si diffonde nella Romagna, penetra nella Valle Padana (Monferrato, Lombardia, Veneto) e più a nord, nel Trentino, nel Friuli, nell'Istria. Questa distribuzione tende ogni giorno a essere meglio precisata nei suoi elementi e anche corretta dalle nuove ricerche.
Musica popolare. - Come suole accadere, anche in fatto di musica, dovunque il moto dei tempi nuovi abbia impresso ed imprima tracce più diffuse e profonde, così anche in Italia, venendo meno gradatamente i vecchi usi, il quadro della tradizione sta risorgendo (per merito specialmente di G. Fara e di F. Balilla Pratella) in pubblicazioni che mostrano le forme musicali del canto popolare. Nessuna nazione come l'Italia offre tanta profusione di canto: "In Italia la musica è cosa consueta; si canta dalla culla in poi, si canta tutto il giorno e dappertutto" (Raguenet). Ma ciò che avvertirono gli stranieri nel periodo del Barocco, quando la musica italiana si diffondeva, preponderando, in Europa, si può riferire verosimilmente ad ogni tempo. Gl'Italiani fanno sempre sentire, parlando, l'accento caratteristico di tonalità vere e proprie. La lingua è adattissima al canto per l'abbondanza delle vocali, per la bellezza dell'a chiara, sonora, e per il fatto che le parole terminano in vocali addolcendo la pronunzia, rendendo il linguaggio sonante e colorito. La melodia della favella (colore, armonia cadenzale, espressività fonetica), tiene il bordone al canto. "Il suono è di per sé l'etere del verso", disse il Carducci. I poeti estemporanei sciolgono il declamato in canto: "Questa va in canto: in discorso non si può dire". Il parlato comune dei contadini toscani è già il primo grado della genesi: parlato-declamato-cantato.
Per il risveglio delle tradizioni popolari, le raccolte pubblicate dalla fine dell'Ottocento ai nostri giorni, non sembrano, tutte insieme, frutto di un metodo coordinato, razionale e scientifico (e, perciò, alcune tendono alla volgarizzazione piuttosto che allo studio e al documento); mentre intanto significano una reazione all'assenteismo del passato nel campo degli studî etnici, nel complesso porgono poi già un primo lineamento alla conoscenza del canto popolare italiano. Evidentemente la canzone napoletana moderna, che è un motivo, in genere, sentimentale, composto d'occasione e, per es., le ricreazioni toscane del Gordigiani (che sono pure in tono popolare) non rappresentano il carattere etnico del popolo italiano. La canzone napoletana che troviamo in alcune raccolte, riecheggia, per lo più, l'aria dell'opera buffa o si fonde con Piedigrotta: si tratta di una composizione operistica popolareggiante, in cui non è dato di scorgere i caratteri della canzone etnica; e questa probabilmente è scomparsa, o quasi, col sorgere e l'affermarsi delle due forme sopraddette. Vi sono tuttavia anche nella Campania esempî di vero canto popolare, svolgentisi, al solito, fra tonica e dominante, che rientrano nel quadro generale.
Nei canti infantili risiede la forma più semplice della canzone: essi circolano però, nella maggior parte dei casi, nei diversi paesi e regioni con lievi differenze (v. sotto).
Il piemontese Paisan posa la pala, affine ai giuochi di ragazzi, si ritrova anche fuori d'Italia, modellato sulla base ritmica delle strofe del testo. L'Anellino toscano, fra gli stornelli, è il più melanconico; costituito da un semplice arpeggio in modo minore, si alterna sui due accordi principalì del tono (tonica e dominante), con un'appoggiatura ritmica alla fine di ogni verso. Lo stornello istriano Fiuri de reiso!, procedendo invece per gradi congiunti (mentre quello romano Lassatece passà, avente qualche arpeggio, sta come struttura fra il toscano e l'istriano), appare più arioso e libero di ritmo e lascia espandere la voce con maggiore enfasi. L'abruzzese poi, Tu nel tuo letto a far de' sogni d'oro..., caratteristico per quell'irrompere da una breve anacrusi a una nota tenuta, è il vero canto a gola piena, tipico della montagna. Tutti questi stornelli, nella loro diversa stesura, costituiscono un nucleo importante e attestano la fervida espressività del canto popolare italiano. Nella Donna lombarda (in cui si vuol far riecheggiare la leggenda di Rosmunda, che conserva, comunque, echi e caratteri di antichi personaggi, con tutte le sue varianti poetiche) concorda il canto delle diverse versioni regionali, e in essa si rivela chiaramente un tipo etnico della canzone popolare indigena. Ecco la versione romagnola, che è forse la più rappresentativa:
Le altre versioni concordano sempre nella conclusione:
L'andamento delle ninnenanne, distendendosi in riposante ritmo aderendo spesso alle parole, si sfronda delle bizzarrie e delle note estreme, sì che l'efficacia espressiva consegue lo scopo. La musica della maternità risuona con caratteristiche universali e locali insieme, ed ha valor poetico e musicale grandissimo. Dormi Nicola meu è un canto di culla calabrese, svolgentesi nell'ambito di una quinta, d'una dolcezza stanca e pure struggente. Al contrario la ninna-nanna del Salernitano Suonno suonno vien'a cavallo, che spazia nell'intervallo di una nona, cantata con la creatura in braccio e accompagnata in contrattempo dal ritmo della seggiola, esprime un senso di malinconia serena e riposante. Un esempio semplicissimo di questi canti si può vedere nella ninnia sarda Dormi filla cara: qui all'esiguità dell'estensione vocale corrisponde una commossa profondità di sentimento. Alle forme sopraddette se ne possono aggiungere altre: le serenate, gl'inni, le laudi (particolarmente interessante, per la sua bellissima linea melodica, quella di Caltanissetta Passa Maria di 'na strata nova), le passioni di Gesù Cristo di Palermo, affini alle laudi (questa che segue incomincia con le parole del testo liturgico, ed è veramente solenne il suo andamento di corale interrotto dalle cadenze sopra un riposo coronato), i mottetti popolareschi e simili. Quando si canta in coro le voci si riuniscono specialmente all'unisono nei ritornelli, con qualche passaggio di terze ed episodî di controcanto, risposte, echi; laddove una pratica più spesso polifonica è dato trovare nella tradizione sarda.
Fra le danze debbono esser notate specialmente la tarantella, che col suo ritmo di 6/8 circola per le varie regioni con altro nome e con caratteristiche analoghe, la badosce valdostana, il trescone veneto, lombardo, toscano e di Romagna, cantato (o fischiato) e danzato, la monfrina (o monferrina) e la galletta della Val di Serchio, la quadriglia, il ligure ballo di Biassa, la moresca, il saltarello della provincia di Roma e, fra le altre, la danza del Laccio d'amore romano. Gli strumenti maggiormente usati sono il violino, le chitarre, le fisarmoniche, l'ocarina, la zampogna, i pifferi, lo zufolo di canna, lo scacciapensieri, i tamburelli, le nacchere, ecc.
Anche agli spettacoli partecipa il popolo creatore e attore, come attesta tuttora il teatro delle campagne toscane ed emiliane, il Bruscello (v.) e il Maggio (v.). Sono inoltre da ricordare i gridi di strada dei venditori ambulanti, che costituiscono talvolta dei veri e proprî temi, come nell'es. che segue del fragolaio fiorentino:
Riandando nella storia troviamo inoltre il canto popolare nell'antica polifonia (v. musica: Musica popolare), e talora lo ricolleghiamo alle fonti dei canti religiosi, e nei modi greci.
Questo antico canto veneziano, infatti, è segnato nel tetracordo grave del modo dorico, mentre il richiamo del venditore di stuoie fiorentino, qui riprodotto, può rammentare le cantilene della chiesa.
Fra i canti delle trincee, nella guerra italo-austriaca, è notevole il Testamento del capitano (o dei maresciallo) per il suo carattere virile nel testo e nella musica; essi però, in generale, subirono l'influenza delle canzoni regionali popolari, e, in grado minore, dei canti più lontani, ma non sopiti, del Risorgimento.
Nel folklore il popolo italiano realizza dunque efficacemente, la sua naturale immaginazione lirica, portando in canto il suo senso di armonia e mantenendovi la propria virtù di equilibrio.
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RANDE LETT-I-J 32esimo 44
ARTE.
Sommario. - Arti figurative (p. 971); Arte romanica e gotica (p. 975); Il primitivo Rinascimento (p. 983); Il fiorente Rinascimento (p. 989); Dopo la Rinascita (p. 993); L'arte del Novecento (p. 997); Bibliografia (p. 999). - Tecnica costruttiva (p. 1000). - Musica: Musica vocale (p. 1005); Musica strumentale (p. 1007); Musica teatrale (p. 1010); La musica dell'Ottocento (p. 1013); L'ultimo quarantennio (p. 1014); Teoria, critica, storiografia (p. 1016); Bibliografia (p. 1017).
Arti figurative.
L'arte che s'aggrandiva romanamente, profondendo ellenistiche eleganze nei palagi, nei templi, nelle basiliche, nelle terme, scesa sotterra, nei cimiteri dei martiri e dei fedeli di Cristo, indossò umili vesti. Era sempre la stessa arte che apparava di marmi e di bronzi, di un popolo di statue, il mondo fastoso di Roma; ma nelle oscure gallerie delle catacombe, nelle tenebre dei cubicoli, tra le faci funebri, l'arte parlava sottovoce, paurosa d'interrompere i silenzî della preghiera. Spenta la bacchica furia nei soggetti funebri sacri al Dio che scioglieva dalle cure, purificata l'espressione degli Eroti, l'arte si mise al servigio del culto cristiano, ma dove si deponevano le salme dei martiri bastava un segno o un simbolo, l'abbozzo di un'immagine, un graffito, una colomba, il saluto In pace. Più tardi, crescendo il numero dei fratelli, l'arte si fece più ardita, avvolse del suo peplo classico già sdrucito le immagini cristiane, adombrò i fasti, i misteri della nuova religione nei sarcofagi, nelle amplificate decorazioni pittoriche. E quando il cristianesimo prevalse nella civiltà dell'Impero romano, e Costantino ne segnò il trionfo, largendo in apparenza libertà a tutti i culti, l'arte cristiana divenne sinonimo di arte in generale (v. catacombe; cristiana, arte).
Elevati sopra terra gli edifici dedicati al culto cristiano, si cercò un rapporto fra architettura, scultura e pittura, perché desser concorso di forme alle nuove idee religiose. Si costruirono basiliche, secondo un sistema longitudinale, a tre o cinque navate, divise da colonnati, coperte da un semplice tetto in travatura, ma si profittò anche di un sistema concentrico o centrale, servendosi di costruzioni di vòlte, sviluppatosi nelle regioni orientali dell'Impero.
Questo doppio tipo di concezione artistica, corrispondente a edifici pagani anteriori, lascia intravedere, nel sistema basilicale, lo scopo pratico di raccogliere gran quantità di fedeli; nel sistema centrale degli edifici, piccoli per la difficoltà costruttiva della vòlta o della cupola, la ricerca di effetti più varî e più liberi di luce.
I cristiani s'inebriavano di luce; i martiri avevano sognato luoghi inondati di sole, con tabernacoli scintillanti di pietre preziose pari agli astri nello splendore. Nei mosaici di Santa Sofia a Costantinopoli il descrittore dirà che sembra di vedere il sole a mezzogiorno allorché indora tutte le montagne; e, nell'iscrizione dell'abside di Sant'Agnese in Roma, si leggerà che i metalli tagliati producono una pittura d'oro e la luce del giorno vi sembra racchiusa.
Avvenne quindi che, con l'abbandono dell'interesse per la forma precisa e reale, i cristiani mettessero gradualmente in disparte la rappresentazione della figura umana; e che, fra tutte le decorazioni, i mosaici vitrei dalle mille luci, gli altari d'oro e di gemme, i velarî trapunti d'oro e d'argento, rappresentarono i mezzi per meglio sfolgorare la luce nella casa di Dio.
Quando dalla basilica romana del sec. IV si passa all'osservazione della chiesa ravennate del sec. VI, non si trovano elementi sostanzialmente nuovi, ma condotti alle ultime conseguenze quelli già indicati a Roma nel sec. V; onde i mosaici di Ravennna creano accordi di colori e di luci così intensi, così ampî, così perfetti, come mai nessun mosaico ottenne né prima né dopo, e le sculture perdono ogni forma rilevata per divenire incisioni in pietra, e anche trafori, raggiungendo effetti pittorici nei capitelli e nelle transenne; e infine l'insieme della visione artistica trova la sua più alta espressione in una costruzione centrica, nel San Vitale. Il sistema a vòlta più diffuso nell'Oriente. che nell'Occidente, raggiunse, intanto, il suo apice in Santa Sofia di Bisanzio, al tempo di Giustiniano, l'imperatore effigiato a Ravenna in S. Vitale. L'ebbrezza dei colori orientali, che già Plinio deprecava come un pericolo per l'arte classica greco-romana, riusciva nel sec. VI a dar vita a capolavori.
Roma, alla fine del mondo antico, con le ombre di forme ellenistiche, che avevano assunto sui sette colli seconda natura, s'adoprò, insieme con l'Oriente, a dare apparato all'arte cristiana.
Non più padrona dei suoi mezzi, né sicura dei suoi strumenti, l'arte invano si affanna intorno alla pietra indocile, per tradurre la classica grandiosità di forme vigorose e salde. Nei rilievi storici dell'arco di Costantino, nonostante la solennità dell'opera sacra all'imperatore, l'arte non riesce ad attuar forme diverse da quelle dei rilievi scalpellati nei più comuni sarcofagi; per le grandi figure, gli antichi modelli la soccorrono nella ricerca di nuovi mezzi di espressione, mentre quando compone figure di piccole proporzioni, lignee e meschine, sembra andar tentennando in cerca dello spazio, e ora le tronca bruscamente, ora le muove a grottesche torsioni. Gli stessi accenti discordi risuonano nell'architettura, la stessa tendenza a disgregare la solidità delle antiche forme, a bucherellare pietre, a sminuzzar cornici, ad appiattellar volumi. Forti sottosquadri hanno le foglie dei capitelli, non l'antico spessore; le volute, inerti chiocciolette, si restringono; le mensole, nella chiave degli archi, massiccia, sopportan cornici lignee sottili, perdendo la loro funzione organica; i piedistalli hanno l'incorniciatura superiore ancora grezza, pesante e grossa, senza rapporto con altre cornici dell'arco trionfale, traforate a ricamo, minute. Questo l'arco che segna l'omega dell'arte dell'antichità, l'alfa dell'arte del Medioevo. Roma, vivente di vita universale, anche nel duolo dei tempi, associa molti altri elementi artistici; organizzatrice, unificatrice del cristianesimo, diviene la città madre della Chiesa, santa per i trofei degli apostoli e dei martiri. Ma il tempo, i barbari, gli abitanti stessi, disfecero la compagine delle antiche pietre, così salda che Cassiodoro avrebbe creduto non esse, ma piuttosto le montagne destinate a franare. Si divorò l'antica Roma per costruire la nuova, e invano gl'imperatori, col rigor delle leggi, perfino con la pena delle mani mozzate, vollero impedire il consumo degli antichi edifici, ché il nuovo materiale mancava, le cave dei marmi divenivano inattive, scarso era il ferro. Come l'arco in gloria di Costantino sulla via trionfale, salutato da F. Milizia "cornacchia d'Esopo", le basiliche del cristianesimo, i battisteri, i mausolei si costruirono a spese della città classica cadente.
Era venuta in disuso l'arte architettonica dopo che, trasferita la sede imperiale a Costantinopoli, rimasti deserti tanti publici monumenti, era stata tolta al prefetto romano facoltà di costruirne di nuovi. E Roma diveniva immensa, senza confini, per la diradata inerte popolazione, ridente mortura.
Le colonne portarono generalmente un capitello corinzio di fome decadute, con le volute ristrette, le foglie attaccate al vivo del capitello, bucate da trapano, spugne, nidi di vespe; e quindi si traforò la campana del capitello, si spianò in facce trapezoidali intagliate sottilmente a ricami, a vimini intessuti, a rami irti di spine, ad acute foglie sul fondo cupo; ma, progredendo il tempo, non si riuscì più a staccare, dal piano d'ombra, i rami, o le trecce, o le foglie, o gli sterpi, i quali rimasero inalveati nella materia informe, impotenti a uscirne con qualche determinazione, a rilevarsi, a prender forma e figura. La colonna s'appesantì, più grossolanamente rastremata, e, imbarocchendosi, si torse a spira vitinea, nei tempi costantiniani. Non sostenne più la distesa trabeazione, ma l'arcata girò da capitello a capitello, prima direttamente, poi sull'intromesso cuscino di un abaco massiccio o di un alto pulvino L'arbitrio comincia nei bassi tempi a rompere la massa delle costruzioni, i moduli severi, l'unità rigorosa; e già nel palazzo di Diocleziano a Spalato si notano omissioni di parti prima considerate necessarie a un ordine architettonico, e alterazioni delle loro proporzioni. Dalla parte del vestibolo di quel palazzo, recante solo l'architrave e la cornice senza fregio; dal criptoportico senza fregio e con l'architrave non distinto dal resto; dalla trabeazione che si slancia audacemente ad arco nel vestibolo e nella facciata verso il mare; dai capitelli del criptoportico, consistenti in una semplice campana e nell'abaco; dai modiglioni distanti fra loro, senza rapporto a pilastri o altre sottoposte strutture, spira una libertà architettonica che molti secoli dopo regnerà nel campo dell'arte. I capitelli mostrano la forma severa di quelli nordici del sec. XII; l'architrave si accresce a spese del fregio e della cornice, tanto chc il fregio si riduce a semplice sagoma e la cornice s'incammina a diventare listello gotico; la decorazione in piccole arcatine della porta aurea è l'esempio primitivo d'un ornamento architettonico che si troverà poi in molti edifici romanici e gotici. Le sagome hanno nuovi profili, gli ornamenti a zigzag fanno la prima comparsa; e gli archi girano semplicemente da colonna a colonna, senza traccia di trabeazione, come nell'acquedotto di Adriano ad Atene e in alcuni sarcofagi, anteriori forse a Diocleziano, trovati nelle catacombe, e come nelle terme di Diocleziano a Roma, che mostravano, secondo risulta dai disegni del Palladio, gli archi giranti imrnediatamente sul capitello.
L'arte occidentale trovò più prossimi e proprî gli elementi di stil nuovo nel palazzo di Spalato, ove Diocleziano visse gli ultimi anni della vita e morì nel 313. Là, come dice il Jackson, si chiudeva la tomba dell'arte antica, da cui doveva sorgere l'arte nuova.
Col decomporsi della massa, con lo sfasciarsi dell'unità organica, la libertà architettonica accolse, ai giorni di Giustiniano, le forme bizantine, giunte a Ravenna in San Vitale al tempo stesso in cui s'innalzava Santa Sofia di Costantinopoli. Ottangolare è la chiesa, nell'interno a doppia loggia interrotta al presbiterio, coronato da cupola impostata su otto piloni: essa fu esemplare alla cappella palatina, costruita da Eginardo ad Aquisgrana per Carlomagno, e a tutto il Medioevo. Anche in Arezzo, al tempo romanico, si tennero di mira i modelli ravennati.
Il mosaico, l'arte sacerdotale del cristianesimo, sostituì la pittura dai bassi tempi all'età romanica. Ancora il mausoleo detto di Santa Costanza, dove furon sepolte due figlie di Costantino imperatore, spira un'aura di paganesimo, dalla memoria, ora soltanto adombrata nei mosaici della vòlta anulare, di misteri di Bacco, ornamento consueto ai luoghi funebri. Maestà d'aspetti, grandi lineamenti scultorî, architettonica definizione di spazio, collegano all'antica arte di Roma il mosaico nell'abside di Santa Pudenziana (inizio del sec. V), consesso augusto di Apostoli in un vasto emiciclo.
Di poco anteriore al mosaico di S. Pudenziana, la decorazione di S. Giovanni in Fonte a Napoli scaturisce anch'essa dallo spirito dell'antica Roma. L'arte dei grandi ritrattisti romani vive nelle forme statuarie di quegli apostoli, fisse al terreno quasi statue al proprio piedistallo. Come il mosaicista di Santa Pudenziana in Roma, l'altro di San Giovanni in Fonte rispecchia la tradizione classica, sempre viva in Italia, e fiorente, nello stesso giro di anni, anche in Milano, nei mosaici della cappella di Sant'Aquilino.
Tra gli esempî successivi che meglio riflettono il vigore dell'arte romana non dobbiamo omettere i superbi girali d'acanto che s'annodano e snodano opulenti sul cielo cupo della cappella dedicata alle sante Ruffina e Seconda nel battistero lateranense. Anche le composizioni della navata mediana in Santa Maria Maggiore hanno maestà romana di forme nell'architettura spaziale delle scene, mentre gareggiano con esse solo pochi tratti delle composizioni, dei mosaici nell'arco trionfale, inno innalzato alla Vergine Madre di Dio da Sisto III per esaltare la vittoria contro l'eresia di Nestorio.
Come il più antico mosaico della chiesa di Santa Pudenziana, il mosaico dell'abside dei Ss. Cosma e Damiano (sec. VI) riflette carattere romano. La composizione diverrà tradizionale nelle absidi dell'Urbe, benché concepita con diverso spirito, nel sec. IX.
Nel frattempo forme affini si svolgono a Ravenna, in pieno dominio di Bisanzio, nelle lunette del mausoleo di Galla Placidia e nel Battistero degli Ortodossi (449-459). Nei mosaici di Sant'Apollinare Nuovo (metà del sec. VI), lo spirito romano non domina più, e il bizantinismo s'infiltra tra le vaghe indolenti linee della "processione delle Vergini". Non le notturne luci del mausoleo di Galla Placidia, non la lene melodia di Sant'Apollinare Nuovo in Ravenna, ma clangori metallici d'oro, bagliori di gemme e di madreperla nell'abside di San Vitale. L'arte erede di Roma si unisce all'arte d'Oriente.
Sullo scorcio del sec. VI e nel VII, anche Roma si ammanta alla bizantina; il mosaico della basilica di Sant'Agnese segna l'avvento del bizantinismo in Roma al principio del sec. VII: le figure s'allungano, s'appiattiscono, diventano zone policrome inserite entro una tela d'oro.
Il pontificato del greco Giovanni VII apporta al sec. VIII un'improvvisa fantastica fioritura di colore nei mosaici della cappella della Vergine in Vaticano, dei quali ci restano alcune tracce, con tessere di mria grandezza, concave e piane, così da rifranger diversamente la luce, disposte con irregolarità, a vortici, a quadri, a linee parallele e tortuose. Il mosaicista vi prodiga con liberalità regale pietre preziose, vi tesse intrecciature gemmate, in cui errano vene multicolori sul fondo d'oro. Le parti degli affreschi di S. Maria Antiqua al Foro Romano, che possono essere attribuite al tempo dello stesso Giovanni VII, mostrano anch'esse un grande rinnovamento d'arte, da ricongiungere al sopravvivente classicismo bizantino.
Avanti l'età carolingia, le arti dell'oreficeria ebbero il massimo sviluppo per gli ornamenti delle vesti multicolori dei barbari, nelle borchie raggiate di rubini e granati, nelle collane con ambre e vetri. Gli scavi di Nocera Umbra e di Castel Trosino diedero improvvisa luce sui Goti d'Italia e sui loro costumi, come si vede per gli oggetti raccolti nel Museo delle Terme Diocleziane a Roma, oggetti con oro e argento fusi nei solchi del metallo, secondo un metodo impropriamente detto all'agemina o damaschina; oppure con materia vitrea colata nei metalli, o anche con incassi nell'oro di granati, di paste vitree e di antichi cammei. Altri oggetti sono a traforo, con forti effetti di luce ed ombra; a sbalzo nel metallo, con riflessi di luce sulle superficie oblique; a fili granulati formanti spiralette continue, come di filigrana. Con gli oggetti dei Goti ebbero molta omogeneità gli altri dei Longobardi, splendidi quelli di Teodolinda nel Tesoro della Basilica di Monza. Fra i tappeti di Tiro distesi nei templi, le stoffe della Persia che rivestivano sacre reliquie, i paliotti trapunti di Bisanzio e di Rodi, gli arredi scintillanti di gemme, le croci, e le corone d'oro, i vasi sacri di smalto, gli artisti s'inebriavano di colore e di luce.
Comincia nel periodo carolingio, lungo il sec. IX, un tentativo di ritorno all'antico, ma nelle absidi, a finire con quella della chiesa di S. Marco (827-844) l'eco della composizione antica dei Ss. Cosma e Damiano si fa sempre più debole e lontana.
Nella scultura, lungo il sec. IV, fu una ricerca, in Roma, d'effetti fantastici di luce e d'ombra, di colore, di moto. Il porfido, negli sfondi dell'arco di Costantino, dà ai rilievi il risalto che veniva meno; nel porfido le figure sono tagliate all'egiziana, quasi maschere, a larghi piani lisci; le colonne divengono tortili, come quella detta Santa in S. Pietro, per aggirar ombre e luci nelle spire; si adopera di frequente il trapano, si sottosquadrano i rilievi del sarcofago di Giunio Basso, ora nelle cripte vaticane, per mettere in risalto i piani di luce sulle grotte scure, sugli alveari delle ombre.
Il classicismo, come fuoco che scoppietti faville sotto le ceneri, riappare in tutte le manifestazioni artistiche, anche tra forme e ricordi d'altre regioni e d'altri tempi. Le nuove basiliche, pur accettando sovvertimenti alle regole, s'aprono anche in antichi edifici profani, come quella di Santa Maria Maggiore in una basilica privata e l'altra di Santa Croce in Gerusalemme nell'antico palazzo Sessoriano, già dimora di Elena madre di Costantino; così che il nuovo non poteva facilmente farsi largo fra i metri combinati dell'antico. E nelle costruzioni nuove, a rappezzi, si sente la necessità di conformarsi alle vetuste rovine ricomposte nella chiesa cristiana. Passarono sin dal secolo V i turbini delle invasioni; e quantunque nessun elemento nuovo d'arte portassero i barbari invasori d'Italia, onusti di borchie, di fibule, di collane, di armi con granati, cristalli e gemme, l'effetto cromatico delle loro oreficerie bene s'accordava con tutte le altre manifestazioni dell'arte cristiana, ogni giorno più aliena dalle immagini umane, sempre meno determinate di forma. Tanto che si arrivò all'iconoclasmo pratico, alla distruzione delle immagini, nella nuova capitale del mondo civile, Bisanzio; in Italia, non avversa alle arti rappresentative per motivi religiosi e per le tradizioni di sua gente, all'iconoclasmo artistico, cioè alla subordinazione crescente dell'immagine alla decorazione floreale e geometrica. Secondo i comuni criterî riguardo ai secoli che precedettero l'età di Dante, di Giotto, di Giovanni Pisano, fu in essi profonda foschia di barbarie, sol perché per arte s'intese forma, specie della figura umana. Ma se per questo riguardo il Medioevo fu barbaro, per il colore e la decorazione floreale e geometrica fu altamente civile.
Nessun monumento della grande scultura carolingia è giunto a noi, niuno dei bassorilievi che secondo un poeta contemporaneo rappresentarono nel palazzo d'Ingelheim i fatti più notevoli della storia antica e le guerre di Carlo Martello, di Pipino e di Carlomagno. Perciò, non è dato misurare nella sua estensione il moto civile del tempo carolingio verso l'antico, verso Roma. Il nome di Roma corre sulle labbra di Alcuino; vantando Aquisgrana: "la Roma nuova", egli dice, "tocca le stelle con le sue vòlte colossali. Il pio Carlo designa la destinazione d'ogni luogo, e presiede alla costruzione delle alte muraglie della Roma futura". L'imperatore nel vigilare alla fabbrica della cappella reale di Aquisgrana, con le colonne e i marmi tratti da Roma per il consenso del pontefice Adriano, doveva meditar sulle leggi dell'arte antica. Il suo storico Eginardo, inviando un cofano imitato dall'antico a suo figlio, gl'inculcava di studiare Vitruvio. Angilberto, discepolo di Alcuino nell'abbazia di Saint-Riquier, si servì di colonne e armi preziose fatte trasportare da Roma; ed Aarone, vescovo d'Auxerre, tornato con l'imperatore dall'Italia l'anno 800, elevò un ciborio ad esempio degli altri veduti nell'Urbe.
Il capolavoro dell'oreficeria nell'età carolingia è l'altare d'oro della basilica di Sant'Ambrogio, dono dell'arcivescovo Angilberto II, il quale lo fece eseguire da Vuolvinio. Questo insigne prelato che invitava "ad illuminationem suae ecclesiae" alcuni monaci francesi, ci diede con quel monumento il maggior saggio della civiltà fiorente nei conventi della Francia, delle forme d'arte determinatesi a Corbie, trapassate dalle Alpi insieme con le fomie calligrafiche di Tours e con i codici dell'abbazia di Fulda.
Quest'altare d'oro e d'argento, supposto opera romanica per le architetture prive di carattere bizantino, fu messo a riscontro col paliotto della cattedrale di Città di Castello col quale non ha alcuna artistica affinità. È il frutto di un'arte raffinata, che trae suo pro dai materiali e dalle forme classiche; nella croce della faccia laterale, a sinistra, sono incluse una gemma rovesciata con un Cupido e una seconda, pure capovolta, con una sfinge, una pietra preziosa incisa con una testa alata, e un' altra con scritta greca. Continua così il metodo proprio agli orafi dell'età barbarica d'incastonar gemme antiche negli ori e tra gli smalti; e, come nelle miniature carolinge, ad esempio nel libro degli Evangeli di Luigi il Bonario (Bibliothèque Nationale di Parigi, Lat. 8850), le gemme e i cammei formano parte della decorazione. Le forme classiche, non ancora svanite, si vedono su quest'altare: gli arcangeli, gli angeli, i beati, Ambrogio prima d'esser vescovo, il gentiluomo a cui pesta il piede malato, gli uomini ai quali predica, hanno la clamide agganciata a una spalla; il destriero su cui Ambrogio cavalca sembra studiato dai bronzi antichi; e gli altari parallelepipedi crocesignati, con corone votive pendenti al disopra, le predelle gemmate e la coltre della salma d'Ambrogio a cerchi od oculi, gli ornati a semplici girali o volute, da cui nascono altre volute, il battesimo per immersione del Santo, sulla cui testa si versa l'acqua per mezzo d'un'anfora, San Martino che cala fasciato nella tomba, son tutte forme che dimostrano la tradizione dell'antico ancora viva.
Dal sec. VII al IX l'arte dell'intaglio in osso e in avorio produsse tavolette, dittici sacri, che servirono di coperta a codici miniati, esempio la tavoletta col nome ripetuto del duca Orso (verso il 752) nel museo di Cividale, il dittico di Rambona dell'Abate Olderico (verso l'898).
L'arte bizantina, mentre l'Occidente era schiarato da carolingi barlumi, entrò nella seconda età d'oro, che si estende sino al sec. XII; e, dotata di gran forza conservatrice, mantenne i tipi architettonici determinati verso il tempo di Giustiniano, specialmente quando l'impero bizantino fiorì sotto la dinastia macedone. In quei prosperi giorni, Basilio I eresse Santa Sofia di Salonicco, tipica per la cupola centrale, presentò "la chiesa al Cristo suo sposo immortale, come fidanzata adorna per la festa nuziale, abbellita da perle fini, dall'oro, dallo splendore dell'argento, dai marmi cangianti in mille toni, dai mosaici e tessuti di seta". La gran cupola centrale dedicata all'Onnipotente divenne il principio generatore delle costruzioni chiesastiche, e ad essa fecero corona piccole cupole, che bandirono dalla copertura delle chiese i piani orizzontali.
In Italia, particolarmente per la conquista normanna, che unì la Puglia, il principato Capuano e la Sicilia, si fomò la prima rinascita dell'arte nostra, per via dell'associazione della civiltà romanica con la bizantina e con quella dell'Oriente musulmano, che accolse gli elementi asiatici delle regioni del Nilo, dell'Eufrate e del Tigri. Quella rinascita, che ebbe per le arti e le lettere il suo culmine sotto Federico II, s'irradiò in tutta l'Italia, a Roma nell'arte dei Cosmati che vestirono d'arabi drappi i marmi chiesastici.
Dei fulgori d'arte bizantina s'illuminarono Palermo, per i mosaici della Cappella Palatina e di Santa Maria dell'Ammiraglio, Cefalù per gli altri del suo duomo, Monreale e Venezia per quelli delle loro basiliche, i quali espressero tuttavia il tramonto dell'arte bizantina. Insieme con gli aurei paludamenti musivi, questa arte s'inoltrò nell'Occidente per via dei codici miniati, menologi, omelie, ottateuchi, salterî, ove le antiche forme greche rivissero sotto baldacchini a penne di pavone, tra piogge di fiori, di gemme, di stelle. E s'insinuò per mezzo dei tessuti splendenti, degli aurei ricami, delle argentee ageminature, che ornarono le porte solenni delle chiese di Montecassino, di San Michele sul Monte Gargano, di San Paolo fuorì le mura a Roma, di Salerno, di San Marco a Venezia.
La scultura bizantina in avorio, con dittici, trittici, reliquiarî, cassettine, sacre iconi, fornì dal sec. X al XII esemplari a tutta l'Europa, servendo alla diffusione nell'Occidente dell'arte rinnovata di Bisanzio. E agl'intagli eburnei si accompagnarono oreficerie, con profusione di smalti, di figure a sbalzo, variopinte, gemmate.
Tanta ricchezza si rispecchia a Venezia nel Tesoro di San Marco, specialmente nella pala d'oro della Basilica, con smalti tratti in parte dal Templon, monastero dell'Onnipossente, di Bisanzio.
Era uscita questa metropoli imperiale dal lungo inverno iconoclasta, con una codificazione degli elementi artistici ereditati dal secolo VI, naturalmente sviluppati, ma, nella seconda età d'oro (IX-XI secolo), pur non raggiungendo l'altezza del secolo di Giustiniano, l'arte sua s'irradiò nell'Occidente, dov'ebbe un'azione d'influsso più larga e penetrante.
Arte romanica e gotica. - Sin dal sec. XI ebbe inizio l'arte nuova, che si chiama romanica, e tra noi si può chiamare propriamente italiana.
Le arti romanze imperarono dovunque volò in antico l'aquila delle legioni. Parve allora che il lievito dei ricordi commovesse la terra, dalla Campania alla Lombardia, dalle rive del Reno a quelle del Danubio; spuntarono dai vecchi tronchi della romanità germogli per ogni dove; si risentì l'unità del nostro popolo nell'unità dell'arte risorta da Aosta a Monreale. Dalle valli s'appuntavano le torri a proteggere i nidi umani, s'ergevano castelli, si cingevano di mura merlate le città; e fra le torri e i castelli s'innalzava la cattedrale, baluardo della religione e della patria.
Erano pochi i suoni che s'andavano determinando nelle parole; e le parole parevano uscire interrotte, come a singulti. Erano ancora rozzi, non temprati, gli strumenti che cercavano l'espressione della vita; ma si affinarono nel lavoro, rompendo le pietre, i marmi delle squarciate cave di Luni e di Lombardia, del Veronese e dell'Istria. Erano ancora pochi i modelli che insegnavano la virtù dell'antica arte indigena, ma fuor dalle rovine apparvero, non più come idoli nefasti, belle nella loro nudità, le statue antiche; e nell'Etruria i vasi aretini sembrarono discesi dal cielo a Ristoro d'Arezzo; nell'Emilia, Wiligelmo e Nicolò dai sarcofagi romani e dai marmi arcaici greci trassero le decorazioni delle cattedrali; nelle Puglie, sui vasi italo-greci, riapparsi fuor dai solchi della terra, si foggiò il bello stile che Nicolò rese eterno. La madre terra scoprì il proprio seno, diede latte ai tori e alle serpi, come si scorge figurata nei rotuli degli Exultet, aprendo le braccia alla luce.
L'arte romanica nel sec. XII era già nata in Italia con caratteri locali originarî; e non d'un tratto certamente, perché motivi e notizie la ricollegano con le forme ravennati del sec. VI. E non in particolari, come la decorazione scultoria a intrecci o come la costruzione della vòlta a crociera sul pilastro a fascio, si può trovare la spiegazione prima di un fenomeno così complesso come l'arte romanica.
La prima e più intima manifestazione dello spirito cristiano nell'arte fu la subordinazione di tutti gli elementi artistici agli effetti della luce, ottenuta materialmente da principio con vetri luminosi, con metalli preziosi, con gemme, che Bisanzio e l'Oriente fornivano agli scali delle città marinare; ma le regioni interne, la Lombardia ad esempio, non avevano né dovizie, né vie adatte per continuare i fasti cromatici bizantini. Prima d'ogni altra regione interna, per natural forza, la Lombardia organizza il Comune, come la cattedrale romanica. Da Campione, da Como, da Mendrisio, gli scalpellini e i mastri muratori scendono a schiere, e ricercano nella sovrapposizione di pietre e mattoni, nelle archeggiature ad esempio, quei medesimi effetti di luce prima ottenuti con materie preziose di metalli e di vetri. Dovettero accorgersi che il loro effetto era più arte di quello precedente, perché più ingenuo, più spirito e meno materia; e quando, dopo mille tentativi, giunsero a Sant'Ambrogio in Milano, essi avevano ottenuto l'assorbimento del colore e della luce nella tecnica architettonica e scultoria, con effetti incalcolabili. Basti dire che in tal modo raggiunsero la fusione del sistema longitudinale col centrale nella basilica a crociera, risolvendo il problema rimasto insoluto dal sec. IV in poi; e ottennero gli effetti di luce non solo all'interno, come era avvenuto nell'arte dei bassi tempi, ma anche all'esterno, per mezzo d'infinite fantasie di aggetti e di rientranze.
Il lavorio compiuto tra il sec. VI e l'XI, nelle regioni dove meno si faceva sentire l'azione bizantina, non era stato vano per l'arte. Fu un lavorio lento, nascosto, continuo, come entro le viscere della nostra terra, lungo cumuli di detriti del mondo antico, attraverso scorie di vulcani; ma la spelonca s'aprì all'arte, che nell'oscurità, nel silenzio, si era spiritualizzata, liberata anche dalla gemmea materia, ridotta tutta a un artificio di luci. Così l'arte moderna fu fondata nella cattedrale romanica.
Mancavano i materiali costruttivi, ed ecco il popolo, che nelle cattedrali e nei palazzi del Comune voleva accentrar la sua vita, ricorrere ai monumenti antichi per costruire i nuovi. Si coperse allora di marmi raccolti sulla via dei Sepolcri il duomo di Modena, opera dell'architetto Lanfranco, assistito dagli scultori Wiligelmo e Nicolò, rude, violento, incomposto il primo; creatore, il secondo, di nitidi rilievi incassati nello spazio con misura quasi medaglistica, fervido inventore d'intrecci, di spire, di volute nei fregi di fogliami e di animali. L'opera primitiva, selvaggia e greve di Wiligelmo si avvicenda in contrasto incessante con l'opera più raffinata di Nicolò. Accanto ai mostri che intrecciano capigliature e code in grovigli selvaggi sui capitelli, creature uscite dalle tenebre del Medioevo, il Rinascimento sembra aprir la via a ricordi dell'antico nei rozzi genî funebri con faci riverse, e soprattutto nei ben noti bassorilievi al sommo di lesene, capolavoro scultorio di questa primitiva arte romanica, vicina talvolta, per le forme spianate geometrizzanti e rigide, a esempî del più puro arcaismo greco. Wiligelmo, Nicolò e i loro collaboratori radunarono sulle porte e sui capitelli del duomo di Modena leggende sacre, storie bibliche e cavalleresche, vìte di santi e canzoni romanze, insieme con visioni diaboliche di mostri e di vizî, tutte le aggrovigliate conoscenze del popolo che nella chiesa voleva vedersi raffigurato ed esaltato. Mentre Wiligelmo orna la facciata delle sue sculture erompenti con forza bruta e grandiosa dalle cornici, Nicolò ordina le sue schematiche ed agili composizioni, i suoi eleganti rabeschi di figure umane, di animali e fogliami nelle porte minori, dei Principi e della Pescheria.
I due maestri diffondono la propria arte nell'Emilia, nella Lombardia e nel Veneto: a Nonantola, nella porta della chiesa abbaziale, a Ferrara e a Cremona, nel duomo; a Piacenza, e a San Benedetto Po San Benedetto di Polirone, nella grande chiesa fondata dalla Contessa Matilde; a Parma, nel protiro del duomo; a Verona, nel duomo e in San Zeno, Nicolò svolgendo le composte immagini primitive con fuoco e slancio sempre maggiore, culminanti nei vitali grovigli dei capitelli di San Zeno.
Dopo i due maestri promotori del grande movimento romanico nell'Italia settentrionale, sorge una corporazione di architetti e scalpellini, che si spinge nel Trentino e s'afferma nel duomo di Trento e in Dalmazia nel duomo di Traù. Scambî frequenti si notano fra quest'arte romanica e l'arte fiorente in Provenza durante il sec. XII, sicché una corrente omogenea - ma non priva di caratteristiche speciali evidentissime - unisce al mezzogiorno di Francia l'Italia settentrionale, raggiungendo a oriente la Dalmazia e spingendosi in Toscana, a Lucca, a Volterra, a Massa Marittima.
Lo sviluppo dell'arte romanico-lombarda, creatrice d'effetti pittorici mediante distribuzione complessa d'ombre e luci, si affrettò verso la metà del Duecento, quando s'esercirono le cave veronesi. Si giunse allora all'Antelami, corona del movimento lombardo (1178-1233). Pochi anni dopo che il forte scultore del pontile del duomo di Modena ebbe tagliato nel marmo, con potente sintesi plastica, le sue cariatidi acrobate, l'Antelami ci appare la prima volta in un bassorilievo della cattedrale di Parma, la Crocifissione, distinguendosi dai massicci precursori lombardi per le figurine allungate, rigidi steli entro vesti a pieghe filiformi: un fine miniatore sembra succedere ai plastici grandiosi. Ma la sua arte spiega le proprie facoltà solo più tardi, nel Battistero di Parma, nitida costruzione ottagonale, ove l'effetto coloristico è ottenuto con una graduata successione di ombre e luci in regolari uniforrmi zone; la gravità massiccia delle moli romaniche si attenua nelle esili colonnine che reggono le trabeazioni sottili; gli archi romanici sotto il cornicione si disegnano con grazia di trine; e aggiungono slancio agli angoli dell'edificio i campaniletti a pinnacolo di tipo francese. Alle fantastiche combinazioni di luce e d'ombra succede il regolare traforo: lo spirito dell'arte gotica si comincia ad avvertire nella crescente sottigliezza delle sagome e nel dominio dato al principio di verticalità. Più che mai severa è la schiavitù della statuaria antelamica alle forme architettoniche; e la stessa virtuosità raffinata che lo scultore spiega lavorando, nel fregio di un sovrapporta, le vesti lievi di Salomè, si ritrova nei drappi a pieghe concentriche cadenti dai capitelli, sotto abachi sinuosi. Raffinato, elegante nelle esili figure dei fregi, facile popolare narratore delle leggende bibliche, l'Antelami veste di sacerdoiale maestà gli angeli incassati entro nicchie sopra la porta maggiore, lignei e potenti come i profeti all'esterno della cattedrale di Fidenza. Alle forme della regina di Saba, trasparenti da morbidi veli, lo scultore imprime classica nobiltà, agli arcangeli nell'interno del battistero, fuoco di atteggiamenti e di sguardo. Il poema della redenzione umana si spiega nell'edificio custodito dagli angeli solenni e dai profeti chiaroveggenti. Apra la gola il drago infernale, s'aggirino le belve, gli errori, i vizî intorno al fonte della grazia: saranno fugati dal Dio che soggiogò ogni potenza del male; dentro il Battistero è il lavacro dell'anima, la rigenerazione, la salvezza: il drago che minacciava la radice dell'albero della vita è vinto, trafitto dagli angeli che girano intorno al sacro luogo come celesti guardie. Con l'ultima opera dell'Antelami, la statua di Oldrado da Tresseno a Milano, riappare in un palazzo del Popolo, sul prospetto di una piazza pubblica - dopo tanti secoli dal monumento di Teodorico in Ravenna - la statua equestre, il monumento eroico per eccellenza, trasfigurato da esilità di forme timide e gentili, da serico fruscio di vesti.
Mentre l'Antelami, a Parma, a Fidenza, a Vercelli, a Milano, diffonde le sue sculture delicate e gracili, spesso vestite di fine policromia, i Veneziani, che prima si studiavano di richiamare le forme cristiane dei bassi tempi (colonne del ciborio di San Marco, sarcofagi del chiostro del Santo a Padova), creano la grande arcata dei mesi e gli angeli nella crociera di San Marco, unendo alle forme antelamiche la raffinatezza dei Bizantini. L'arte romanica adornò allora, con magnificenza mai vista di ornati, le porte della cattedrale vestita di ori orientali. Non le foglie minute e povere dell'Antelami, non divisioni geometriche, ma un intreccio di frondi rigogliose, animali, figure umane, complesso di nodi, vitale in ogni curva, in ogni serpeggiamento di linea, forma ad esse cornice scultoria: il ricamo bizantino presta il suo tessuto fastoso alle immagini rinsaldate dalla struttura romanica. Grandi cetre marmoree, composte di rami e foglie arrotolate, adorne, mediante grappoli d'uva, di pendenti grevi e magnifici, chiudono nelle curve melodiche episodî di lotte bestiarie: e foglie, tronchi, fiere, son lavorati con finezza propria d'intarsio marmoreo più che di scultura in marmo. Altrove son fanciulli che giocano a inseguirsi in labirinti di tronchi intrecciati, e scene varie entro cerchi: la vita s'ingolfa in una rigogliosa vegetazione di foglie e di rami. Modellate con squisita finezza di linee son le figure dei mesi, ora intenti a lavori, come il bellissimo uccellatore dalle cui mani sfuggono i volatili in palpitanti grappoli, ora sedute in troni d'oro, come Agosto dormiente nell'afa del solleone. Volute torpide di colli di cicogna intorno ad anfore preziose, spire di rami avvinghiate, calligrafiche pieghe ritorte, finezza di cesellati lineamenti, fanno del monumentale arcone, come dei sacerdotali angeli della crociera, i capolavori scultorî della cattedrale veneta. Venezia, che imitando le raffinate opere di Bisanzio mirò al fasto decorativo, compose, circa il tempo di Nicola d'Apulia, con i rilievi del portale di S. Marco, quasi una prefazione a libro d'ore o messale, ricordando alle genti Dio signore del tempo e della vita.
In Toscana tutta una serie di marmorarî architetti sembra aver ereditato e mantenuto intatta lungo i secoli la classicità delle forme, manifesta nel Battistero fiorentino, nelle cattedrali di San Miniato al Monte, di Empoli, di Fiesole, con frontoni triangolari e geometrici rivestimenti marmorei; aule divise in triplice nave da arcate a pieno centro, colonne sormontate da capitelli corinzî, dominio, nella struttura architettonica, di piani orizzontali e verticali; decorazione di pavimenti tradotta secondo ordine classico, nella tecnica ancora antica dell'opus sectile.
Nell'età romanica lo spirito di Roma si oppose al lombardismo prima, al goticismo poi. Ai multipli effetti di luce e d'ombra, attuati mediante complicata disposizione di masse nelle cattedrali romaniche dell'Italia settentrionale, Roma oppose la sua tradizione classica. Il colore, lo sfavillio delle gemme e degli ori, passione del Medioevo, continua ad affascinare i marmorarî romani: i marmi splendono di stelle e di rose; le cattedrali si apparano dei vividi tappeti musivi che il mezzogiorno d'Italia aveva imparato a tessere dagli Arabi dominatori. Ma tanto la decorazione musiva, ricca e abbagliante, quanto la decorazione scultoria, dove i motivi classici s'intrecciano ai motivi romanici, sono parte integrante dell'architettura, ne sottolineano le sagome, ne perfezionano il metro. Le tessere compongono ornati geometrici, i colori si riducono a poche note ripetute: porfido e serpentir10 s'incassano, tagliati in dischi e quadri, entro il tappeto musivo. Sontuosi apparatori, i Cosmati sono prima di tutto e soprattutto costruttori: equilibrano sottilmente le masse dei loro edifici, si servono dell'ornato per completare l'effetto delle linee architettoniche. Nel chiostro di S. Giovanni in Laterano, punto d'arrivo all'arte cosmatesca prearnolfiana, le venticinque arcatelle, divise in cinque ordini per ogni lato del quadriportico, compongono, poggiando sopra un alto stilobate, adorna transenna; le fasce e le cordonature degli archi, le sottili strie dei sottarchi, preludiano a forme del Rinascimento.
La porta della chiesa di S. Tommaso in Formis, tra le cornici larghe e distese, si disegna con magniloquente ampiezza romana, e alla cornice i conci, disposti a raggi d'aureola entro il giro dell'arco, formano solo augusto ornamento. Sagome più complesse appaiono nel portale di S. Antonio a Roma, dove il sistema di colonne e pilastri, sostegno alle grandi concentriche arcate, divise a listelli, limitate da taglienti cornici, crea vicende di luci e d'ombre intense e distinte. Un secondo sistema di colonnine e brevi pilastri sorretti dalla sfinge egiziana, motivo ripetuto dai Cosmati, ad es., in S. Giovanni in Laterano, ripete in alto le vicende chiaroscurali, rompendo gli spigoli della fronte liscia dell'arco: la trabeazione ha per solo fregio una scritta, come nei più nobili edifici del Rinascimento toscano.
Pietro e Nicolò di Rainerio posero le loro firme sopra la porta e la finestra della chiesa di S. Maria di Castello a Tarquinia, una delle più antiche e a un tempo delle più classiche costruzioni di quest'arte medievale romana, che ama le pause metriche, gli ornamenti regolari, la piana stesura delle cornici. In larghe zone, queste si stendono attorno la fine porta aureolata da lunetta, ampliandone le proporzioni, comunicandole un'apparenza di maestà solenne e pacifica, di sobrio splendore.
Una ricerca di grandiosità - rara più di quanto si creda in quest'arte classica di spirito, equilibrata, prediligente le superficie piane, su cui stendere le note fulgide del mosaico - è palese nell'eccelso arco trionfale, che s'innalza dal portico basso del duomo di Civita Castellana, esteso in larghezza, chiuso fra l'ampia base di gradi e la trabeazione adorna d'un fine orlo geometrico di rettangoli e dischi musivi, prediletto dalle pitture parietali romane, cintura gemmata che accentua la cosmatesca modestia di proporzioni del loggiato ionico, in confronto con l'arco sorretto da pilastri e coronato da classico frontone.
Splendido esempio di decorazione musiva applicata all'architettura cosmatesca son le due porte nell'atrio del duomo di Civita Castellana, opera dei marmorarî Lorenzo e Iacopo. La porta maggiore si apre, gemmata da zone fulgide, sotto una regale aureola di archi, che, partendo da pilastri e colonne, disegnano un vasto nimbo a gradi attorno alla lunetta sfavillante di pietre colorate. Cinture musive tenui fiorite orlano gli stipiti: più ampie, stendono un tappeto policromo lungo i pulvini, per scendere, tra nastri di marmo bianco, sulle cornici della trabeazione, e legar così la porta, sottile, forbita di sagome, ai gradi delle sue espanse cornici, alla sovrana maestà delle arcate. E il dominio del grigio attorniante avviva il fulgore delle tessere policrome e dei candidi nastri che tracciano lungo gli stipiti, sul fitto vario tessuto dei fondi, larghi disegni geometrici di rettangoli e dischi. Centro radioso dell'alone che nimba la porta, la mezza rosa introduce un nuovo elemento di colore raro nell'arte cosmatesca: il traforo.
Semplice, senza echi, la porta laterale, che ripete il contrasto tra il fastigio dell'arcata mediana e le ridotte proporzioni degl'intercolunnî, è con rara nobiltà disegnata dalle tese cinture sfavillanti, ove nastri e anelli candidi scandiscono il lavoro musivo, con sovrana calma di ritmo.
Tra le più belle creazioni dei marmorarî romani sono i quadrati campanili delle chiese, composizioni regolari di dadi sovrapposti, con adornamento di modiglioni in marmo bianco, di mattoni a sega, talora di maioliche, vivido e lieto contorno policromo a geometriche sagome. Con queste gaie cornici, come bianca dentatura del rosso mattone, e con l'eco ripetuta degli archetti di dado in dado, i Cosmati tolsero ai campanili di Roma, sopravvissuti, il più delle volte, alle rinnovate chiese, come antenne di navi scomparse, l'impressione di schiacciante e cupo imperio, non rara nei campanili romanici.
Come sempre, l'arte dei Cosmati cura i legami tra le membrature moltiplicando le vivide cornici: oltre la semplice incorniciatura di modiglioni candidi e di minute seghe in laterizio, si vedono, nei campanili di S. Francesca Romana e dei Ss. Giovanni e Paolo, colonne marmoree con capitelli sporgenti a gruccia, come nel chiostro di S. Lorenzo fuori le mura, e dischi, e croci di marmo, persino scodelle maiolicate, sempre disposte secondo l'ordine metodico proprio all'arte dei Cosmati, la quale trae la sua forza non dalla fantasia lombarda, creatrice di movimenti complessi di massa, di lume e d'ombra, non dalla sfarzosa prodigalità di colore degli Arabo-normanni, ma, come l'arte nostra del Rinascimento, dall'equilibrio, dalla regolarità delle costruzioni.
Dai Cosmati derivano i marmorarî umbri, i quali, sprovvisti di tessere vitree e di marmi fini, giungono a dipingere i frammenti di pietra, a ideare combinazioni di pietre bianche e violacee, come vediamo nella chiesa madre di S. Francesco d'Assisi: poveri, monotoni, creano il loro capolavoro nel Palazzo dei rettori di Perugia, dove s'incontrano con Pietro Cavallini, Nicola d'Apulia e Giovanni Pisano.
Come a Roma, così nell'Italia meridionale e nella Sicilia, lo studio dell'antico è fondamento alle nuove forme: l'arte campana ispira i maestri della Campania; i vasi apuli italo-greci sono esempio ai grandi maestri pugliesi, e l'arte greca a quelli di Sicilia. Esempio tra i massimi dell'arte dei maestri pugliesi è la nitida architettura di Castel del Monte, massa poliedrica con potenti torrioni a ogni angolo, porta studiata dalla riduzione di un arco trionfale, e, nelle chiavi delle vòlte, rosoni e maschere degne dell'arte classica, sculture ove si può scorgere l'origine di Nicola d'Apulia. Forme altrettanto pure, ma talora inclini, per l'arcaica fissità dei lineamenti e la pompa delle vesti preziose, all'arte di Bisanzio, si vedono in territorio campano, nel mirabile pulpito di San Pantaleone in Ravello, ad esempio, dove impera il busto di Mater Ecclesia, idolo coperto di grevi stole e diademi. Più ferve la vita nell'altro busto di Mater Ecclesia proveniente da Scala al Museo di Berlino: le spalle erompono dal golfo del manto; fremono, sotto il lieve diadema di foglie, i crespi capelli al vento, e gli occhi aperti sbocciano turgidi al sole. Il grande arcaismo, l'impassibilità augusta del busto di Ravello cedono a un appassionato respiro di vita; l'arte nuova guarda dai grandi occhi accesi del busto di Scala. Nell'abbagliante decorazione musiva degli amboni di Ravello, di Sessa Aurunca e di Salerno, come negl'intrecciati chiostri d'Amalfi, l'arte campana si mostra affascinata dalla pompa dell'arte saracena, che domina, con la bizantina, in Sicilia, e forma un'architettura splendente di luci orientali e di policromi tessuti arabici, arricchita da pompa coloristica, dal traforo delle marmoree trine, da inesauribile varietà d'ornati, di quegli effetti pittoreschi che l'arte romanica lombarda traeva dalla distribuzione complessa della luce e dell'ombra.
L'arte cosmatesca, che ha la sua piena evoluzione nel Duecento, sempre schiva dal gotico, trova infine il dominatore in Arnolfo di Cambio, nel maestro toscano che, pure arrendendosi alle forme gotiche, porta nel coro, altisonanti, le voci indigene. Ed è allora, quando nel coro le voci dei Cosmati s'aggiungono, duce Arnolfo, ad esaltare le tradizioni italiane, ch'esse trovano echi nell'arte di Giotto e, per lui, in tutta la pittura italiana.
L'architettura gotica (v. gotica, arte), scaturita da tre elementi fondamentali, dalla nervatura a sostegno delle vòlte a crociera, dal contrafforte arcuato, dall'arco acuto, ebbe il primo di questi elementi nell'architettura lombarda di tipo romanico; anzi i Lombardi compresero primamente come il modo di alleggerire una vòlta a crociera, scindendone il peso e la spinta, consistesse nel gravare ciascuno spicchio di vòlta sopra due archi incrociati, poggianti sui pilastri a fascio, come si dimostra nella costruzione di Sant'Ambrogio a Milano. Ma i Lombardi non trassero, da questa loro geniale scoperta, tutto il partito possibile; non svilupparono il motivo abbozzato, onde l'opera loro rimase più sviluppata che nell'arte romanica del resto d'Europa, e meno che nell'arte gotica.
I monaci cisterciensi portarono il loro stile gotico-borgognone nelle abbazie di Fossanova (1197-1208), di Casamari (1217), di S. Galgano (1218-1310), di S. Martino presso Viterbo (dal 1215), di S. Maria d'Arborea (fondata nel 1208), delle tre Chiaravalle, presso Milano, Piacenza e Iesi. Esempî d'architettura gotica dell'Île-deFrance si trovano a Sant'Andrea di Vercelli, e negli edifici di Federico II in Puglia e in Sicilia, mentre esempî d'architettura del mezzogiorno di Francia furono importati da Carlo I d'Angiò nel suo regno delle due Sicilie, a Lucera, Napoli, ecc.
L'architettura gotica, importata in Italia, non riesce a scacciare le abitudini di costruzione romanica nemmeno quando, come nel sec. XIV, la moda della linea gotica aveva invaso anche la scultura e la pittura. Più misurato del gotico francese, che trova la sua espressione negli ardimenti della linea verticale, nello slancio mistico verso l'alto, nel grido a Dio delle guglie appuntate al cielo, il gotico italiano schiva l'estrema leggerezza ottenuta col predominio dei vuoti, le schiere slegate di guglie: la tendenza indigena allo squadro mantiene il dominio, sicché, più che nell'ossatura architettonica, l'impulso dell'arte gotica sull'arte italiana si esprime nella ricchezza fantastica della decorazione.
La facciata del duomo di Siena, coperta da un fastoso pesante tappeto di trine marmoree, con il frontone fiancheggiato da cuspidi come candelabri ardenti ai lati di un altare, con gli archi e le aperte gallerie, ricordo di chiese romaniche, mantiene, nel chiaro organismo, prototipo al duomo orvietano, toscana, italiana fisionomia. E mentre nelle cattedrali francesi, le statue, tese entro la sottil guaina delle vesti, sono incanalate lungo i profili architettonici, con rigoroso ordine inteso ad aumentare la ieratica impressione di verticalità, nel duomo di Siena si slanciano con impeto fuor delle cornici, animano l'edificio col prediletto giuoco italico delle ombre create dal parossismo dei movimenti, liberi come quelli del fogliame che si torce lambendo di fiamme gli orli delle incorniciature. Scompare, questa libertà tipica dell'arte di Giovanni Pisano, nel duomo di Orvieto, dove le grandi linee del prototipo senese sono conservate, ma la superficie, distesa e piana, si riveste, per Lorenzo Maitani, di un leggiero ricamo scultorio, quasi miniaturistico, che non dà accenti all'architettura; i pinnacoli, perdu o il gioco chiaroscurale delle nicchie multiple, si distendono, sottili e uniti, come formati da fasci sovrapposti di verghe. La tendenza arnolfiana a tornitura di superficie, a levigatezza marmorea, sembra qui timidamente introdursi accanto alle forme del duomo senese. E, come sempre nell'architettura nostra, lo slancio gotico dei pinnacoli, l'ascesa delle linee, trova freno per l'intervento dell'orizzontale. Quando, a Pisa, S. Maria della Spina s'adorna, eccezione nell'arte toscana, di una ricca serie di cuspidi elevate sugli alti frontoni, esse non sono, come le guglie gotiche, veri aculei, ma piccoli ciborî, baldacchini di merletto che quattro brevi colonne tengono sospesi sopra il capo della Vergine e dei santi. E quelle guglie faticosamente s'innestano all'ossatura sempre classica dell'edificio.
Anche più spiccato il carattere classico negli edifici arnolfiani, nonostante gli archi acuti e le punte gotiche, per la struttura cristallina che ad essi deriva dal perfetto senso di proporzioni, dalla marmorea levigatezza della superficie, dall'ordine logico con cui sono distribuite le statue nei loro sottili gusci, dalla geometria dell'ornato cosmatesco. Nel duomo di Firenze, Arnolfo, ad accentuare il carattere nazionale dell'architettura gotica italiana, pensa di elevare, anello di congiunzione tra l'architettura romanica e quella del Rinascimento, la cupola, coronamento grandioso dell'edificio, simbolo della maestà, della potenza divina che dall'alto domina sugli uomini, centro risonante del tempio. L'elegante, il marmoreo Arnolfo, all'inizio del Trecento, è già, sotto molti aspetti, l'uomo del Rinascimento: a lui risale anche il primo pensiero di Palazzo Vecchio a Firenze, nitido dado che trova la sua linea di slancio nel getto ardito della torre, e che, pur nelle modificazioni e aggiunte successive, resta tipico esempio dell'architettura arnolfiana.
Di stile affatto straniero, e precisamente germanico, è invece il duomo di Milano, eccezione stilistica e cronologica, perché iniziato alla fine del sec. XIV, proprio quando in Toscana stava per sorgere l'architettura del Rinascimento.
Gotica, nelle decorazioni delle finestre e delle porte, ma di carattere prettamente italiano, è la costruzione dei varî palazzi comunali nei maggiori centri italiani, come del Palazzo Vecchio a Firenze, del Palazzo della Signoria a Siena, del Palazzo Ducale di Venezia, della Loggia dei Mercanti a Verona. L'abitudine di decorare con gotici girali costruzioni civili affatto squadrate, e cioè lontane dallo spirito fondamentale mistico dell'arte gotica, continuò anzi e si sviluppò soprattutto a Venezia, sin verso la fine del Quattrocento, e vi produsse uno speciale sviluppo di stile gotico fiorito, che costituisce tuttora la maggior attrattiva architettonica di quella città: il capolavoro di quest'architettura lagunare è la cosiddetta Cà d'Oro.
Nella scultura, Pisa regna. Mentre il Battistero pisano s'inghirlanda di statue e di marmoree cuspidi frastagliate, il Camposanto accoglie nella terra trasportata dal Calvario le spoglie degli uomini, il duomo alza la fronte superba presso la torre inchina. Corrono gli scultori da Pisa a Lucca per ornare il bel San Martino; corrono a Perugia per scolpire la fonte dove tra gli zampilli risuonano le voci delle virtù, delle arti liberali, della Bibbia, della storia; corrono a Siena per ergere sulla fronte della cattedrale i profeti, le sibille, Platone, Aristotele, che di slancio, nell'estasi o nella furia dell'estro, annunciano la venuta del Verbo o la verità eterna ai fedeli. L'Italia è stata conquistata a colpi di scalpello da Nicola d'Apulia e dalla sua scuola.
Nicola (nato al principio del 1200 e morto circa il 1280) segna il periodo di transizione fra l'età romanica e l'evo moderno. Educato dagli artisti che lavorarono per Federico II in Puglia, egli porta in Toscana, a Lucca, a Prato, a Pisa, a Siena, nell'Umbria, a Perugia, la grande arte classica degli amboni e dei castelli pugliesi, e l'applica a raffigurare interi cicli di scene tradizionali del cristianesimo. Il pulpito di Pisa, più di tutte le altre opere, nelle quali la collaborazione dei seguaci prende il sopravvento, ci dà la conoscenza dell'arte di Nicola d'Apulia, romana per ampiezza di forme, per classici panneggiamenti, per la gran quiete delle composizioni ordinate e massicce, soggetta ancora, come la scultura romanica, alla schiavitù dell'architettura. Le forme, con la loro imponente struttura, si spianano per livellarsi entro i grandi specchi delle lastre marmoree: gli atteggiamenti monumentali, sono composti e calmi.
Nell'arte del figlio di Nicola, Giovanni (1250 circa-1320 circa), gli effetti di movimento succedono a quelli di compostezza augusta; la scultura si emancipa dalla schiavitù dei piani architettonici; il turbine gotico travolge la folla agitata delle statue. Non Nicola d'Apulia, ma Giovanni apre l'era nuova della scultura italiana. Già in Nicola la tendenza ad arricchire l'effetto sculturale si annunzia progressivamente. Nel pulpito del duomo di Pisa, la decorazione è interamente subordinata alla struttura architettonica: i rilievi a masse livellate, nonostante la costruzione potente della forma, sono innestati in ordine metodico entro gli specchi rettangolari del parapetto poligonale, e fasci di colonnine, a tre a tre, afforzano ogni vertice; le imperatorie figure delle virtù rinsaldano i pilastri delle arcate, e gli archi trilobi conservano il pieno centro. La prima apparizione dell'arco ogivale è nel pulpito di Siena, dove Giovanni per la prima volta lavora accanto al padre, eseguendo tre bassorilievi: la Crocifissione, gli Eletti, i Reprobi, nei quali la vita nuova erompe con improvvisa ribellione. Gli angeli di Giovanni, in uno spigolo del pergamo, tempestosi, con gote gonfie come quelle dei venti, lanciano nel tempio gotico gli squilli di un avvento d'arte nuova. Differenza profonda tra l'arte dei due maestri, che appare anche più evidente nella fonte di Perugia, dove dalla poligonale vasca compatta e liscia, afforzata ai vertici da grevi fasci di colonnine, improntata, nella sua grandiosità massiccia, allo stile di Nicola, si leva la seconda, agile e spezzata; e dalla seconda, con balzo più rapido, la vasca di bronzo: liscia corolla di fiore entro la quale si tuffa il magnifico nodo di ninfe e grifi; nulla più dell'arte di Nicola, in questo vivo fiore nato dall'ardente fantasia di Giovanni.
Il gotico trionfa col pulpito di Pistoia nell'acutezza lanceolata degli archi, nel grido delle statue, che non più seggono in cattedra sui capitelli delle colonne, né si adagiano lente entro l'angolo dei pennacchi, ma dànno dal basso l'idea di agitate faci per la foga dei movimenti, la voluta rapida delle teste sporte di sopra i corpi, raccolti entro lunghe tuniche a fasci scorrevoli di pieghe. Nel pulpito di Pisa, infine, distrutto da un incendio, ricostruito ora nella cattedrale, la vegetazione scultoria sale e discende lungo le pareti sempre più spezzate, stringe, soffoca, nasconde lo scheletro dell'edificio. Un popolo di statue forma i piedistalli del pulpito; i leoni escono ruggendo tra quelle selve di figure convulse, gracili, dominate dai nervi, arse da febbre: le doppie corone di foglie sui capitelli roteano al vento in convulsioni di fiamma; e le immagini dei bassorilievi, secche, inquiete, appassionate, erompono dal parapetto, libere nello spazio, soverchiando l'architettura; la roccia liscia e compatta di Nicola scricchiola, si sgretola, si scompone in forme fantastiche. Le forme sculturali si emancipano dalla schiavitù architettonica; conquistano lo spazio, rispecchiando, nei contorcimenti penosi e febbrili, la fatica della lotta che le ha portate alla liberazione.
Il concetto d'indipendenza della scultura dall'architettura, maggiore nel gotico di Giovanni che nel gotico di Francia, informa la libera vegetazione scultoria che si annida tra gli spigoli della facciata del duomo di Siena: leoni e draghi, e cavalli scalpitanti, sospinti fuori delle pareti marmoree, fendenti il vento che sconvolge le irte criniere. Accanto a quel popolo di mostri scatenati, un popolo di veggenti - profeti, sibille, antichi filosofi - domina la folla, grida al vento le verità della scienza e della fede.
Alla scuola di Nicola non appartenne solo Giovanni. Oltre al mediocre fra Guglielmo da Pisa, esecutore di parte dell'arca di S. Domenico a Bologna e di un pulpito a Pistoia, ne uscì il nobile diffonditore dell'arte di Nicola a Roma, a Perugia, a Firenze, Arnolfo di Cambio (1232-1301), più fedele di Giovanni al maestro, più lontano da slanci gotici, tendente a raffinare con grazia toscana le forme di Nicola d'Apulia. Arricchisce le sue opere con la decorazione musiva, usata in Roma dai Cosmati; porta nell'arte un senso di misura profondamente toscano, regolarità cristallina di forma in pieno periodo gotico, virtuosità di lavorazione del marmo, amore di proporzioni minute e sottili, di nitidezza marmorea. Nel ciborio di Santa Cecilia a Roma, la tendenza italiana a disciplinar lo slancio delle linee verticali mediante il freno di orizzontali divisorie, la tendenza italiana allo squadro, che caratterizza il nostro stile gotico di fronte allo stile gotico di Francia, trova la sua piena espressione. La vita febbrile di Giovanni si arresta nelle statuine che adornano i ciborî e sepolcri di Arnolfo, piccoli e preziosi, con drappi sottilmente stirati, corpi inerti, quasi fossili. Astratte, pietrificate e vaghe sono le fisionomie dei volti arnolfiani, con muti occhi sporgenti, senza sguardo; delineate con rara eleganza le sottili pieghe cartacee delle vesti; fisse le mani piccole e nastriformi. Raffinato lavoratore del marmo, Arnolfo non cura di trasfonder la vita nelle sculture, pago di eleganze formali, di nobiltà di forme agghiacciate, di misura sottile e profonda, di quella misura che trova il migliore commento nell'entusiastico elogio di Leon Battista Alberti al duomo fiorentino, all'arnolfiana Santa Reparata, "tempio che ha in sé grazia e maestà... una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena".
Arnolfo ebbe in Roma una numerosa serie di ammiratori nei Cosmati, i quali ripeterono servilmente le forme imparate. Invece, a Pisa stessa, a Firenze e a Siena, l'arte di Giovanni Pisano trovò libera continuazione.
Andrea Pisano, da prima oscuro orefice, fattosi in breve celebre per la commissione avuta nel 1330 della prima porta del Battistero di Firenze, quando egli era già vecchio, mostra nei bassorilievi in bronzo della porta, rappresentanti la storia del Battista, di aver compiutamente assimilato lo stile gotico, di esser padrone del movimento; e tende a render più semplice e chiaro il racconto, riducendo la folla, che riempiva i bassorilievi di Giovanni, a pochi gruppi nitidamente definiti, curando, più dei predecessori, l'unità, il collegamento fra le scene. La proporzione delle figure, entro gli spazî chiusi da cornici frastagliate di lobi e di angoli, è giusta, in perfetto equilibrio; le forme, eleganti e fini di modellatura, son tornite con arte di orafo nonostante la loro ampiezza: San Giovannino fanciullo nel deserto, Salomè, con brevi capelli ricciuti e tunica fluente come quella degli angeli del Beato Angelico, rimangono tra gli esempî più squisiti di grazia nella scultura trecentesca. Nessuno scultore precorse Andrea Pisano in questa fondamentale riforma della composizione; bensì un pittore, Giotto. Ne è prova l'inizio di bassorilievi in marmo che Giotto stesso fece per il campanile di S. Maria del Fiore in Firenze, fra i quali primeggiano l'Arte della navigazione, con figure di barcaioli curvi sui remi, gli occhi fissi alla distesa delle acque, la Theatrica con l'auriga studiato dall'antico e con cavalli anelanti, l'Agricoltura con la fatica degli uomini che guidan l'aratro e dei buoi che tirano a gran forza sulla dura terra.
Fu dunque Andrea Pisano che disse la parola nuova nella scultura dopo quella di Giovanni. Ed egli fu continuato da Andrea Orcagna fiorentino (1328-1368), architetto, scultore, pittore, poeta, il quale rese più gravi, più costrutte, più profonde, le fomie di Andrea, nel tabernacolo di Orsanmichele a Firenze (1359), ove già si presenta il realismo del secolo successivo. Non affastella le figure, anzi semhra aver timore di pigiarle negli angusti spazî; afferma la sua tendenza a semplificare le composizioni, ad amplificare le forme, dando pienezza ai volti, ampiezza ai manti. La mimica delle figure è più vivace di quella di Andrea Pisano: le labbra, le mani diventano parlanti nel rilievo con l'Annuncio della morte alla Vergine; lo sguardo della Solertia, che appunta, in segno di silenzio, il dito alle labbra, è aperto e vivace in contrasto con quello profondo, umile, pauroso della Verginità. Non è l'Orcagna uno spirito irrequieto che tenti sempre nuove cose; è un maestro laborioso, pratico e sodo. Nel rappresentare una scena solenne, come quella dell'Assunzione, ricordò d'essere non solo scultore, ma anche mosaicista, per ottenere gli effetti più vivi e abbaglianti col fondo di smalto azzurro sparso di stelle. E con virtù di architetto dispose bassorilievi e mosaico nel tabernacolo, mirabile per l'armonia delle parti, per la nobilissima eleganza dell'insieme, per la maestà assunta dallo stile gotico. Gli angeli venerano Maria, suonando, cantando estasiati; e sopra ai pilastri del tiburio, lungo i fregi, sulle cuspidi, i profeti, i patriarchi e i beati intonano laudi. Tra il luccichio dei mosaici, il nitore dei marmi e il fulgore dell'oro s'innalza il canto sacro. Scintillano le stelle lungo le colonne tortili, nei broccati, nelle stole, nelle frange; il firmamento splende sul baldacchino.
Fuori di Firenze il goticismo continua ad imperare nella scultura, intenta ad ingentilire le forme tipiche di Giovanni Pisano. Nino, figlio di Andrea, si limita a studiare il grazioso sorriso delle sue Madonne. Egli è il principale banditore dello stile pisano nella scultura, per la diffusione che ebbero le sue statuine di Madonna e anche per la costruzione, in Venezia, del monumento al doge Marco Cornaro.
Giovanni di Balduccio, altro pisano, recò modelli ai maestri di Campione e di Como con i monumenti di Sarzana e di Genova, e con l'arca di Sant'Eustorgio a Milano, da cui deriva l'altra di Sant'Agostino a Pavia.
Mentre i seguaci pisani di Giovanni conquistavano il nord, i seguaci senesi di lui conquistavano il mezzogiorno d'Italia. Tino di Camaino senese lavora a Pisa, a Siena, a Firenze, a Napoli, trovando la sua espressione migliore nei bassorilievi con la vita di S. Caterina in S. Chiara di questa città, dove la grazia ingenua del raccomo fa dimenticare la superficiale struttura plastica; Lorenzo Maitani, tra il sottile ricamo degli aggirati racemi dì pampini, svolge sulla fronte del duomo d'Orvieto fragili bassorilievi dell'Antico e del Nuovo Testamento; Goro di Gregorio a Messina, Agostino e Agnolo di Ventura, Gano e molti altri diffondono per tutta Italia lo stile pisano quando già esso è riformato a Firenze.
Per opera di marmorarî veronesi, e soprattutto dei veneziani Iacobello e Pier Paolo delle Masegne, la seconda metà del Trecento rivela un'attività nuova, rude e incomposta, ma ricercatrice sincera della realtà; e in Lombardia, per opera di Giovannino de' Grassi, pittore e miniatore, più che scultore, anche la scultura intensifica il carattere realistico, e tende a condurre sino al parossismo la tortuosità dell'ornamentazione gotica. Si ricollegano a queste forme trecentesche molte opere che risalgono al principio del Quattrocento, in S. Petronio a Bologna, nel Palazzo ducale di Venezia, nel duomo di Milano, a Napoli con il Baboccio, a Firenze stessa con i ritardatarî.
Un poco più tardi dell'architettura e della scultura, sin dalla prima metà del Duecento, la pittura italiana, che era pittura popolare e non aulica, si presenta a noi con una particolare grandezza. Il S. Francesco di Bonaventura Berlinghieri, ch'è del 1235, ha una sua perfezione. Rigida, ieratica, tormentata da ascetismo, l'immagine grandeggia sui casi della vita del santo, dipinti ai lati: così grandeggia il divino sulla relatività della vita umana. E non per caso quello ch'è forse il più antico capolavoro pittorico d'Italia parla in nome di S. Francesco. La vita religiosa in Italia ha raggiunto nel Duecento un'altezza creativa che non è ritornata più. I nomi di S. Francesco e di S. Tommaso, la partecipazione stessa di S. Domenico alla vita italiana, sono gl'indici più palesi di quella religiosità. Si sentiva Dio, si pensava Dio, si agiva in nome di Dio. Dio partecipava ad ogni atto economico, politico, morale, intellettuale, artistico della vita d'Italia. Le passioni, così intense da lasciarci stupefatti, sembravano ispirate da Dio, sia che conducessero alle battaglie, sia che dirigessero i pennelli. I modelli potevano essere bizantini, ma quelle opere che ne sembravano le copie, piene di un contenuto nuovo di religiosità popolare, erano indipendenti dai modelli in quanto opere d'arte. Ciascuno trovava, al di là dei modelli, il proprio Dio.
Pietro Cavallini romano ottenne col rilievo dovuto a un raffinato chiaroscuro, col gesto largo e dignitoso, con la composizione non più soltanto frontale, una grazia eroica, una bellezza obiettiva. Cimabue, fiorentino, più ardito, più drammatico, impresse più profondamente la passione umana: la Crocifissione che dipinse in Assisi sembra una lotta di giganti, trasportati da un vento di disperazione. E fu insofferente di ogni schema lineare: il suo volto di San Francesco ha linee e piani scomposti, non più obbedienti a una tradizione, pervasi d'impressionismo. Anche quando nelle sue Madonne egli è alla ricerca della grazia, il monumentale e l'eroico prevalgono. Più giovane, Duccio di Buoninsegna senese è più vicino all'arte bizantina, meno popolare, più raffinato, e possiede tutte le malie del colore. Ispirate dal cielo, le sue immagini sorgono come gigli, delicate, armoniose, create con l'ingenuità del fanciullo, anche quando sono avvolte in tutte le ricchezze d'Oriente. Con la contrapposizione di toni egli riesce a realizzare nelle immagini volumi ben solidi; eppure è tanta la loro grazia da farle apparire fantasmi.
Al di là delle singole personalità, si sente nella pittura della fine del Duecento una grandezza, un distacco dalla terra, un linguaggio che sembra di Dio, un accento di assoluto, per cui diviene necessario il concetto di sublime. Così che quando si presenta, subito dopo, Giotto, sentiamo che egli è più nostro, più ricco di possibilità artistiche, più vario, ma, insieme, che la prima grandezza è scomparsa, come un paradiso perduto. Non più luci radiose, ma pochi colori, sobria ricchezza più chiaroscuro, più rilievo, più forma; si vede meno, e poiché tutto è limitato, preciso, solido, si capisce di più. Non più timida, coscienze della sua funzione centrale nel mondo, la figura umana attrae tutta l'attenzione dell'artista, trova in sé una architettura nuova, costruisce essa stessa la scena. La sua poesia non è più quella di un inno liturgico: è la poesia di Dante. Come in Dante, si conserva in Giotto la potenza ideale del passato, mentre si aprono le porte alla ricerca della realtà. Egli è un cosciente integratore d'idealismo e di realismo: il suo idealismo gli permette di sentire la realtà con un'immediatezza che non si ritrova dopo; e il suo realismo gli permette di portare Dio in terra, e di farlo camminare tra gli uomini, invece di confinarlo nell'alto delle absidi, come prima usava. La sua forma non è soltanto plastica, ma anche tutta accentuata di linee costruttive; il suo colore è nuovo, ardito, intenso, ma ha valore soprattutto come modo di accentuare la forma. Dei suoi scolari, il solo che abbia svolto le tendenze del maestro a liberarsi da limiti formali è Maso, che dipinge per accenni con sorprendente magia.
A Siena, mentre Giotto compiva tanto rivolgimento, si continuava a sognare. Ci si abbandonava al colore, alle linee ondulate, alle grazie obiettive, alle magnificenze delle corti orientali. Ma il colore diventava più vivace di prima, le linee ondulate più varie e commosse, le grazie più umane, le magnificenze più verosimili; e se, come in Petrarca, le Laure di Simone Martini sono in paradiso, in quel paradiso ci si sta mollemente adagiati, e per arrivarci non si è percorso l'aspro cammino di Giotto.
Ambrogio Lorenzetti parte dalla tradizione senese del raffinato colore, della bella linea, della giovanile immagine femminea, e giunge a una potenza plastica nuova e ad un suggerimento di accordo luministico del colore. Anche nelle sue composizioni drammatiche, il senso della bellezza obiettiva è così pieno, che diviene catarsi rasserenatrice. Più impulsivo, Pietro Lorenzetti possiede le qualità del fratello Ambrogio, salvo l'altezza del sogno, e giunge a un'intensità di espressione drammatica, ignota a tutti, fuor che a Giovanni Pisano. Il rapporto tra pittura e sentimento era allora così immediato che persino la linea idilliaca di Simone Martini poteva divenire eccezionale strumento di dramma, sotto il pennello di Barna. Poi il mondo si fa più piccino. I Senesi continuano a sognare attraverso colori divenuti per abitudine brillanti, entro linee sempre più belle nel loro ondulamento, ma talvolta calligrafiche. I Riminesi, che furono i primi, fuori di Toscana, a sentire l'arte di Giotto, cercano d'infondere negli schemi di Giotto calore bizantino. I Modenesi, i Bolognesi, i Milanesi, i Padovani trovano accordi sempre nuovi e geniali fra la tradizione fiorentina e quella senese. I Veneziani, più ligi alla tradizione bizantina, tentano una soluzione dei rapporti tra il gusto bizantino e quello gotico, senza influsso senese, e tuttavia in modo alquanto parallelo a quello senese. A Firenze, Andrea Orcagna e, seguendo Firenze, a Pisa, Antonio Veneziano e Francesco Traini s'interessano alla realtà con quella spregiudicatezza che è del Boccaccio. La divinità è già scomparsa dal loro contenuto psicologico, e resta tuttavia nell'ideale della forma, per cui ogni cosa volgare assume una particolare nobiltà.
Nel Duecento e nel Trecento fiorì la miniatura, che a Bologna vantò l'opera di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese; l'intaglio in legno con le statue senesi dell'Annunciazione, e quello in avorio con Giovanni Pisano e con gli Embriaci a Venezia. Nell'oreficeria, Siena, madre di eleganze, annovera Ugolino di Vieri, famoso autore del corporale di Orvieto; Pistoia ricorda Leonardo di ser Giovanni, ch'ebbe parte capitale nell'altare derubato delle statuette da Vanni Fucci nella "sagrestia de' belli arredi", e iniziò poi il dossale di San Giovanni a Firenze. Nell'arte del ferro, Siena diede saggi mirabili, tra gli altri quelli di Conte di Lello nelle cancellate o grate d'Orvieto. Negli smalti, Venezia imitò i Bizantini, specie nella Pala d'oro, e Assisi li applicò alle vetrate di San Francesco, ridenti come prati fioriti, e ne invetriò le testine in terracotta su fondo azzurro, entro un filare di rombi, nella tribuna della chiesa inferiore, presso il monumento dei Cerchi. I drappi serici si tesserono, ad imitazione di quelli d'Oriente, nelle officine palermitane istituite da Ruggiero II.
Il bronzo si fuse nei sigilli, di cui è a Roma, nel Palazzo di Venezia, una raccolta numerosa di matrici, e l'oro nelle monete, di cui furono esemplari, degni degli antichi tempi, gli augustali di Federico II, e, alla fine del Trecento, il mezzo scudo dei Carraresi Francesco I e Francesco Novello, che a Padova, prima sede dell'Umanesimo, rinnovò le monete imperiali romane di Commodo e Settimio Severo.
Il primitivo Rinascimento. - Le grandi conquiste del Quattrocento, nella pittura per opera di Masaccio, nella scultura per opera di Donatello, furono rese possibili dal genio di Filippo Brunelleschi, inventore della prospettiva architettonica. Mentre nel settentrione d'Italia ancor dominava il gotico fiorito, l'architettura fiorentina già aveva compiuto, con Filippo, il passaggio dagli slanci del gotico alla regolarità dello squadro, al dominio della linea orizzontale e dell'arco a tutto tondo; con lui si era affermata la semplificazione costruttiva che caratterizza, come per la scultura e per la pittura, lo stil nuovo.
L'architettura civile prende, al principio del sec. XV, il sopravvento sull'architettura religiosa. Il tipo dell'arte nuova è il palazzo fiorentino, costruzione massiccia intorno a un cortile quadrangolare, cinto di portici a colonne. L'esterno conserva ancora il carattere dei castelli del Medioevo, nei quali il pieno ha il sopravvento sul vuoto; ma l'ornamentazione dell'interno è perfettamente ispirata all'arte classica. I medesimi caratteri trasformano la costruzione della chiesa, sormontata da cupola su pianta quadrata. I fasci di colonnette vi sono sostituiti da pilastri e colonne; la vòlta ogivale dalla vòlta a botte o da un soffitto piano decorato a cassettoni. All'esterno sono colonne, frontoni e nicchie, e cioè gli elementi dell'architettura romana.
Filippo Brunelleschi (1377-1446) fu l'autore della grande rivoluzione, con la cupola di S. Maria del Fiore, costruita su antichi progetti, la facciata di palazzo Pitti, la cappella Pazzi in Santa Croce, S. Lorenzo e S. Spirito di Firenze. Nulla più rimane della sovrabbondante decorazione trecentesca, sebbene il dominio dei vuoti, la sveltezza delle arcate leggiere, l'esilità delle incorniciature sottilmente lineate, ricordino ancora tendenze gotiche di slancio. La classica eleganza della cappella Pazzi è fra le più tipiche espressioni del genio brunelleschiano: all'esterno, agili arcate, vòlte a botte con cassettoni adorni di rose, fregi di cherubini; nell'interno, un'aristocratica sala rettangolare sormontata da cupola a raggi; nessun aggetto, nessun giuoco d'ombra rompe la regolarità geometrica degli spazî, la schematica incorniciatura delle pareti bianche, su cui pilastri e archi di tutto slancio costruiscono una lineare trama grigia. Per amore di regolarità e di squadro, Filippo Brunelleschi ricorre, nel riedificare la chiesa di San Lorenzo, al tipo della basilica cristiana, con soffitto piano e colonnati divisorî. Ma il modello classico anche qui si traduce in opera fiorentina: la massività antica dà luogo a predominio di vuoti e di svelte sagome; l'ornato mette dappertutto in rilievo la linea: le fuseruole, le spiralette, le intrecciature nei sottarchi sottolineano, moltiplicandolo, il getto flessuoso delle arcate.
Sotto l'influsso del Brunelleschi, molti artisti si posero ad architettare nello stil nuovo. E così come avvenne per la scultura, nella generazione toscana successiva a Donatello, gli architetti successori al Brunelleschi adoperarono i suoi sistemi e i suoi motivi per trarne risultati più aggraziati e gentili.
Tra i seguaci toscani uno solo, Leon Battista Alberti (1404-1472), riuscì a crearsi uno stile proprio, essenzialmente diverso da quello del maestro, ad aprire una via nuova, pur basandosi sui principî di lui. Il Brunelleschi attua la riforma mediante la riquadratura classica, la disciplina introdotta nella costruzione dall'arco a pieno centro e da un più largo uso della linea orizzontale; ma rimane in lui tendenza a infondere agilità alle sagome, slancio e continuità lineare agli archi, dominio ai vuoti sui pieni, all'ossatura architettonica leggerezza antiromana. Con Leon Battista Alberti soltanto, s'inizia nel Quattrocento il gusto per il pieno, per lo spessore delle muraglie. Intervalli di muro massiccio separano le cappelle in Sant'Andrea di Mantova; e nei fianchi del tempio di Sigismondo Malatesta a Rimini un effetto grandioso nasce da nudità di blocchi giganti di pietra, tagliati in geometria. Ugualmente significativa di nuove tendenze è la trasformazione della cupola brunelleschiana, svelta, soprelevata, leggiera, nella cupola albertiana greve, cieca, emisferica. L'esterno delle chiese di Filippo Brunelleschi ripete il tipo dell'interno; con Leon Battista Alberti, l'esterno prende un carattere nettamente definito e magnifico: imponenza di blocco massiccio viene al tempio di Sigismondo dall'unità delle fiancate e della facciata trionfale, dal riposo delle superficie distese, dal parco e massiccio ornato. Genio di costruttore, disinvolta eleganza fiorentina, amore dei profili in islancio, nel Brunelleschi; immaginazione appassionata, esaltazione della massa, nell'Alberti. Lo schema degli edifici brunelleschiani si ripete con poche varianti: muta ad esempio nella chiesa di Santo Spirito, per l'immaginoso illusorio incrocio di viali di colonne sotto pergolati leggieri di vòlte. Lo schema degli edifici disegnati da Leon Battista Alberti varia con ricchezza sorprendente, dal carattere eroico del tempio malatestiano, inno di gloria levato da grandi cupole e da archi trionfali, all'attica eleganza del tempietto di S. Pancrazio. Teorico sommo, mente umanistica, Leon Battista Alberti supera nei suoi progetti, di edifici non solo, ma d'intere e inattuabili città, le sue grandi architetture reali. Sempre nelle sue opere è presente il concetto che fondamento di bellezza sia euritmia: "quei medesimi numeri, per i quali avviene che il concento delle voci apparisce gratissimo agli orecchi degli uomini, sono quelli stessi che empiono anco e gli occhi e l'animo di piacere meraviglioso". Nel comporre l'edificio, l'Alberti porta un senso romantico ignoto a Filippo: "il mistero dell'ombra nei templi, i fuochi, i grandi lumi, le faci intorno all'altare".
Filippo Brunelleschi inizia la riforma, Leon Battista Alberti la prosegue; i filoni della loro arte continuano paralleli durante il Rinascimento, senza fondersi mai. Anche quando i seguaci dell'uno seguono gli schemi dell'altro maestro, se ne allontanano per lo spirito: Michelozzo Michelozzi (1396-1472) e Benedetto da Maiano (1442-1497), pur ispirandosi al tipo del palazzo fiorentino creato dall'Alberti, rimangono fedeli discepoli del Brunelleschi. La predilezione albertiana per lo spessore massiccio delle muraglie rivive con nuove forme nelle architetture cristalline di Luciano da Zara; la leggerezza e l'agilità nervosa delle sagome, il predominio dei vuoti proprio alle architetture del Brunelleschi, mettono capo al classicismo riformato in senso toscano, tradotto in chiarezza geometrica d'incorniciature, non in effetto di masse: agli edifici di scheletro agile del Cronaca e di Giuliano da Sangallo.
I palazzi Riccardi e Strozzi, di Michelozzo l'uno, di Benedetto da Maiano l'altro, costituiscono, insieme con quello dei Rucellai, la più perfetta espressione del palazzo privato del Quattrocento, iniziata sì con il palazzo Pitti del Brunelleschi, ma condotta a un risultato raro di grazia aristocratica e forte.
In Luciano Laurana da Zara, architetto dell'arco di Alfonso di Aragona in Napoli e del palazzo ducale d'Urbino, collaboratore di Leon Battista Alberti a Mantova, non gli slanci elastici del Brunelleschi, né la monumentalità dell'Alberti, ma studio di proporzioni, chiarezza di superficie distese, abbandono degli ornati per amore di forma pura. Leon Battista Alberti, per via di proporzioni numeriche, dà agli edifici risonanze armoniose, non senza enfasi talvolta; lo stile del Laurana conduce a ritmo tranquillo, a regolarità cadenzata di pause. Ogni ricchezza ornamentale è abolita nel palazzo di Urbino per non turbar con le ombre le terse superficie, per non corrompere la cristallina chiarità dei volumi. Nessun fregio nella trabeazione, ma le sole parole della dedica a Federico da Montefeltro, incastonate come gemme, assimilate in principî di stile, per il nitido squadro, all'organismo architettonico, elementi vitali anch'esse dell'edificio: le pause tra arcata e arcata, tra finestre e pilastri, tra lettera e lettera, tra parola e parola, ripetono gli stessi ritmi, compongono insieme il poema. Leon Battista Alberti vuole sobrietà decorativa, ma la sua ammirazione umanistica per tutto ciò che è romano lo porta ad apprezzare anche l'ornamento massiccio; il Laurana è unico nel suo amore di sintesi, nella semplificazione assoluta, che permette ai volumi di spiegare tutta la loro intrinseca bellezza. Riposo, serenità imperturbata vivono entro la chiara geometria dei volumi, la purezza delle proporzioni, il nitore delle facciate, dove l'ombra non trova nido.
Mentre a tali risultati si giunge in Firenze e nell'Italia centrale, in Lombardia e nel Veneto dilaga il nuovo stile toscano, non senza molti compromessi con la tradizione gotica. Il rigido carattere costruttivo dei Fiorentini viene meno, ed è sostituito da uno stile che ha comuni con quello toscano solamente le proporzioni e le linee fondamentali, sovraccaricate però, nell'architettura veneta, dagli ornamenti e dalla policromia. All'effetto prettamente costruttivo vien sostituito l'effetto pittoresco. La cappella Colleoni a Bergamo, la Certosa di Pavia, la scuola di S. Marco e il palazzo Vendramin Calergi a Venezia, sono le opere più tipiche, più perfette e più famose di questa nuova arte dell'Italia settentrionale.
A Firenze intanto, per opera di Giuliano da Sangallo (1445-1516), lo stile del Brunelleschi si sviluppava verso la monumentalità: l'opera sua principale, la Madonna delle Carceri a Prato, già presente tutta l'imponenza del secolo che stava per sorgere.
L'egemonia pisana nella scultura ebbe termine col Trecento; Firenze ne raccolse l'eredità di gloria. Il momento di passaggio tra l'arte gotica e l'arte del Rinascimento è rappresentato dalle opere di Lorenzo Ghiberti, vincitore di Filippo Brunelleschi nella gara del 1402 per la decorazione della seconda porta del Battistero di Firenze. Le grazie dei falcati contorni gotici echeggiano negli atteggiamenti delle figure, nelle pieghe fluenti, nelle concave ali degli angeli; le forme allungate serbano flessuosa gracilità. Incerto fra due generazioni, fra due ideali opposti, dotato di un'estrema versatilità, il Ghiberti può creare opere differentissime, come il rilievo del Battesimo di Cristo nel fonte battesimale di Siena, ove domina la calligrafia dei contorni, e la formella con storie di Abramo scolpita per la terza porta del Battistero di Firenze, con i tre angeli di forme falcate e con fusti sottili di pino. "Porte del Paradiso" ha definito Michelangelo la seconda e la terza porta del Battistero di Firenze, che formarono e formano la maggior gloria dell'artista.
Quasi contemporaneo al Ghiberti, ma ben più ardito e crudo novatore, è il senese Iacopo della Quercia (1374-1438). In lui rivive, come per intima ingenita forza, lo spirito dell'antica arte etrusca, l'amore al forte rilievo, alla pienezza, alla gagliardia. Nel 1406 egli crea la tomba d'Ilaria del Carretto in San Martino di Lucca: la forma della tomba, i putti e i festoni sono motivi etruschi e romani; la forza spira dai grandi lineamenti della donna come dalle membra piene, dalle leonine teste dei fanciulli che in variate pose sorreggono il greve carico dei tralci. Ben presto le forme piene divengon monumentali, come a San Petronio in Bologna e nella Fonte Gaia di Siena, dove l'arte di Iacopo assume aspetto grandioso ed eroico. Grandissimo fra gli scultori toscani del Quattrocento, egli sprigiona molto dalla forma valendosi degli accenti dati alla linea. I lineamenti accentuati delle sue figure si addentrano nel volto con michelangiolesco vigore; gli occhi, sotto l'arco mobile delle sopracciglia, s'accendono di fiamme, sporgono turgidi come nelle statue di Giovanni Pisano, ma con energia di vita lampeggiante. L'arte dei contrasti michelangioleschi è in germe nel gruppo sulla porta maggiore di San Petronio, nella ribellione improvvisa del putto che sfugge dalle mani materne; il profilo falcato e cupo dell'altra figura eretta sul monumento Bentivoglio, la curva di rovere del collo e della testa cozzante, anticipano forme che ritroveremo nella Notte di Michelangelo; la voluta della persona, ricordo gotico, si risolve in opposizione di movimenti, in espressione d'energia. Anche più gigantesca ci appare l'arte di Iacopo nei bassorilievi, ove le forme, aderenti in parte al fondo con sottile sbalzo di medaglia, d'improvviso se ne sprigionano con tagliente rilievo. Michelangelo, scolaro di Bertoldo e fiorentino, sentirà nel grande Senese l'eco più vicina a sé dell'antico spirito etrusco, e la più ardita e potente energia nel campo della nuova scultura.
Gli ultimi residui di tradizione gotica nella scultura furono distrutti da Donatello (1386-1466), che per cinquant'anni impose all'Italia l'arte propria, come arte nazionale. Nelle sue prime opere, il S. Giovanni Evangelista del Duomo e il Davide in marmo del Museo nazionale di Firenze, sebbene non ancora completamente libero da reminiscenze gotiche, egli sa raggiungere grandiosità ed energia plastica. Nelle statue di figure vecchie, come lo Zuccone sul campanile del duomo di Firenze, trova la possibilità di mettere in mostra profonde conoscenze anatomiche, forti risalti d'ombre, muscoli poderosi. Compagno del Brunelleschi, vive con lui in Roma alla ricerca dell'architettura e della scultura classica; e tali ricerche lo avviano a squadrare le forme, a padroneggiare la linea retta e ad abbandonare la tradizionale convenzione gotica. A Roma, Donatello s'inebria dell'arte antica che dissemina a Firenze, a Padova, nelle opere proprie della chiesa del Santo e in quelle di tutti gli artisti che si accostarono a lui; fra gli altri, Andrea Mantegna. Nel bassorilievo, che, soprattutto in bronzo, trattò largamente, dal fonte battesimale in Siena all'altare del Santo in Padova e ai pulpiti di S. Lorenzo in Firenze, Donatello inventò la maniera pittorica, figurando fin dal primo piano le forme a stiacciato, e assottigliandole man mano che si allontanavano entro uno spazio generalmente indicato e limitato da costruzioni architettoniche. E, nel bassorilievo, raggiunse effetti quasi impressionistici di movimento, ad esempio nei putti danzanti della cantoria di Firenze o nel piccolo selvaggio suonatore di cembalo della chiesa del Santo a Padova. Movimento e costruzione di composizioni accentrate dalla prospettiva conducono Donatello a creare il dramma umano con una crudezza, una violenza, una grandiosità fino allora ignote alla scultura.
Le conquiste donatelliane trascinarono gl'immediati successori fiorentini, i quali compresero il dilemma: o esser donatelliani o morire.
La maggior parte di essi non ebbe l'animo ardito, la forza indomita di Donatello; furono semplici, gentili, delicati. Si giovarono in parte delle conquiste del maestro per esprimere il loro piccolo mondo; molti di essi ebbero abbastanza personalità per non diventar schiavi della sua figura prepotente.
Luca della Robbia (1400-1482), quasi contemporaneo di Donatello, fu il più delicato e dotato figurinaio toscano; parlò nella dolce lingua paesana; collocò le sue gentili e serie figure tra corone di fiori e festoni di melagrane e di gigli, sotto arcate di frutta che ridono nell'azzurro. Naturalista senza irrequietezze, di costituzione robusta e sana, di semplici costumi, d'indole buona e mite, non cercò sottigliezze, contento di modellar Madonne e ragazzi forti e belli. Nel 1441 introdusse per la prima volta nella scultura i colori per mezzo dell'invetriatura, che gli diede la massima rinomanza. Le Madonne del Museo nazionale di Firenze e di San Domenico di Urbino sono i maggiori esemplari di questa sua forma d'arte.
Altri contemporanei di Donatello, come Michelozzo Michelozzi, Pagno di Lapo Portigiani, Maso di Bartolomeo, non furono se non una pallida ombra del maestro; Antonio Averulino, detto il Filarete, un accademico oppositore di lui.
La generazione più giovane ebbe maggiori preferenze per la grazia che per l'energia del maestro; pure, da lui quasi sempre si partì. Simone, Isaia da Pisa, Andrea dell'Aquila, Urbano da Cortona, Niccolò Cocari, Giovanni da Pisa, Antonio di Chelino, Francesco di Valente, Pietro di Martino da Milano, Paolo da Ragusa, Domenico di Paris, Antonio Federighi, il Vecchietta, il Bellano, ebbero nella storia il compito di diffondere l'arte donatelliana per tutta l'Italia.
Un posto a parte invece, fra i seguaci di Donatello, va assegnato ad Agostino di Duccio e a Desiderio da Settignano.
Agostino di Duccio (1418-1481) ha legato il proprio nome alla decorazione del Tempio malatestiano di Rimini e della facciata di San Bernardino a Perugia. Creatore di forme a tenue ondato rilievo, facile e fantasioso ideatore di ricami lineari composti di curve su curve, veste di velo le sue figure, le piega come giunchi, le avvolge di sottili aggomitolate pieghe. Gli occhi si socchiudono, i lineamenti del volto si assottigliano sensitivamente, le trecce dei capelli s'aggirano come nastri, vibrano come lingue di fiamma sulle rotonde teste dei putti. S'aggirano i corpi, fluttuano le tuniche, si aprono le conche delle nicchie come raggiere; tutto ondeggia al vento, tutto si muove in cadenza, creando facili ritmi festosi.
Desiderio (1428-1464) appsre meno lontano da Donatello; come Donatello, anima di vibrazioni la materia plastica. Tutto ciò che nel maestro è rude, in Desiderio sparisce; rimane la portentosa padronanza del rilievo alto e basso e una rara facoltà di creare forme signorili, aggraziate, sensitive. Architettonicamente nobile, elegante, slanciato, come dimostra il monumento Marsuppini in S. Croce di Firenze, rivelatore della grazia dei fanciulli come nessun altro nel Quattrocento toscano, dà una squisita espressione d'intelligenza, di nobiltà, di sensibilità nervosa ai busti muliebri, agilmente sfaldati e ondulati nei piani plastici. L'acutezza nell'interpretare la vita del modello fa di lui uno dei più potenti idealizzatori del tipo muliebre fiorentino.
Tutta la generazione posteriore a Donatello sembra trovare in Desiderio da Settignano la sua più alta espressione di gentilezza spirituale e di virtuosa abilità nella trattazione del marmo. Luca della Robbia e, con lui, in minor grado, Bernardo Rossellíno (1409-1464) furono i precursori di questa nuova tendenza alla grazia, così come Donatello, con ben altro intento, fu il maestro che ne preparò l'abilità tecnica, la sapienza plastica.
Andrea della Robbia (1435-1528), erede di Luca, compone anconette con statue translucide su vitrei fondi azzurri, stringe in maggiore intimità la madre al fanciullo nei gruppi sacri, dà ai putti, che nei tondi del porticato degl'Innocenti aprono braccia imploranti, e altrove reggono festoni di frutta o ripetono graziosi motivi classici di lotte con animali, lineamenti gentili, grandi occhi attoniti, scarsa vita; la semplice grazia di Luca diviene in lui, e più nei seguaci, maniera. Antonio Rossellino (1427-1478), con le opere di S. Croce e di S. Miniato a Firenze e di Monteoliveto a Napoli, infonde nell'arte semplice e candida la sapienza donatelliana di suo fratello; Benedetto da Maiano (1442-1497), Matteo Civitali, e più tardi Silvestro dell'Aquila, traggono soprattutto da Antonio Rossellìno, ma anche da Donatello e da Desiderio, un'arte accurata, festosa, non grande; Mino da Fiesole (1430-1484) accentua la delicata lavorazione delle superficie di Desiderio, senza mai passare oltre la superficie, arrivando a ricami marmorei d'insuperabile finezza e cadendo spesso nella completa deficienza della costruzione dei corpi.
Tale arte ebbe la sua eco in Emilia per mezzo di Sperandio Mantovano e di Vincenzo Onofri, in Liguria e in Sicilia, per mezzo di Domenico Gagini, in Lombardia con Pietro da Milano e soprattutto con Giovanni Antonio Amedeo (1447 circa-1522), Pietro da Rho, Andrea Bregno e Luigi Capponi, a Roma con Paolo di Mariano e Gian Cristoforo Romano. In Lombardia, per opera di Caradosso di Foppa (1452-1526), essa trovò un'espressione taìe da farla apparire precorritrice del Cinquecento.
Ma fra tanti echi, più o meno lontani, della scultura toscana, la voce più alta e isolata è quella che risuona in Dalmazia, non nelle opere, pur nobili, di Giovanni da Traù, ma nelle altre, diffuse in Italia e in Francia, di Francesco Laurana da Zara, che trova un lontano precursore nel vecchio Gagini, più che in Donatello e nei suoi seguaci, e assume nella scultura un posto parallelo a quello di Piero della Francesca nella pittura; è, cioè, un sovrano compositore di regolari architetture plastiche, un oppositore della tendenza pittorica data da Donatello al bassorilievo, un costruttore di statue a tutto tondo, un plastico potentissimo, che dà sboccio pieno ai rilievi, invece di spianarli come Donatello. Francesco Laurana arresta nei suoi marmi la passione che travolge le figure donatelliane, le vibrazioni nervose dei ritratti muliebri di Desiderio, per dire soltanto il proprio amore alla forma plastica, costruita con perfetta regolarità geometrica. La superba irrealtà delle figure lauranesche, accentuata dall'aspetto sepolcrale dei lineamenti frigidi e muti e degli occhi nebulosi, è dovuta all'applicazione di un principio fondamentale: regolarità di volumi entro volumi regolari, equivalenza di vuoti e di pieni, esattezza di metro. Il particolare è allontanato o disciplinato: l'unità della massa risulta infrangibile. Le prodigiose maglie di seta, le stoffe rasate, fasciano i busti di zone in geometria, stringon le statue al loro piedistallo; non turbano la nudità delle forme geometriche.
Dall'arte fiorentina della generazione successiva a Donatello, arte quasi timorosa degli ardimenti del suo maestro, dell'ampiezza di spazio ch'egli aveva occupata, ricercatrice, con Desiderio da Settignano, di un insuperato ideale di grazia, non si distanziarono i senesi Francesco di Giorgio (1439-1502), Neroccio di Bartolomeo (1447-1500) e Giacomo Cozzarelli (1443-1515), l'ultimo dei quali modella con raffinata sensibilità le sue terrecotte policrome e porta in esse un amore tutto senese alla fluidità delle pieghe cadenti con dolci curve, alla delicatezza esangue dei volti oblunghi. Tipico esempio di questa scultura policroma senese, morbida e sensitiva nel modellato come scultura secentesca, e squisitamente pittorica, è il San Giovanni Evangelista, nel museo dell'Opera di Siena.
Tre artisti, in Firenze, seppero guardare a Donatello non per approfittarne col fine di più quieti ideali, ma per svilupparne le profonde energie vitali. Essi fumno Bertoldo (morto nel 1491), Antonio del Pollaiolo (1432-1498) e Andrea Verrocchio (1435-1488).
Tutti e tre i maestri determinarono l'arte loro nell'accentuare il movimento e il nervosismo delle forme di Donatello. Il Verrocchio trovò varietà di ritmi, ora scivolanti e leggieri, come nel genietto che gira il suo corpo di farfalla sulla pila di una fonte in Palazzo Vecchio, ora lenti e gravi come nelle Madonne di forme ampie e volto largo, senza più la muliebre grazia delle Madonne di Desiderio. Tra il Gattamelata di Donatello e il Colleoni del Verrocchio è già l'abisso: alla calma solenne, alla ricerca puramente costruttiva di Donatello, il Verrocchio sostituisce la rappresentazione drammatica del condottiero che si lancia al dominio, certo per influsso di Leonardo da Vinci, che stette nel suo studio dal 1470 al 1477.
Antonio del Pollaiolo e Bertoldo furono soltanto meravigliosi precursori degli slanci ideali del secolo seguente. Il primo spinge al parossismo la vita nervosa delle sculture donatelliane, esasperando il movimento dei contorni, febbrilmente sfaldando le teste ossute, i panneggi angolosi e spezzati, dando spasmodico rilievo ai tendini delle figure agili e scarne. Più fedele a Donatello, Bertoldo persegue anch'egli la ricerca del movimento, la foga drammatica, il tumulto delle folle.
Bertoldo fu maestro a Michelangelo; il Verrocchio a Leonardo. Le grazie di Desiderio da Settignano e dei suoi minori compagni non valsero, nella generazione che doveva creare il Cinquecento, se non per i minori maestri e per la provincia. Si chiedeva energia, movimento, violenza, e si trovarono pronti gli artisti maggiori per opera del Verrocchio, e specialmente di Bertoldo e del Pollaiolo.
Fuori di Toscana, la scultura del Quattrocento fiorì meno, ma non senza creare qualche capolavoro. A Bologna Nicolò da Bari, detto dell'Arca, portò le violenze tragiche dell'arte di Borgogna nella Pietà di S. Maria della Vita; e Guido Mazzoni modenese riprodusse più volte, a Modena, a Reggio, a Busseto, a Venezia, a Napoli, i suoi gruppi di figure sacre a tutto tondo, con un realismo insuperabile specie nei particolari, ma con fantasia e dignità quasi nulle.
In Lombardia, Matteo Raverti e Iacopino da Tradate; a Venezia, Bartolomeo Bon, continuano le tradizioni del gotico fiorito, tradizioni che trovarono appunto nel Veneto la massima espressione per opera del dalmata Giorgio da Sebenico e dell'albanese Andrea Alessi, come del veronese Antonio Rizzo. Mentre a Spalato la Flagellazione di Cristo nella cattedrale mostra Giorgio avvicinarsi per energia all'arte di Donatello, Antonio Rizzo si unisce, nonostante ricordi di movimenti gotici, alla corrente della grande arte di plastica metrica, rappresentata dal vecchio Gagini e da Francesco Laurana.
La violenza dell'effetto plastico e l'energica sfaccettatura dei lineamenti, unite alla costruzione architettonica della forma, sono il risultato dell'ultima eco di educazione gotica in un artista di genio volto alle nuove concezioni volumetriche dall'esempio d'Antonello da Messina in Venezia.
Al principio del '400 si celebra, in pittura, il trionfo del gotico fiorito, che è nello stesso tempo espressione del convento ed espressione della corte. Vi partecipano dunque due conventuali, Lorenzo Monaco e il Beato Angelico, come anche quello spirito degno della più pura conventualità ch'è il Sassetta. Ma fuori di Toscana brilla l'arte di corte, in Gentile da Fabriano, nel Pisanello, in Iacopo Bellini. La civiltà artistica d'Italia, che tra la fine del Duecento e la metà del Trecento aveva assunto il primato europeo come arte religiosa e come arte poetica, alla fine del Trecento era rientrata nei limiti di un gusto internazionale. E fu allora che una nuova religione sorse a Firenze, con tanto impeto da dilagare in tutta Europa: la religione della scienza. Brunelleschi, Donatello, Masaccio misero tale entusiasmo, nell'interpretazione scientifica, prospettica e anatomica della realtà, che spazzarono in breve volger di tempo i residui del gusto gotico. E poiché erano troppo artisti per proporsi uno scopo scientifico, chiamarono la loro scienza arte classica, e ricorsero all'architettura e alla scultura roma. ne per ritrovare i modi assoluti dell'interpretazione scientifica. Fu questa un'illusione: attraverso l'arte non si arriva alla scienza. Ma la loro illusione fu tanto generosa, l'impeto passionale così potente, che in essi trovarono non solo la giustificazione della loro arte, ma una raffinatezza così sottile, così elevata, così distaccata dalla vita pratica, come è raro di ritrovare in tutta la storia. L'ideale geometrico improntò di sé ogni forma; l'ideale anatomico, ogni movimento; e però gli artisti fiorentini credettero di aver raggiunto, attraverso una loro verità individuale, la verità universale.
Tra essi Paolo Uccello, ancor ligio alla tradizione gotica, fantasticò di guerrieri inverosimili e di bimbe imbellettate; Masaccio impresse in ogni immagine, in ogni atto, una volontà eroica di monumentdlità, onde il suo contenuto morale assurse ad altezze ignorate; Domenico Veneziano carezzò di luci albeggianti forme delicate; Piero della Francesca impersonò le tendenze di tutti, e mentre portò all'estremo la regolarità delle forme e la loro dipendenza dalla composizione prospettica, rimase più di tutti un primitivo nel portare l'ingenuità in ogni forma, colore e luce. Egli creò la grazia nuova, non classica e non medievale, e che può ben dirsi la grazia delle forme regolari. Andrea del Castagno trasse dalle plebee forme donatelliane improvvise energie di passione; Antonio del Pollaiolo raffinò, attraverso le accentuazioni lineari, e talora anche l'ardimento pittorico, le forme donatelliane per energia di movimento ed eleganza di pose. Un filone, che parte da Lorenzo Monaco e si rinnova per opera di Masaccio, s'impersona in Filippo Lippi, che cerca una grazia comune, borghese, senza nessuno degli ardimenti proprî ai suoi contemporanei, ma con pieno equilibrio fra mezzi ed effetti. Da lui e dal Pollaiolo parte Sandro Botticelli, padrone dì tutte le sottilità del suo tempo, capace di farsi monumentale sino a presentire Michelangelo, di paganeggiare con leggerezza spensierata, di contrirsi nei più appassionati tormenti morali, padrone dell'avvenire che rimpiange il passato, eroe della plastica che accarezza le linee sinuose, e trova il suo fascino sublime nella rinunzia a quello che ha appreso, nell'isolamento aristocratico dalla folla dei conquistatori di sapienza. Un ritrattista borghese di rara potenza realizzatrice, il Ghirlandaio; un continuatore della energia pollaiolesca, il Verrocchio; alcuni Senesi che oscillano tra il sogno antico e le conoscenze nuove, Matteo di Giovanni, Francesco di Giorgio, Neroccio; un creatore di energie impulsive, tali da divenire impressionistiche, il Signorelli; un trasformatore dello stile di Piero della Francesca in umanità monumentale, Melozzo; un cantore di grazie femminee, il Perugino, completano la produttività eccezionale dell'Italia centrale nello scorcio del Quattrocento.
Le nuove conquiste dell'arte fiorentina giungono a poco a poco nell'Italia settentrionale. Circa alla metà del secolo, Andrea Mantegna le ha assimilate e le diffonde, improntandovi una propria energia umanistica con entusiasmo di ricostruzione archeologica, un rigore d'incisione lineare, per cui giganteggia. E subito attorno a lui sorgono i tre grandi ferraresi, il Tura, il Cossa ed Ercole dei Roberti, che all'Umanesimo sostituiscono il tormento lineare e psicologico degli ultramontani. Giunge a Venezia Antonello da Messina, padrone sia delle forme regolari toscane, sia delle raffinate gradazioni del colore fiammingo, e tutti impronta della sua personalità. Gentile Bellini è un po' il Ghirlandaio di Venezia. Giovanni Bellini, uno dei più delicati poeti cristiani che la storia ricordi, assimila dal padre Iacopo, dal Mantegna, da Antonello, e tutto fonde in un raffinamento cromatico sempre piu sottile sino a preparare l'avvento del gusto veneziano del Cinquecento. Vittore Carpaccio sfarfalla attorno le pietre della sua Venezia con voli verso un avvenire impressionistico. In Lombardia è il Foppa, monumentale, e il Borgognone, ch'è un Senese perduto in Lombardia. A Bologna, un Perugino settentrionale: il Francia. Vicenza, Verona, Cremona, Brescia, Bergamo producono personalità sin dentro il Cinquecento, che guardano soprattutto a Venezia. Ogni città crea una sua scuola, a contatto con gl'ideali locali, e una fioritura unica nella storia dell'arte si espande in Italia.
Nel Quattrocento si conservarono le tradizioni gotiche nell'arte dell'oreficeria, ma il Rìnascimento si affermò per virtù di orafi scultori, come il Ghiberti nelle porte del "bel San Giovanni", il Verrocchio e Antonio del Pollaiolo nel dossale del Battistero fiorentino, e vi concorsero anche Iacopo della Quercia e Donatello nei rilievi del fonte battesimale di Siena. Prese sviluppo l'arte del niello con l'orafo Maso Finiguerra a Firenze e col pittore Francesco Francia a Bologna.
Ebbero celebrità nell'arte del legno i Da Baiso, eredi di quel Tommaso che lavorò d'intaglio il coro di San Domenico a Ferrara: essi operarono a Modena, Bologna, Venezia, e nello studio di Lionello d'Este in Ferrara, ov'ebbero a collaboratori Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, principi della tarsia del Rinascimento.
Si diffusero le cassettine perugine a pastiglia, e in stucco si stamparono e si divulgarono dappertutto le opere degli scultori fiorentini.
Anche nella sfragistica il Quattrocento serbò a lungo le tradizioni gotiche, perfino nel suggello ben noto del parmense G. B. Enzoli per il vescovo Roverella. Principe della medaglia fu il Pisanello, insuperato nell'arte d'ogni tempo. Con metodi diversi si applicarono alla medaglia iconica scultori di genio, qualì Francesco Laurana e Antonio del Pollaiolo Alla moneta diedero perfezione il Francia e il Caradosso.
Entrarono nella casa piccoli bronzi - soprammobili, opera di grandi maestri come il Fauno tibicino di Antonio del Pollaiolo, e, fra bottega e bottega, le placchette, piccoli bassorilievi in bronzo di varia foggia e di vario uso, che spesso rappresentano il fior fiore dell'arte dell'oreficeria, servirono a scambiar saggi di produzione in nobile metallo, o anche in cristallo e in pietre preziose.
La ceramica ebbe la massima fioritura nelle fabbriche di Firenze, Cafaggiolo, Deruta, Urbino, dalla quale ultima uscirono i piatti disegnati da Timoteo della Vite.
La glittica ebbe pure, come tutte le arti, il suo sviluppo, specie con Giovanni dalle Corniole e Valerio Vicentino; la vetraria trovò, con la fabbrica dei Beroviero, nuovo splendore a Venezia, regina anche, nel Quattrocento, delle arti tessili, con la magnificenza dei suoi velluti controtagliati, dei broccati e dei damaschi. Il ricamo ebbe gloria da disegni di grandi maestri (Firenze, Opera del Duomo: Antonio del Pollaiolo; Milano, Museo Poldi Pezzoli: Sandro Botticelli; Orvieto, Museo: Luca Signorelli). Nell'arte del cuoio furon celebrati i maestri modenesi: Giovanni Buonomi e i suoi figli Bartolomeo e Francesco.
La miniatura trovò nei primi decennî della seconda metà del '400 l'ultimo splendore con Guglielmo Giraldi, di forza cosmesca, a Ferrara, mentre Francesco Antonio del Chierico miniò con altri la Bibbia di Federico da Montefeltro nella Biblioteca Vaticana e i Trionfi del Petrarca in quella di Madrid.
La xilografia e l'incisione in rame fermarono la mano ai miniatori, e i tarocchi detti del Mantegna, ma di maestro ferrarese, le illustrazioni per la Divina Commedia di Sandro Botticelli, la serie dei Profeti, delle Sibille, dei Sette Pianeti, le stampe "Otto", quelle di Andrea Mantegna, diedero sin da principio esemplari di rara bellezza.
Il fiorente Rinascimento. - Il maggior precursore del Cinquecento in fatto di architettura, fu Donato Bramante (1444-1514). Le sue costruzioni sono certamente men pure, meno aristocratiche, meno classiche di quelle del Brunelleschi e di Luciano Laurana; in esse si riflette un temperamento mutevole che oscilla dalla tendenza verso le lisce, distese superficie lucianesche all'amore dei grandiosi aggetti e delle potenti ombre romane; i motivi liberamente creati sovrabbondano; agli elementi prettamente classici si accompagnano elementi di origine medievale; il classicismo ritorna a dominare l'effetto d'insieme soltanto per il carattere di monumentalità che l'arte di Bramante ha in comune con l'arte romana antica. Ed è per questa monumentalità che egli può considerarsi l'autore dell'architettura del Cinquecento.
Donato Bramante porta a logica conseguenza lo stile dell'ultimo Quattrocento, appena accentuandone la solidità. I corpi regolari, le forme geometriche sono coordinati nell'insieme, quasi fossero sopra un'ideale superficie.
La coordinazione architettonica in ritmo statico è cercata anche da Raffaello, nonostante la sua personalità; Giulio Romano vi aggiunge un'imitazione intelligente e fredda del classico; Baldassarre Peruzzi si fa, come Antonio da San Gallo il Vecchio, bramantesco. Per tutt'Italia si hanno maestri nel gusto di Bramante: il Fanella, il Rossetti, lo Zaccagni, Andrea da Formigine, Antonio Lombardi.
Mentre Bramante iniziava il nuovo San Pietro, venne meno. E della gran fabbrica iniziata così giudicò Michelangelo: "E' non si può negare che Bramante non fussi valente nell'architettura, quanto ogni altro che sia stato dagli antichi in qua. Lui pose la prima pietra di San Pietro non piena di confusione, ma chiara e schíetta, e luminosa, ed isolata attorno, in modo che non noceva a cosa alcuna del palazzo; e fu tenuta cosa bella, come ancora è manifesto; in modo che chiunque si è discostato da detto ordine di Bramante, come ha fatto il Sangallo, si è discostato dalla verità". Con l'idea del nuovo San Pietro, Bramante seppe dare all'Italia quella prima pietra "chiara, schietta e luminosa" che purificò l'architettura dall'ornato, l'immerse nella costruzione, e la costruzione, liberata dalle contingenze della pratica, trasformò in pura creazione di logica fantasia.
L'unità architettonica in ritmo monumentale fu opera di Michelangelo, che porta movimento là dove è la statica della coordinazione bramantesca, e trasforma la coordinazione medesima in una più stretta unità, anzi nella subordinazione all'unità, per cui gli elementi architettonici divengon più grossi e grezzi per presentarsi come massa anziché come linea.
La più antica grande espressione dell'arte michelangiolesca nel campo dell'architettura è la sagrestia nuova di San Lorenzo a Firenze. Accanto, nella chiesa stessa, la sagrestia di Filippo Brunelleschi: trama lineare di giunchi sottili e pieghevoli sopra le muraglie quadrate, esilità gotica ancora, leggerezza e slancio di profili. Anche l'ampia sala di Michelangelo è divisa a riquadri e lunette, listata di grigio e di bianco, severamente; ma, per gli scavi profondi e molteplici delle pareti, la sottile trama delle incorniciature brunelleschiane si muta in giuoco di masse definite e robuste, avanzanti e retrocedentì a vicenda. E cioè, come la pittura, l'architettura di Michelangelo è sempre espressione di arte scultoria: studio costante di Michelangelo è il rilievo individuato e nitido di masse erompenti da un fondo piano, autrici di ombre. L'elasticità delle modanature brunelleschiane rivive nello sbalzo delle cornici verso l'alto, ma domata dal freno di forze opposte, gravanti al basso; allo slancio delle finestre, accentuato dall'ampia greca della cornice superiore, la centina oppone la sua pressione schiacciante di giogo, il tralcio di alloro la funebre caduta dei capi penduli. La maestà dell'architettura non ha forse pari nel Cinquecento: rettilineo schema di regoli emergenti con nettezza prismatica dai grandi specchi nudi; gravità di archi schiacciati, sopra le alte finestre, dall'angustia di spazio che li piega e li frange di colpo sugli espansi abachi dei capitelli; severa elettissima sobrietà decorativa, che prepara motivi ornamentali all'arte del Cinquecento. Attraverso le vicende di slanci e di cadute rigide, sorge un'impressione complessiva di gravità, di peso calato a piombo, di lutto, come attraverso le vicende di colori - grigio intenso sul gelido candore del fondo - e delle ombre taglienti con la luce cruda.
Lo stesso spirito doveva informare la mole del monumento a papa Giulio, secondo il disegno che di esso ci è rimasto. Le sagome architettoniche e le statue del secondo piano seguono in esso un crescendo di slancio, di distacco da terra, nella loro ascesa; alla quale si oppone, con improvviso schiacciante contrasto di giogo, il grande arco della cimasa. E anche nell'infelice stato attuale del monumento, che fu certamente il più grande sogno della mente audace di Michelangelo, la vita scultoria delle sue architetture trova eco, soprattutto nelle prodigiose mensole: gomene marmoree tirate a forza tra cigolanti argani.
L'opera che gloriosamente chiude la vita del Fiorentino è la cupola di San Pietro, il coronamento della nuova Roma. La cupola, elevata nel cielo dell'Urbe, sulla chiesa madre del mondo cristiano, tiene, della cupola di Santa Maria del Fiore, l'ascesa trionfale; ma quest'effetto nasce dalla composizione, a distanza, dei poderosi contrasti fra masse avanzanti e retrocedenti, fra piani in luce violenta e ombre profonde, delle vicende di slanci e di freni. La sua mole, che, di lontano, trova riposo nella maestà delle ampie curve ascendenti, è il sogno della fantasia di Michelangelo verso la grandezza, divenuto realtà.
Seguirono il Buonarroti Antonio da San Gallo il Giovane, che passò gradualmente dal gusto bramantesco al michelangiolesco; il Vasari, l'Ammannati e il Buontalenti, che andarono verso il pittorico a Palazzo Pitti e nel Casino mediceo; il Vignola che talvolta, trattenuto il suo michelangiolismo, segui materialmente Bramante, tale altra giunse al pittorico puro, come nel Palazzo Bocchi a Bologna e nella scala del palazzo di Caprarola. Seguirono anche Giacomo della Porta, che tradusse l'architettura michelangiolesca in accademia; Domenico Fontana e Martino Longhi che peggiorarono la traduzione. E vennero Dosio, Boccalino, Seregni, Bassi, Domenico e Pellegrino Tibaldi. Questi, architetto di San Carlo Borromeo, a Milano, nel duomo, in San Fedele, in San Sebastiano, a Rho nel grande santuario, a Pavia, a Novara, a Vercelli, a Gravedona sul lago di Como, fondò il nuovo stile di Lombardia, mirando all'accordo tra la visione cristallina dei volumi, sentiti in tutta la pienezza cinquecentesca, e gli effetti turbinanti del Barocco.
Come nel manierismo dei pittori, nella seconda metà del '500, si generò confusione tra costruzione e ornato, e si ebbe il falso pittorico nell'architettura, esempio la casa fiorentina di Federico Zuccheri, il casino di Pio IV per Pirro Ligorio, il palazzo Spada in Roma per Girolamo da Carpi e Giulio Mazzoni, la casa degli Omenoni a Milano di Leone Leoni, Santa Maria di Carignano a Genova di Galeazzo Alessi, ecc.
Ma contro il mal vezzo architettonico, ecco Iacopo Sansovino, interprete dello stile di Tiziano nell'architettura, fondare in essa a Venezia il vero pittorico, derivante dal giuoco delle luci e delle ombre, realizzato negli elementi costruttivi stessi. Non più un solo piano dove s'aprono finestre: tutta la costruzione è un ritmo di pieni e di vuoti che si completano a vicenda.
Dal Sansovino derivano Alessandro Vittoria, che riduce ad accademia lo stile del maestro; il Palladio che lo porta alle estreme conseguenze; il Sanmicheli, il neoclassico dello stile sansoviniano; lo Scamozzi più fedele a Iacopo, ma sempre accademico. Tuttavia per Iacopo Sansovino la romanità dà il suo aspetto alla città della laguna e alla terraferma, a Vicenza per il Palladio, a Verona per il Sanmicheli.
La disinvolta e personale distribuzione di pieni e di vuoti, la libera commistione di statue, di nicchie, di cartelli, di mensole, portano al sopravvento degli effetti di chiaroscuro sulla nitida, semplice, regolare costruzione dell'insieme. E per questa via sorge l'architettura barocca.
La scultura italiana del Cinquecento s'inizia dallo spirito novatore di Leonardo, per cui la forma assume valore pittorico, sfiorata, nelle ondulazioni incessanti e morbide di piani, da ombre lievi. Il sommo maestro si adoprò, come egli dice "non meno in iscultura che in pittura" e "per l'una e l'altra in un medesimo grado", ma presto sentenziò quella a questa inferiore. Poche le tracce dell'arte scultoria di Leonardo: impressioni di essa si trovano in Gian Francesco Rustici, e qualche riflesso della sua maniera pittorica in Pierino da Vinci. Il Rustici stette a fronte, nel Battistero fiorentino, ad Andrea Contucci da Monte San Savino, detto Andrea Sansovino, che rappresenta la tradizione quattrocentesca nell'Italia centrale. Egli ebbe tra i suoi seguaci e contemporanei Leonardo del Tasso, Lorenzetto, Baccio da Montelupo, Andrea Ferrucci da Fiesole, Benedetto da Rovezzano, Giovanni della Robbia. A Loreto, nei lavori per la Santa Casa iniziata da Cristoforo Romano, ebbe ad aiuti, collaborhtori e continuatori Raffaello da Montelupo, Francesco da Sangallo, Domenico Aimo da Varignana, detto il Bologna, il Tribolo e Girolamo Lombardi. La tradizione quattrocentesca nell'Italia settentrionale fu rappresentatata principalmente dal Bambaia e dai Solari; nell'Italia meridionale da Giovanni da Nola e Girolamo da Santacroce; nell'Emilia dai plasticatori provinciali, Alfonso Lombardi e il Begarelli.
Ma col grandeggiare di Michelangelo si rifugiò nella sua grande ombra tutta la scultura, dominata e oppressa dal suo genio, che è genio di scultore, quando dipinge come quando architetta. Gli affreschi della vòlta Sistina trovano parallelo nelle statue della cappella Medicea, dove i contrasti esaltano la dolorosa vita delle forme. Accanto alla schiavitù fremente della Notte si leva il grido della riscossa col terribile risveglio del Giorno, gigante che svincola di un colpo, con formidabile impeto, le membra intorpidite da brevità di spazio. Di fronte a Giuliano, Lorenzo duca d'Urbino, statua del silenzio e della meditazione, compendia nell'amarezza senza speranza dello sguardo annuvolato i tragici dolori, le lotte vane espresse dalle statue che popolano la sua tomba. È disperazione e sfida nei biechi occhi, nel tetro profilo a lama del Crepuscolo; è spasimo d'agonia nell'Aurora, che, invece di schiudere le porte d'Oriente, apre i battenti del giorno a lotte senza speranza. Nei gruppi di Pietà che chiudono il ciclo delle opere scultorie di Michelangelo, l'azione segue un crescendo impressionante di violenza. La lenta funebre trazione del corpo di Cristo verso terra, nella Pietà Rondanini; il giro faticoso delle sue gigantesche membra nell'abbozzo di Palestrina, si mutano, nel gruppo di Santa Maria del Fiore, in abbandono funebre di forme ruinanti e spezzate, in caduta ineluttabile di tronco sradicato dal suolo. Alla figura indietreggiante della Maddalena, in perfetta funzione di balaustra, oppone il suo scroscio di valanga il corpo di Cristo che trascina col peso l'intero gruppo principale; e dal contrasto tra i movimenti delle masse scultorie scaturisce con potenza impressionante il dramma.
Tutti gli scultori italiani passarono dal sansovinismo al michelangiolismo, tra essi Iacopo Sansovino, architetto principe di Venezia cinquecentesca, maestro di ritmi, classico nell'espressione di calma e fiorita beltà, che nella creta e nella cera rivaleggia con i grandi maestri del pennello veneziano, per il rapido tocco e la vivezza fantastica della decorazione. Come per Michelangelo, sebbene in forma diversa, la virtù di architetto divien saldo elemento di grandezza al genio dello scultore, che trae la decorazione dal vivo delle sue classiche costruzioni, da essa fiorite, animate.
Una schiera di michelangiolisti dell'Italia centrale e meridionale, Tribolo, Bandinelli, Montorsoli, Ammannati, Dall'Opera, Benvenuto Cellini, Vincenzo Danti, il Caccavello e il Naccherino, trovano corrispondenze con i michelangiolisti in Lombardia e nell'Emilia, Prospero Clemente, i due Leoni, i Della Porta, mentre fanno capo a Iacopo Sansovino i michelangiolisti veneti: Alessandro Vittoria, Girolamo Campagna, Danese Cattaneo, Tiziano Aspetti e i più tardi Lombardo.
Sopravviene il Giambologna, che nel marmo riduce a pura accademia le forme michelangiolesche, mentre nel bronzo trova forme avveniristiche e realismo pittorico. Fu allora che dal manierismo di Landini, Tacca, Mochi, Francavilla, spuntò lo stile pittorico. A rompere la freddezza degli scultori ispirati ai classici ideali, o anche imitatori di forme trapassate, si ascoltarono allora le sensazioni di cui l'umanità si arricchisce per opera del colore e della luce. Arrivò il Barocco a salvar l'arte, a cercar nelle sottigliezze, nelle bizzarrie, persino nei sentimentalismi, nuova ragione di vita.
Nella pittura, Firenze, per opera di Leonardo da Vinci, prendeva slancio nuovo alla conquista di una nuova sintesi. La prospettiva lineare non bastava più, e vi si aggiungeva l'aerea. La figura umana non bastava più, e ogni cosa della natura diveniva oggetto d'arte. La forma doveva piegarsi agli effetti della luce, e i particolari con più rigore di prima subordinarsi all'insieme. Quasi timido di fronte a tutte le conquiste del suo intelletto, Leonardo si rifugiava nelle penombre del crepuscolo per sentire nella delicatezza di una sfumatura di bianco e di nero la poesia della vita. Meno raffinato, meno intellettuale, con una passionalità gigantesca, Michelangelo portò alle estreme conseguenze la plastica delle immagini umane, e in quelle impresse tanto tormento, tanto dolore, da farne il simbolo della tragedia politica e civile che si andava abbattendo su tutta l'Italia. Egli fu il cantore epico di un popolo di giganti, di cui credeva giunta la rovina.
Tra costoro giunse Raffaello da Urbino, a parlare con voce sottile di delicatezze peruginesche, e subito assimilò dai Fiorentini le loro migliori conquiste. Se ne valse per rivelare una sua grazia sublime, dono di Dio, e distribuirla in quella vita sociale di umanesimo aulico, di cui la cronaca si legge nel Cortegiano del Castiglione. La razza italiana ricevette da Raffaello alcune delle sue più raffinate sublimazioni, e però egli è passato nei secoli come simbolo d'italianità.
Vicino a lui, Antonio da Correggio, ricollegatosi all'arte ferrarese e a quella di Leonardo, immaginò grazie ariostesche per ogni occasione, con quella facilità che ormai permetteva un'organizzazione perfetta di mezzi pittorici.
La conoscenza completa delle scoperte fiorentine e fiamminghe del Quattrocento, la nuova sintesi di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, l'ideale della monumentalità che la Roma antica ormai svelata insinuava, la beata facilità con cui tutto ciò era assimilato e moltiplicato, diede l'impressione che si fosse raggiunta la perfezione, cui si poteva aggiungere il capriccio individuale, a guisa di condimento.
Era naturale che perciò il gusto rapidamente si corrompesse e che la pretesa perfezione risultasse in uno schema intellettuale ostacolante la fantasia.
Venezia faceva eccezione. A lei guardavano i politici come al rifugio della libertà italiana; a lei guardò la pittura per iniziare il gusto moderno in Europa.
A Venezia, ai primi del Cinquecento, si sviluppò di fatto un nuovo modo di vedere il mondo. Lo scopo è di esaltare la donna. Ma l'esaltamento si estende dalla donna al paesaggio, ai tramonti e alle tempeste, e però si eleva: da sensuale diviene cosmico. Non interessa la ricerca scientifica come a Firenze; quel che importa è il godimento della natura.
Il creatore primo di questa visione fu Giorgione: e il suo sogno amoroso è uno dei più ammaliatori fra quanti la storia dell'arte ricorda. Con poche opere egli riuscì a liberare il gusto veneziano dal pregiudizio della forma fiorentina e a trarre una nuova forma dei rapporti tra il colore e la luce ed ombra. Nello stesso tempo liberò la pittura dai soggetti provenienti dall'esterno; dipinse "fantasie pittoriche", conquistando primo all'arte moderna il diritto d'identificare la propria impressione visiva e il tema trattato.
Tiziano partì da Giorgione e, attraverso la sua lunga vita, giunse a creare con una libertà di tocco, con una vivacità d'improvvisazione, che sarà raramente eguagliata poi, superata mai. Sostituì al sogno di Giorgione l'ideale della dignità, della magnificenza, del decoro religioso e civile della vita imperiale, qual era sentita allora in Italia, anche per influsso spagnolo. Oltre alcuni suoi contemporanei, Lotto e Palma e Bonifazio, svilupparono l'arte veneziana i due grandi che chiudono il periodo eroico dell'arte veneziana: il Tintoretto e Paolo Veronese: il primo che riesce a piegare alle esigenze del tono, non solo la forma, ma anche la drammaticità di Michelangelo; il secondo che amplia il campo della visione tonale, con una sensibilità tanto più estesa quanto più indifferente alla vita drammatica. Tra i due grandi, Iacopo da Ponte detto Iacopo Bassano, porta, sin dal suo esordio, nell'arte un senso di naturalismo grave e profondo, che par scaturire dalla vita stessa dei campi, tra le immagini rusticane.
Ai confini veneto-lombardi, dove fiorì l'arte giorgionesca del Romanino, il Savoldo, il Moretto, il Moroni accrebbero per l'indiretto influsso veneto il vigore del ceppo lombardo.
Mentre si svolgeva per opera dei genî il fiorente Rinascimento, sorgevano gli eclettici, capitanati da Sebastiano del Piombo, che mise in accordo la tradizione veneziana con la fiorentina. Meraviglioso assimilatore di forme altrui, sotto l'ispirazione di Giorgione o di Tiziano, di Raffaello o di Michelangelo, dà alle sue forme un'impronta comune di solenne fissità costruttiva, uno stesso suggello di stile largo e fermo. Quando Sebastiano lavorava a Roma, a Firenze la pittura era in crisi. Il turbamento particolare d'una civiltà nel declivio è rappresentato dal Pontormo, che porta, nei suoi tentativi di piegare ad espressioni nuove la linea e il colore, l'audacia e lo slancio del genio. Contemporaneamente, l'arte del Cinquecento, giunta per mezzo del Sodoma a Siena in ritardo, trova nel Beccafumi, che passa dal Sodoma a Fra Bartolomeo, a Raffaello, a Michelangelo, un maestro singolare per sensibilità pittorica espressa da luci policrome, da tinte cangianti, da liquide forme.
Con lui sembra spegnersi, tra fuochi bengalici e nebbie colorate, la schietta tradizione dell'arte senese.
A Roma la tradizione di Raffaello continuò per tutto il Cinquecento, ma caddero nel vuoto, nell'accademia, quanti cercarono foggiarsi una maniera sugli esempî di un'arte tutta pervasa dall'Umanesimo, tutta fuor della vita.
Ben altri artisti seguirono la tradizione di Michelangelo: Angiolo Bronzino, Francesco Salviati, Iacopino del Conte, Daniele da Volterra, Pellegrino Tibaldi, che inaugura, a Bologna, nelle Marche, in Lombardia e all'Escoriale, il regno dell'illusionismo pittorico, per mezzo dello scorcio, delle proiezioni d'ombra, della prospetiiva architettonica.
Vicina al Tibaldi in Bologna e nell'Emilia, continuò la tradizione del Correggio, del Parmigianino e del Dosso, principalmente per mezzo di Nicolò dell'Abate e di Lelio Orsi da Novellara, dei bolognesi Bartolomeo Cesi, Bartolomeo Passerotti, Pietro Faccini.
La tradizione del Correggio si unisce a quella del Boccaccino e del Pordenone nei maestri Campi e Gatti, cremonesi, mentre la tradizione lombarda di Leonardo, Gaudenzio, Luini, trova echi nel Lomazzo, in Ambrogio Figino, in Aurelio Luini, nel Meda, nel Moncalvo, ecc.
Molti altri maestri seguirono la tradizione dei tardi epigoni della scuola veneta, principalmente il ben dotato ma troppo fecondo Iacopo Palma il Giovane.
Verso la fine del Cinquecento si accentua la tendenza all'eclettismo con Luca Cambiaso e Aurelio Lomi, con Santi di Tito e il Passignano, con il Boscoli e l'Empoli, ecc. Ma fra tante diverse ricerche, ecco l'iridescente Baroccio far brillare al sole le facce dei suoi prismi, i Carracci fondare l'Accademia sulle basi di un eclettismo fatto sistema; sorgere in fine, lume dei nuovi tempi, Michelangelo da Caravaggio. La pittura europea, che lungo il Cinquecento si era spesso perduta in una sterile imitazione di Michelangelo e di Raffaello, trovò nell'arte italiana, soprattutto nel Caravaggio, la leva per svilupparsi, e guardò a lui che portò la visione della luce alle conseguenze estreme; le sacrificò il colore; solidificò il volume dei corpi plasmandoli di luce e d'ombra. Michelangelo da Caravaggio insegnò agli artisti migliori, non solo di Venezia, di Genova e di Napoli, ma anche di Spagna, delle Fiandre, d'Olanda. Tuttavia la gran massa dei pittori italiani del Seicento guardò più che a lui ai Carracci, e cioè sostituì a una passione pittorica, che tutto in sé assorbiva, cognizioni accademiche di forme e una erudizione archeologica o allegorica. Appunto perché l'interesse italiano era portato, più che sull'arte, sulla scienza e sulla filosofia, onde produceva Galileo e Vico, e anche perché tutta la vita italiana si fletteva sotto la dominazione straniera, dopo il Caravaggio per tutto il Seicento non si ebbero artisti di prima grandezza. I Carracci significarono decorazione monumentale italiana; il Caravaggio realismo spagnolo, fiammingo, olandese.
Nel Cinquecento ebbero grido il Caradosso e Benvenuto Cellini, principe degli orafi; il Lautizio per i sigilli; Giovanni Bernardi da Castelbolognese per l'intaglio in cristallo e gemme; Gian Cristoforo Romano, il Cellini, Francesco da San Gallo, il Pastorino, Leone Leoni, per le medaglie onorarie. Altri scultori espressero le loro doti nei piccoli bronzi ornamentali, più che nella statuaria, così il Briosco e lo stesso Giambologna, di cui si hanno anche esempî di placchette, assai meno numerose nel Cinquecento. Tra i nomi che si ricordano per l'arte delle placchette, citiamo il Moderno, che viene considerato come specialista in quel campo, e altri nomi di scultori e medaglisti, come Iacopo Sansovino, il Cellini e Leone Leoni.
L'incisione servì meglio della placchetta alla diffusione delle scoperte di statue antiche, delle immagini dell'arte nuova: Marcantonio Raimondi si attenne con scrupolosa fedeltà al modello, dedicando soprattutto la sua opera alle composizioni raffaellesche, mentre Giulio Campagnola a Padova, il Parmigianino a Parma, con i loro affini e seguaci, diedero alla stampa valore pittorico.
Nella maiolica continuarono le scuole già indicate per il Quattrocento, ma Giorgio Andreoli da Gubbio ottenne arabe iridescenze, e Urbino e Pesaro, con le composizioni di Orazio Fontana e di Francesco Xanto Avelli, riflessero nelle ceramiche pitture di grandi maestri. Nella vetraria s'interrompe verso la seconda metà del '500, per amor di ricchezza, la nobile tradizione di semplicità decorativa del primo Rinascimento, e tuttavia in quel secolo l'arte muranese raggiunge la sua maggior gloria diffondendosi per l'Europa. Nelle arti tessili, Venezia, Genova, Lucca, Firenze tengono il campo e acquistano fama mondiale. Col progredire del '500 si nota che alle stilizzazioni dell'arte tessile del primo Rinascimento succedono motivi suggeriti dallo spirito classico.
Nell'intaglio in legno, si annoverano grandi maestri, come Antonio e Giovanni Barili da Siena, Battista del Tasso intagliatore fiorentino, Stefano da Bergamo, che con aiuti intagliò il famoso coro di San Pietro a Perugia, fra Giovanni da Verona, che fece l'altro di Monteoliveto Maggiore, fra Damiano bergamasco, che adornò quello di San Domenico nella sua città.
Negli stucchi, ebbero gran valentia Luzio Romano e Daniele da Volterra. Nel Sacro Monte di Varallo, Gaudenzio Ferrari indirizzò D'Errico, Morazzone, Francesco Silva, Dionigi Bussola a mettere all'unisono con le decorazioni variopinte del fondo le loro statue colorate. Ma un grande maestro, il Bombarda, nel Palazzo Ducale di Venezia, e più nel duomo di Cremona, arrivò alle pittoriche libertà del barocco.
Dopo la Rinascita. - Durante il Seicento Roma vide, col Barocco, sorgere un'arte antiromana, anticlassica, che segna il trionfo del colore nella scultura, nella pittura, nell'architettura. Invano si oppongono alla corrente trascinatrice il Sacchi, freddo tranquillo compositore; il Poussin, trasparente coloritore di soleggiate scene classiche, purista della composizione; la scuola bolognese, ondeggiante tra il molle sensualismo dei nuovi tempi e il larvato classicismo dei Carracci: il colore prepara, con i suoi flutti smaglianti, l'avvento di una nuova era. La Chiesa ha vinto il pericolo che l'insidiava: la Riforma; l'ombra di Lutero si ritrae da Roma, e la gioia del trionfo si celebra nella pompa della vita, dei costumi, dell'arte.
Anima del secolo è Gian Lorenzo Bernini, l'improvvisatore magnifico e instancabile, il prodigo signore del Seicento, che ammantò di ori, di preziosi marmi, di volanti drappi, la nuova Roma. Da quando, giovinetto, egli scolpisce, o meglio potrebbe dirsi, colora l'impressionistica testa del suo David, a quando, già quasi vecchio idea il tumulto statuario della fontana Panfilia, esprime nel marmo la tendenza pittorica del proprio secolo. L'effetto è ottenuto, nella chiesa di Sant'Andrea al Quirinale, mediante gli ornati a stucco, la ricca policromia dei marmi, le scintille degli ori alla luce del sole che entra vittorioso dalle finestre aperte nella vòlta. Lorenzo Bernini, che conobbe tutte le audacie delle scenografie secentesche, degli atteggiamenti turbinanti, seppe però talvolta trattenersi, approfondire, concentrarsi. Così nel monumento di Urbano VIII non si allontanò dalla linea piramidale; e, nel colonnato di San Pietro, l'uomo delle colonne tortili, dei capricciosi capitelli, prescelse la colonna dorica, la più severa fra quante l'arte abbia creato, appunto perché la semplicità nell'immenso lavoro significava grandiosità.
Osserviamo come soltanto nell'Asia il numero degl'Italiani sia diminuito, ma si tratta di contingenti piccolissimi (0,22% nel 1911; 0,10% nel 1927); in tutti gli altri continenti si avverte aumento, con il massimo percentuale in Oceania (+ 274%). Trattandosi di cifre assolute molto modeste (0,13% e o,30% del totale) tale aumento non ha soverchia importanza, mentre ne ha una enorme l'aumento verificatosi in America. Il contingente italiano sale da 4,7 milioni a 7,67.
L'America tiene dunque il primo posto assoluto e relativo con l'83,71% d'Italiani, ma in seno al continente nuovo le differenze sono profonde: in tutta l'America Centrale vivevano nel 1927 soltanto 6453 Italiani; 3.914.416 vivevano nell'America Settentrionale; 3.753.714 nell'America Meridionale. Eccellono gli Stati Uniti, il Brasile, l'Argentina, che da soli assorbono il 95% del totale degl'Italiani in America e il 79% di tutti gl'Italiani sparsi per il mondo. È appunto in questi stati che si verifica nel periodo 1911-1927 il maggiore aumento assoluto: negli Stati Uniti da 2.114.715 a 3.706.116; in Brasile da 1.500.000 a 1.839.579; in Argentina da 929.863 a 1.797.000. Si ha quindi un aumento assoluto complessivo pari a 2.798.117 individui di fronte a 2.975.790 per tutta l'America e a 3.363.241 per l'intera terra. È interessante notare come, tranne il Paraguay e la Costa Rica, tutti gli altri stati americani presentino un notevole aumento d'immigrati italiani rispetto al 1911.
L'aumento dell'Europa rappresenta poco più del 10% dell'aumento complessivo. Siamo di fronte a differenze profonde fra stato e stato. La grande diminuzione degli Italiani in Germania, Austria Ungheria è dovuta al fatto che le cifre del 1927 si riferiscono ai territorî attuali, notevolmente ridotti in seguito alla guerra. La grave diminuzione verificatasi per la Svizzera (da 202.809 a 135.942) è stata anch'essa causata da un largo rimpatrio di nostri connazionali durante il periodo della guerra, da un notevole spostamento di emigrati dal territorio svizzero, a causa della crisi di disoccupazione, verso la Francia e il Lussemburgo, attratti dalle migliori condizioni di lavoro, dal carattere stesso essenzialmente temporaneo della nostra emigrazione nella repubblica.
Ma accanto a queste notevoli diminuzioni sta l'aumento fortissimo verificatosi in Francia, ove gl'Italiani salgono da 419.234 a 962.593 individui, con un valore assoluto di + 543.359 persone! Anche in Africa si avverte un certo aumento causato interamente dalla maggiore immigrazione negli stati mediterranei (Tunisia, Egitto, Algeria); in notevole diminuzione invece il quantitativo nell'Unione Sudafricana.
La colonia italiana negli Stati Uniti è oggi la più potente: essa contava verso la metà del 1927, 3.706.116 individui, di cui 1.727.644 nati in Italia e 1.978.472 nati negli Stati Uniti; di essi 2,2 milioni erano maschi e 1,5 milioni femmine.
La distribuzione geografica degl'Italiani è quanto mai significativa. Le grandi divisioni geografiche presentavano i seguenti valori:
Osserviamo il netto prevalere degli stati del centro e nord Atlantico e di quelli a sud dei Grandi Laghi. Gli stati che presentavano il maggior numero di nostri connazionali erano: New York con 1.210.000, Pennsylvania con 550.592; New Jersey con 435.000; Massachusetts con 260.500; Illinois con 195.804; Connecticut con 178.000; California con 167.760; Ohio con 119.501. Sono proprio gli stati tipicamente industriali, a eccezione della California, nei quali i nostri fratelli vivono accentrati nei grandi agglomerati urbani, dedicandosi ai traffici, alle industrie. Così a New York vivono 860.000 italiani; a Filadelfia (Pennsylvania) 136.797; a Chicago (Illinois) 124.184; a Boston (Massachusetts) 77.106; a Albany (New York) 70.000; a S. Francisco (California) 55.000; a Buffalo (New York) 50.000, ecc. Le percentuali relative alla popolazione italiana urbana parlano chiaro: ai maggiori nuclei corrispondono cifre altissime di popolazione urbana; alle cifre più modeste valori molto scarsi (minimo del 35% nella regione di montagna). Nel complesso, riguardo alle professioni e mestieri esercitati, si avevano i seguenti valori: terraioli e braccianti 490.000; addetti alle industrie e ai lavori varî 249.000; addetti a mestieri e professioni varie 188.000; agricoltori 178.000; addetti ai commerci e ai trasporti 150.000.
Il secondo nucleo per numero d'individui è quello del Brasile, con 1.839.579 persone: i primi italiani giunsero in Brasile intorno al 1817; ma la vera corrente immigratoria ebbe inizio nell'anno 1886, dopo cioè che il Brasile ebbe promulgata la legge del 26 ottobre 1885, la quale stabiliva il rimborso del prezzo di passaggio ai coloni ed ai lavoratori provenienti dall'Europa. Gl'Italiani sono molto diversamente distribuiti nella grande repubblica; prevalgono in maniera assoluta gli stati centro-meridionali, primo fra tutti quelli di S. Paolo con ben 1.200.000 (200.000 vivono nella città omonima); seguono gli stati di Rio Grande do Sul (300.000); Minas Geraes (113.153); Sana Catharina (70.000), Espirito Santo (50.000); Distretto Federale (45.000): grande è il numero di Italiani che si dànno ai lavori agricoli, come giornalieri e come proprietarî di fazendas, soprattutto nello stato di S. Paolo. In tutto il Brasile settentrionale non vivevano che 5527 persone.
Il terzo nucleo è quello dell'Argentina, ove nel 1927 vivevano 1.797.000 Italiani, di cui 1.506.000 nati in Italia e 291.000 nati nella Repubblica. Numericamente prevale il distretto consolare di La Plata con 720.000 individui, specialmente con la provincia di Buenos Aires, ove prevale la mano d'opera agricola (112.000), seguita, con notevoli contingenti urbani, dai muratori, manovali, giornalieri (100.000); segue il distretto consolare di Buenos Aires (410.000), ove prevalgono gli addetti ai mestieri varî urbani; viene terzo il distretto di Rosario (337.000), soprattutto nelle provincie di Santa Fe (179.200), Entre Ríos (63.000). Le categorie più rappresentate sono quelle dei terraioli, braccianti, addetti ai commerci e ai trasporti, impiegati; segue il distretto di Córdoba con 268.000, concentrati in maggior quantità nella provincia omonima; prevalgono in maniera assoluta gli agricoltori. Nel complesso in Argentina i nostri connazionali sono in prevalenza agricoltori (255.600), muratori e manovali (233.300), addetti ai mestieri e professioni varie (125.650).
La quarta colonia italiana in America per entità numerica è quella nel Canada, ove vivono 200.000 nostri connazionali, cifra modesta considerate le enormi possibilità economiche del paese. Giova notare che nel Dominion alla quota è stato sostituito il sistema delle tassative categorie di mestiere. La metà degl'Italiani vive nella provincia di Ontario seguita da Quebec, Columbia Britannica, Manitoba: i commercianti e i negozianti nei grandi centri di Montreal, Toronto, Winnipeg, Hamilton, ecc.; gli operai specialmente nell'Ontario; i minatori nella Nuova Scozia. I minatori e i meccanici formano le categorie più numerose (23.000).
Quinta viene la colonia dell'Uruguay forte di 65.000 persone, composta in prevalenza da commercianti, industriali, professionisti, agricoltori, ecc. Nel Chile vivono 23.000 Italiani, che si dedicano specialmente ai traffici commerciali: pochissimi sono gli operai. Nel distretto consolare di Santiago vivono 6000 nostri connazionali, nel rimanente 17.000.I.a nostra colonia fu costituita colà inizialmente da un nucleo attivo di commercianti per lo più oriundi genovesi.
In Europa la colonia di gran lunga più importante è quella che vive in Francia, la quale conta 962.593 individui, in assoluta prevalenza maschile (657.839). I distretti principali sono quelli di Parigi (160.000); Marsiglia (152.000), Nizza (140.000); Lione (128.400). Prevale la zona parigina e la Costa Azzurra sino al grande centro commerciale e industriale di Marsiglia. Le città che contano il maggior numero di connazionali sono: Parigi 110.000; Marsiglia 100.000; Nizza 60.000; Lione 40.000; Cannes 14.000; Antibes 10.000; Grasse 8500. Anche in questo caso l'assoluta prevalenza è per la costiera orientale mediterranea, oltre la zona di Parigi. La popolazione italiana residente nella Repubblica presenta in genere un carattere di grande mobilità, spostandosi da un dipartimento all'altro. Si possono distinguere due zone: la zona settentrionale essenzialmente industriale, dove abbondano minatori, muratori, manovali, falegnami, braccianti, terrazzieri, addetti alle industrie e ai lavori varî e la zona meridionale, dove di preferenza si dirigono giornalieri, agricoltori, boscaioli. Un notevole numero di addetti all'industria alberghiera si ha sulla Costa Azzurra.
Il secondo nucleo per importanza numerica è quello che vive nella Svizzera, con 160.000 individui. Predominano gli operai addetti alle industrie varie, i muratori e i manovali; poco numerosi sono i professionisti. In ordine decrescente abbiamo: distretto consolare di Zurigo 44.010; Lugano 30.092; Losanna 20.000; Basilea 16.656; Ginevra 13.186; Berna 12.009. Come per la Francia, così anche per la Svizzera, ha enorme importanza l'emigrazione stagionale soprattutto dalle vallate alpine.
Nella Gran Bretagna (29.130 Italiani) predominano gli addetti al piccolo commercio e ai mestieri e professioni varie; in Germania (21.205) gl'Italiani vivono in prevalenza nei distretti di Düsseldorf e Dortmund (6000), Monaco (4800), Dresda (3000), Stoccarda (1800), ecc. La grande diminuzione che si è verificata tra il periodo prebellico (nel 1910, 104.204 Italiani) e l'attuale è stata causata dalla guerra e dalla crisi che incombe da anni sulla nazione tedesca. Attualmente prevalgono i minatori e gli addetti a mestieri varî. Notevole è la colonia nel Lussemburgo (10.740) impiegata principalmente nelle miniere e nelle industrie (Esch sur Alzette 9750).
Molto importanti sono le colonie di Italiani in Africa: prevale in maniera assoluta l'Africa mediterranea, in primo luogo la Tunisia con 97.000 nostri connazionali. Questi provengono in massima parte dalla Sicilia e dalla Sardegna e sono principalmente agricoltori: essi coltivano oltre il 25% della superficie coltivabile che gli Europei posseggono e sono proprietarî di 61.000 ettari. Seguono gli addetti ai mestieri vari. Segue numericamente la colonia in Egitto (49.106 individui), composta in maggioranza da addetti a mestieri e professioni varie e da impiegati. Giova notare che la colonia italiana in Egitto è una delle più vecchie fra le colonie straniere che vi risiedono: gl'Italiani vi hanno occupato per il passato importantissime cariche e della loro cultura e attività, esplicantisi in molti campi, si possono riscontrare varie impronte nella vita di questa nazione.
Terza viene la colonia in Algeria (28.528), ripartita nei dipartimenti di Costantina (15.587), Algeri (10.882), Orano (2000) e nel Territorio del Sud (59). Si compone principalmente di commercianti, impiegati, imprenditori di lavori, ecc. Nel Marocco francese vivono 10.000 Italiani stabiliti in prevalenza in Casablanca (8000), principalmente operai.
In Asia l'unica colonia notevule è quella vivente in Turchia (5306 individui), soprattutto nel vilâyet di Smirne (4500), costituita da impiegati, commercianti, religiosi, operai, manovali.
Organizzazione.
Storia. - Lo sviluppo del fenomeno emigratorio italiano, dopo l'unificazione del Regno, assunse proporzioni sempre più vaste (gli emigranti, che nel 1876 erano stati 108.771, salirono nel 1887 a 215 .665, nel 1898 a 283.715, nel 1913 a 872.598, nel 1920 a 614.611), ma ad esso furono per molto tempo impari le provvidenze governative.
Il problema di regolare l'emigrazíone si era imposto già nel 1888 con la promulgazione di una legge speciale, che peraltro non raggiunse gli scopi proposti, limitandosi a sancire norme di polizia e lasciando allo stato il diritto d'intervenire solo quando ne fosse richiesto per la mancata osservanza dei patti di lavoro liberamente contrattati dalle parti. Furono lasciate al triste esercizio della speculazione privata le agenzie e le subagenzie di emigrazione, anzi sulla loro attività parve imperniarsi la tutela dello stato.
La relazione Luzzatti-Pantano al disegno di legge sull'emigrazione, presentato al parlamento il 3 febbraio 1900, richiamava l'attenzione sulla triste condizione degli emigranti, prospettando per la prima volta la convinzione che al fenomeno dell'emigrazione dovesse corrispondere una più vasta e complessa azione dello stato che non quella esercitata fino ad allora colle comuni norme di polizia. Si giunse così alla legge n. 23 del 31 gennaio 1901, con la quale si provvide alla creazione del Commissariato generale dell'emigrazione e al Regolamento integrativo del 10 luglio 1901. Le agenzie e le subagenzie d'emigrazione furono abolite, l'emigrante messo in diretto rapporto col vettore, creati organi pubblici atti a fornire agli aspiranti all'espatrio tutte le necessarie informazioni, stabilite norme per l'assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e per l'allestimento tecnico dei piroscafi adibiti al trasporto. Al nuovo onere finanziario fu provveduto con il Fondo per l'emigrazione con il quale si stabilirono speciali entrate provenienti da emigranti e vettori e capaci di far fronte a tutte le spese per i servizî dell'emigrazione.
Successive provvidenze legislative integrarono le prime disposizioni. Tra esse, particolare importanza hanno il r. decr. 14 marzo 1909, n. 130, relativo all'allestimento tecnico dei piroscafi in servizio di emigrazione la legge 17 luglio 1910, n. 538, che riordinò il Commissariato e i varî servizî da esso dipendenti, il Regolamento 16 maggio 1912 per la gestione amministrativa e contabile del Fondo per l'emigrazione, le leggi 2 agosto 1913, n. 1075, e 24 gennaio 1915, n. 173; il decr. legge luogotenenziale 29 agosto 1918, n. 1379, e il regolamento approvato con r. decr. 28 agosto 1919, n. 1643, per la tutela giuridica degli emigranti; il decr. legge luogotenenziale 16 maggio 1919, n. 1093, circa il passaporto dei cittadini considerati o presunti emigranti. Tutte le provvidenze legislative furono poi coordinate nel testo unico della legge sull'emigrazione, approvato con r. decr. 13 novembre 1919, n. 2205. La tutela dell'emigrazione da parte dello stato veniva così in sostanza esercitata mediante l'assistenza preventiva dell'emigrante e la tutela giurisdizionale per le controversie di lavoro.
Il Commissariato generale dell'emigrazione, appoggiato prima, inquadrato poi nel Ministero degli affari esteri, comprendeva un ufficio centrale direttivo a Roma, uffici esecutivi nel regno e uffici esecutivi all'estero ed era assistito da un organo consultivo speciale, il Consiglio superiore dell'emigrazione, composto di 30 membri. Organo di controllo finanziario era la Commissione parlamentare di vigilanza del fondo per l'emigrazione, composta di 3 senatori e di 3 deputati. Quattro membri del Consiglio superiore e 2 membri per la Commissione di vigilanza costituivano il Comitato permanente presieduto dal commissario generale. Ma, seppure l'azione esercitata dallo stato attraverso il Commissariato corrispondesse in sostanza a quanto di meglio poteva attendersi da una concezione individualistica della società e del lavoro, essa era pur sempre impari ai doveri della società nazionale. E le masse dei lavoratori, che a centinaia di migliaia abbandonavano ogni anno il suolo della patria, rimanevano alla mercé della speculazione straniera, mentre tra italiani all'estero ed emigranti rimaneva intatto e incolmabile il solco che aveva tracciato la mancanza di una coscienza nazionale degna della tradizione storica di una grande potenza.
Con l'avvento del fascismo, si cominciò a guardare al fenomeno dell'emigrazione non come a un fatto tecnico-amministrativo, ma come a un problema politico. Alle dichiarazioni del sottosegretario agli Affari esteri on. Dino Grandi alla Camera dei deputati, nella tornata del 31 marzo 1927, dichiarazioni che costituiscono la prima voce ufficiale alzata in nome del governo a rinnegare tutta la concezione liberale che aveva fino ad allora informato l'attività dello stato per regolare l'emigrazione, seguirono tempestive le provvidenze legislative, che ebbero inizio col r. decr. legge 28 aprile 1927, n. 628, che sopprimeva il Commissariato generale dell'emigrazione e sostituiva in sua vece al ministero degli Affari esteri, una Direzione generale degl'Italiani all'estero. La circolare inviata il 6 maggio 1927 da Benito Mussolini agli uffici diplomatici e consolari, chiariva la portata del provvedimento e dava la traccia per l'azione futura, azione politica di difesa e di tutela dell'italianità all'estero.
L'azione dello stato, volta a difendere e a potenziare l'italianità dei dieci milioni circa di connazionali residenti oltre confine, si accentra nei servizî della Direzione generale degl'Italiani all'estero, presso il Ministero degli affari esteri. Azione di difesa, diretta pertanto a salvaguardare, abolite le vecchie differenziazioni di trattamento tra emigranti per ragioni di lavoro e italiani all'estero, i diritti dei connazionali in terra straniera, ad assistere e a comprendere le loro necessità morali e materiali. Organi di questa azione sono innanzi tutto i fasci ai quali spetta l'opera più gelosa di tutela morale e politica e le istituzioni che ad essi fanno capo e da essi promanano: Organizzazioni giovanili, Opera nazionale dopolavoro, Biblioteche, Fondazione nazionale figli del littorio.
Fasci all'estero. - I fasci, dipendenti dall'Ispettorato dei fasci all'estero, ormai circa 8000 disseminati in tutti i continenti del mondo con un totale di 150.000 tesserati, sotto la guida dei segretarî, coordinano tutte le attività delle colonie e collaborano con il regio agente a quell'opera di assistenza e di educazione morale, nazionale e fascista, che fu segnata nelle sue direttive dal convegno tenuto a Milano nel 1922, nel quale la costituzione dei fasci all'estero fu appunto deliberata con il concetto che essi dovessero costituire dei "posti di salvataggio dell'italianità insidiata nel mondo".
Storia. - L'origine dei fasci all'estero è dovuta alla spontanea germinazione delle idealità nazionali tra le masse emigrate ed è anteriore di qualche anno all'organizzazione e alla costituzione della Segreteria dei fasci all'estero. Il bisogno di stringere tutte le energie della colonia disperse tra le varie associazioni di mutuo soccorso, spesso in triste rivalità fra loro, attorno a una sola idea che fosse capace di esprimere, sopra le divisioni di parte, la virtù, le aspirazioni, la concretezza politica della patria lontana, fu la leva essenziale dei primi fasci che sorsero nell'America settentrionale, dilagando poi, negli altri continenti, a mano a mano che l'azione di vigilanza e di assistenza del governo si faceva più viva tra le collettività nazionali e su loro reagiva lo spirito settario dell'antifascismo al servizio di oscuri interessi stranieri. La necessità di organizzare e di disciplinare anche dal centro questi nuclei fascisti con direttive uniformi e costanti, che conciliassero la difesa dell'italianità con il rispetto più leale alle istituzioni dei paesi che li ospitavano, s'impose ben presto ed ebbe così vita la Segreteria dei fasci all'estero, alla cui organizzazione fu chiamato nel 1923 l'on. Bastianini. Le linee della nuova organizzazione erano fissate dallo stesso Bastianini, sulle direttive impartitegli dal capo del governo, nel senso che i fasci dovessero tendere a riunire tutti gli italiani espatriati per donar loro quella coscienza della nazionalità "che deve trasformarsi da potenza ideale a forza operante" e per sottrarli a quell'"influenza deleteria del sovversivismo internazionalista che tende a fare di essi i nemici di tutte le patrie, ugualmente pericolosi per la propria e per quella di adozione".
Sorretta da un'azione di vigilanza centrale appassionata e intelligente, l'organizzazione dei fasci all'estero, sotto la direzione di Cornelio Di Marzio prima, e particolarmente poi sotto quella di Piero Parini, si affinò e crebbe rapidamente, cementata dal sangue dei martiri (45 morti e 283 feriti a tutto il 1932), che in terra straniera rinnovarono il prodigio che aveva segnato di sangue il trionfo del fascismo nel regno. Avvenuta nel 1929 la fusione con la Direzione generale degl'Italiani all'estero, la segreteria dei fasci si trasformò nell'Ispettorato dei fasci italiani all'estero. Gl'ispettori, stabiliti in numero di due e nominati con deereto del capo del governo, svolgono la loro azione alle dipendenze del direttore generale degl'Italiani all'estero.
Organizzazioni giovanili. - Le organizzazioni giovanili, dipendenti dall'Ispettorato per le organizzazioni giovanili, che integrano l'azione dei fasci e quella delle scuole italiane all'estero per l'educazione fisica e sportiva, hanno attuato, tra l'altro, una delle più geniali iniziative del regime con l'organizzazione delle colonie estive, che ogni anno richiamano in patria decine di migliaia di giovani figli dei nostri operai. Quest'attività, svolta in stretta collaborazione con l'ufficio delle scuole, è integrata dall'assistenza prestata ai bambini malati provenienti dall'estero e appartenenti a famiglie bisognose e dalla Fondazione nazionale figli del littorio, che provvede all'istituzione e al mantenimento di asili e d'istituti per orfani e fanciulli abbandonati di cittadinanza italiana residenti all'estero, di case di maternità, di colonie marine e montane e di borse di studio presso istituti d'istruzione nel regno. La fondazione, che trae i suoi mezzi di esistenza dal patrimonio iniziale di un milione assegnatole dal Ministero degli esteri, da erogazioni dello stato e di privati e che è amministrata da un consiglio direttivo sotto la presidenza del direttore degl'Italiani all'estero, esplica la propria attività per mezzo della segreteria dei fasci all'estero sotto la vigilanza e il controllo del ministero.
Altre organizzazioni. - A questa attività fa riscontro l'assistenza alle gestanti che vengono a partorire i proprî figli in Italia, per sottrarli alle leggi snazionalizzatrici di alcuni paesi, come la Francia, mentre l'Opera Nazionale Dopolavoro, le biblioteche, che si accrescono ogni anno di volumi inviati in dono dal ministero, le cucine popolari, gli spacci economici, ecc., provvedono all'assistenza morale e materiale delle collettività. Ospedali italiani, fiorenti di mezzi e perfettamente attrezzati, ambulatori medici e armadî farmaceutici modernissimi sono sorti nelle principali città d'Africa, d'Europa e d'America a completare l'opera vasta e complessa, che, promossa dai fasci, trova il suo centro nelle "case degl'Italiani" che ampie, luminose e moderne sorgono un po' ovunque e costituiscono l'orgoglio delle colonie. Due giornali: Il Legionario e Il Tamburino, quest'ultimo dedicato ai fanciulli, portano alle collettività la voce della patria lontana, mentre una rete di quotidiani e di periodici locali ispirano ormai tutta l'azione della loro propaganda alle direttive di questa azione centrale risanatrice di tutte le energie materiali e morali.
Scuole all'estero. - Dipendono dall'ufficio scuole della Direzione generale degl'Italiani all'estero. Nel bilancio dell'esercizio finanziario 1932-33 fu stanziata per le scuole all'estero una somma di 31.920.000 lire con le quali l'ufficio scuole provvede all'esercizio diretto di scuole governative medie, elementari e infantili importanti un complesso di poco meno di 1000 insegnanti e una popolazione scolastica di circa 30.000 alunni, alla vigilanza e alla concessione di sussidî finanziarî a scuole affidate alla gestione di enti, di associazioni e di privati (circa 200 con una popolazione scolastica di circa 140.000 alunni), al conferimento di borse di studio e di assegni di incoraggiamento a studenti stranieri, alla sovvenzione d'istituti nazionali che esercitano la loro attività all'estero o aventi carattere internazionale - come l'Opera Nazionale Balilla per l'educazione fisica, l'Istituto Orientale di Napoli e l'università per stranieri di Perugia - al mantenimento di cattedre e di lettorati di lingua e letteratura italiana presso università straniere nonché d'Istituti di cultura.
Le scuole governative esercite direttamente e sparse tutte nel bacino del Mediterraneo sono in progressivo aumento (nell'esercizio finanziario 1931-32 se ne aprirono 14 nuove), ma il maggiore incremento è dato alle scuole gestite da enti laici e religiosi e sussidiate e vigilate dallo stato. Con l'anno scolastico 1930-31 venne attuata anche all'estero la riforma del libro di stato. Presso le più importanti scuole elementari furono istituite particolari sezioni montessoriane. Le scuole dipendono direttamente dall'agente consolare.
Le cattedre e i lettorati universitarî (circa 200) sono disseminati ormai in ogni paese d'Europa, in Egitto, in Palestina, in India, in Giappone, in Cina e nelle Americhe. L'azione diretta a introdurre l'insegnamento della lingua italiana nelle scuole medie di paesi stranieri ha conseguito risultati tangibili in Romania, in Bulgaria e nell'America Settentrionale, dove le 228 High Schools cattoliche degli Stati Uniti hanno nell'anno scolastico 1931-32, a somiglianza di altre scuole e colleges nordamericani, reso obbligatorio l'insegnamento della lingua italiana.
Istituti di cultura, fondati sulla base della legge 19 dicembre 1926 per la creazione d'istituti di cultura italiana all'estero, sono sorti a Colonia, a Malta, a Lisbona, ad Atene, a Praga e a Bucarest con un programma di educazione artistica e culturale rivolto soprattutto alle classi colte straniere. Corsi di diritto pubblico italiano sono tenuti alle università di Francoforte e di Berlino, un corso di diritto corporativo all'università di Shanghai.
Storia. - L'origine delle scuole italiane all'estero va ricercata nello sviluppo di traffici e d'idee che portarono la bandiera delle repubbliche marinare italiane su tutti i mercati d'Oriente, e nella conseguente necessità di dare i rudimenti del sapere e della lingua ai figli degli emigrati. Sorte per iniziativa di qualche intellettuale o di qualche ordine religioso. esse trovarono a poco a poco la forza di espandersi e d'imporsi fuori dell'ambito coloniale.
Tale egemonia, durata oltre la prima metà del sec. XIX, non si disperse per il cadere delle repubbliche: ché i patrioti, costretti nel Risorgimento ad abbandonare la patria, furono all'estero i pionieri e gli apostoli delle scuole italiane. Quando l'unità fu raggiunta, queste istituzioni furono in grado di svilupparsi spontaneamente: dal bacino del Mediterraneo, dove l'origine delle scuole italiane aveva un'anzianità spesso anteriore a quella della formazione del Regno (la scuola di Tunisi, la prima impiantata da Europei in quella colonia, era stata fondata nel 1831 dal profugo livornese Pompeo Sulema), le scuole si diffusero oltre l'Atlantico e in ogni parte del mondo, seguendo il flusso delle correnti migratorie e le vicende della politica estera.
L'intervento governativo in materia scolastica coloniale ha il suo primo atto ufficiale nel decreto reale 21 settembre 1862 ehe riconosceva le scuole fondate in quell'anno dalla colonia italiana di Alessandria col titolo di Collegio Italiano. Nel 1869 le scuole all'estero pesavano sul bilancio per una somma di 40.000 lire; mancava però qualsiasi unità d' indirizzo e di regolamento legislativo a tale attività, favorita soltanto dal personale interessamento di qualche ministro.
Il problema, oggetto di studio da parte di A. Depretis nel 1879, segnalato dal parlamento al governo nel 1880, fu risolto soltanto da F. Crispi, che fece approvare uno schema di riordinamento generale e organico per il quale nell'estate del 1888 cinque scuole dell'Oriente divenivano statali ed altre 50 scuole regie erano aperte nel bacino del Mediterraneo Orientale. Nel 1889 fu creato presso il Ministero degli esteri un Ispettorato generale delle scuole coloniali; raggruppate queste in quattro direzioni centrali (Costantinopoli, Tunisi, Smirne e Alessandria d'Egitto). Le scuole, che nel 1881 erano 87, salirono a 318 sparse non soltanto nel bacino del Mediterraneo, ma anche in America, e 220 sussidiate. La somma stanziata per i sussidî, che nell'anno scolastico 1883-1884 aveva raggiunto e sorpassato le 300.000 lire, fu portata a 1.574.938 lire. Col ministero Di Rudinì, a cinquantacinque scuole italiane all'estero furono tolti il riconoscimento governativo e ogni aiuto finanziario, sì che in maggior parte dovettero chiudersi, la somma stanziata in bilancio venne ridotta a 900.000 lire, i direttori centrali soppressi (1891). Ritornato al potere, il Crispi col decreto e regolamento del 23 agosto 1894, pur nei limiti del bilancio stabiliti dal Di Rudinì, diede una razionale sistemazione amministrativa, disciplinare e didattica alle scuole ed agli insegnamenti.
Questa seconda legge Crispi costituì la base di tutte le susseguenti provvidenze legislative a favore delle nostre scuole all'estero, che ebbero da allora una fisionomia e un assetto rispondenti a un concetto unitario di politica e di cultura, integrato questo dalle scuole straniere con insegnamento della lingua italiana, alle quali non mancò il governo di volgere la sua attenzione.
Le esigenze locali furono contemperate dalla coordinazione di programmi intesi soprattutto a rendere scuole laiche e religiose, governative e private sensibili organismi della cultura e della vita italiana. Il principio laico dell'insegnamento poté contemperare la convivenza e la vicinanza delle scuole religiose, che, a mano a mano che meno aspro fu il dissidio tra lo Stato e la Chiesa, si facevano più numerose, più italiane e più fiorenti, aiutate nella loro opera dall'Associazione Nazionale per soccorrere i missionari cattolici, interessata soprattutto all'Oriente e dall'Associazione Cristoforo Colombo interessata alle Americhe. Le scuole governative si svilupparono particolarmente nel bacino del Mediterraneo e in Oriente, quelle sussidiate nelle Americhe.
La legge 18 dicembre 1910, a cui collaborarono P. Villari e A. Scalabrini, integrata dal decr. minist. 29 settembre 1911 abrogò i decreti dell'88, dell'89 e del '94, elevò a Direzione centrale (chiamata generale soltanto col r. decr. 20 giugno 1912) il vecchio Ispettorato, istituì tre ispettorati generali con sede a Tunisi, al Cairo e a Salonicco, creò presso il ministero un Consiglio centrale, stabilì che il personale delle scuole medie potesse passare nei ruoli delle scuole del regno dai quali doveva essere tratto, confermò per l'estero, con le necessarie contemperazioni dovute a esigenze locali, i programmi medî e primarî in vigore nel regno. Le scuole governative nel 1910 erano 94 con 17.045 alunni, le sussidiate 702 con 63.112 alunni. Col r. decr. 20 giugno 1912 fu stabilito che gl'ispettori regionali dimorassero nel luogo destinato a sede dell'ufficio, nei locali del Consolato. Agl'ispettori fu data altresì la vicepresidenza della deputazione scolastica della loro residenza, mentre la presidenza spettava al console. Il r. decr. 2 ottobre 1913 trasformò in centrali gli ispettori regionali e attribuì la competenza della loro nomina al ministro degli Esteri. La loro sede fu fissata a Roma da dove potevano essere comandati a risiedere all'estero. L'ispettorato centrale fu abolito con decreto legge 7 dicembre 1919. Gl'incarichi ispettivi potevano a volta a volta essere affidati a professori o a funzionarî con incarico annuale riconfermabile. Il r. decr. 19 aprile 1923 soppresse anche il Consiglio centrale delle scuole italiane all'estero, affidandone temporaneamente e in parte le funzioni al Consiglio di amministrazione del Ministero degli affari esteri.
Il r. decr. 15 luglio 1923 riordinò tutto l'assetto delle scuole all'estero, mettendone in correlazione i programmi a quelli attuati nel regno con la riforma Gentile. I successivi provvedimenti intesi a estendere all'estero le provvidenze legislative emanate dal Governo fascista a favore delle scuole nel regno e a saldare più vivamente intorno alle scuole la vita delle colonie, diedero un insperato incremento alle nostre istituzioni culturali.
Nel dicembre 1929 la Direzione generale delle scuole italiane all'estero e quella degl'Italiani all'estero si fondevano in un'unica Direzione generale alle cui dipendenze passava la Segreteria dei fasci italiani all'estero. Nuove scuole sorsero un po' ovunque per iniziativa del governo, dei fasci, della Dante Alighieri, di enti e di associazioni laiche e religiose, contemperando esigenze locali ed esigenze di programmi, ma conservando anche immutata la fisionomia di quegli ordinamenti che sono tipici della cultura e della civiltà italiana.
Annuario Statistico dell'Emigrazione Italiana, dal 1876 al 1925, con notizie sull'emigr. ital. negli anni 1856-1875, Roma 1926; Bollettino dell'emigrazione; B. G. Brenna, Storia dell'emigrazione italiana, Roma 1928; L'emigr. ital. Legislaz. e statistiche. Accordi intern. Organi e servizi ital., Palermo 1927; A. Orani, La legisl. fascista sulle scuole ital. all'estero, Torino 1928.
Storia.
L'espansione degl'Italiani all'estero è nel suo primo periodo di carattere essenzialmente collettivo: in questo senso, che non si tratta tanto dell'azione di singole e specifiche individualità, quanto di quella di gruppi e associazioni o addirittura stati. Espansione di stati è infatti l'espansione veneziana, genovese, pisana nel Mediterraneo nei secoli XII e XIII, conclusasi con la formazione di comunità (quartieri, ecc.) direttamente collegate con le metropoli. Espansione di gruppi è invece quella nell'Europa centrooccidentale, dove non la figura di un singolo mercante importa, quanto il formarsi dell'universitas lombardorum, p. es. in Francia, e di società commerciali-bancarie che detengono per un notevole periodo quasi il monopolio delle operazioni bancarie e finanziarie in Francia, in Inghilterra, ecc.
A questa prima forma caratteristica collettiva subentra e in parte s'accompagna tra la fine del sec. XIV e la prima metà del XV una seconda forma di espansione culturale (Petrarca, Cola di Rienzo, Enea Silvio Piccolomini), che è invece anzitutto opera di singoli individui.
Con il sec. XV l'espansione collettiva economico-commerciale declina; e invece tra il sec. XV stesso e il XVI assume notevole importanza l'emigrazione politica.
I due fattori dell'espansione del sec. XIII e XIV e dell'emigrazione politica erano in relazione con un'intensa vita autonoma degli stati italiani. E all'inizio dell'età moderna, con l'annodarsi delle prime relazioni diplomatiche di carattere continuo tra gli stati europei, una fitta schiera di ambasciatori (primi fra tutti i Veneziani e i Fiorentini) portano in tutte le corti d'Europa l'influenza della cultura e dello spirito italiano. Quando tale autonomia decade si ha l'esodo individuale, non più collettivo: dilaga l'espansione culturale, artistica, letteraria, già del resto cominciata precedentemente. Ma oltre a questa ne abbiamo contemporaneamente una di militari e uomini politici che non trovano impiego e sfogo in patria per la diminuita importanza dei singoli stati italiani e vanno all'estero a offrire servigi e a porre la spada e l'ingegno a disposizione di stranieri: Montecuccoli, il principe Eugenio e altri uomini di guerra per l'Impero; il Mazzarino e l'Alberoni per Francia e Spagna.
Il cemento collettivo che unisce gl'Italiani all'estero ritorna a farsi più forte nell'età del Risorgimento. Gli esiliati politici costituiscono varî centri (Parigi, Londra, Bruxelles), si raccolgono in varî cenacoli a operare a pro' della patria lontana, massimo fra tutti il Mazzini. Raggiunta l'unità, cessata l'emigrazione politica, questa cede il posto all'emigrazione delle masse di lavoratori, spinti fuori dalla patria da necessità economiche, apparentemente fenomeno di massa, in realtà d'individui staccati, perché troppo scarsa è la coesione spirituale e morale fra gli emigrati. Merito grande del fascismo l'aver consacrato ogni cura ed energia a riformare, a rinsaldare la coscienza degl'Italiani all'estero, mirando a superare il pericoloso atomismo che l'emigrazione incoraggiava.
Artisti. - Medioevo. - Esempî sporadici di artisti italiani che vengono chiamati all'estero da sovrani e prelati, si hanno sin dal tempo carolingio; ma coloro che veramente iniziarono la gloriosa tradizione dell'arte italiana nel mondo, furono i Maestri Comacini (v.) e Campionesi del Medioevo: valentissimi costruttori che lavorarono in tutta Europa. Dell'opera loro rimangono numerese tracce: e sono per lo più motivi prettamente lombardi che si trovano, spesso sotto i rivestimenti e le aggiunte delle età posteriori, nelle più antiche cattedrali della Spagna, della Francia, dei paesi germanici, dell'Ungheria e forse della Russia; un documento (1175) attesta che Raimondo Lombardo, con altri suoi compaesani, costruì la cattedrale di Urgel (Spagna); il distrutto S. Magno di Ratisbona era stato edificato (1139) da un maestro di Como. A Pietro Oderisi, romano, appartenente al gruppo dei marmorarî romani detti Cosmati (v.), sono dovute le due più antiche (sec. XIII) tombe dei re d'Inghilterra, quella di Edoardo il Confessore e quella di Enrico III (Londra, Abbazia di Westminster). Nel sec. XIV il gruppo più importante di artisti italiani all'estero è alla corte papale di Avignone: essi ornarono di pale d'altare e di affreschi la cattedrale e il palazzo dei papi; a capo del gruppo è Simone Martini (v.), la cui opera esercitò una fortissima influenza sulla miniatura francese del Trecento. Ma già sul principio del secolo Filippo Rusuti e altri pittori romani erano a servizio del re di Francia; poi in Boemia Tommaso da Modena mandò, o eseguì, suoi dipinti; nella Spagna fu opera di un discepolo di Giovanni Pisano il mausoleo di S. Eulalia (Barcellona, cattedrale), ed ebbe fortuna ii pittoie fiorentino Gherardo Starnina.
Dal Rinascimento all'Ottocento. - Furono questi, per così dire, i prodromi dell'espansione artistica italiana in Europa: la vera, grande fioritura cominciò e raggiunse il massimo splendore coll'affermarsi del nuovo stile, sorto appunto in Italia, del Rinascimento. Prima che in molte altre regioni avvenga questo rinnovamento artistico, è necessario che artisti italiani si rechino in quelle regioni e vi apportino i primi germi di quell'arte. Per ordine di tempo, le prime nazioni che richiamarono dall'Italia artisti e opere d'arte furono la Spagna e l'Ungheria: nella Spagna, lavorarono già nella prima metà del sec. XV il pittore Niccolò di Dello fiorentino (affreschi del duomo di Salamanca) e lo scultore Giuliano da Firenze (cattedrale di Valenza); nell'Ungheria, dove poi il regno di Mattia Corvino doveva richiamare opere e artisti dall'Italia, si recò allora Masolino. Dal principio del sec. XVI, fu continuo e crescente l'afflusso di opere e di artisti dall'Italia nella Spagna: ricordiamo gli scultori e architetti Aprile da Carona e i Gaggini da Bissone che lavorarono per palazzi e per chiese di Siviglia, sul posto, o inviando marmi scolpiti nei loro laboratorî di Genova; tra gli scultori fiorentini, P. Torrigiano che lavorò a Siviglia, Giovanni Moreto lungamente operoso a Saragozza, e su tutti D. Fancelli, autore dei monumenti sepolcrali di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia, nella cattedrale di Granata. Durante tutto il '500 l'arte italiana continuò a dare alla Spagna opere numerosissime; basti ricordare soltanto quel grande centro di arte italiana, che fu l'Escoriale (v.), ornato da pittori quali Luca Cambiaso, Bartolomeo e Vincenzo Carducci, Pellegrino Tibaldi, Federico Zuccari; e scultori quali Iacopo da Trezzo, Leone e Pompeo Leoni, per citare solo i maggiori. E da Venezia provenne alla Spagna il Greco. Nel secolo seguente le spoglie di Carlo V, Filippo II e dei loro successori furono deposte nel grande sepolcreto reale detto Pantheon dei re, pure all'Escoriale, edificato dal romano G. B. Crescenzi e ornato delle sculture di Antonio Ceroni della Valsolda e di Pietro Tacca, fiorentino, autore anche dei monumenti di Filippo III e Filippo IV in Madrid; la chiesa dell'Escoriale si apparò degl'immensi affreschi di L. Giordano. Nel sec. XVIII sorse, per opera del piemontese G. B. Sacchetti e su progetto del siciliano Filippo Juvara il palazzo reale di Madrid adorno nell'interno di statue e pitture d'Italiani, tra cui gli affreschi del Tiepolo nella sala del trono. Anche il palazzo reale di S. Ildefonso è opera dello Juvara e del Sacchetti; dello stesso secolo sono il duomo di Madrid, dovuto al ticinese Virgilio Rabaglio, la chiesa di S. Francesco, le porte di S. Vincenzo e di Alcalá, i palazzi della Dogana, della Marina e delle Porcellane, opere di F. Sabatini. Il Museo del Prado ha centinaia di opere eseguite da artisti italiani per la Spagna: ricordiamo soltanto quelle del Tiziano. Importante fu l'opera degli artisti italiani nel Portogallo. Andrea Sansovino vi soggiornò lungamente: e tracce della sua opera e della sua influenza si vanno ora ritrovando; a Firenze furono miniati dall'Attavante sette volumi della grande Bibbia di Manuele (Lisbona, Archivio nazionale); in Roma fu lavorato l'altare delle reliquie per la chiesa di S. Rocco a Lisbona, dal Maini e da A. Giusti che poi lavorò lungamente in Portogallo formandovi una scuola di scultori. Sul principio del sec. XIX si stabilì a Lisbona l'incisore F. Bartolozzi, e vi diresse l'Accademia di belle arti; chiese, il Teatro nazionale, altri teatri minori furono costruiti e decorati da artisti italiani.
In Francia già nel 1461 F. Laurana e Pietro da Milano lavoravano per Renato d'Angiò; Carlo VIII riportò dall'Italia una schiera di artisti e di artigiani - perfino un giardiniere - tra cui erano Guido Mazzoni che ne fece il mausoleo a Saint-Denis, poi distrutto, fra Giocondo che costruì il ponte di Notre-Dame a Parigi, Domenico da Cortona che seguitò a lavorare in Francia fino alla metà del sec. XVI, disegnando tra altro il palazzo municipale di Parigi, distrutto nel 1871; e non mancarono pittori, come Benedetto Ghirlandaio. In tutto il sec. XVI il primato artistico fu tenuto da Italiani: i fiorentini Antonio e Giovanni Giusti, operosi a Tours, scolpirono il sepolcro di Luigi XII e di Anna di Bretagna a Saint-Denis; Antonio della Porta mandava sculture da Genova; in tutte le arti l'opera o l'influenza dei maestri italiani trionfava. Francesco I aveva raccolto attorno a sé Leonardo da Vinci, Andrea del Sarto, il Rosso Fiorentino, Francesco Primaticcio, Nicola dell'Abate, Sebastiano Serlio, Girolamo della Robbia, Benvenuto Cellini e altri. Il castello di Fontainebleau, tutto decorato dei loro affreschi e sculture e in parte costruito su loro disegno, fu centro degl'Italiani e degl'italianeggianti della cosiddetta "scuola di Fontainebleau" dalla quale trasse insegnamento, anche nei secoli successivi, l'arte francese persino in certe derivazioni nel neoclassicismo napoleonico. Nel '600 ancora operò in Francia l'arte italiana, e quando Luigi XIV volle erigersi la sua reggia chiamò dall'Italia Gian Lorenzo Bernini. Per la tendenza classicistica, contraria allo spirito berniniano, degli artisti francesi, il progetto del Bernini non fu eseguito: ma da esso molti elementi furono tratti dai costruttori del Louvre. Se l'immigrazione di artisti italiani in Francia, già tanto favorita dal Mazzarino, andò poi diminuendo, vi fu compenso nella continua influenza della nostra arte che i Francesi venivano a studiare in Italia. Ricordiamo tuttavia per questo periodo il mosaicista del Louvre F. Belloni. Per il sec. XIX si può ricordare che Antonio Canova chiamato a Parigi da Napoleone, vi eseguì le statue di lui e quella dell'imperatrice Maria Luisa; più tardi L. T. G. Visconti, architetto romano, disegnò la cappella sepolcrale in cui riposano le ossa dell'imperatore e il nuovo Louvre e lo scultore piemontese Carlo Marochetti, poi tanto operoso in Inghilterra, eseguì numerosi monumenti pubblici a Parigi e in altre città della Francia.
In Inghilterra, al tempo di Enrico VIII, Pietro Torrigiani scolpiva i sepolcri del re Enrico VlI e di sua madre nell'Abbazia di Westminster; Benedetto e Giovanni da Rovezzano lavoravano per il cardinale Wolsey e per il re, altri Italiani costruivano castelli e dimore signorili, poi distrutte. Più tardi F. Zuccari operò lungamente da ritrattista; nel sec. XVIII lavorarono a Londra fra altri, Antonio e Bernardo Canal, F. Bartolozzi, ch'ebbe profonda azione sugl'incisori inglesi.
Nei varî paesi germanici o di cultura germanica l'attività artistica italiana cominciò pure nel '500 per raggiungere la massima intensità nel '600 e nel '700. Alla corte dell'imperatore Massimiliano furono, con altri Italiani, fra Giocondo, Ambrogio de Predis, Iacopo de Barbari, che lavorb largamente in molti luoghi di Germania prima di trasferirsi nei Paesi Bassi; in seguito gli Asburgo e gli altri principi si valsero continuamente di artisti italiani. Innumerevoli sono le reggie, i palazzi pubblici e privati, le chiese e i conventi elevati e decorati dagl'italiani in Germania, in Boemìa, nella Svizzera tedesca e soprattutto in Austria. Citiamo soltanto le opere più importanti. Nel sec. XVI: a Praga l'opera di Paolo della Stella nel "Belvedere"; a Landshut la Residenza. A un luganese, Giovanni Maria Nosseni, allievo del Sansovino, va riconosciuto il merito di aver introdotto in Sassonia, e un po' dappertutto nel resto della Germania, l'arte del Rinascimento: l'opera sua più importante è la cappella dei principi sassoni, nel duomo di Freiberg, contenente i sepolcri degli elettori di Sassonia e delle loro mogli, con le statue bronzee del fiorentino Carlo de Cesare. Del secolo seguente sono la cattedrale di Salisburgo, costruita da Santino Solari, la chiesa dei teatini a Monaco, di A. Barelli e di E. Zuccalli, la chiesa di Klosterneuburg, e quelle di S. Floriano, di Kremsmünster, di Schlierbach in Austria, opere queste ultime dell'architetto lombardo Carlo Antonio Carloni, decorate dai fratelli e figli di lui; a Vienna il Palazzo arcivescovile di G. Coccapani, un'ala e l'ingresso del palazzo reale, la chiesa dei domenicani, di C. Tencalla; in Baviera, il grande palazzo reale di Nymphenburg del bolognese Agostino Barelli; a Praga il Clementinum, e i palazzi Czernin e Waldstein. Del '700 ricordiamo a Vienna il palazzo dei principi Liechtenstein, di D. Martinelli, con affreschi di Andrea Pozzi; le pitture di G. Guglielmi nel castello di Schönbrunn, di A. Beduzzi nel palazzo provinciale, di F. Solimena nel Belvedere; e in Germania il grandioso palazzo reale di Schleissheim, opera del grigionese E. Zuccalli; il castello di Wilhelmshöhe presso Kassel, con la Piramide e la Cascata di Ercole, del romano F. Guarnieri; a Mannheim il Palazzo della Mercanzia, di Alessandro Galli Bibiena; a Würzburg gli affreschi di G. B. Tiepolo nel palazzo del principe-vescovo. Delle costruzioni sacre sono da ricordare a Monaco di Baviera la chiesa di San Gaetano del Barelli, quella della SS. Trinità di G. A. Viscardi, autore anche della chiesa di corte di Fürstenfeld; a Mannheim la chiesa dei gesuiti di Alessandro Bibiena, e la chiesa del Monastero Nuovo a Wiirzburg, di Valentino Pezzani. Nella Svizzera tedesca il duomo di San Gallo, di G. Gaspare Bagnato, la chiesa di Sant'Orso in Soletta, di Matteo e Antonio Pisoni (autori anche delle cattedrali di Liegi e di Namur), e il santuario di Einsiedeln, pieno di opere d'Italiani, e in particolare della famiglia Carloni (v.).
Capolavoro d'architettura italiana nei paesi germanici è la chiesa di corte a Dresda, eretta tra il 1739 e il 1756 su disegno del romano Gaetano Chiaveri. Le statue bronzee all'esterno di L. Mattielli: gli affreschi e i quadri dell'interno di S. Torelli e P. Rotari mostrano il concorso di tutte le arti italiane. Non soltanto gli architetti, ma i pittori e gli scultori italiani, anche i decoratori in stucco; nel sec. XIII e XVIII furono numerosissimi in Germania e in Austria e vi diffusero le forme barocche. Ricordiamo fra i tanti Martino Altomonte, il trentino G. B. Lampi, Bernardo Bellotto, G. A. Pellegrini, pittori; il ticinese F. A. Bustelli, modellatore di squisite figurine per le fabbriche di porcellana. Neppure nell'Ottocento mancano opere d'arte italiana nei paesi tedeschi: Antonio Canova scolpì il sepolcro di Maria Cristina, nella chiesa degli agostiniani di Vienna, e nella stessa città l'architetto ticinese Pietro de Nobile introdusse lo stile neoclassico, con il tempio di Teseo e altri edifici d'ispirazione greca che originarono tutto un rinnovamento architettonico nella capitale austriaca; lo scultore lombardo Pompeo Marchesi eseguì a Francoforte il monumento a Goethe, a Graz il monumento a Francesco I e a Vienna quello a Francesco II.
Ospitarono intere generazioni di artisti italiani la Polonia e la Russia. Architetti lombardi della famiglia dei Solari nella seconda metà del '400 costruirono a Mosca le fortificazioni del Cremlino e i palazzi degli zar, e il bolognese Aristotele Fieravanti elevò nel Cremlino la cattedrale dell'Assunzione, dove sono uniti motivi dell'architettura romanico-lombarda con elementi caratteristici dell'arte russa. Il Cinquecento, vide sorgere in Polonia e particolarmente a Cracovia tutta una serie di opere d'arte dovute ad architetti e scultori italiani. Primeggiano tra questi i toscani Francesco della Lora, Bartolomeo Berecci e Giovanni Cini, autori, questi ultimi, di sepolcri di re, regine e principi nel più puro stile del nostro Rinascimento. Alle sculture della cappella dei Sigismondi, che viene definita l'opera più bella del Rinascimento d'oltralpe, prese parte anche Gian Maria Mosca, detto il Padovano, scultore e architetto, al quale è dovuta, sempre in Cracovia, la costruzione del Palazzo dei drappieri.
E ancor più italiano, nel complesso e nei particolari, è il palazzo municipale di Poznań, opera dell'architetto luganese G. B. Quadro. Contemporanea è la cattedrale dell'Arcangelo Michele, a Mosca, dell'architetto milanese Aloisio Novi che contribuì all'affermazione, in quel paese, dell'arte e dello spirito del Rinascimento sia nelle forme architettoniche sia nei particolari decorativi. Nel '600 l'attività dei nostri artisti si esplicò soprattutto a Varsavia: l'architetto ticinese Costante Tencalla e lo scultore bolognese Clemente Molli eseguirono il monumento di Sigismondo III; e l'architetto veneto Giuseppe Bellotti costruì la Chiesa di S. Croce e la Villa Reale di Wilanów, decorata da pittori e scultori tutti italiani.
Dello stesso periodo sono gli antichi palazzi Krasiński e Radziwill; a Cracovia G. M. Bernardone costruì la più bella chiesa barocca della Polonia, quella dei gesuiti; e grande influenza ebbe sulla pittura il veneto Tommaso Dolabella. Nel secolo seguente quasi tutti gli edifici più grandiosi e importanti della capitale polacca sorsero per opera di italiani e da loro furono ornati: citiamo come esempî principali il Palazzo di città, del bresciano Domenico Merlini; il nuovo palazzo reale, costruito in collaborazione dallo stesso Merlini e dal Chiaveri, e decorato con pitture del romano Marcello Bacciarelli, considerato il fondatore della pittura polacca, e con statue e rilievi da T. Richi e G. Monaldi. Dagli stessi artisti del palazzo reale, fu pure costruita e abbellita la celebre villa reale di Łazienki, capolavoro del Merlini; ad essi va aggiunto il Canaletto, che dopo il soggiorno a Dresda, andn̄ in Polonia e vi eseguị un'altra serie di vedute ammiratissime. Non meno fecondo fu l'Ottocento: antichi edifici che gl'Italiani avevano costruiti e decorati, da altri Italiani furono rimodernati; e altri nuovi ne sorsero nel nuovo stile classicheggiante. Tra questi, la maggior parte ę dovuta a tre nostri architetti: Enrico e Leandro Marconi, autori a Varsavia e in provincia di numerose chiese (S. Carlo Borromeo e quella d'Ognissanti, a Varsavia) e palazzi; e Antonio Corazzi, livornese, al quale sono dovuti il palazzo della Banca di Polonia, Palazzo Staszyc e il teatro dell'Opera, uno dei principali dell'Europa del Nord.
Tutte le altre cittމ della Polonia e specialmente Poznań, Leopoli, Vilna conservano in gran numero chiese, palazzi, e pitture di Italiani dal sec. XVI al XIX.
A un'altezza anche maggiore giunse l'opera degli artisti italiani in Russia nel Sette e Ottocento. Quando, nel 1703 lo zar Pietro il Grande ideò la fondazione di una nuova capitale del suo impero, la nuova città - Pietroburgo - nacque sul piano di edificazione tracciato dall'architetto ticinese Domenico Trezzini, il quale costruì le opere fortificatorie, la cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo, l'università e altri edifici. L'architetto e scultore veneziano Bartolomeo Rastrelli costruì a Pietroburgo i palazzi d'abitazione degli zar, quale il Palazzo d'inverno, che fu il primo veramente monumentale che sorgesse nell'impero russo; numerosi palazzi principeschi e, nei dintorni della città, le due ville imperiali di CarskoeSelo e di Peterhof, immensi edifici, nei quali le linee architettoniche e le decorazioni interne di stucchi e d'intagli, le scalee e i giardini, i giuochi d'acqua e i padiglioni, i ninfei e le statue, tutto fu ideato da una sola mente geniale. Il fecondissimo artista veneziano è pure autore della cattedrale di S. Andrea a Kiev, in cui i motivi russi sono animati dal Barocco italiano. Nel sec. XIX altri italiani continuarono l'opera del Rastrelli: e soprattutto il bergamasco Giacomo Quarenghi che nella reggia di Carskoe-Selo costruì i corpi laterali nel miglior stile neoclassico e il gran palazzo d'Alessandro, con un colonnato degno delle magnificenze di Roma antica; e a Pietroburgo il Palazzo della Borsa, la Banca Imperiale, la Cattedrale e il Convento di Smol′nyj, e il Palazzo dell'Ermitage con un teatro ispirato al Teatro Olimpico di Vicenza.
Contemporanei al Quarenghi furono i ticinesi fratelli Adamini, autori della chiesa cattolica di Carskoe-Selo, e di moltissime altre costruzioni pubbliche e private; Carlo Rossi, autore dei palazzi del Senato e dello Stato maggiore; Luigi Rusca, autore del Teatro Massimo, della moschea di Tiflis in Georgia e della cattedrale di Simferopoli in Crimea. Al ticinese Domenico Gilardi e ad altri Italiani fu affidata, assieme ad architetti russi, la ricostruzione di Mosca, dopo l'incendio del 1812.
Anche nelle altre parti d'Europa, e in alcuni paesi dell'Asia e dell'America rimangono opere di artisti italiani dal Cinquecento alla metà dell'Ottocento. A Costantinopoli nel secolo scorso Gaspare Fossati edificò, vicino alla chiesa di S. Sofia che egli stesso aveva totalmente restaurata e in parte ricostruita, il palazzo dell'università; in India il celeberrimo Tāj Mahal di Agra (v.), capolavoro dell'arte musulmana, è da alcuni attribuito all'architetto-orafo veneto Girolamo Veroneo (sec. XVII); a Santiago del Chile la cattedrale e il Palazzo del Governo furono eretti sulla fine del '700 dal romano G. Toesca. Diffusori dell'arte italiana nei più lontani paesi furono i nostri missionarî: e su tutti va ricordato il padre Castiglione che eseguì notevoli opere di pittura e giardinaggio per la casa imperiale della Cina.
Dall'Ottocento ai giorni nostri. - Le opere degli artisti italiani continuano ancora a portare lontano le impronte dell'Italia, e non solo in Europa, ma in tutto il mondo e specialmente nelle Americhe. In Europa sono da ricordare: in Romania il monumento a Ovidio in Constanţ a di E. Ferrari, varie sculture di Raffaele Romanelli e costruzioni di G. Magni; in Bulgaria il monumento allo zar Alessandro II in Sofia, di A. Zocchi; a Costantinopoli il palazzo imperiale di Ildiz Kiosk e la Scuola di medicina di R. d'Aronco, il Museo imperiale (Bellò e Vallauri), il monumento della Repubblica (P. Canonica).
In Egitto la fioritura di architetti e costruttori italiani è stata ed è grandissima: il marchigiano Verrucci Bey è autore dei tre palazzi reali di Ras et-Tīn e el-Mumtāzah ad Alessandria e di Abdin al Cairo, e delle tombe di Fuad I e della madre; C. V. Silvagni della moschea del Rifai, al Cairo; il Piattoli del Palazzo di giustizia e della Biblioteca Nazionale; lo Sfondrini del teatro di Alessandria. A Città del Capo il monumento equestre del gen. Botha è opera di R. Romanelli.
In Palestina sono sorte recentemente le basiliche del Getsemani e del Pretorio, a Gerusalemme, e quella della Trasfigurazione sul Monte Tabor, dell'architetto romano Barluzzi, con mosaici e vetrate eseguiti in Italia. In India la sontuosa reggia del maharaja di Gwalior è dovuta all'architetto Filosi. Nell'Estremo Oriente il più importante complesso di opere italiane è nel Siam, dove nel periodo di maggiore attività edilizia, dal 1903 al 1916, l'intero dipartimento dei Lavori Pubblici fu diretto da ingegneri e artisti italiani che elevarono tutti gli edifici pubblici della capitale e costruirono, nel paese, centinaia di chilometri di strade e di ferrovie. L'opera più importante è il Palazzo del trono a Bangkok, il maggiore edificio moderno di tutta l'Asia, architettato dai piemontesi M. Tamagno e A. Rigotti; e recentissimo (1932) è il monumento al re Rama I dovuto allo scultore Corrado Feroci.
In America gl'Italiani occupano una posizione preponderante in tutta la produzione artistica degli ultimi 80 anni. A Washington il Campidoglio e molti edifici pubblici furono ornati, sin dalla metà del secolo scorso, da pittori e scultori italiani (C. Brumidi, F. Costaggini, G. Andrei, G. Valaperti, i Franzoni, L. Persico, E. Causici, ecc.); Fall River ha un monumento a Lafayette di A. Zocchi; Chicago quello del gen. Grant di L. Rebisso, autore anche della statua equestre del presidente Harrison a Cincinnati; New York il monumento ai Martiri del Maine di A. Piccirilli. Nell'America Latina le opere italiane non si contano più: basti ricordare, solo nelle capitali, a Buenos Aires il parlamento e il teatro Colón di V. Meano, la cattedrale e il palazzo arcivescovile di C. Pellegrini, la biblioteca e la Banca Nazionale di C. Morra, i palazzi delle Poste (P. Moneta), del Governo (F. Tamburini), delle Acque (G. B. Medici), della Borsa (G. A. Buschiazzo), del municipio (C. Giagnoni), il monumento al gen. Mitre (D. Calandra); a Rio de Janeiro il palazzo di giustizia (G. Basile) e quello arcivescovile (C. Cotta), a San Paolo il monumento dell'Indipendenza brasiliana (E. Ximenes) e quello a Carlos Gomes (L. Brizzolara), e il Palazzo Nazionale dell'Ypiranga (T. Bezzi); a Lima la chiesa di S. Rosa e di Maria Ausiliatrice (E. Vespignani); a Bogotá la cattedrale, il palazzo presidenziale e il Teatro Nazionale di P. Cantini; l'Altare della Patria (E. Lippi), i monumenti alla regina Isabella (C. Sighinolfi), al Libertador (Tenerani), al gen. Santander (P. Costa); a Santiago del Chile, il palazzo del Congresso e il Teatro Municipale di E. Chelli; a La Paz il monumento al gen. Sucre (Tadolini); al Messico il grande Teatro Nazionale, uno dei più belli d'America, di A. Boari con sculture di L. Bistolfi, i ministeri delle Comunicazioni di S. Contri e dei Lavori Pubblici (R. Buti); il monumento dell'Indipendenza (Alciati); ad Asunción il palazzo del Governo, di A. Ravizza; all'Avana la statua della Repubblica ed altri gruppi nel Campidoglio di A. Zanelli e un gran numero di monumenti nella città e nell'isola; a Montevideo il Parlamento, architettato da G. Moretti e ornato di sculture da G. Castiglioni, e il monumento al generale Artigas, di A. Zanelli.
Legata all'opera grandiosa degli architetti italiani all'estero è quella degl'ingegneri e costruttori. Non poche città dell'America furono ideate e costruite su piani di fondazione italiani; e innumerevoli sono in tutto il mondo i porti, i canali, i mercati, le stazioni, le reti stradali urbane e le vie di grande comunicazione, le bonifiche, i grandi complessi di opere edilizie. Ricorderemo soltanto, oltre alle opere già menzionate nel Siam, il fondamentale contributo apportato dagl'Italiani alla costruzione della diga di Assuan (v.); e, tra i nomi, quello di Luigi Negrelli, l'ideatore del Canale di Suez, che fu dal 1855 ispettore generale delle ferrovie austriache, e costruì importanti linee in Austria, in Boemia, in Svizzera, e a Zurigo il ponte sulla Limmat, detto Münsterbrücke.
Musicisti. - L'emigrazione musicale italiana verso le altre regioni di Europa ha tradizioni assai antiche. Diventato il cristianesimo religione di stato, ridotti a unità di stile e di dottrina i contributi stranieri, il canto ccclesiastico, codificato nell'Antifonario di S. Gregorio, cominciò ad essere insegnato per ogni dove da istruttori e da cantori di scuola romana. La leggenda dei due cantori Petrus e Romanus richiesti da Carlo Magno adombra quest'antica funzione di maestra dell'Europa esercitata, anche nel dominio musicale, dalla Chiesa di Roma. Di altri movimenti di espansione della cultura musicale italiana per mezzo dei suoi musicisti, non abbiamo ricordi precisi, almeno per la musica profana, sino alla fine del Quattrocento. Uno dei primi musicisti emigrati è forse quel Peter De Casa noua, mynstral (menestrello) che troviamo tra il 1483 e il 1504 alla corte inglese. E proprio in Inghilterra nel '500 prendono dimora stabile le prime famiglie di musicisti italiani: i Bassani, più tardi Bassano, dànno ben sedici musicisti alla corte inglese, otto o nove i Lupo, sei i Ferrabosco, due i Da Como. Di Alfonso II Ferrabosco, grande virtuoso di viola da gamba e bastarda, si sa che insegnò agl'Inglesi l'arte di diminuire, divenuta poi così importante in Inghilterra. Alla corte inglese vivono anche l'organista veneziano Fra Dionisio Memo (1516), che fu anche due volte in Spagna; e molti altri strumentisti di Venezia, Vicenza, Cremona, Milano, Como. E ciò vale anche per il resto d'Europa. E non si dimentichi il napoletano Giulio Cesare Brancaccio, il torinese liutista e cantante Davide Rizzio, che la tradizione dice autore di canzoni su testi scozzesi, ucciso nel 1566, alla corte di Maria Stuarda. In Polonia, abbiamo sicura notizia di un Diomede Cato, allevato colà sin dall'infanzia e divenuto famoso. E così pure sappiamo di una breve dimora fatta in Polonia dal Marenzio 1596-1598). In Francia, frottolisti, cornettisti e liutisti veronesi e mantovani influenzano l'arte dei canzonisti e un grande liutista, Alberto da Ripa (1529-51), che vi diviene signore di Carrois; Piero Mannucci è organista della "Nazione Fiorentina" a Lione (1568). Troviamo in Francia anche qualche madrigalista come il Regolo, e la concessione di un privilegio reale per la stampa veneziana dei ricercari di Marcantonio Cavazzoni (1523) fa pensare a una dimora a Parigi di quel nostro primo organista di fama internazionale. Baviera, Sassonia e Austria fanno il possibile per avere dall'Italia musicisti di prim'ordine. Andrea Gabrieli visita, insieme con Orlando di Lasso, la Baviera, la Boemia e la Renania nel 1562 al seguito di Alberto V, e G. Gabrieli dimora a Monaco quattro anni. In Baviera Girolamo della Casa, Antonio Morari di Bergamo, capo della musica strumentale, un Cesare Zacharia da Cremona, un Vincenzo Dal Pozzo, e Giulio Gigli (1581-1605), strumentista e compositore, rappresentano i varî aspetti della musicalità italiana, insieme con Cosmo Bottegari, con i fratelli Guami, lucchesi. Anche gli organisti e compositori Bernardo Mosto (1588) e Giovanni Francesco Maffon e il liutista Josquino Salem rappresentano degnamente la già matura arte strumentale, mentre Massimo Troiano, autore di un resoconto delle feste tenute a Monaco nel 1568 per le nozze di Guglielmo V e di Renata di Lorena, inizia la serie dei musicisti avventurieri. In Sassonia Antonio Scandello, G. B. Pinelli e Teodoro Riccio, che passò da Vienna a Dresda a Königsberg per terminare forse i suoi giorni maestro di cappella ad Ansbach, stanno di fronte a una più nutrita schiera d'Italiani che serve la casa d'Austria, sia a Graz, sia a Vienna, a Praga o a Innsbruck, e che comprende il madrigalista Giorgio Florio, il grande organista Annibale Padovano, Gregorio e Francesco Turini, organista a 12 anni, uno tra i precursori della monodia strumentale; Camillo Zanotti, Francesco Milleville, Francesco Rovigo. La cappella di Filippo de Monte, sotto Massimiliano e Rodolfo II, ebbe molti dei suoi membri di nazione italiana: Liberale Zanchi e Guglielmo De Formellis, organisti. Aggiungiamo i nomi di San Casentini, Costantino e Mattia Ferrabosco, Galeno, G. B. della Gostena, Bendeneli e Bernardo Dusi, celebre trombone e fratello di Paride, cornetto non meno famoso alla corte di Sassonia. In Ungheria si passa da un Pietro Bono a Giuseppe Biffi, G. B. Morto e Claudio Monteverdi (1595).
Col Seicento l'ondata cresce e non soltanto per effetto della creazione tutta italiana dell'opera in musica, che qua e là si acclima tardi, come in Inghilterra e nella Germania settentrionale. La musica sacra italiana è ancora tenuta in gran conto e, per molto tempo, i maestri delle cappelle dell'estero sono in prevalenza italiani e intere cantorie sono spesso formate di artisti italiani. Angelo Notari, madrigalista, vive alla corte inglese dal 1612; Nicola Matteis senior v'introduce l'arte del víolino intorno al 1672. Durante il regno di Carlo II dimorano in Inghilterra Gian Battista Draghi, V. e B. Albricci, il Fede, maestro della cappella reale (1678-88) e il chitarrista Francesco Corbetta. Ladislao IV di Polonia fa rappresentare (1628) la Liberazione di Ruggero dall'isola di Alcina con le musiche di Francesca Caccini (v.). Erano già venuti dall'Italia in Polonia don Alessandro Cilli, Giovanni Francesco Anerio (1609), don Fabrizio Tiranni che ritornò in patria nel 1614, dopo tredici anni di dimora alla corte di Sigismondo III, il virtuoso Baldassare Ferri che vi restò 30 anni (1625-1655), il cav. Tarquinio Merula principe degli organisti (1624), il maestro di cappella Asprilio Pacelli (1603-1623), cui successe il celebre romano Marco Scacchi (1633-48), autore del libro Cribrum Musicum che segnò la sconfitta del partito musicale tedesco. Quantunque la guerra dei Trent'anni divenga presto un grave ostacolo allo svolgersi di una regolare cultura musicale, pure Sassonia e Austria gareggiano l'una con l'altra per accaparrarsi i migliori compositori italiani. In Sassonia troviamo G. A. Angelini-Bontempi, che diresse l'orchestra per oltre 30 anni e fu pure storico della Casa di Sassonia, e Carlo Pallavicini; V. Albricci e C. Farina vi rappresentano l'arte sacra e l'arte violinistica. L'Austria accoglie l'Albricci (1683-96), Orazio Benevoli, e poi A. Bertali, P. F. Cavalli, M. A. Cesti, A. Draghi, Benedetto Ferrari della Tiorba, Giov. Bonaventura Viviani tra gli operisti. E poi, il fecondo G. P. Sances, il liutista P. P. Megli, gli organisti G. G. Arrigoni, A. Poglietti, F. Stivorio, propagatore in Austria dell'arte veneziana insieme con G. Priuli, Giovanni Valentini e gli strumentisti e compositori G. B. Bonamente, Francesco Turini e altri. A Neuburg sul Danubio, in Baviera e in Austria, Biagio Marini aveva, intanto, diffuso la nuova tecnica del violino. Anche la Baviera si apre con maggior confidenza all'arte italiana e accoglie successivamente Giacomo Porro, Agostino Steffani, Pietro Torri e i due Bernabei, che servono la corte per quasi 60 anni (1674-1732). Le piccole corti seguono l'esempio delle maggiori. E se non è ancora sicuro che A. Corelli sia stato, oltre che a Monaco, a Heidelberg e a Hannover, sicura è la presenza dell'altro grande autore di concerti grossi Giuseppe Torelli, ad Ansbach. All'influenza francese, che dominava sotto Giovanni Federico (1771-1786), segue l'italiana favorita dal margravio Giorgio Federico. E dopo il Torelli anche il palermitano Pistocchi, compositore e grandissimo maestro di canto, dimora a lungo a quella corte. In Francia l'opera italiana prende piede un po' tardi (1645), ma alla Francia l'Italia invia, ambasciatori della sua civiltà musicale e creatori di un'arte che è compromesso tra lo stile italiano e il gusto francese, Baldassarino di Belgioioso, creatore del balletto di corte, G. B. Lulli creatore della tragédie en musique, ossia dell'opera francese; il violinista Lazarino detto Lazarin (1636) gli operisti Marco Marazzoli, Carlo Caproli, P. F. Cavalli e Luigi Rossi e i due sommi strumentisti Carlo Rossi, suonatore d'arpa doppia, e Francesco Corbetta di Pavia (1656), capo di una compagnia di chitarristi, il quale aveva già percorso tutta l'Europa ed era forse il più famoso chitarrista del suo tempo. A Bruxelles troviamo Vincenzo Guami, sino al 1612, Pietro Torri (1697-1707) e (1608) G. Frescobaldi. E in Spagna sembra sia stato Andrea Falconieri nel 1621.
Nel Settecento il flutto straripa. Soltanto in Inghilterra possiamo contare una sessantina di compositori durante il secolo e la cifra diventa più che doppia se vi aggiungiamo i cantori e strumentisti di grido, gran parte dei quali sono tra i migliori che l'Italia abbia prodotti. Altrettanti compositori, cantori e strumentisti, si possono contare mettendo insieme Baviera, Austria e Sassonia. Si rinuncia a trascrivere un sempliee elenco di nomi. L'Inghilterra, del resto, non ha avuto nel Settecento una scuola sua e i musicisti italiani possono riuscire soltanto a lumeggiare un'ambiente nel quale vissero ed operarono alcuni mediatori tra lo stile della generazione nata intorno al 1690-700 e quella nata intorno al 1730-40: così M. Vento, G. Cr. Bach, T. Giordani, F. Giardini e pochi altri. Tuttavia molti artisti e soprattutto molte musiche passarono dall'Inghilterra in Francia, e questo è un fatto da non potersi trascurare, quando si voglia scrivere la storia della musica francese, in particolar modo della strumentale. Quanto all'Austria, vi operarono i migliori compositori di scuola veneziana e bolognese e di essi i maggiori sono: G. B. Bononcini, A. Caldara, L. A. Predieri, Traetta, M. A. Ziani e inoltre il napoletano N. Porpora. Si aggiungano A. Salieri, rimasto per circa 50 anni compositore di corte, e D. Cimarosa, il quale scrisse a Vienna, mentre era di ritorno da Pietroburgo (1792), Il matrimonio segreto. Quanto alla Sassonia, a cominciare da A. Lotti, si giunge alla fine del secolo con F. Morlacchi, il quale è l'ultimo Italiano che abbia diretto un teatro di corte in Germania. Da Dresda si può dire passino i migliori strumentisti italiani e B. Campagnoli diviene maestro dei concerti del Gewandhaus di Lipsia e vi rimane sino al 1817. Musicisti impresarî - tipici i due Mingotti - portano l'opera italiana dappertutto, talora per decennî. Anche nella musica saera gl'Italiani resistono validamente con A. Boroni e G. A. Ristori, e un Cristoforo Babbi vi rimane maestro dei concerti per 34 anni (1780-1814). Anche Salisburgo e Bonn vedono, a corte, musicisti italiani (Giuseppe Lolli, Giuseppe Scarlatti, G. M. Lucchesi). A Stoccarda, il teatro e l'orchestra attingono importanza europea sotto la direzione di N. Jommelli, il quale opera tra G. A. Brescianello (1717-57) ed Eligio Celestino (1776-81). In un dato momento Stoccarda riunisce sotto la bacchetta dello Jommelli quanto di meglio poteva allora offrire l'arte del violino: A. Lolli, P. Bini, P. Nardini, D. Ferrari. Anche in Danimarca si susseguono, con qualche interruzione, tre direttori e compositori italiani: Bartolomeo Bernardi, P. Scalabrini e G. Sarti. Berlino con Sofia Carlotta di Hannover vede un periodo di splendore musicale (1697-1702) con A. Ariosti G. B. e M. A. Bononcini, C. F. Cesarini, F. B. Conti, Giuseppe Torelli. Ma alla corte di Federico II soltanto i cantanti sono italiani. In Olanda, Locatelli sale in così alta stima che i soci della Società di concerti, alla sua morte prendono il lutto.
Anche la Spagna e il Portogallo hanno, ora, i loro musicisti italiani. La Spagna ospita Domenico Scarlatti, Luigi Boccherini, Domenico Alberti, G. A. Paganelli e G. Brunetti, oltre al famosissimo cantante Farinelli. Nel Portogallo D. Scarlatti dimora quattro anni (1721-25) e Gaetano Maria Schiassi vi opera a lungo. Verso la Francia vanno specialmente gli strumentisti e, in particolare, i violinisti nella prima metà del secolo mentre, verso la fine, prevalgono gli operisti. A. Besozzi, L. Boccherini, A. B. Bruni, G. G. Cambini, i fratelli A. e G. Canavasso, il Carminati, F. Chiabrano, D. Ferrari e Iacopo Gottifredo Ferrari, Federico Fiorillo, M. Lombardini-Sirmen, G. Madoni, il Maestrino, il Pellegrino, G. Pugnani, F. Ruggi, G. B. Somis, G. Traversa, G. B. Viotti, M. Mascitti bastano a dirci che cosa debba l'arte francese del violino al continuo esempio dei maestri italiani: anche senza contare che coloro i quali sono stimati i capiscuola dell'arte violinistica francese studiarono in Italia o con Italiani o con allievi d'Italiani. La Querelle des bouffons (1752) è il primo esplodere di un italianismo già diffuso ma tenuto, sino allora, a freno dallo sciovinismo di letterati francesi. A. Bambini, il famoso cembalista della compagnia, un sorprendente accompagnatore di soli dieci anni, strappa gridi di ammirazione a J.-J. Rousseau e rafforza il successo del Manelli, della Tonelli e degli altri cantanti. È un grande trionfo ma passeggero. L'opera buffa italiana vincerà la partita soltanto per via indiretta: perché sarà un italiano, E. R. Duni, emigrato a Parigi nel 1757 dalla corte di Parma, colui che riuscirà a dare, per la prima volta, unità e stile al frammentario opéra-comique e aprirà la strada a tutta una serie di fecondi compositori francesi e, più in là, anche italiani. Nella seconda metà del secolo anche i compositori italiani si fanno strada; accanto al Gluck, A. Salieri, N. Piccinni, A. Sacchini, L. Cherubini, F. Blangini, G. Paisiello aprono la strada al successo fulmineo, il primo grande successo dell'Ottocento, di Gaspare Spontini. E la sua Vestale prepara, di lontano, il lungo regno di G. Rossini. In Polonia Gioacchino Albertini (1784) e Pietro Persichini.
Anche la Russia si apre nel '700 alla musica italiana: tra i compositori ricordiamo Francesco Araia, napoletano (v.), che introdusse in Russia l'opera italiana e fu per 20 anni compositore di corte e consigliere di stato; Baldassarre Galuppi, Giovanni Paisiello, che fu dal 1776 al 1784 compositore di corte di Caterina II ed ebbe grandi successi; D. Cimarosa, che prima del soggiorno a Vienna era stato quattro anni a Pietroburgo; F. Antonolini, Gaetano Andreozzi, Vincenzo Manfredini, maestro dello zar Paolo I, Domenico dall'Oglio, violinista e compositore per 30 anni; Giuseppe Sarti, che successe al Paisiello come compositore di corte e fondò un'accademia da cui uscirono molti insigni musicisti russi.
Il sec. XIX vide trionfare all'estero i più grandi musicisti italiani: Gaspare Spontini fu compositore di corte di Napoleone e di Luigi XVIII, passò quindi a Berlino, soprintendente generale della musica del re, e là fece moltissimo per il miglioramento dell'educazione musicale dei cantanti tedeschi; Gioacchino Rossini fu per circa un quarantennio il sovrano del mondo intellettuale parigino; Vincenzo Bellini, chiamato a Parigi, vi compose I Puritani; Gaetano Donizetti suscitò deliranti entusiasmi con le sue numerose opere a Vienna, ove nel 1842 era maestro di corte, e a Parigi tra il 1838 e il 1843.
Ma occorre avvertire che quasi tutti i musicisti italiani del secolo scorso e contemporanei compirono innumerevoli viaggi all'estero, onde sarebbe troppo lungo soltanto accennare ad essi. Tra gli altri che a paesi stranieri dedicarono particolarmente la loro opera ricordiamo Muzio Clementi, fondatore della moderna scuola di pianoforte, che insegnò soprattutto a Londra (1777-1832); Domenico Dragonetti che fu per 52 anni (1794-1846) in Inghilterra, quale primo contrabasso del Teatro Reale e dei concerti di corte; Francesco Morlacchi dal 1810 al '41 primo maestro della cappella reale e direttore dell'opera italiana a Dresda; sir Michele Costa, che fu dal 1830 all'84 in Inghilterra quale direttore del Teatro Reale, del Covent Garden, delle Società filarmonica e di Armonia sacra; Ferdinando Paer, emiliano, maestro di cappella a Dresda, poi a Parigi ove diresse anche l'Opéra-comique, il Teatro Italiano (1812-1817) e fu membro dell'Istituto di Francia; Nicolò Paganini, il più celebre dei violinisti, che ebbe nelle principali città d'Europa clamorosi successi. Giuseppe Verdi scrisse per la Francia I Vespri Siciliani (1855) e per il khediwe d'Egitto l'Aida (1871), in occasione dell'apertura del canale di Suez; Michele Carafa, a Parigi dal 1827 al 1872, insegnò al conservatorio e compose numerose opere teatrali e due balli; Ferruccio Busoni, insigne pianista, insegnò nei conservatorî di Helsingfors, Mosca, Boston, Berlino, Vienna.
Tra i cantanti meritano di essere ricordati almeno Angelica Catalani, in Germania, Inghilterra e Francia, che diresse per tre anni (1814-17) il Teatro italiano di Parigi; Adelina Patti, F. Tamagno, A. Cotogni, E. Caruso, M. Battistini e i più celebrati dei viventi, nei maggiori teatri d'Europa e d'America. Tra i compositori viventi notiamo: Franco Alfano in Cermania e in Francia; Alfredo Casella, Ildebrando Pizzetti e Ottorino Respighi: i quali tutti soggiornarono più o meno a lungo all'estero, acquistandosi alta rinomanza; tra i direttori d'orchestra Arturo Toscanini, salito in altissima fama in America, che fu il primo straniero chiamato al teatro di Wagner a Bayreuth (1931).
Attori. - Appena si costituirono in compagnie regolari, i comici italiani della commedia dell'arte vollero tentare le scene straniere. In Francia essi hanno una storia quasi ininterrotta dalla fine del sec. XVI alla fine del XVIII. La prima compagnia della quale si ha notizia sicura è quella di Zan Ganassa. Nel 1577, desiderati dal re appaiono i Comici gelosi; nel 1583 ottiene vive accoglienze la compagnia di Battista Lazzaro, e l'anno dopo quella dei Comici confidenti, che si ferma qualche anno. Ricompaiono nel 1588, e pure rimangono per qualche tempo, i Gelosi. Nel 1600 a una compagnia che recitava all'Hôtel de Bourgogne succede la compagnia dei Fedeli, della quale fa parte Isabella Andreini, che riporta veri trionfi. La stessa compagnia, sotto la direzione di G. B. Andreini, è chiamata a Parigi da Maria de' Medici, e vi fa lunghi soggiorni dal 1613 al 1625, rinnovandosi quasi ogni anno con artisti che, nel frattempo, avevano acquistato un nome in Italia; nel 1639, per invito di Luigi XIII, entra a farne parte Tiberio Fiorilli (Scaramuccia), che si volle, dai Francesi stessi, maestro a Molière. Nel 1600, quando ha per direttore Andrea Zanotti (Ottavio), la compagnia dei commedianti italiani prende la forma di compagnia permanente e recita al Palais Royal alternativamente con quella di Molière; l'anno seguente vi esordisce Domenico Biancolelli, con successo enorme. Nel 1684 la compagnia riceve un suo regolamento, che la fa considerare come al servizio regolare; ma va perdendo il suo carattere di "Compagnia della Commedia dell'Arte". Nello svolgimento degli scenarî i comici introducono battute in lingua francese, che diventano così numerose ed essenziali da indurre i commedianti francesi a portare le loro proteste fin davanti al re. I comici italiani hanno causa vinta, ma ne perde la commedia italiana. Non soltanto si aumentano le battute in francese, ma si recitano commedie francesi, introducendo soggetti audaci per la politica e per la morale, e sollevando proteste. La Fausse prude ha come conseguenza l'espulsione dalla Francia dei comici italiani (1697). Il re autorizzi però il comico Tortoriti e un macchinista a formare due compagnie di elementi misti, ma in prevalenza francesi o francesizzati, per recitare in provincia. Nel 1716 il reggente, duca d'Orléans, incarica Luigi Andrea Riccoboni (Lelio) di formare e condurre in Francia una compagnia di comici italiani: il successo è grande, ma breve. Si torna al repertorio misto (1718). A questo repertorio si aggiungono parodie, comédie mêlées de chants (che preludono alla commedia musicale e al vaudeville), gli scherzi burleschi di Marivaux, ecc. Nel 1723 la compagnia prende il titolo di Comédiens italiens ordinaires du roi; ma d'italiano non ha più che il nome e la tradizione. Si pensa seriamente a una riforma e si dà incarico a Carlo Goldoni di dare nuova vita al teatro italiano di Parigi, ma gli sforzi del Goldoni naufragano, benché egli riporti successi personali come autore. Nel 1780 i comici italiani vengono licenziati dal Théâtre italien.
A Parigi e in Francia recitarono comici italiani anche fuori di questa che può essere considerata la "commedia italiana" e che ha avuto poche interruzioni. Ricordiamo Flaminio Scala, noto autore di scenarî, che recitò nel 1600 a Lione con Cecchini, e poi nelle Fiandre e nel Brabante: Giovanni Tabarini (o Tabarin), che vi fu nel 1570 con Ganassa e vi rimase poi con l'altro italiano Mondor, diventando celebre e legando il suo nome a spettacoli speciali. I comici italiani portarono in Francia una vera e profonda rivoluzione nei dialoghi e nelle farse dei saltimbanchi e determinarono il costituirsi di compagnie regolari - o quasi - nella provincia: e una radicale innovazione nella recitazione. È noto che la commedia dell'arte fu fonte della nuova commedia francese.
Dalla fine del Seicento a quella del Settecento i comici italiani, direttamente o attraverso Parigi, si sparsero per altre corti e paesi d'Europa. G. Tabarin con i suoi compagni nel 1568 recitò a Linz, nel 1570-1571 e nel 1574 a Vienna. Nel 1570 era a Vienna il Pantalone Pasquati, e vi riportava grandi elogi anche nella tragedia e nella pastorale. Tristano Martinelli, col fratello Drusiano, nel 1572 era in Inghilterra e nel 1588 in Spagna. Nel 1613-14 Pier Maria Cecchini (Frittellino) recitava a Vienna, alla corte dell'imperatore Mattia. Nel 1687 e nel 1691 la compagnia di Franeesco Calderoni era al servizio dell'elettore di Sassonia, e recitava a Monaco e nelle principali città dell'Impero. Al servizio dell'elettore di Sassonia e re di Polonia, nel 1697-98 era la compagnia di Angelo Costantini, e quella di Giovanni Toscani, che diede rappresentazioni a Dresda e Varsavia, Nel 1707 il Ristori, direttore dei comici italiani a Vienna, riformò la compagnia, chiamandovi i Bertoldi e il Bellotti. Nel 1727, M. A. Riccoboni ottenne dal duca d'Orléans di portare la compagnia per due mesi in Inghilterra. Antonio Sacco, che si trovava con i suoi attori nel 1742 in Russia, fu accolto e generosamente premiato per le sue recite a Lisbona nel 1753, poi fu chiamato a recitare a Innsbruck e altrove dalla corte imperiale; era paragonato a Garrick e a Préville.
La Rivoluzione francese troncò questa emigrazione di comici italiani in Francia. Solo nel 1830 si recò a Parigi Carolina Internari, con repertorio italiano, e riportò notevolissimi successi. Nel 1855 affrontò Parigi e la Francia Adelaide Ristori, con l'ultima edizione della Compagnia reale sarda, e ottenne grandissimo successo con Mirra di Alfieri; a Parigi tornò nel 1856 e nel 1857, recitando Medea di Legouvé e conseguendo un successo tale da annebbiare la gloria della Rachel; nel 1861 recitò in francese, a Parigi e in provincia, la nuova tragedia di Legouvé, Béatrix; e vi tornò nel 1865 accolta sempre con lo stesso entusiasmo. Trionfarono sulle scene parigine, tra gli altri, Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, Flavio Andò, Eleonora Duse e Carlo Rosaspina, che aprì una scuola di recitazione italiana. Dopo i successi parigini della Ristori e del Salvini, il quale assieme a Ernesto Rossi, aveva suscitato entusiasmi anche in Russia, tutti i teatri d'Europa e d'America si aprirono ai comici italiani di qualche nome. Il teatro italiano era accolto con frequenza ad Alessandria e al Cairo; Corfù e Atene ospitavano di frequente, oltre gli artisti di gran nome, le compagnie regolari.
Verso il 1880 le escursioni all'estero delle compagnie italiane si moltiplicano con modificazioni di direzione. Si restringono i giri negli stati d'Europa e si allargano quelli nell'America Centrale e Meridionale, dove i nostri artisti toccano anche i piccoli centri. L'interesse per gli attori italiani è tenuto vivo in special modo da due grandi impresari: Cesare Ciacchi e Luigi Ducci.
Qualche comico rimane nel paese e vi istituisce scuole: vi forma compagnie che finiscono per trasformarsi in compagnie argentine o brasiliane. Anche di recente si è rinnovato il tentativo e oggi ancora esiste a Buenos Aires una scuola fiorente sotto la direzione della Cassini-Rizzotto.
Possono ancora menzionarsi, tra i moltissimi: la Ristori, che fece il giro del mondo e fu anche, unica attrice italiana, in Australia; Adelaide Tessero, che seguì la Ristori in Europa e in America; Eleonora Duse, che fu ripetutamente in Russia, a Vienna numerosissime volte, a Londra (1893, 1903, 1906, 1923), in Germania, in Scandinavia, nell'America Meridionale (1897-1913) e Settentrionale, e morì a Pittsburg alla vigilia del suo ritorno in patria; Ermete Novelli che ebbe successi clamorosi nell'America Meridionale e recitò in moltissimi paesi europei.
Tra le compagnie dialettali vanno menzionate quelle di G. Rizzotto, G. Grasso, A. Musco. Negli anni più recenti varie compagnie italiane, anche dialettali, hanno compiuto giri all'estero, e in particolare nell'America Meridionale.
Uomini di lettere. - Dei trovatori d'Italia, Sordello da Goito fu in Provenza per 40 anni; Bonifacio Calvo, genovese, dimorò dal 1252 in poi alla corte di Alfonso X di Castiglia. Ruggero da Benevento scrisse in Ungheria una storia dell'invasione dei Mongoli; e Brunetto Latini si fermò circa sei anni in Francia, dove scrisse, in prosa francese, Li livres dou Tresor. In Boemia penetrò la cultura italiana con Enrico d'Isernia, fondatore a Praga d'una scuola di notai e di rettorica, e con Gozzo d'Orvieto, che Venceslao II chiamò per compilare un nuovo codice per il regno boemo.
Nel sec. XIV, Marsilio da Padova fu rettore dell'università di Parigi e consigliere di Ludovico IV il Bavaro, il fiorentino Roberto de' Bardi, cancelliere dell'università parigina per 13 anni. Senza accennare alla probabile andata di Dante a Parigi, ai viaggi e ai soggiorni in paesi stranieri di Giovanni Villani, di Francesco da Barberino, di Bartolomeo da S. Concordio, di Fazio degli Uberti e d'altri; senza fermarci sugli anni provenzali di Francesco Petrarca e su le sue relazioni con Convenevole da Prato, suo maestro a Carpentras, e con altri italiani ad Avignone; ricorderemo che l'Italia diede alla Francia la sua prima scrittrice: Cristina da Pizzano (Christine de Pisan), condotta in Francia nel 1368 da Tommaso, suo padre, astrologo e medico della corte di Carlo V.
Nella prima metà del Quattrocento, molti degli umanisti italiani fecero lunghe peregrinazioni per l'Europa e l'Impero d'Oriente in cerca di codici e di epigrafi antiche. A Costantinopoli insegnò rettorica per un quinquennio Antonio Cassarino da Noto (morto nel 1444). Filippo Buonaccorsi da S. Giminiano fu il vero introduttore in Polonia dell'Umanesimo italiano. In Germania, alla fine del '400, troviamo poeti umanisti come Giovanni Stefano Emiliano da Vicenza, coronato poeta da Federico III e poi da Massimiliano. Altri vissero in Francia: come Publio Gregorio Tifernate, che, dopo aver a lungo dimorato in Grecia, fu dei primi a introdurre a Parigi, intorno al 1455, lo studio del greco, e il veneziano Girolamo Balbi, umanista e giurista, professore a Parigi dal 1484, che lasciò la Francia nel 1496, andò in Inghilterra e a Vienna, ove insegnò diritto cesareo e belle lettere, e poi in Ungheria, precettore di corte. In Inghilterra, un gruppo d'umanisti italiani s'adunò intorno al duca Humphrey di Gloucester; altri ne troviamo sotto Enrico VII. Chiamato in Portogallo nel 1435, il veneziano Maffeo Pisani fu precettore del principe Alfonso, e scrisse la storia della guerra di Ceuta, da lui combattuta; Cataldo Parisio Siculo, maestro alla corte di Giovanni II di Lisbona dal 1490, scrisse De rebus gestis Iohannis regis. Più tardi furono in Spagna Guiniforte Barzizza pavese (1400-1460 c.), consigliere di Alfonso re d'Aragona e celebratore delle imprese di lui, e i poeti Antonio Gerardini d'Amelia e Bartolomeo Gentile Falamonica, genovese. Molti Italiani si raccolsero intorno a Mattia Corvino e a Beatrice d'Aragona, creando in Ungheria un vero centro di cultura umanistica italiana: rammenteremo Antonio Bonfini ascolano (1427-1502), che divenne il primo storico dell'Ungheria; Aurelio Brandolini, detto Lippo, fiorentino, che professò parecchi anni eloquenza a Buda; Galeotto Marzio, che scrisse la biografia del re, ne educò il figlio Giovanni e diresse la biblioteea di Buda, al cui arricchimento e ordinamento provvidero gli umanisti Taddeo Ugoletti da Parma e Bartolomeo Fonzio fiorentino (1445-1513). Enea Silvio Piccolomini importò in Boemia l'Umanesimo italiano, e scrisse la storia della Boemia.
Nel sec. XVI, l'immigrazione fu assai frequente in Francia. Luigi Alamanni è il massimo rappresentante dell'italianismo in Francia; Bernardo Tasso nella corte di Enrico II scrisse l'Amadigi; Matteo Maria Bandello, che seguì in Francia Cesare Fregoso, fu in relazione con Margherita di Navarra ed ebbe da Enrico II il vescovato di Agen (1550); Giammaria Barbieri, vissuto otto anni a Parigi dal 1538, fu dei primi a illustrare la poesia provenzale. Per menzionare altri meno noti, Girolamo Aleandri, ebraicista ed ellenista friulano, iniziò a Parigi, nel 1508, l'insegnamento regolare del greco; a lungo vissero in Francia l'umanista e poeta Publio Fausto Andrelini da Forlì, professore alla Sorbona, e il veronese Paolo Emili, autore dell'opera De rebus gestis Francorum. La corte di Francesco I divenne una piccola Italia: il re aveva avuto maestro l'umanista bresciano Giovanni Francesco Conti, detto Quinziano Stoa (1484-1557); Agostino Giustiniani, chiamato da Francesco I, insegnò dal 1515 al 1522 lingue orientali nell'università di Parigi, seguito da due professori di lingua ebraica, il veneziano Paolo Paradisi, soprannominato Canossa, e il calabrese Agacio Guidacerio. Trasferitosi in Francia nel 1522, Benedetto Tagliacarne da Sarzana vi pubblicò, col nome di Teocreno, i suoi Poëmata, e fu maestro del figlio del re; Andrea Alciato, famoso giureconsulto, insegnò a Bourges, chiamatovi da Francesco I. Lione divenne per i Fiorentini una seconda patria: vi andarono Bernardo Davanzati, Francesco Giuntini e una schiera di stampatori, dei quali il più noto è Iacopo Giunti. Sotto Enrico II, Francesco II e Carlo IX, dimorò in Francia il veneziano Michele Soriano, autore d'una storia di Francia. Flaminio Birago milanese, colonnello francese e gentiluomo di Enrico III, compose versi in francese. Prospero Santacroce scrisse la storia delle guerre civili. Sotto Caterina de' Medici ed Enrico II, gl'Italiani ebbero il predominio nella corte e nella cultura francese. Anche i paesi iberici ebbero dall'Italia forte impulso alla loro rinascita. Andrea Navagero (1483-1529), nel suo lungo soggiorno a Granata, divenne amico del poeta Juan Boscán, al quale insegnò a far sonetti spagnoli alla maniera degl'Italiani. Sono note le relazioni con gl'Italiani di Carlo V, che elesse Paolo Giovio suo storiografo. Lucio Marineo tenne per dodici anni scuola di lettere a Salamanca, e scrisse più opere in gloria della Spagna. Una storia De bello Granatensi scrisse anche il suo contemporaneo Pietro Santeramo. Visse in Catalogna Antonio Lofrasso, d'Alghero, che compose in castigliano un romanzo pastorale (1573). Il messinese Giovanni Antonio Viperano (nato circa nel 1540) fu, sino al 1587, cappellano di corte e storiografo di Filippo II. Giovanni Pietro Bonamici aprì a Lisbona nel 1501 una tipografia; nove anni dimorò in Portogallo il gesuita bergamasco Giampiero Maffei, che scrisse in latino la storia della conquista delle Indie.
L'immigrazione italiana fu attiva in Inghilterra, raggiungendo il culmine sotto Enrico VIII ed Elisabetta. Andrea Ammonio lucchese, segretario di Enrico VIII per le lettere latine, ne cantò le vittorie sulla Francia in un poema latino; Polidoro Virgilio urbinate visse in Inghilterra ed ebbe da Enrico VII l'incarico di scriverne la storia (1534); Petruccio Ubaldini, dopo aver militato per Enrico VIII, divenne storico di Edoardo VI; Giovanni Florio fu insigne filologo e propagatore nella corte di Elisabetta della conoscenza della nostra letteratura. Girolamo Falletti da Trino insegnò, dal 1534 circa, nell'università di Lovanio, descrisse la guerra di Francia coi Paesi Bassi nel suo poema De bello Sicambrico, e andò poi in Germania, e in Polonia; Ludovico Guicciardini, nipote di Francesco, visse a lungo nei Paesi Bassi e li descrisse. Il risveglio degli studî in Germania si dovette, più che agl'Italiani ivi emigrati, ai Tedeschi che dall'ultimo trentennio del '400 a tutto il '500 vennero a studiare in Italia. Il gesuita Angelo Cospi bolognese lesse umanità nello Studio di Vienna. Paolo Amalteo di Pordenone fu alla corte di Massimiliano I, che lo incoronò poeta e cominciò a scrivere le gesta del suo mecenate. Valentiniano Polidamo viveva in Polonia nel 1543, nel quale anno pubblicò ivi un saggio della storia ungherese; Francesco Stancari mantovano fu professore d'ebraico in Polonia e in Prussia. Giovanni Michele Bruto veneziano fu lo storico del re Stefano Báthory e di Rodolfo II, per l'Ungheria. Alessandro Guagnino veronese militò a lungo nell'esercito polacco, e scrisse una storia in latino della Polonia. Il dotto ferrarese Celio Calcagnini, nel 1517, si recò in Ungheria al seguito del cardinale Ippolito d'Este. Il letterato milanese Girolamo Benzoni non meno di quattordici anni, dal 1521, visse in America, e scrisse una storia del Nuovo Mondo.
Nel sec. XVII, Arrigo Caterino Davila militò in Francia e divenne lo storico delle guerre civili di quella nazione; Ottavio Rinuccini accompagnò Maria de' Medici, per le cui nozze con Enrico IV aveva scritto l'Euridice (1600); G. B. Marino fu l'idolo della corte di Maria de' Medici e poi di Luigi XIII. Il vicentino Galeazzo Gualdo Priorato (1606-1678), guerriero e diplomatico in varî paesi d'Europa e nel Brasile, fu chiamato in Francia dal Mazzarino a scriver la storia del suo ministero, e a Vienna a scriver quella di Leopoldo I. Camillo Lilii da Camerino ebbe il titolo di storiografo di Luigi XIV. Vittorio Siri, parmigiano, storico degli avvenimenti europei contemporanei, chiamato in Francia da Luigi XIV, ebbe dal re i titoli di consigliere, elemosiniere e storiografo. Il genovese Giov. Paolo Marana (1642-1693) scrisse e pubblicò a Parigi nel 1684 l'Espion du Grand Seigneur dans les cours des princes chrétiens, che servì poi di modello alle Lettres Persanes del Montesquieu. Visse molti anni nella Spagna, e a Vienna, Francesco Pilo Melone di Sassari, ottimo scrittore in lingua spagnola; Giuseppe Camerino da Fano compose Novelas amorosas (1624); membro del consiglio privato di Filippo IV, che lo inviò ambasciatore in Inghilterra, e storico regio fu il bolognese Virgilio Malvezzi; Paolo Antonio di Tarsia da Conversano giovine si trasferì a Madrid, ove scrisse gran parte delle sue opere, in italiano, in latino e in spagnolo; verso la metà del '600, fu per sette anni alla corte di Madrid Giulio Rospigliosi, poi papa Clemente IX, che primo adattò in forma melodrammatica i drammi di Calderón. A Lovanio Roberto Bellarmino lesse sette anni teologia; Guido Bentivoglio, andato nunzio in Fiandra nel 1607, divenne lo storico della guerra di Fiandra. Importante la dimora in Inghilterra dello storico e romanziere dalmata Giov. Francesco Biondi (1572-1644), gentiluomo del re e autore di una storia delle guerre tra le case di York e di Lancaster, che Henry Carey tradusse. Addetti alla corte austriaca, il perugino Ludovico Aureli scrisse una storia della rivoluzione di Germania e di Boemia, l'anconitano Prospero Bonarelli compose parecchie opere teatrali. L'imperatore Ferdinando III fece fondare a Vienna dall'arciduca Leopoldo, nel 1656, un'accademia italiana, di cui facevano parte dieci patrizî italiani, tutti viventi in quella corte, con a capo Raimondo Montecuccoli. Il trentino Ascanio Triangi (1638-1696), consigliere reggente per l'Austria inferiore, scrisse la storia della guerra contro l'imperatore Leopoldo I (1693). Giuniano Pierelli fu poeta a Vienna, imperando Leopoldo (1658-1705), e scrisse il poema Vienna difesa. Il bergamasco Niccolò Minato, verso la fine del sec. XVII inaugurò a Vienna la serie dei poeti cesarei, che continuò, sino a Clemente Bondi, vissuto a Vienna sino al 1821. Il gesuita Giulio Solimani, da Fermo (1595-1639), lesse filosofia a Praga e fu biografo dei re boemi. A Praga, da quando Rodolfo II d'Asburgo era stato incoronato re di Boemia (1575), l'influenza italiana fu assai forte. Ciro Spontoni bolognese, guerreggiando in Ungheria intorno al 1602, compose un'opera storica, Azioni dei re d'Ungheria, che divenne poi l'Istoria della Transilvania. Virginio Puccitelli da San Severino, musicista e poeta, fu segretario di Ladislao IV di Polonia; e Alessandro Cilli, tenore nella cappella reale di Sigismondo III, scrisse due opere riguardanti la storia polacca. Antonio Possevino, nunzio apostolico in Polonia, Ungheria, Svezia e Moscovia, stese una diligente descrizione e storia dell'impero moscovita, una delle prime a veder la luce su questo argomento. G. B. Donato veneziano, bailo a Costantinopoli, scrisse osservazioni sulla letteratura dei Turchi (1688), che sono la prima opera apparsa in Europa sulla cultura ottomana.
Nel sec. XVIII, da G. D. Cassini al Lagrange, dall'archeologo raguseo Anselmo Banduri, bibliotecario a Parigi, a Ennio Quirino Visconti, l'Italia diede alla Francia insigni scienziati, come coi Riccoboni attori e autori, col Galiani, col Casanova, col Goldoni, col Denina, col Gerdil e altri moltissimi le diede più o meno valenti scrittori in lingua francese. Ma altri uomini poco noti si voglion ricordare. Giovanni Oliva (morto nel 1757) curò per trentasei anni a Parigi la biblioteca del cardinale di Rohan e ne compilò il catalogo. Benemerito della cultura italiana a Parigi fu il libraio Gian Claudio Molini. Letterati e uomini politici insieme, nel tempo della Rivoluzione, furono Giuseppe Antonio Ceruti, Giuseppe Gorani, Anton Francesco Andrei e Filippo Buonarroti. Visitarono la Spagna, o a lungo ci vissero, e furono benemeriti spagnolisti, il padre Roberto Caimo, il Baretti, Pietro Napoli Signorelli e specialmente G. B. Conti da Lendinara. Paolo Rolli, Antonio Conti, l'Algarotti (che scrisse una famosa relazione sul suo viaggio in Russia), il Baretti, l'Alfieri e altri visitarono l'Inghilterra, o vi dimorarono. Insegnò lingua italiana a Londra Vincenzo Martinelli da Montecatini, autore d'una storia d'Inghilterra, la prima in lingua italiana. Fu bibliotecario del British Museum e sottosegretario di stato lo storico e filologo grigionese Giuseppe Planta.
Sono note le relazioni con gl'Italiani di Federico il Grande, nella cui corte troviamo l'Algarotti, poi Carlo Antonio Pilati, Carlo Denina, che divenne lo storico di quel re e del movimento intellettuale da lui promosso; Girolamo Lucchesini, che fu ciambellano e confidente del re, ambasciatore della Prussia a Vienna e a Parigi, e autore d'una storia della Confederazione renana; Giov. Alessio Borelli, che venne incaricato da Federico di dirigere l'edizione di parecchie sue opere e a Berlino pubblieò operette filosofiche, un giornale di pubblica istruzione e uno d'agricoltura. Fu poeta del teatro di Berlino il livornese Antonio Landi, compendiatore del Tiraboschi e autore d'una storia degl'imperatori sassoni edita in tedesco. Oltre a Gian Ludovico Bianconi (v.), ricordiamo Stefano Benedetto Pallavicini, padovano, che fu poeta di corte e segretario a Dresda di re Augusto II; Giov. Pietro Tagliazucchi modenese, poeta delle corti di Vienna, Dresda, Berlino, Monaco, Stoccarda, che lasciò un primo saggio di critica della letteratura tedesca contemporanea (1755). Il Landau ha provato che dalla fine del Seicento sino alla metà del sec. XVIII l'influsso italiano prevalse esclusivo nella vita intellettuale dell'Austria, e si formò a Vienna un centro di scienziati poeti predicatori italiani. Tralasciando i poeti cesarei (P. Bernardoni, A. S. Stampiglia, A. Zeno, P. Pariati, G. C. Pasquini, P. Metastasio, G. B. Casti e altri), citeremo solo Giambattista Gaspari di Levico, professore di storia nell'università di Vienna e prefetto riformatore degli studî di belle lettere nell'Austria tedesca. Il re di Polonia Stanislao Poniatowski favorì singolarmente gl'Italiani: la lingua e la musica italiana erano familiari nella corte: bibliotecario, mons. Giovanni Albertoni, archeologo, che nel 1771 venne in Italia a raccoglier libri e manoscritti riferentisi alla Polonia. In Russia, Francesco Angiolini, piacentino, dedicò a Caterina II un poemetto in russo. Visse due anni in Danimarca il padre Isidoro Bianchi da Cremona, e scrisse un'opera sullo stato della letteratura in quel paese. L'Asia fu specialmente illustrata dai missionarî. Il padre Giuseppe C. Beschi conobbe così addentro la lingua tamulica, che primo fece conoscere agli occidentali, da scrivere in quella lingua poemi e trattati. Il padre Ippolito Desideri, pistoiese, trattò per primo della dottrina di Buddha. Vero fondatore dell'archeologia americana è il milanese Lorenzo Boturini Benaducci, che visse nel Messico dal 1736 al 1745. Il gesuita Antonio Macioni d'Iglesias (morto nel Paraguay nel 1755) pubblicò in spagnolo parecchie opere sui popoli americani. Benemeriti degli studî americani furono anche i gesuiti Francesco Salvatore Gilli, per diciotto anni missionario a Quito. Anche negli Stati Uniti si esplica l'azione degl'Italiani; basti ricordare il toscano Filippo Mazzei, già chirurgo a Smirne, commerciante a Londra, che emigrò nella Virginia nel 1773. Quivi s'occupò d'agricoltura, fondò un giornale per sostenere i diritti dei coloni, e con un libro di ricerche storico-politiche sugli Stati Uniti contribuì a far conoscere all'Europa la repubblica americana.
Impossibile seguire nel mondo i più ragguardevoli italiani nel secolo XIX, o anche solo enumerare i viaggiatori che descrissero i loro viaggi, gl'improvvisatori di versi e i nostri esuli letterati. Ci contenteremo anche qui di rammentare alcuni italiani meno noti. Parigi, com'è naturale, fu piena d'Italiani nell'età napoleonica. Tralasciando i più illustri, citeremo Giovanni Ferri da Fano, che fu adoperato da Napoleone per il riordinamento delle pubbliche scuole e scrisse molte opere in francese, e i filologi Giosafatte Biagioli e Antonio Buttura. Più tardi, Pier Angelo Fiorentino. attivo e vivace giornalista, fu collaboratore dei romanzi del Dumas; Giacomo Alessandro Bixio fondò con M. Buloz la Revue des Deux Mondes; professore di archeologia nell'Accademia di Francia fu il romano Pietro Ercole Visconti; presiedette all'lstituto storico di Francia e fece una relazione in favore del taglio dell'istmo di Suez il genovese Antonio Brignole Sale; Benedetto Melzi fu diiettore della scuola di lingue moderne a Parigi e compilò un nuovo dizionario enciclopedico. La larga ospitalità che trovarono tra gl'Inglesi nei primi anni del sec. XIX L. Da Ponte, F. Pananti, G. B. Belzoni, U. Foscolo, G. Pecchio e altri illustri, fece dell'Inghilterra la patria ideale dei nostri esuli: occorre appena ricordare Antonio Panizzi, conservatore del British Museum e creatore della biblioteca di tipo moderno, e Giovanni Ruffini, romanziere in inglese; Giovanni Bezzi da Casal Monferrato, esule del 1821, riparò in Inghilterra, dove professò letteratura inglese nel Queen's College e fu uno dei fondatori della Royal Academy a Londra. Molti Italiani troviamo a Vienna, oltre agli ultimi poeti melodrammatici di corte, come Clemente Bondi, Giuseppe Carpani e Pietro Bagnoli. Vent'anni dimorò a Vienna, scrittore e insegnante, Alessandro Bazzani. Nella Svizzera, Michele Ferrucci di Lugo insegnò letteratura latina a Ginevra e fu uno dei fondatori della ginevrina Società di storia e archeologia. Filippo De Boni da Caupo presso Feltre, storico e giornalista, fu dal 1849 al 1860 a Zurigo, dove pubblicò la Cronaca mensile delle cose europee. Anche nell'Asia fecero ricerche e studî i nostri dotti. Il domenicano Giuseppe Campanile percorse l'Oriente negli anni 1802-12, e specialmente il Kurdistan, di cui scrisse la storia; vent'anni rimase missionario in Persia mons. Leopoldo Sebastiani, romano, autore della storia dell'Indostan (1821); il milanese G. B. Rampoldi (1761-1836) viaggiò in gioventù in Asia e in America, accumulando materiali per i suoi annali musulmani e la sua storia degli Arabi. Negli Stati Uniti fu araldo d'italianità nei primi anni dell'Ottocento Lorenzo Da Ponte. Il conte Serafino Frenfanelli fu giornalista negli Stati Uniti negli anni 1860-63, e vi pubblicò due libri sulla storia e la cultura del paese che lo ospitava. Fiorenzo Galli da Carrù imprese a Messico, col conte Linati di Parma, la pubblicazione di un giornale in tre lingue; passò poi in Inghilterra, in Francia, pubblicando opere storiche e filologiche. Pietro De Angelis, già segretario di Gioacchino Murat, si stabilì a Buenos Aires, dove pubblicò un giornale politico in francese, inglese e spagnolo, e compilò in sette volumi in folio la collezione dei documenti relativi alla storia del Río de la Plata. Dei viventi ricorderemo solo Gabriele d'Annunzio, che tra il 1910 e il 1915 scrisse, in Francia, alcuni drammi in francese: Le Martyre de Saint Sébastien, Le Chèvrefeuille, La Pisanelle.
Agli studî archeologici diedero un notevole contributo studiosi italiani, a cominciare dagli umanisti, che visitarono spesso la Grecia e l'Oriente, raccogliendo oggetti, epigrafi, descrizioni e disegni di monumenti: il maggiore tra essi è Ciriaco d'Ancona, che tra il 1418 e il 1448 percorse le varie regioni e isole della Grecia, l'Asia Minore, l'Egitto, lasciando preziosissime notizie. Nel sec. XVII illustri viaggiatori e raccoglitori d'oggetti antichi furono Manfredo Settala e Giovanni Pagni (quest'ultimo studiò particolarmente la zona di Cartagine); sommamente benemerito è Cornelio Magni per le descrizioni che ci ha lasciato delle antichità della Turchia e della Grecia. Nel sec. XVIII Scipione Maffei compì un lungo viaggio archeologico in Francia e scrisse poi le Gallicae antiquitates; G. F. Mariti esplorò in otto anni tutta l'isola di Cipro, la Palestina e la Siria; Domenico Sestini, professore d'archeologia a Pisa, viaggiò per 15 anni in Oriente; l'architetto piemontese G. B. Borra prese parte all'esplorazione inglese in Siria di Wood e Dawkins, e disegnò le antichità di Palmira e Ba′albek. A Giambattista Lusieri, agli architetti Sebastiano Ittar di Catania e Vincenzo Balestra e al formatore Vincenzo Rosati sono dovuti tutti i disegni e i calchi raccolti in Atene dalla spedizione di lord Elgin nel 1799; e a giudicare dei marmi del Partenone il Parlamento inglese chiamò nel 1814 Ennio Quirino Visconti, che già dal 1799 era a Parigi quale conservatore del Museo del Louvre e primo professore d'archeologia all'università. Nel sec. XIX è da ricordare anzitutto un gruppo di esploratori dell'Egitto, di cui i più importanti sono: G. B. Belzoni, che arricchì di preziosi monumenti il British Museum (1812-16), Bernardino Drovetti, che radunò due magnifiche collezioni, una delle quali fu acquistata per il Museo di Torino e l'altra formò la base del Museo Egiziano del Louvre, e raccolse molte nuove notizie, poi pubblicate a Parigi dallo Jomard. L'opera d'Ippolito Rosellini, capo della inissione toscana che accompagnò quella francese dello Champollion (1828-29), merita speciale rilievo, sia per il lavoro assuntosi, sia anche perché dopo la morte dello Champollion egli da solo pubblicò otto volumi dei Monumenti dell'Egitto e della Nubia, e l'opera fu compiuta da altri Italiani; altri importanti scavi eseguì nel 1830 l'emiliano Giuseppe Ferrini. Uno dei fondatori dell'assiriologia fu il piemontese Paolo Emilio Botta che scoprì Ninive, scavò il palazzo e la città del re Sargon I a Khorsabad (1837-44) e mandò gli oggetti rinvenuti al Museo del Louvre. A Rodi Alfredo Biliotti scoprì dopo il 1868 la necropoli di Ialiso e quelle vastissime presso Calavarda, le cui ricche suppellettili sono ora ai musei Britannico e di Berlino; Luigi Palma di Cesnola, dopo essere stato brigadiere generale negli Stati Uniti, divenuto console americano a Cipro vi condusse vastissimi scavi (1865-67), che rivelarono l'antica civiltà cipriota sino allora ignorata, e l'importantissima collezione raccolta, non prima di essere stata offerta all'Italia, costituì il primo nucleo del Metropolitan Museum di New York, di cui il Cesnola stesso fu fondatore e direttore. Fondatore del Museo greco-romano di Alessandria d'Egitto (1892-1903) fu il modenese Giuseppe Botti. Tra i contemporanei ricordiamo solo Ernesto Schiaparelli, capo della missione italiana in Egitto dal 1902 al 1924, e Federico Halbherr trentino, fondatore e direttore dal 1884 al 1930 della Missione italiana nell'isola di Creta che per primo egli esplorò interamente e dove scoprì e scavò le città di Festo, Gortina, Hagía Triáda e l'Antro Ideo.
Ecclesiastici. - Fin dagli albori del secondo millennio l'opera diretta di ecclesiastici e santi italiani appare preponderante nello sviluppo dei maggiori centri religiosi, mistici e teologici, d'oltralpe. Nei secoli XI-XIV tale apporto si orienta quasi esclusivamente verso la regione dell'occidente europeo (Francia, Inghilterra, Renania), mentre in seguito alla progressiva conquista dell'Oriente da parte della cultura latina, effetto delle grandi crociate politiche e missionarie, l'emigrazione religiosa italiana conquista anche l'Europa orientale, per estendersi nell'ultimo secolo, sia pure con diminuita intensità, a tutto il mondo civile.
Con l'opera di Lanfranco di Pavia e di S. Anselmo d'Aosta nell'abbazia normanna del Bec e nella sede arcivescovile di Canterbury ha inizio l'ondata del movimento intellettuale italiano verso l'Occidente. Prelati, pontefici, teologi italiani fanno a Cluny e a Parigi permanenze a volta provvisorie a volta stabili; ma non mancano di visitare altri centri religiosi, specialmente nella Germania occidentale. Nei secoli XIII e XIV l'università parigina accoglie la parola di S. Tommaso d'Aquino, di S. Bonaventura di Bagnoregio, del B. Ambrogio da Siena e di altri santi teologi e canonisti, intorno ai quali è una densa schiera di religiosi italiani, maestri e studenti, per lo più appartenenti ai nuovi ordini francescano e domenicano. L'opera di magistero degli ecclesiastici italiani continua intensa in questo periodo anche in Spagna, in Inghilterra (Oxford) e in Germania (Colonia).
Con le grandi figure di S. Giacomo delle Marche e di S. Giovanni Capistrano s'iniziano i diretti contatti fra la cultura religiosa italiana e i popoli dell'Oriente europeo e dei Balcani nel sec. XV. Particolarmente intensi sono i rapporti con l'Ungheria e con l'Austria durante l'accrescersi della monarchia asburgica. Dal sec. XVI al XIX le sedi episcopali di Graz, Salisburgo, Vienna, Budapest sono di frequente occupate da insigni prelati italiani; mentre gesuiti provenienti dalla penisola fanno argine al dilagare della Riforma, e francescani cercano di affermare la cultura latina nei Balcani orientali. Santi (come Francesco di Paola e Leonardo da Brindisi), teologi (come Antonio Possevino e S. Roberto Bellarmino), prelati (come Enea Silvio Piccolomini), vescovi italiani appaiono anche in Spagna, Portogallo, Francia, Fiandre, Germania e fino in Polonia e in Russia. Con il nazionalizzarsi della cultura religiosa negli stati europei decresce il contributo fino allora predominante del clero italiano oltralpe; mentre con le missioni e l'insegnamento scientifico, ma anche con il magistero eeclesiastico, si creano nuovi sbocchi negli altri continenti, specialmente nell'America Settentrionale.
Riformatori. - Numerosi sono i pensatori italiani che nel sec. XVI, rifugiatisi all'estero per aver aderito alle idee eretiche, apportarono un notevole contributo alla Riforma protestante.
Pietro Martire Vermigli, professore a Zurigo, in Germania, in Inghilterra, contribuì quivi al riordinamento ecclesiastico, Pier Paolo Vergerio, fu prosecutore di Lutero come controversista attivissimo nel Württemberg; Matteo Flacio Illirico influì con le "Centurie di Magdeburgo" sulla storiografia tedesca; Girolamo Zanchi insegnò teologia e filosofia a Strasburgo e Heidelberg; la sua opera De Natura Dei (1576) offriva una prima filosofia della religione; Giulio Pace da Vicenza, uno dei primi giuristi dell'epoca, insegnò prima all'Accademia calvinistica di Ginevra, poi a Heidelberg, a Sedan, a Montpellier, a Padova e infine a Valence; Emanuele Tremellio, ebreo convertito al calvinismo, nel 1547 in Inghilterra, professore a Cambridge, Metz, Heidelberg, Sedan, diede grande impulso agli studî ebraici in Inghilterra. Oltre a questi sono da ricordare Pietro Bizzarri ad Augusta, Galeazzo Caracciolo, i fratelli Balbani, a Ginevra.
La massa dei riformati italiani di Ginevra, di Lione e di Tolosa esercitavano la mercatura e la banca come pure i gruppi di Anversa e di Augusta, o servivano in qualità d'agenti diplomatici e politici come Vincenzo Maggi bresciano. Notevole fra le altre le famiglie degli Oltramare da Genova (in Ginevra dal 1570), nonché fra le tante lucchesi quelle dei Burlamacchi, Calandrini, Diodati, Micheli, Minutoli, Rustici, Simoni, Turrettini. Meno numerosi ma non meno attivi i gruppi di Basilea (un Ambrogio Socino vi dà origine ad una famiglia Socin che conta celebri professori dell'università) e di Zurigo, dove va ricordata soprattutto la famosa "comunità locarnese" della quale facevano parte famiglie come gli Orelli e i Pestalozzi. Ippolito de Collibus fu professore di diritto a Basilea e a Heidelberg; Bernardino Ochino partecipò attivamente all'organizzazione della chiesa italiana protestante di Zurigo e della chiesa inglese; con le sue teorie sul libero arbitrio influì fortemente sul Leibniz, con le sue concezioni sull'unità delle religioni, sulla tolleranza, sullo spiritualismo, influì direttamente sul Milton e su K. Schwenckenfeld oltreché in generale sulla società colta inglese dell'epoca. Giacomo Aconcio eon il suo De Methodo e coi suoi Stratagemmi di Satana, acquistò fama nel mondo inglese e olandese del secolo, agendo direttamente sui latitudinarî delle varie confessioni. Celio Secondo Curione, antitrinitario e spiritualista, trasfuse le sue concezioni in gran numero di trattatelli religiosi che acquistarono diffusione nelle scuole protestanti (Basilea, Strasburgo) accanto ai suoi scritti per l'insegnamento umanistico. Da Ochino e da Curione ritrasse le sue idee Sebastiano Castellion, italiano, non francese, le cui operette scolastiche furono diffusissime, e che pure influì sullo spiritualismo quacchero. Le idee di Francesco Pucci sulla religione naturale e sulla teodicea precorrono quelle del Leibniz e quelle del Herbert di Cherbury.
L'influenza dei Socini - Lelio e soprattutto suo nipote Fausto, vero fondatore del movimento sociniano e organizzatore dei dissidenti polacchi - si fece sentire direttamente e immediatamente con i cripto-sociniani (Soner, Peuschel, ecc.) all'università di Altorf, nella quale studiò il Leibniz, e sui movimenti ecclesiastici arminiano, dei rimostranti, e latitudinario; indirettamente attraverso una setta rimostrante sullo Spinoza, per venire a poco a poco accettata nel Settecento dal mondo protestante.
L'importanza dei sociniani non è del resto limitata solamente al campo strettamente ecclesiastieo, ma è notevolissima anche per tutto lo svolgimento del pensiero politico, morale e teologico del '600. Attivissimo propagatore del monoteismo razionalistico antitrinitario è il famoso Giorgio Biandrata, medico di Stefano Báthory, fondatore dell'unitarismo transilvano. A Heidelberg Scipione Gentile insegnò le teorie del più famoso fratello Alberico sul diritto delle genti, anch'esse basate sulle concezioni sociniane. Giovanni Paolo Alciati, sociniano e anabattista, dopo lunghe peregrinazioni in Svizzera, Germania, Polonia, si ritirò a Danzica; Giovanni Valentino Gentile, da Cosenza, difese e propugnò anch'egli un monoteismo antitrinitario razionalistico. Notevole è Francesco Stancaro da Mantova, ebraicista, introduttore in Polonia della teologia umanistica italiana, preparatore così del socinianesimo. Francesco Lismanin (morto nel 1563), fu anch'egli uno dei principali introduttori della Riforma in Polonia; Gerolamo Massari, da Vicenza, fu famoso per il libello in favore della tolleranza Eusebius Captivus. Iacopo Paleologo, rettore del ginnasio di Klausenburg (Cluj, in Transilvania), partecipò attivamente alla diffusione della tolleranza politica col De Magistratu politico. Agostino Doni da Cosenza sviluppò durante la sua residenza basilese le sue teorie, più audaci delle telesiane, nel De Natura Hominis. Si ricordino ancora i nomi degli umanisti Michele Bruto, Bernardino Bonifacio marchese d'Auria. Matteo Gribaldi, mentre propaga in Francia e in Germania il suo nuovo metodo di studio del diritto, afferma in quei paesi la sua concezione razionalista (antitrinitaria) della religione cristiana.
Professore e nel 1578 rettore dell'università di Basilea è Nicola Giovanni Stupano (1542-1621), biografo dei Curioni, autore di traduzioni delle opere del Patrizi, di Alessandro Piccolomini, del Machiavelli, molto discusse negli ambienti colti. Giacomo Calco da Milano insegnò teologia a Londra; protetto dall'ambasciatore inglese Morison, contro il famoso Granvelle, vescovo di Arras, nel 1551, troviamo il polemista e visionario Giovanni Leone, propugnatore d'un'unione dei cristiani con i maomettani. Una certa influenza esercitò anche negli ambienti religiosi svizzeri il veneziano Giovanni Brocardo, la cui opera sull'Apocalissi fu tradotta in inglese. Notevoli anche Simone Simonio e Marcello Squarcialupo, medici e polemisti religiosi. Editore di gran parte delle opere di questi italiani fu il tipografo Pietro Perna, anch'egli rifugiato per cause di religione a Basilea. Né è da dimenticare la lunga attività didattica (1579-91) di Giordano Bruno in Francia, Inghilterra, Germania.
Uomini d'arme. - In ogni tempo moltissimi italiani militarono nelle file di eserciti esteri. Già al principio del sec. XII la Galizia ricorreva a Pisa e Genova per marinai e costruttori di navi; nel 1146-47 i genovesi Oberto della Torre, Ansaldo Doria e Filippo Longo inflissero gravi sconfitte ai Saraceni di Spagna; alla fine del secolo un Filippo Albini si recò in Inghilterra, dove divenne ammiraglio del re e poi tutore di Enrico III, anglicizzando il suo nome in Daubency. Nel 1229-31 la flotta di Guglielmo Boccanegra, chiamata dagli Spagnoli, cacciò i Mori dalle Baleari; nel 1264 fu ammiraglio di Castiglia il patrizio genovese Ugone Vento. In Francia Luigi IX noleggiò nel 1248 una flotta genovese con gli ammiragli Iacopo da Levanto e Ugo Lercari, e un'altra nel 1270, comandata da Filippo Cavaronco e Ansaldo Doria; nel 1272 commise a Simone Boccanegra, pure genovese, la costruzione delle mura di Aiguesmortes (Provenza). Nel 1294 Enrico Marchese fondò un arsenale marittimo a Rouen; nel 1296 Filippo il Bello affidò la direzione della guerra marittima contro gli Inglesi a Benedetto Zaccaria, che era stato per molti anni a capo della marina spagnola. Montano de Marinis, genovese, tracciò la colonia di Galata, a Costantinopoli, e la cinse di mura (1315), mentre i consoli genovesi Giov. de Scaffa e Gotifredo de Zoagli dal 1342 al 1352 eressero la colonia di Caffa, in Crimea. Mura e castelli genovesi e veneziani mostrano ancor oggi le loro rovine in tutte le isole e le coste del Levante. Nel 1307 fu ammiraglio di Francia Raniero Grimaldi; comandanti di squadre francesi nella guerra contro l'Inghilterra furono Carlo Grimaldi, Antonio Doria, Pietro Barbavara. Nel 1385 il piemontese Tommaso Ghilini fu uno dei marescialli di Francia sotto Carlo VI. In Portogallo si distinse durante i secoli XIV e XV la famiglia dei Pessagno: dalla quale uscirono otto famosi ammiragli (Emanuele, Carlo, Bartolomeo, Lanzerotto, Emanuele II, Lanzerotto II, Emanuele III). In Inghilterra troviamo ammiraglio di Edoardo II Leonardo Pessagno, ammiraglio di Edoardo III, Oberto e Niccolò Usodimare, Pietro Bardi.
Nel sec. XV Giosafatte Barbaro, veneziano, e Tomaso da Imola si recarono presso lo scià di Persia e concorsero con le loro bombarde ad assicurargli la vittoria contro Maometto II (1472). Si iniziavano allora i secoli durante i quali gl'Italiani sul mare e gli Ungheresi nell'Europa continentale dovevano sostenere l'urto dei Turchi. Moltissimi poi furono gl'Italiani accorsi in Ungheria nel Medioevo; sulla fine del sec. XIV, il fiorentino Filippo Scolari, detto Pippo Spano, ebbe dal re Gismondo (1382) i più delicati uffici del regno, da lui difeso contro i baroni ribelli e contro i Turchi. Dopo lo Spano, l'Ungheria continuò ad accogliere per tutto il sec. XV una quantità d'Italiani, uomini d'arme e ingegneri. In Francia nel sec. XV Gian Giacomo Trivulzio, lombardo, e suo nipote Teodoro divenivano marescialli e governatori di provincie; il conte di Campobasso e altri furono al servizio di Carlo il Temerario duca di Borgogna. Gl'Italiani erano allora ritenuti "i maestri della cavalleria". Quasi nello stesso tempo varî Toscani si fissavano in Polonia, tra i quali alcuni membri della famiglia dei Torelli: uno di essi, conte di Montechiarugolo, fu il capostipite della famiglia da cui nacquero Stanislao Poniatowski generale di Carlo XII, e poi Stanislao Augusto re di Polonia.
Col Rinascimento, epoca di grande trasformazione dell'arte della guerra in genere, e della fortificazione in specie, per l'introduzione delle artiglierie, i nostri architetti delle scuole di Urbino, Firenze e Roma si sparsero dappertutto. In Spagna dal 1550 al 1700 si contano oltre 150 Italiani che vi furono ingegneri militari: fra i quali, nel sec. XVI, Benedetto da Ravenna, Gabriele Tadini di Martinengo, Giovan Battista Calvi, che fu il primo a stabilire un sistema generale di difese stabili della penisola, Giacomo Palearo e Adeodato Ferramolino. Anche nelle colonie americane spagnole lavorarono i nostri ingegneri militari: Battista Antonelli fortificò Cuba e Portorico; Cristoforo Bernardini, Diego Giordano e Leonardo Torriano le Filippine; Prospero Casola le Canarie; infine G. B. Antonelli, che per i lavori da lui diretti per rendere navigabili i grandi fiumi della Spagna è considerato il "padre della navigazione interna della Spagna". Sul finire del secolo e nel successivo lavorarono in Spagna gl'ingegneri Fabio e Francesco Borsotto, padre e figlio; Tiburzio Spannocchi, romano, divenne ingegnere capo e membro del consiglio supremo di Castiglia, partecipò alla spedizione delle Azzorre, lavorò alle fortificazioni di Pamplona, di Lisbona, di Cadice e di altre città e impiantò nella Spagna il primo deposito cartografico di stato. La direzione suprema della marina spagnola fu tenuta per 32 anni da Andrea Doria, coadiuvato da una serie d'illustri ammiragli genovesi. In Francia nel lungo periodo di guerra tra essa e l'Impero e nelle guerre civili di religione, la costruzione delle fortezze e le operazioni belliche furono in gran parte affidate a ingegneri italiani che nella sola Francia furono oltre cento. Pietro Strozzi (1510-1558) combatté come generale delle galere nella guerra franco-inglese, difese Metz contro Carlo V, riconquistò Calais agl'Inglesi, e assediò Thionville (era allora maresciallo di Francia). Tra i primi ingegneri che applicarono il sistema bastionato italiano nel nord d'Europa, sono Antonio da Castello, Donato Buono dei Pelizzuoli, Giantomaso Scala. La città di Le Havre, importantissima per la sua posizione di fronte all'Inghilterra, fu completamente rifatta con piano regolatore progettato ed eseguito dal senese Girolamo Bellarmati, poi sostituito da Giulio Spinelli di Urbino. In tali anni furono pure in Francia varî membri della famiglia dei conti di Savorgnan, friulani, dei quali in un secolo e mezzo ben sette furono valenti ingegneri militari. Molto lavorò nella Champagne un altro friulano, il ricordato Scala, che, fra l'altro, costruì il bastione della Maddalena a Valenciennes (uno dei primi di tale tipo) e passò poi in Inghilterra e in Scozia. Gerolamo Marini, bolognese, combatté per Enrico II, fortificò Landrecies, difese strenuamente Saint-Dizier, assediata dagli Spagnoli condotti da Ferrante Gonzaga, mentre all'attacco era Mario Savorgnano. Nelle guerre di religione di Francia diede la sua opera tra gli altri Vincenzo Locatelli, cremonese, che ricostruì La Rochelle; Marco Aurelio da Pasino ferrarese, detto dai francesi "Maurel", progettò e costruì l'intera città di Sedan e scrisse il primo trattato di fortificazione in francese. Con l'esercito imperiale combatté Emanuele Filiberto di Savoia, che vinse i Francesi nella battaglia di S. Quintino; Francesco Pacciotto da Urbino costruì la fortezza di Anversa, "regina delle fortezze d'Europa". Per la Spagna combatté anche, in Fiandra, con molti altri Italiani, Alessandro Farnese che conquistò Maastricht, Bruges, Ypres, Gand, Anversa e costrinse Enrico IV a levar l'assedio da Parigi (1590). Sul finire del sec. XVI combatteva e moriva in Francia Scipione Vergano. Il maggior merito della vittoria di Montcontour contro gli ugonotti è dovuto a Sforza Sforza, a capo d'un esercito d'Italiani. In Francia sono ancora da ricordare gli ammiragli Leone e Filippo Strozzi, Flaminio Orsini, Alberto Gondi, governatore della Provenza, fiorentini; i marescialli Giovanni Caracciolo e Alfonso d'Ornano, còrso, che combatté per Enrico IV in Provenza, nel Delfinato, sconfisse gli Spagnoli, fu fatto luogotenente generale della Guienna, e come sindaco di Bordeaux fece prosciugare le paludi vicine alla città. Il figlio Gian Battista fu pure maresciallo di Francia, governatore di Pont-Saint. Esprit e luogotenente di Normandia.
Anche l'Impero si avvalse moltissimo dell'opera d'Italiani. Giovan Battista Castaldo, napoletano, combatté come generale in Ungheria contro i Turchi e in Fiandra; Gabrio Serbelloni, mantovano, combatté in Ungheria, difese Esztergom contro i Turchi, combatté contro la Lega smalcaldica, alla battaglia di Lepanto, in Africa, e divenne generale supremo delle artiglierie e degl'ingegneri imperiali. Il marchese Sforza Pallavicini, parmigiano, fu capitano generale di cavalleria e combatté in Germania e in Ungheria colne maresciallo. In questo periodo erano in Ungheria numerosi ingegneri italiani per fortificare varie località contro i Turchi in modo particolare vanno ricordate le fortezze di Agria (Eger) e di Giavarino (Györ), opere italiane nei cui lavori si successero diecine e diecine di connazionali.
Nel sec. XVII l'opera degl'ingegneri militari italiani all'estero fu ancora vastissima, sebbene già sorgessero nei singoli stati scuole di tecnica militare da essi stessi create. In Spagna, sebbene questo secolo segni un periodo di arresto, pure non pochi furono i nostri ingegneri che lavorarono; le storie ne registrano cirea 83. Tra i maggiori notiamo Gabrio Serbelloni; Luigi Carducci, Giuliano e Cesare Faruffini che tennero scuola d'artiglieria e fortificazione in Madrid; i Dell'Isola, Ascanio della Cornia. Dove maggiormente rifulse l'opera degl'ingegneri e condottieri italiani al servizio della Spagna fu in Fiandra: Francesco Tensini, cremasco, partecipò a 18 assedî e divenne luogotenente generale d'artiglieria; Girolamo Caraffa, abruzzese, vi combatté a lungo; morto il Farnese, prese il comando supremo nella Francia settentrionale e fu gravemente ferito; poi combatté in Boemia per Ferdinando II, che lo creò consigliere intimo e principe del S.R.I. (1620); fu quindi viceré di Spagna e capitano generale d'Aragona; Andrea Cantelmi, comandante in capo delle armate spagnole in Catalogna, fu in Fiandra generale d'artiglieria e governatore; e numerosissimi altri Italiani combatterono in Fiandra sotto il comando di Alessandro Farnese e di Ambrogio Spinola. Al comando di squadre navali spagnole contro Francia, Olanda e Inghilterra furono Giannettino II, Andrea II e Carlo II Doria. Nella guerra ibero-portoghese contro gli Olandesi in Brasile ebbe parte importantissima Giovan Vincenzo Sanfelice, conte di Bagnuolo.
Al servizio francese troviamo, tra gli altri, Filippo Emanuele Gondi, (1581-1662) generale delle galere, Tommaso di Savoia, ammiraglio, e il piemontese F. M. Broglia che combatté in Fiandra e in Spagna e divenne maresciallo, luogotenente generale e governatore della Bastiglia. Al servizio dell'Impero è da ricordare anzitutto il celebre Raimondo Montecuccoli. Nei territorî orientali combatté Giorgio Basta, scrittore di opere militari, maestro di Rampoldo di Collalto, mantovano (figlio di un altro maresciallo dell'Impero), il quale combatté in Boemia, in Transilvania e in Fiandra, fu maresciallo di campo e presidente del Consiglio aulico di Vienna. Il generale d'esercito Giovanni Ludovico Isolani combatté 38 anni per l'Impero (1602-40) contro i Turchi, gli Svedesi, i protestanti e i Francesi e fu fatto da Ferdinando III conte del S.R.I. Buon ingegnere e condottiero in Austria, in Spagna e in Oriente fu anche Alessandro Dal Borro, aretino (1600-1656). Contemporaneo del Dal Borro, Ottavio Piccolomini, senese, fu nell'esercito spagnolo e poi in Germania. Sulla metà del secolo XVII alla dipendenza dell'Impero erano Francesco Antonelli col grado d'ingegnere generale, e Luigi Ferdinando Marsili, bolognese, dotto scienziato e ingegnere militare valentissimo, che nella guerra contro il Turco preparò la difesa della Raab; liberò dall'assedio turco Alba Reale (Székesfehérvár), alla pace del 1689 venne eletto commissario imperiale in Costantinopoli. Nella seconda metà del secolo il maresciallo Giovanni Piccolomini, romano, si distinse valorosamente contro i Turchi, si fece ardente fautore della loro cacciata dall'Europa e della restaurazione dei territorî quasi deserti del basso Danubio con genti d'Italia; contro i Turchi combatterono i marescialli Carlo Clemente Pellegrino, comandante in capo del genio, e Antonio Caraffa, che espugnò Eger, Munkács e Belgrado (1688). Comandante di tutte le artiglierie imperiali sulla fine del secolo era Germanico di Strassoldo, goriziano. Verso la fine del secolo altri Italiani raggiunsero i più alti gradi nell'esercito imperiale: Enea Silvio di Caprara, bolognese, partecipò alle guerre contro Svedesi, Turchi e Francesi, fu maresciallo di campo, comandante supremo in Ungheria e vice-presidente del consiglio aulico; l'urbinate Federico Ambrogio Veterani difese Vienna nel 1683, organizzò la cavalleria ungherese, poi combatté per 12 anni contro i Turchi. In tutte le accennate guerre non mancano ingegneri militari italiani più specialmente addetti alle opere di fortificazione; Giovanni Pieroni fu alla difesa di Vienna, poi rafforzò Magyaróvár, Presburgo, Pest, Györ e Praga. Sempre in Germania, ma nel campo contrario all'imperatore, era un altro famosissimo architetto e ingegnere militare, Rocco Linari, da Marradi, che nel 1578 era capo degl'ingegneri di Brandeburgo, ministro di stato e consigliere: suo capolavoro è la fortezza di Spandau e specialmente la cittadella nell'isola al confluente della Sprea e del Havel. In Polonia si ricordano Giovan Battista Fediani, lucchese, capitano delle artiglierie e governatore di Varsavia nel 1573: Alessandro Guagnin che combatté in Moldavia e in Moscovia e a 35 anni era governatore di Vitebsk; Annibale Porrone, lombardo, fu generale maggiore del regno. A cavallo tra i secoli XVII e XVIII rifulge la grande figura di Eugenio di Savoia, uno dei maggiori genî militari dei tempi moderni.
Nel sec. XVIII fra gl'ingegneri militari a servizio di Spagna si distinsero il tenente generale Francesco Sabbatini, romano; Michele Roncali-Destefanis, che fu alla guerra del Portogallo, elevò fortificazioni in Catalogna e in America, fu anche ministro di stato. Furono marescialli e grandi di Spagna il lombardo Vittorio Amedeo Besso e suo figlio Filippo; il sardo Giacomo Maiones, generale, fu direttore delle scuole spagnole di artiglieria e genio. Alessandro Malaspina prese parte alle azioni navali del 1780-81-82. In Francia raggiunsero il maresciallato nel sec. XVIII Vittorio Maurizio di Broglio, piemontese, che fu anche ministro della guerra, e il figlio Francesco Maria nel 1758; Andrea Massena, duca di Rivoli, e Giovan Michele Ravicchio, torinese; il romagnolo Luigi di Narbone-Lara fu ministro della Guerra di Luigi XVI, poi luogotenente generale, aiutante di campo di Napoleone. In Varsavia Bartolomeo Folino impiantò una scuola del genio militare e nel 1774 fu fatto nobile al pari di Giuseppe Sagramoso per il valore dimostrato in guerra. Un forte gruppo d'Italiani in questo secolo XVIII furono elevati ai più alti gradi militari dell'Impero. Il marchese Alessandro Maffei, veronese, maresciallo di campo, governatore di Namur, cooperò validamente alle grandi vittorie del principe Eugenio contro i Turchi; e il pugliese Francesco Saverio Marullo fu feldmaresciallo, consigliere di stato e di guerra. Francesco del Guasco, cuneese, servì prima nell'esercito russo, poi in quello austriaco; divenne maresciallo; per la sua difesa di Schweidnitz (1762) contro Federico II fu detto il Leonida del sec. XVIII. Quasi a lui contemporaneo fu il generale Pietro Alessandro conte del Guasco da Mondovì, anch'egli coltissimo e valoroso al servizio dell'Austria; il conte Ernesto Federico Giannone si distinse come ufficiale del genio in varie battaglie e assedî e divenne maresciallo. Pressoché eguale storia ebbero i marescialli Giovan Battista Serbelloni, milanese; Giov. Antonio Bettoni, lombardo; Giacomo di Botta Adorno, cremonese; Giovanni Cavallini, pugliese, che combatté nel Belgio e contro i Turchi. Federico Manfredini, veneto, fu generale nella guerra anglo-russa, magnate d'Ungheria, ministro di stato; Giovanni Nobile, padovano, maresciallo, luogotenente e direttore dell'Accademia degl'ingegneri.
Nel sec. XIX ricordiamo in Spagna il milanese Guglielmo Minali, eroico difensore di Gerona contro l'invasione napoleonica, il maresciallo Luigi Margueli di Savona e l'ammiraglio Federico Gravina, riformatore della marina spagnola; nel Portogallo, Carlo Antonio Galeani-Napione, comandante supremo e riformatore degli eserciti di terra e di mare. In Francia numerosissimi furono i condottieri italiani attorno a Napoleone, tra i quali i generali Giuseppe Lechi, Achille Fontanelli, Gaetano Costa, Cosimo del Fante, Maurizio Fresia, il marinaio Giuseppe Bavastro e altri. Il generale G. Bonomo riorganizzò il genio militare austriaco, e dopo diciassette campagne contro i Francesi e i Turchi morì maresciallo; Natale Beroaldo-Bianchini, modenese, generale d'artiglieria, impiantò la grandiosa fabbrica d'artiglieria di Vienna; Federico Bianchi combatté validamente contro Napoleone e fu membro del Consiglio aulico di guerra; il milanese Ferdinando Serbelloni fu maresciallo d'Austria e comandante militare del Vorarlberg. Sono da ricordare anche i due ammiragli Francesco Bandiera, padre dei due eroici fratelli, e Silvestro Dandolo, i fondatori della marina austriaca. In Russia furono Filippo Paolucci piemontese, aiutante generale dello zar, che vinse i Turchi e i Persiani (1810) e fu poi governatore della Curlandia e della Livonia; e Luigi Gianotti, luogotenente generale, cui fu affidata l'educazione militare del granduca Nicola. Chiudiamo questa serie dei grandi condottieri italiani all'estero ricordando le eroiche imprese di Giuseppe Garibaldi nell'America Latina (1836-1848) e in Francia (1870-71).
Uomini politici. - Oltre ai militari, non pochi uomini politici italiani hanno lasciato il loro nome legato alla storia di altri paesi, sulla quale alcuni di essi hanno profondamente influito. Tralasciamo la schiera di principesse italiane divenute regine di grandi e piccoli stati, molte delle quali, per la loro alta cultura o per la loro sapienza politica, ebbero un'importanza grandissima negli avvenimenti storici e nello sviluppo intellettuale dei singoli paesi, come Maria Luisa Gabriella di Savoia (1688-1714), Elisabetta Farnese (1692-1766), Maria Luisa di Borbone-Parma (1754-1819) e Maria Luisa di Borbone-Napoli (1806-1878), regine di Spagna; Mafalda di Savoia (1125-58) e Maria Francesca Isabella di Savoia (1646-83), regine di Portogallo; Beatrice di Savoia (1206-66), contessa di Provenza, Luisa di Savoia (1476-1531), reggente di Francia e madre di Francesco I, Caterina (1518-89) e Maria (1573-1642) de' Medici, regine di Francia, Barbara Gonzaga (1456-1503), duchessa del Württemberg, Adelaide di Savoia (1636-76), elettrice di Baviera; Beatrice d'Aragona (1457-1508), regina d'Ungheria, Berta di Savoia (1052-88), imperatrice di Germania; Bona Sforza (1493-1557) e Maria Luigia Gonzaga (1612-1667), regine di Polonia; Anna di Savoia (1305-60) imperatrice d'Oriente, ecc. Tra i maggiori uomini politici notiamo: in Spagna Carmine Caracciolo che fu viceré del Perù (1716); il cardinale Giulio Alberoni, primo ministro di Filippo V. In Ungheria i cardinali Ippolito d'Este e Gabriele Rangone, entrambi gran cancellieri di Mattia Corvino; Mercurino Arborio di Gattinara, vercellese, che fu dal 1507 al 1518 presidente del parlamento di Borgogna, poi consigliere e ambasciatore dell'imperatore Massimiliano, infine cancelliere di Carlo V; in Germania, Guelfo d'Este (sec. XI), duca di Baviera e fondatore della casa elettorale di Brunswick e Girolamo Lucchesini, che tra il 1788 e il 1806 ambasciatore del re di Prussia in Polonia, Francia, Inghilterra, compì le più importanti missioni diplomatiche; in Polonia il giurista fiorentino Scipione Piattoli ebbe gran parte negli ultimi avvenimenti politici del regno e fu l'ispiratore della costituzione del 1791; in Turchia Gaspare Graziani fu ambasciatore del sultano presso l'imperatore e fu fatto principe di Moldavia, ma, ribellatosi, fu sconfitto e ucciso; Marco Polo ebbe importanti cariche politiche alla corte imperiale della Cina; G. B. Pastene, verso la metà del '500, fu più volte presidente del cabildo di Santiago del Chile.
Alcuni missionarî italiani ricoprirono importanti cariche politiche: il gesuita Giuseppe Costantino Beschi (1680-1746) fu ministro del principe di Madura in India, e il cappuccino Domenico Reynaudi da Villafranca (1808-93), presidente del parlamento bulgaro.
Molti e importanti uomini politici ebbe da noi la Francia: Galeazzo San Severino influì notevolmente nella politica estera di Carlo VIII e da Luigi XII fu nominato grande scudiere di Francia; Livio Crotto, senese, fu maggiordomo e ambasciatore di Francesco I; Ludovico Gonzaga, duca di Nevers, oltreché come militare si distinse come valentissimo politico per 38 anni (1557-95); Concino Concini, ministro di Luigi XI, fu a lungo l'uomo più potente della corte francese (1600-17); e soprattutto il cardinale Giulio Mazzarino, primo ministro dal 1643 al 1661, sotto il cui governo la Francia aumentò grandemente in estensione e in potenza. Nel secolo scorso Luigi Corvetto, genovese, fu ministro delle Finanze di Luigi XVIII in Francia; il già citato Giacomo Alessandro Bixio, ligure, fu capo di gabinetto del governo provvisorio del 1848, poi vice-presidente dell'Assemblea, e sotto Luigi Napoleone ministro dell'Agricoltura e del Commercio. È da ricordare infine che furono figli d'Italiani il rivoluzionario Gian Paolo Marat, Leone Gambetta, il presidente della Repubblica Argentina C. Pellegrini ed Emanuele Belgrano.
Scienziati. - Con la scuola di Salerno (v. medicina) sorge il primo centro della scienza rinnovata, i cui maestri sono ricercati dappertutto; verso di essa convergono discepoli da ogni parte d'Europa.
Nell'alchimia gl'Italiani attingono nuovi procedimenti al mondo bizantino, e diffondono per l'Europa le dottrine di varie sette orientali. Vi è tutto un vasto movimento i cui frutti si vedranno solo nei secoli successivi, ma i cui autori rimangono anonimi: come anonimi sono i compilatori, certamente italiani, di quel libro di alchimia che per lungo tempo fu attribuito all'arabo Geber, e da cui si può dire cominci la chimica occidentale. Nei secoli XII e XIII ci appare fra i medici Lanfranco, che nel 1295 insegnò chirurgia a Parigi e vi ebbe numerosissimi allievi. Nell'università di Parigi abbondavano i dottori italiani; nei secoli XIV e XV si segnalarono varî chimici, alchimisti, artefici e clerici vagantes, la cui personalità purtroppo sfugge alla documentazione critica, come sfugge anche quella d'uno dei loro principali maestri, Arnaldo da Villanova. Fra i medici si segnala Pantaleone da Confienza, che viaggiò molto, ed esercitò anche in Polonia.
Nel sec. XVI vanno menzionati il matematico e medico Gerolamo Cardano, noto per l'attività svolta in Scozia, in Gran Bretagna, nei Paesi Bassi e in Germania; tra i naturalisti Ulisse Aldrovandi, Prospero Alpino, botanico e medico, che viaggiò in Grecia e in Egitto e fu professore di botanica a Parigi; Antonio Brassavola, botanico, fisico e medico, che fu chiamato a consulto da Carlo V e da Enrico VIII; tra i medici Giovanni Argenterio, che esercitò la medicina a Lione ed Anversa; Giorgio Biandrata, che fu medico alla corte di Polonia e venne chiamato in Transilvania a curare il voivoda János Zápolya; Prospero Borgarucci, di Canziano, che fu nominato da Carlo IX di Francia medico di corte; Leonardo Botallo, che fu medico di Carlo IX e di Enrico III; Nicola Buccella, di Padova, che nel 1576 andò in Polonia e fu medico di Stefano Báthory; Cristoforo Guarinoni, chiamato da Rodolfo II a Praga, ne divenne medico e eonsigliere e fondò in quella città un'accademia di medicina (morto nel 1654); Guido Guidi, notissimo per l'attività svolta in Francia, ove fu medico di Francesco I e professore nel Collège de France; Giovanni Manardi, uno dei più grandi medici del suo tempo, dal 1513 medico del re Ladislao d'Ungheria e quindi del suo successore Luigi II; Pietro Andrea Mattioli, che nel 1554 venne invitato da Ferdinando I alla corte di Praga e divenne medico di Massimiliano II; Geronimo Mercuriali, che anch'egli (1569) fu medico di Massimiliano II, a Vienna; Giovanni Pianeri, di Quinzano, che andò alla corte di Vienna nel 1553 e vi si trattenne a lungo; Giuseppe Salando, di Bergamo, che esercitò medicina nella Stiria e fu anch'egli poi a Vienna, medico di Ferdinando I e di Massimiliano II.
Nel sec. XVII che segna, con la scuola di Galileo, l'espansione della fisica e dell'astronomia italiana, domina a Parigi la celebre dinastia dei Cassini, che si possono ben a ragione considerare i fondatori dell'astronomia francese: Gian Domenico Cassini, il figlio Giacomo, i nipoti Cesare Francesco Cassini di Thury, e Giacomo Filippo Maraldi, e il pronipote Giacomo Domenico Cassini. Fra i medici ricordiamo Gerolamo Brassavola, di Ferrara (1628-1705) che fu medico di Cristina di Svezia; Giuseppe Cervi, di Parma (1663-1748), invitato in Spagna dalla regina Elisabetta, divenne primo medico del re Filippo V e della famiglia reale; Raimondo Giovanni Forti, di Verona (1603-1678), fu chiamato a Vienna a curare Leopoldo II; Pio Nicolò de Garelli, di Bologna (1670-1739), fu medico personale di Carlo VI, curò il re del Portogallo, fu presidente della biblioteca imperiale di Vienna; Angelo Sala, di Vicenza, dal 1609 al 1625 esercitò la medicina a Winterthur (Svizzera), a Zurigo, all'Aia, ad Amburgo, nel 1625 venne nominato medico del duca Giovanni Alberto II di Meclemburgo e morì a Bützow nel 1637, lasciando varie notevoli opere medico-chimiche.
Nel sec. XVIII vanno ricordati anzitutto il nome di Giuseppe Luigi Lagrange, a torto rivendicato dalla Francia, il creatore della meccanica analitica, che successe ad Eulero nella direzione dell'Accademia di Berlino e si trasferì a Parigi solo nel 1787, dopo la morte di Federico il Grande. Fra gli astronomi ricordiamo: Giacomo Marinoni, di Udine (1676-1755), nominato matematico di corte di Leopoldo I, costruì a Vienna uno splendido osservatorio; Giuseppe Piazzi, che si segnalò a Parigi, compì importanti osservazioni nella Francia settentrionale ed ebbe premiati dall'Institut de France i suoi cataloghi stellari; Gianfrancesco Salvemini, di Castiglione Lucchese (1709-1791), che viaggiò in Svizzera e in Olanda, tenne cattedra di astronomia e matematica a Utrecht, fu poi chiamato alla corte di Federico II e nominato professore nel Collegio d'artiglieria. Tra i naturalisti, il bolognese Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), si dedicò in Francia agli studî di storia naturale: Luigi XIV lo ebbe in alta stima e lo fece membro dell'Accademia; Giovanni Antonio Scopoli, prima botanico e poi mineralogista, dal 1766 fu professore di mineralogia nell'Accademia montanistica di Schemnitz (Baňská Štiavnica); vario tempo visse all'estero anche il celebre Lazzaro Spallanzani, che viaggiò per studio in Svizzera (1779) e lungo le coste del Mediterraneo (1781) e visitò nel 1785 Costantinopoli, Corfù e Cipro. Tra gl'ingegneri civili: Giovanni Antonio Lecchi fu chiamato a Vienna da Maria Teresa e divenne matematico e idraulico di corte; Tiberio Cavallo, pubblicò nel 1777 in inglese un trattato d'elettricità che fu tradotto in tutte le lingue colte, e fece a Londra la prima ascensione in pallone due anni prima dei Montgolfier (fatto attestato dall'Accademia reale di Londra, e troppo poco noto agl'Italiani); Vincenzo Lunardi, che compì a Londra, il 15 settembre 1784, una memorabile ascensione in pallone, seguita da altre, in Inghilterra e in Portogallo. Tra i fisici: Giovanni Aldini, che fece notevolissime esperienze sul galvanismo a Parigi e a Londra ed ebbe ampî riconoscimenti specie in Francia; e Giovanni Carafa, duca di Noja. Dei viaggi scientifici di Alessandro Volta verrà detto più ampiamente nell'articolo a lui dedicato. Tra i geografi: Antonio Rizzi Zannoni padovano, che fu dal governo francese inviato nel Canada per determinare i confini di quella colonia; Adriano Balbi, dimorato lungamente a Parigi ove pubblicò gran parte delle sue opere, e nel 1833 chiamato a Vienna consigliere imperiale per la geografia e la statistica; Cesare Francesco Cassini di Thury, già ricordato, autore col Legendre e col Méchain del collegamento geodetico della Gran Bretagna con la Francia; Vincenzo Maria Coronelli, che lavorò a Parigi a due globi geografici per Luigi XIV; Alessandro Malaspina, che fu al servizio della Spagna, e compì poi nel suo giro del mondo (1785-88) e nei suoi viaggi lungo le coste del Pacifico (1789-94) numerose scoperte scientifiche. Tra i medici: Paolo Assalini, che fu medico dell'esercito napoleonico, compì studî su speciali malattie in Egitto, a Cadice, a Giaffa, e fu poi nominato da Napoleone primo chirurgo della corte; Giovanni Ludovico Bianconi, che fu alla corte del principe-vescovo d'Augusta (1744-1750), poi a Dresda a quella di Augusto III, di cui divenne consigliere; Francesco Giuseppe Guglielmo Botta, noto medico e storico piemontese, che si recò nel 1794 a Parigi, fu inviato a Corfù direttore di quell'ospedale, fu poi deputato all'assemblea legislativa francese e nel 1815 venne nominato rettore dell'Accademia di Nancy; Giovanni Alessandro Brambilla, che fu chirurgo dell'esercito austriaco, venne protetto e onorato da Giuseppe II, diresse sino al 1795 l'Accademia militare medico-chirurgica (Josephinum) da lui promossa; Onofrio Buonfigli, che studiò in Germania, esercitò a Cracovia e divenne poi medico di corte del re di Polonia; Nicola Fontana, di Cremona, che fu chirurgo in India, e compì notevoli osservazioni sulle malattie tropicali; Giuseppe Nicola Forlenze, di Picerno (1751-1833), che viaggiò in Grecia e per la fama conquistatasi come oculista fu chiamato a Parigi, ove rimase sino alla morte; Francesco Pajola, di Venezia (1741-1816), che si perfezionò in Francia, nel 1804 fu chiamato a Vienna ove suscitò la più alta ammirazione come chirurgo litotomista, nel 1807 andò a Wilno, quindi a Pietroburgo e fu poi ancora a Vienna; Natale Giuseppe Pallucci, di Firenze (1716-1797), autore d'importanti studî sulla cateratta e sulla litotomia, che fu chiamato a Vienna ove esercitò con grande successo fino alla morte; Francesco Roncalli Parolino, di Brescia (1692-1763), che fu medico della corte di Spagna e condusse una notevole inchiesta sulle malattie e sui metodi terapeutici dei varî paesi d'Europa; Giuseppe Antonio Testa, che fu lungamente in Inghilterra e vi pubblicò un' importante opera; Andrea Vaccà-Berlinghieri, di Pisa (1773-1820), che si perfezionò e crebbe in fama in Francia e in Inghilterra e lasciò importanti lavori; Eusebio Valli, di Pistoia (1762-1816), che si recò a Smirne e a Costantinopoli per studiarvi una epidemia di peste, per dieci anni fu medico militare in Dalmazia e in Polonia, si recò poi all'Avana (1815) per studiarvi la febbre gialla e vi morì di tale malattia.
Nel sec. XIX troviamo anzitutto due grandi fisici: Mossotti e Melloni. Ottaviano Fabrizio Mossotti, nato a Novara nel 1791, studiò a Pavia con Brunacci e Volta; andò in Francia e in Inghilterra, ove fu accolto con molta stima. Chiamato dapprima in Argentina, passò poi come professore a Corfù. La sua opera principale è la teoria matematica dei dielettrici, che ebbe larghi svolgimenti all'estero (Clausius, ecc.), e proviene dalle concezioni del Mossotti sulla costituzione della materia, esposte nella prolusione alle lezioni di Corfù. Macedonio Melloni (1811-1853), esule in Francia nel 1831, insegnò a Dôle e a Ginevra, dove lavorò con Ch.-G. de la Rive e condusse avanti i suoi studî sul calore raggiante. Girolamo Segato (1789-1836) è noto per aver scoperto, dopo studi nelle necropoli egiziane, il processo d'imbalsamazione lapidea dei cadaveri il cui segreto portò con sé nella tomba. Ricordiamo che l'illustre fisico forlivese Carlo Matteueci (1811-1868) lavorò alcuni anni a Parigi, fu nominato professore a Pisa su istanza di Arago e Humboldt, e pubblicò in francese le sue principali opere sull'elettricità. Antonio Meucci, l'inventore del telefono, lavorò gran parte della sua vita all'estero. Ricordiamo ancora il fisiologo lombardo Giuseppe Albini, che fu professore a Cracovia; Salvatore Alessi, medico e letterato siciliano, che fu per molti anni medico a Pietroburgo e vi scrisse opere pregevoli; l'astronomo romano Emilio Diamilla-Müller, che fu per molti anni all'osservatorio di Parigi; il dott. Guelpa, padre di Guglielmo, che esercitò e scrisse a Parigi; l'etnologo H. E. Giglioli, che fu il primo italiano a compiere un viaggio veramente scientifico intorno al mondo (1865-68) e studiò profondamente le civiltà dell'America precolombiana. Guglielmo Libri (1803-1869), autore della celebre Storia delle matematiche in Italia, emigrò nel 1830 per ragioni politiche, passò in Francia, vi divenne professore di analisi alla Sorbona, e ispettore generale della Pubblica Istruzione.
Fra i contemporanei ricorderemo, oltre a Guglielmo Marconi in Inghilterra, i fisiologi Guglielmo Guelpa, a Parigi, e sir Aldo Castellani, professore di medicina tropicale alle università di New Orleans e di Londra, e direttore del Ross Institute for Tropical Diseases di Londra e dell'Ist. Governativo di batteriologia di Ceylon; il mineralogista Giuseppe Cesàro, professore a Bruxelles; l'astronomo Francesco Porro, attualmente a Genova, che fu dal 1905 al 1910 direttore dell'osservatorio de La Plata in Argentina; Vilfredo Pareto, che fu per lunghi anni professore di sociologia a Losanna; Umberto Sraffa, professore di economia a Cambridge; Gioacchino Failla, la più alta autorità della radiumterapia negli Stati Uniti; Silvio Dessy, direttore dell'Istituto sperimentale d'Igiene a Buenos Aires e fondatore del grande Istituto biologico argentino; il botanico Carlo Spegazzini, professore a Buenos Aires, il geologo F. Ameghino a Buenos Aires; il mineralogista A. Raimondi, nel Perù, e moltissimi altri.
Viaggiatori ed esploratori. - Tutti i viaggiatori ed esploratori sono da annoverare, per la loro stessa attività, fra gl'Italiani all'estero, ma di ciascuno si parla alle singole voci. Qui ricorderemo, in uno sguardo complessivo, solo alcuni dei maggiori. Nel sec. XIII Giovanni da Pian del Carpine, francescano, inviato da Innocenzo IV in missione ai Tartari, penetrò per primo nel centro dell'Asia e lasciò una relazione preziosa del paese e delle genti; Niccolò, Matteo e Marco Polo svelarono agli Europei la Cina, dove soggiornarono per un ventennio; il libro di Marco costituì per lungo tempo la massima fonte delle conoscenze sull'Asia orientale e meridionale. I fratelli Vivaldi, genovesi, tentarono una spedizione intorno all'Africa, di cui si ignorò per sempre la sorte.
Nel sec. XV nuovi grandi viaggi e lunghi soggiorni nell'Oriente asiatico compirono Oderico da Pordenone, Giovanni de' Marignolli, più tardi Niccolò de' Conti che percorrevano a lungo la Persia e regioni vicine. Merito degl'Italiani è la riscoperta delle Canarie, quella delle Azzorre e delle isole del Capo Verde, nonché il riconoscimento delle vicine coste africane (Alvise da Mosto, Niccoloso da Recco). Pietro Querini fu il primo a dare notizie precise sulle regioni europee poste a nord del Circolo Polare.
Alla fine del sec. XV e al principio del XVI Cristoforo Colombo, genovese, travalica per primo l'Atlantico e credendo di aver raggiunto l'Asia, rivela invece in 4 viaggi le Antille e i paesi intorno al Mediterraneo americano, toccando anche per primo il continente presso le foci dell'Orenoco; Giovanni Caboto raggiunge l'isola di Terranova e l'estuario del S. Lorenzo; Amerigo Vespucci, in due grandi navigazioni, riconosce per intero la costa dell'America Meridionale forse fin oltre il Río de la Plata. Sebastiano Caboto riprende l'opera del padre, esplora per Carlo V le coste dell'America Meridionale, poi, stabilitosi in Inghilterra, dirige l'attività d'una grande compagnia di esplorazioni marittime; Giovanni da Verrazzano, fiorentino al servizio della Francia, esplora le coste orientali dell'America Settentrionale. Magellano nella prima circumnavigazione del globo ha compagni molti Italiani, tra i quali il maggior descrittore del memorabile viaggio, Antonio Pigafetta, vicentino.
Ancora nel sec. XVI Paolo Centurione visita la Russia e propone nuove vie al commercio veneto. Lodovico de Varthema visita l'Arabia la Persia, l'India; Giovanni da Empoli e Andrea Cassali navigano i mari delle Indie e dell'Asia orientale; Cesare de' Fedrici visita la Mesopotamia; Filippo Sassetti soggiorna a lungo nell'India; Matteo Ricci nella Cina, della quale studia e illustra caratteri, usi, costumi; Francesco Carletti mercante fiorentino, compie un giro intorno al mondo. Nel sec. XVII emerge Pietro Della Valle romano, che percorre a lungo la Turchia, la Mesopotamia, la Persia, l'India. Francesco Negri visita la Scandinavia fino al Capo Nord, Antonio Zucchelli soggiorna per sei anni nel bacino del Congo e nell'Angola.
Nel sec. XVIII due gesuiti, l'uno, il missionario trentino Eusebio Chini percorse e riconobbe la California e regioni contermini, l'altro, il pistoiese Ippolito Desideri penetrò nell'inaccessibile Tibet e ne lasciò una descrizione che è preziosa fonte di notizie sulle condizioni di quel paese al principio del secolo. Lorenzo Boturini percorse e studiò il Messico, Marco dalla Tomba l'India; alla fine del secolo Alessandro Malaspina di Mulasso in Lunigiana, al servizio della Spagna, compì un giro intorno al mondo esplorando e rilevando coste mal note dell'America sul Pacifico, solcando il Pacifico e visitandone numerosi arcipelaghi.
Fra i tanti e gloriosi nomi di esploratori italiani del secolo scorso e contemporanei basti ricordare: per l'America, Costantino Beltrami, scopritore delle sorgenti del Mississippi (1823), Antonio Raimondi, che esplorò il Perù e scoprì alcune sorgenti del Rio delle Amazzoni; Agostino Codazzi, esploratore del Venezuela e regioni contermini; Giacomo Bove, che viaggiò nell'Argentina, nella Patagonia e nella Terra del Fuoco; in Asia e in Oceania Luigi Maria de Albertis, Odoardo Beccari e lo stesso G. Bove che esplorarono Borneo, le Indie Olandesi, la Malesia, la Papuasia, ecc.; il duca degli Abruzzi e Filippo de Filippi che condussero importanti spedizioni scientifiche nel Karakorum. Sono legati alla storia della conoscenza dell'Egitto i nomi di G. B. Belzoni, Ippolito Rosellini, Giuseppe Ferlini, ecc.; esplorarono le regioni dell'alto Nilo e dei grandi laghi equatoriali Orazio Antinori (che poi studiò a lungo l'Etiopia), Giovanni Miami, Carlo Piaggia, Romolo Gessi, valoroso combattente contro i mercanti di schiavi, e Pellegrino Matteucci, che con Alfonso M. Massari fu il primo a traversare l'Africa dal Mar Rosso al Golfo di Guinea. Memorabili le spedizioni di Vittorio Bottego alla scoperta del corso del Giuba e dell'Omo. Il duca degli Abruzzi compì l'ascensione delle più alte vette del Ruwenzori (1905), e riconobbe le sorgenti dell'Uebi Scebeli (1928). Anche nelle Terre Polari Artiche si spinse la sua meravigliosa attività di viaggiatore: con Umberto Cagni compì la spedizione della Stella Polare, che raggiunse 86°33′49″ di lat.; e, primo tra gli Europei, esplorò l'Alasca ed ascese il Monte S. Elia (1897).
Missionarî. - Un ventennio appena dalla morte di S. Francesco d'Assisi, Innocenzo IV inviava (16 aprile 1245) il minorita fra Giovanni da Pian del Carpine al Gran Khan dei Tartari per invitare quel monarca a vivere in pace coi cristiani, anzi ad abbracciarne la fede, e impedire il ripetersi delle stragi commesse dalle sue orde in Ungheria, nella Moravia e in Polonia. A questa prima ambasceria seguì l'altra spedita allo stesso Gran Khan da S. Luigi IX re di Francia nel 1252 nella quale accanto al suo capo, il minorita fiammingo Guglielmo di Ruysbroek si trova fra Bartolomeo da Cremona. Contemporaneamente ai cordiglieri i frati predicatori con la congregazione da essi istituita dei Pellegrinanti per Cristo formano missionarî per la conversione dell'Oriente, sotto il qual nome si comprendeva allora vagamente tutto l'immenso e mal noto territorio ad oriente dell'Europa. Nel luglio 1253 questi "domenicani pellegrinanti per Cristo", tra i quali troviamo fra Nicolò da Pistoia, compagno nell'India del minorita fra Giovanni da Montecorvino, già erano penetrati "nelle terre dei Saraceni, dei Greci, dei Bulgari, dei Cumani, degli Etiopi, dei Soriani, dei Goti, dei Giacobiti, degli Armeni, degli Indiani, dei Tartari, degli Ungheri e delle altre nazioni infedeli dell'Oriente". Già prima del 1280 il dotto frate predicatore Ricoldo da Monte di Croce (morto nel 1320) percorrendo la Palestina, la Siria, la Turchia Asiatica, s'inoltrava fino alla Tartaria, polemizzando con i musulmani, e tornato in Italia, dettava la descrizione dei suoi viaggi pubblicata soltanto nel 1793 a Firenze.
I viaggi iniziati nel Duecento dai due grandi ordini mendicanti proseguono con maggior frequenza nella prima metà del secolo XIV, allorché Giovanni XXII con la bolla Redemptor del 1 aprile 1318, ebbe assegnato alla giurisdizione dei frati predicatori l'Impero Persiano, compresa l'Armenia, il Turkestan, con le due Bucarie e la parte occidentale dell'India; e ai frati minori il Kipciak (Mar Nero e Caucaso), l'Asia Minore, la Cina. Vennero allora in campo tre eroici francescani: Giovanni da Montecorvino (1247-1328), che stabilisce nella Cina la gerarchia cattolica e ne è primo arcivescovo; il b. Oderico da Pordenone (1286-1331) che ci lascia una preziosa relazione dei suoi viaggi attraverso la Cina, il Tibet e la Persia; Giovanni de' Marignolli (morto verso il 1358) che, entrato nel 1342 in Cambalu (Pechino) con l'ambasceria di frati minori spedita da Benedetto XII al Gran Khan Scium-ti, si ferma in Cina circa quattro anni, e inserisce nel Chronicon Bohemiae un notevole Itinerarium dei suoi viaggi. Né va taciuto l'eremitano di S. Agostino, frate Giacomo da Verona, autore di un pregevole itinerario del suo viaggio in Terra Santa (1335)
L'opera dei domenicani e dei francescani in vantaggio della fede e della cultura latina nell'Oriente si rallenta nel Quattrocento per l'accresciuta potenza degli Ottomani e le infelici condizioni della Chiesa travagliata dallo scisma. Anche allora però non mancarono insigni missionarî; primi i francescani di Terra Santa in grandissima parte italiani, i quali mentre nelle terre soggette alla mezzaluna propagano il Vangelo e la sua civiltà, divulgano per tutta l'Europa la cognizione del mondo orientale; basti ricordare il Trattato di Terra Santa e dell'Oriente, del minorita Francesco Suriano (1450-1530).
Nel sec. XVI, nonostante le condizioni politiche dell'Italia, mirabile fu l'entusiasmo col quale i minori, i predicatori, i carmelitani, gli agostiniani, la recente Compagnia di Gesù valicavano i mari per predicare il Vangelo. I gesuiti, che nove anni appena dalla lor fondazione avevano nel parmigiano Antonio Criminale il primo martire (1549), considerarono la predicazione della legge cristiana presso ogni generazione di gentili principalissimo dovere della lor vocazione. Nel vecchio mondo a dirigere i missionarî di varie nazionalità, troviamo preposto con carico di visitatore generale per l'Oriente il chietino Alessandro Valignani (1537-1606) che da Goa manda al Gran Mogol il giovane suo conterraneo Rodolfo Acquaviva d'Atri (1579); consolida e accresce le stazioni di missionari sparse per l'India, ma in modo particolare fa oggetto delle sue cure e provvidenze la cristianità del Giappone piantata da S. Francesco Saverio. E in tutto questo lavoro, usa non pochi collaboratori italiani, come per es. il bresciano Organtino Soldi (1530-1609) riconosciuto quale secondo padre della cristianità giapponese. Formato alla scuola del Valignani fu pure tutto un drappello di gesuiti italiani, missionarî e martiri illustri: Carlo Spinola di Tassarolo, i! siciliano Girolamo De Angelis, i calabresi Paolo Navarro e Camillo Costanzo, il bresciano G. B. Zola, il napoletano Antonio Capece, il piemontese Antonio Rubino, il nolano Marcello Mastrilli.
Né minor merito si acquistò il Valignani volendo e iniziando "l'impresa" della Cina, incominciata con l'applicarc in Macao allo studio del cinese i giovani Michele Ruggeri e Matteo Ricci, perché s'introducessero nell'impenetrabile continente a riprendervi la predicazione evangelica, interamente mancata dalla seconda metà del Trecento. Per tal modo, Matteo Ricci (1552-1610), ottimo divulgatore della matematica e della cosmografia presso i mandarini, aprì la schiera dei sinologi italiani, che per tutto il Seicento, di conserva coi loro confratelli fiamminghi e tedeschi, si diedero a far conoscere ai mandarini le nostre scienze e le arti, mentre presso noi venivano illustrando la civiltà cinese. Per tutto il sec. XVII la parte precipua di quest'impresa è in mano di missionarî gesuiti italiani. La Sicilia diede Nicolò Longobardi (1566-1655), Girolamo Gravina (1603-1637), Francesco Brancati (1607-1671), Prospero Intorcetta (1628-1696); la Lombardia il milanese Giacomo Rho (1590-1638) e il bresciano Giulio Aleni (1582-1649) autore di 25 opere in cinese, chiamato dai mandarini il Confucio d'Europa; il Piemonte, Alfonso Vagnoni (1566-1640) autore di sette volumi di vite di santi; la Liguria, il sarzanese Lazzaro Cattaneo (1560-1640) fondatore della cristianità di Nanchino. Alla Venezia Tridentina appartenne lo storico e geografo Martino Martini (1614-1661) che oltre a parecchi libri filosofici e teologici, dettati in cinese, pubblicò nel 1654 la De bello Tartarico historia, quindi (1655) il Novus Atlas Sinensis, opera anche oggi consultata. L'Italia meridionale diede alle missioni e alla sinologia i leccesi Sabatino de Ursis (1575-1620), Gian Andrea Lobelli (1611-1683) e il cosentino Francesco Sambiasi (1582-1649). A costoro, tutti gesuiti, vanno aggiunti fra i domenicani e i francescani - quasi tutti spagnoli - che nel 3° decennio del Seicento penetrarono in Cina dalle Filippine i tre domenicani fiorentini Angelo Antonino Cocchi O. P. (1597-1633), fondatore della missione di Fu-kien, Vittorio Ricci (morto nel 1676) e Timoteo Bottigli (1621-1662). Tra i francescani si ricordano i vicarî apostolicî fra Basilio Brollo di Gemona, morto a Si-an-fu nel 1704 e l'antenato di Benedetto XV mons. Della Chiesa. Nel sec. XVIII le persecuzioni che travagliarono la chiesa cattolica in Cina, non favorirono l'incremento di missionarî europei; del resto l'accresciuta influenza francese in Oriente fece sì che dalla Francia, più che dall'Italia, si traessero di preferenza i missionarî: si ricordano peraltro i gesuiti Filippo Grimaldi e Giuseppe Antonio Provana; il vescovo Luigi Landi da Signa, minore, e il prete secolare Matteo Ripa da Eboli (1682-1746) fondatore del Collegio dei Cinesi in Napoli e autore di preziose Mémorie pubblicate postume (1832). In tempi più recenti, oltre al vescovo di Dionisia fra Tommaso M. Gentili O. P. autore delle Memorie di un missionario domenicano in Cina (Roma 1887) si ricordano i gesuiti napoletani Luigi Sica (1814-1895), Renato Massa (1819-1853) coi suoi fratelli, e il padre Angelo Andrea Zottoli (1826-1902), che dimorato in Cina 54 anni, col suo Cursus Litteraturae Sinicae (Shanghai 1879) si rese ugualmente benemerito degli Europei e dei Cinesi.
Nelle missioni del Tonchino e della Cocincina, fondate dal gesuita genovese Francesco Buzomi, si segnalarono i gesuiti Giuliano Baldinotti di Pistoia (1591-1631), Cristoforo Borri di Milano e il genovese Gian Filippo de Marini, autori, questi due ultimi, di Relationi (1631-1663) illustranti i regni della Cocincina e del Tonchino. In questa prima metà del Seicento fiorisce nel Madura, levando di sé gran fama, il gesuita Roberto de Nobili se non superato, certo agguagliato nella conoscenza della lingua tamil, badaga e malayālam, dal suo confratello veneto e successore, il padre Giuseppe Costantino Beschi (1680-1742), stimato il più gran poeta del sec. XVIII per un suo poema in lingua tamil. Col De Nobili e il Beschi va di conserva il pistoiese Ippolito Desideri (1684-1733), giunto in breve tempo a possedere la lingua dei Tibetani, autore delle fondamentali Notizie istoriche del Tibet. Emuli del Desideri furono i cappuccini marchigiani dai quali venne fondata e nelle cui mani per otto lustri rimase (1705-1745) la missione nel paese dei Lama: Francesco Orazio da Pennabilli (Pesaro-Urbino) che in 22 anni di soggiorno nel Tibet ne studiò profondamente la lingua; Cassiano Beligatti da Macerata, Giuseppe da Ascoli, Giuseppe M. Bernini da Gargnano, Domenico da Fano e altri parecchi: a costoro si deve l'introduzione dei tipi tibetani in Europa.
Nella Birmania e nell'India sino dai secoli XVI-XVIII in mezzo ai missionarî portoghesi non erano mancati parecchi italiani. Nella prima di queste regioni i barnabiti, avendo fondato per opera del loro padre Sigismondo Calchi la missione dei regni d'Ava e Pegù, promossero in modo singolare gli studî linguistici e geografici della Birmania; si ricordino i primi dizionarî compilati dai padri Calchi, Gallizia senior, Nerini e Del Conte; le note ai codici birmani che arricchiscono il Museo Borgiano di Velletri, la Relazione del regno Barmano, scritta dal padre Vincenzo Sangermano e ristampata sino ad oggi 14 volte in varie lingue. Quanto poi all'India nella seconda metà del sec. XIX, la missione di Mangalore nella costa occidentale dell'Indostan venne affidata dalla congregazione di Propaganda Fide ai gesuiti italiani del Veneto. Un napoletano di rare doti, il padre Nicola Pagani (1835-1895), poi vescovo nel 1886, fu posto a capo del primo drappello di missionarî che il 31 dicembre 1878 si stabilivano in Mangalore. La nuova missione non tardò a fiorire con scuole d'ogni grado e qualità, con opere d'indole sociale, con ospedali e un lebbrosario. Il collegio di S. Luigi, l'istituzione più rinomata, nel settimo anno dalla sua fondazione otteneva di essere elevato dal governo inglese a collegio di 1° grado con quattro facoltà universitarie. Il padre Angelo Maffei, di Pinzolo nel Trentino, ivi professore (1844-1899) si acquistava alta rinomanza di valente indianista. Faustino Corti (1856-1926) dalla cattedra di storia nel Collegio di San Luigi passato in regioni interamente pagane, per consacrarsi alla redenzione dei paria moltiplicava i 120 cristiani trovati sparsi qua e là, in 6500, quanti se ne annoverarono alla sua morte, e fu premiato dal governo inglese con la medaglia Kaisar-i-Hind. Nel campo delle belle arti si distinsero i missionarî Augusto Diamanti (1848-1919) e il vivente Enrico Buzzoni (nato in Verona nel 1852) architetti; e il laico fratel Antonio Moscheni (1854-1905) pittore e fondatore d'una scuola di plastica per gl'indù.
Nel sec. XVII cominciano a prosperare in Persia, in Mesopotamia, nell'India le missioni dei carmelitani scalzi italiani, la maggior parte romani e lombardi. Parecchi di questi missionarî, insieme con le opere strettamente apostoliche abbracciarono lo studio delle lingue e letterature locali: così il piemontese Angelo Francesco di S. Teresa (1650-1712) vescovo del Malabar e fra Clemente di Gesù (1731-1782) anch'esso piemontese; il romano Giuseppe di S. Maria (Sebastiani) (1620-1689) scrisse tre relazioni di viaggi alle Indie Orientali e all'Arcipelago Indiano (Roma 1665, 1672, 1687); fra Ignazio di Gesù fu molto dotto in arabo e persiano. Nella Mesopotamia pure spesero le loro fatiche dal sec. XVII sino ai tempi nostri i domenicani Eusebio Franzosini, Gaetano Codaleoni da Milano, Corradino Ferriani, Agostino Bausa, poi arcivescovo di Firenze e cardinale. Nel continente asiatico i frati minori della Custodia di Terra Santa in mezzo a gigantesche difficoltà continuarono lungo il Seicento e il Settecento a sostenere la fede di Cristo e l'italianità nella Palestina; e solo merito e studio loro è la maggior parte dei monumenti che illustrano la storia di questa parte dell'Oriente; si ricordino le Croniche ovvero Annali di Terra Santa di fra Pietro Verniero da Montepeloso (l'odierna Irsinia) morto nel 1660. Nella Georgia i minori cappuccini ne coltivarono le lettere con un successo non differente da quello riportato nel Tibet: merita ricordo il padre Bernardo da Napoli, di casa Cioffi (morto nel 1707) e il piemontese Paolo M. Riccadonna, gesuita (1799-1863) dotto illustratore dell'Asia occidentale.
Scarso fu il numero dei missionarî italiani nelle Americhe. Nel Canada, tuttavia si segnalò il gesuita romano Francesco Giuseppe Bressani (1612-1672), matematico e astronomo, autore di quella Relatione d'alcune missioni dei pp. della Compagnia di Gesù nella Nuova Francia, che rimane anche al presente pregevole fonte per la conoscenza dei costumi delle tribù indigene del settentrione americano. Non molto dopo il Bressani venivano in fama in California e in Arizona Eusebio Chino o Chini (1645-1711) nato in Segno nel Trentino, altrettanto eroico missionario quanto intrepido esploratore, e Giovanni Salvaterra (1648-1717) suo emulo nelle esplorazioni in California. Contemporaneo del Chino fu il siciliano Francesco M. Piccolo (1650-1729) che durante 46 anni evangelizzò i selvaggi del Taraumara nel Messico e quelli delle barbare tribù californiane. Nell'America Meridionale, le Riduzioni del Paraguay fondate e dirette dai gesuiti spagnoli, ricevettero nei confratelli d'Italia validi collaboratori; e collaboratori italiani s'ebbero pure i francescani spagnoli, evangelizzatori dell'America Meridionale; si ricordi lo stuolo di frati minori dall'Italia inviati in Bolivia, nel Perù e nel Chile durante il pontificato di Gregorio XVI e soprattutto i padri Giuseppe Giannelli, civilizzatore delle tribù Chiriguane a occidente del Chaco; Doroteo Giannecchini esploratore e scrittore di storia, linguistica e geografia; Gesualdo Machetti buon descrittore del bacino dell'Amazzoni.
Il sacerdote lombardo Eugenio Biffi (1829-1896), uno dei primi alunni dell'Istituto delle missioni estere di Milano, che già aveva mandato alle missioni della Cina e dell'India altri celebri suoi alunni come il martire Giovanni Mazzucconi, e Paolo Reina (morto nel 1861), fatte le prime felicissime prove tra i pagani della Birmania orientale, passò nel 1882 in Colombia a reggervi come vescovo la diocesi di Cartagena. Ai sacerdoti della Pia Società Salesiana spetta il merito di avere intrapresa l'evangelizzazione della Patagonia settentrionale, meridionale e della Terra del Fuoco. I primi dieci missionarî salesiani capitanati da don Giov. Battista Cagliero (1838-1926), poi vescovo, delegato apostolico e cardinale, furono inviati in Patagonia - territorio allora sconosciuto agli stessi Argentini - nel 1875. Nel 1880 la prima colonia di salesiani poneva piede nel centro della Patagonia settentrionale. Nel 1884, i salesiani avevano già esplorato la Patagonia settentrionale per un'estensione di 35.000 kmq., fondato stazioni, amministrato il battesimo a parecchie migliaia d'indigeni, e impartito l'istruzione religiosa a più di 2000 fanciulli; ciò che induceva Leone XIII a dividere quell'immenso vicariato affidandone una parte (la Patagonia meridionale, la Terra del Fuoco, le Isole Falkland e l'arcipelago dello Stretto di Magellano) a un degno compagno del Cagliero, don Giuseppe Fagnano.
Frattanto prendeva incremento la Missione del Brasile, avviata dai gesuiti italiani della provincia di Roma. Benché i Portoghesi siano stati i primi missionarî nel Brasile, anche l'Italia sin dal sec. XVII vi aveva mandato i suoi, tra i quali nel sec. XVIII il comasco Gabriele Malagrida (1689-1761) giustiziato sotto il marchese di Pombal. Dopo l'espulsione dei gesuiti dalle terre della corona di Portogallo, e la soppressione della Compagnia, i gesuiti ripresero stabilmente i lavori apostolici nel Brasile, non prima del 1865, quando appunto vi furono destinati i Romani. Tra le principali opere d'interesse sociale che loro attirarono viva riconoscenza dalla nazione brasiliana tengono primissimo luogo i collegi d'Itù e di Nova Friburgo. Si segnalarono i padri Vincenzo Coccumelli, Giuseppe Mantero, Giustino Lombardi, Giuseppe Giomini, Bartolomeo Taddei, e il vivente pugliese Giuseppe Natuzzi.
Durante il sec. XIX non pochi religiosi italiani emigrarono nelle Americhe ove si dedicarono al sacro ministero, all'insegnamento delle lettere e delle scienze, e ad opere d'utilità sociale. I gesuiti piemontesi della provincia di Torino nel 1850 passarono nella California dove iniziarono una vasta opera d'apostolato e di cultura. Degni di nota i padri Michele Accolti e Giovanni Nobili che fondarono il Collegio di S. Clara, il primo ad inalberare in California la bandiera americana; Giuseppe Bixio (1819-1889) fratello del generale Nino; Giuseppe Bayma (1816-1892) professore di matematiche nell'università di San Francisco; Luigi Brunengo e Giuseppe Neri valenti fisici e chimici, e soprattutto Antonio Cichi creatore dei gabinetti mineralogici di S. Clara e di S. Francisco. Contemporaneamente, più a settentrione, all'eroica impresa di rendere civili e cristiane le tribù selvagge delle Montagne Rocciose e dell'Alasca consacravano la vita altri Piemontesi, Siciliani e Romani, anch'essi della Compagnia di Gesù. Fra questi si rammentano il padre Giuseppe Giolda, che redasse varie opere nei linguaggi degl'Indiani del North-West; il romagnolo Pasquale Tosi (1835-1898), che diresse per dodici anni le missioni dell'Alasca, fu primo prefetto apostolico di quella regione e l'illustrò dottamente con l'opera L'Alaska e i suoi primi esploratori; il siciliano Giuseppe Cataldo (1837-1928) che diede il suo nomc a una città. Nel Maryland, a Woodstock, i gesuiti napoletani, e per essi il padre Angelo Paresce, fondarono nel 1869 un collegio che in più di cinquant'anni dalla sua florida vita tanto giovò ai progressi del cattolicismo negli Stati Uniti ed ebbe il suo fondatore intellettuale nel padre Camillo Mazzella (1833) onorato da Leone XIII della sacra porpora. Gesuiti napoletani furono anche professori all'università di Georgetown di St Louis, nei collegi di Boston, Washington e Holy Cross. Altri loro confratelli, ricevuta nel 1869 la missione del Nuovo Messico e Colorado, diedero opera alla diffusione della religione e della cultura in quelle regioni: istituirono scuole primarie e secondarie, stamparono periodici e opuscoli, nel quale genere di opere si rese insigne il napoletano Giuseppe Marra (1844-1914), per molti anni capo della missione.
Due figure, entrambe appartenenti al sec. XlX giganteggiano nel campo delle missioni africane: il cappuccino Guglielmo Massaia e il bresciano Daniele Comboni che dedicò tutta la vita all'evangelizzazione dei Negri per mezzo d'un clero indigeno educato sino dalla fanciullezza ai costumi e alla pietà cristiana, e per attuare questa idea fondò in Verona l'Istituto delle missioni per la Nigrizia.
Commercianti e banchieri. - Non era trascorso il sec. X che la Bolla d'oro degl'imperatori Basilio e Costantino al doge Pietro II Orseolo concedeva privilegi ai Veneziani frequentatori di Costantinopoli, mentre i mercanti di Amalfi si spingevano, più audaci dei colleghi di Trani e di Bari, a Bisanzio, in Antiochia, a Gerusalemme, in Egitto, avendo dappertutto case e magazzini. Ma la vera espansione, in grande stile, degl'Italiani fuori d'Italia, si ebbe soltanto negli ultimi anni del sec. XI, quando il nostro paese, che era favorito dalla posizione geografica e non aveva conosciuto la depressione economica avvenuta altrove in seguito alle invasioni barbariche e poi a quella islamica, si trovò in condizione di sfruttare in pieno le possibilità commerciali e finanziarie delle crociate. Da allora ogni centro economico di qualche importanza, orientale e occidentale, conobbe i nostri mercanti, i quali mostrarono di sentire all'estero così forte il vincolo della razza, al di sopra del particolarismo che tanto li divideva di qua dai monti, che gli stranieri li designarono in blocco col nome di Lombardi. Si può affermare che il risveglio economico dell'Europa, partito dalla penisola italiana, fu l'opera collettiva di tutto un popolo cementato da un'unità ideale. Così nel 1278, quando si trattava col sovrano francese per il ritorno a Nîmes di mercanti scacciati, si fece avanti un mercante piacentino col titolo di "capitaneus universitatis mercatorum lombardorum et tuscanorum", mostrando le procure dei consoli dei mercanti di Alba, Asti, Bologna, Firenze, Genova, Lucca, Milano, Piacenza, Pistoia, Siena, Venezia; e dal 1288 appare l'Universitas mercatorum Italiae nundinas Campaniae in regno Franciae frequentantium, che nel 1295 concluse un trattato di salvaguardia con i conti di Borgogna, per i mercanti di Alba, Asti, Bologna, Como, Firenze, Genova, Lucca, Milano, Orvieto, Parma, Piacenza, Pistoia, Prato, Roma, Urbino, Venezia, e in genere per tutti i mercanti italiani. Se individualmente i mercanti italiani ebbero una grande passione per gli affari rischiosi, e un grande desiderio di guadagno, nel complesso l'azione loro si svolse sempre secondo piani logici suggeriti da una politica economica bene studiata, in armonia appunto con le diverse situazioni economiche, politiche e sociali delle singole città a cui appartenevano. Tolte alcune eccezioni, s'impongono all'attenzione dello studioso, piuttosto che gli uomini, le compagnie di commercio, costituite sulla base familiare o su quella più larga delle consorterie, e più ancora i gruppi di compagnie di una o di più città.
S'iniziava appena il sec. XII quando i Pisani, aiutatori di Goffredo di Buglione, si sistemavano in un quartiere del porto di Giaffa, centro di traffico fra l'Occidente e la Palestina, e subito dopo si affiancavano a loro i Veneziani che ottennero vantaggi notevoli in Acri, a Tiro, ad Ascalona e a Gerusalemme, e i Genovesi le cui colonie mercantili, capeggiate dalle famiglie Embriaci, Dalla Volta, Burone, Mallone, Guercio, Negro, Usodimare, Vento, Grillo, ecc. (per ricordare solo le più antiche), si estesero lungo le coste mediterranee della Siria, della Palestina, dell'Egitto, e anche in quelle del Mar Nero e del Mar d'Azov, a Pera, a Soldaia, a Caffa, alla Tana. In queste ultime località li raggiunsero i Veneziani, che stabilirono poi floridi stabilimenti commerciali sull'opposta riva, a Trebisonda, donde avrebbero mosso i fratelli Niccolò e Matteo Polo, e poi Marco, per spingersi fino alla capitale dei Mongoli. Non solo la concorrenza delle città affacciantisi sul golfo del Leone, Narbona, Montpellier, Marsiglia, non era pericolosa per le navi di Pisa, Genova e Venezia, ma anzi a mano a mano che queste repubbliche si andavano afforzando economicamente in Oriente, dirigevano la loro emigrazione e le loro ambizioni anche sulle coste dell'Europa occidentale, esigendo là pure privilegi e monopoli: primo fra i quali quello della navigazione nel Mediterraneo, che imposero appunto, non senza contrasti, agli armatori delle ricordate città. Spingendosi, poi, sempre più addentro oltre il bordo del mare, i mercanti di quelle nostre città marinare si congiunsero con quelli di molte altre dell'interno, inoltratisi già nell'Inghilterra ove Rolando di Poggio e compagni erano, nella seconda metà del Duecento, ricevitori dei dazî d'esportazione dei principali porti del regno.
Da Asti si diressero per tempo oltre i monti gli Alfieri, gli Asinari, i Da Saliceto, i Garetti, i Malabaila, i Pelleta, i Roveri, gli Scarampi, i Solari, i Toma, a cui s'aggiunsero i Provano oriundi da Carignano, i Medici di Chieri, e una tal folla di Piacentini, che ben 37 se ne trovavano, a metà del Trecento, alla sola fiera di Lagny. Il "Registrum lombardorum", conservato a Friburgo, mentre documenta, per il '300, una vera invasione di Astigiani, contiene anche l'elenco di tutta la nobiltà locale che, obbligata ad essi a causa dei mutui, finì per cedere feudi, castelli, signorie. Da Lucca partirono i Barca, i Burlamacchi, i Calcinelli, i Cenami, i Corbolani, i Forteguerra, i Guinigi, i Moriconi, gli Onesti, i Riccardi, i Rapondi, gli Schiatta, gli Spiafame, i Trenta, i quali, sebbene giungessero essi pure fino all'Inghilterra, e vittoriosamente vi si affermassero come i Riccardi, posero radici soprattutto in Francia. Per ciò che riguarda Siena, sappiamo che, a metà del Duecento, si trovavano in Francia (e molte società avevano filiali anche in Fiandra, in Inghilterra, in Germania) le compagnie dei Bonsignori, dei Cacciaconti, dei Fini, dei Gallerani, dei Salimbeni, degli Squarcialupi, dei Tolomei, degli Ugolini, dei Vincenti. Anche il sec. XIV conobbe, almeno all'inizio, la fortuna economica di Siena, scossa ma non del tutto rovinata dal fallimento della "magna tavola" dei Bonsignori, e dalla concorrenza dei capitalisti di Firenze. Nei primi anni del Trecento erano ancora ben saldi all'estero i Cinughi, i Forteguerri, i Malavolti, i Rossi, gli Squarcialupi, i Tolomei, e ricchissimi i Salimbeni. Il nome di Pistoia era noto in molte contrade d'Europa per le compagnie degli Ammannati, dei Cancellieri, dei Dondori, dei Panciatichi, dei Partini, dei Simiglianti. Il nome di Firenze, illustrato dal trionfante fiorino d'oro, risuonava in ogni angolo d'Europa ove si trovavano le succursali o comunque i rappresentanti e gli agenti delle compagnie dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli, degli Alberti, Albizzi, Antella, Ardinghelli, Baroncelli, Buondelmonti, Cerchi, Del Bene, Falconieri, Frescobaldi, Gianfigliazzi, Mozzi, Pazzi, Portinari, Pulci e Rimbertini, Scali, Spini, Strozzi e così via.
Il ricordo di queste più note e più forti compagnie è legato, in Italia e anche all'estero, a opere d'arte, a imprese militari, a fatti politici, a gesta diplomatiche. Del resto nei secoli in cui si ebbe tale dovizia d'imprese italiane fuori d'Italia (e fino alla fine del Trecento) all'estero le associazioni formate da indigeni furono pochissime e di limitata importanza. Per ciò che riguarda l'attività esplicata da queste compagnie italiane, si può osservare che la caratteristica del primo capitalismo italiano, destinata a conservarsi per altri secoli oltre il XIV, fu quella d'interessarsi a qualsiasi affare. In tutti i paesi si praticò il prestito del danaro a borghesi, a ecclesiastici, a monasteri, a baroni, a principi, a sovrani; e a garanzia della restituzione si accettarono ogni sorta di pegni, si pretese la direzione delle zecche e la percezione delle entrate statali. Con la Chiesa si fu esattori delle decime, che si trasmisero a Roma o nelle località designate dai pontefici. Nelle fiere si praticò il mutuo, si fece il cambio delle monete, ci si impegnò ai pagamenti a distanza. Nelle fiere dappertutto si trafficarono tutti gli articoli di mercato. Dove ci fu possibilità, si diressero anche le imprese estrattive (v. banca). Il contatto con i principi portò, talvolta, anche alla creazione di situazioni personali di prim'ordine. Come avvenne ai fratelli Musciatto e Bicci Guidi de' Franzesi oriundi dal senese, i famosi Mouche e Biche consiglieri di Filippo il Bello; a Scaglia Tifi (sec. XIII-XIV), tesoriere dei duchi di Borgogna e fattore decisivo del passaggio di quel ducato alla corona francese; al lucchese Dino Rapondi, capo d'una compagnia mercantile con sedi a Bruges, Parigi, Anversa, Avignone, Venezia, nel Mediterraneo orientale, direttore in Francia di lavori di difesa militare, diplomatico, ministro delle finanze dei duchi di Borgogna.
A poco a poco (dai primi del Trecento) persecuzioni di sovrani e ostilità delle popolazioni; la crescente necessità di disporre di capitali sempre più forti per più vasti finanziamenti d'imprese militari di più largo stile; lo sforzo per trionfare della concorrenza del nascente capitalismo locale, portarono all'eliminazione delle compagnie più deboli, favorita anche dalle condizioni politiche della penisola, ove il trapasso dalla forma comunale a quella signorile contribuì alla decadenza di molte città. Però la volontà di tener testa alle necessità supreme si accentuò ogni giorno, e culminò nel colossale finanziamento delle prime campagne della guerra dei Cento anni, parallelo al quale procedette l'accentramento in poche mani, soprattutto di Fiorentini, di tutta la vita economica inglese. Dopodiché si giunse ai fallimenti del 1345, che segnano la fine del primo periodo del capitalismo italiano.
Il secondo periodo, che si protrae sino ai primi del Seicento, si presenta con altre caratteristiche, in armonia con le mutate condizioni politiche ed economiche europee. Nella diminuita importanza del fattore italiano nel complesso dell'economia europea, la riduzione del traffico delle merci appare più sensibile della riduzione del traffico del danaro, il quale fu esercitato in condizione pressoché di monopolio (diviso con le grandi formazioni capitalistiche tedesche). In questo secondo periodo, i mercanti italiani preferirono frequentare quelle zone del settore europeo che furono più ricche di avvenimenti politici. Ma se l'Inghilterra passò in seconda linea di fronte agli stati del continente, vi troviamo ricostituita, quasi un'ombra però di quella d'un tempo, la compagnia dei Bardi; sappiamo anche dell'attività in Inghilterra d'una succursale del banco Filippo Borromei che aveva la sede centrale a Milano; conosciamo molti mercanti, i Medici soprattutto, nella seconda metà del Quattrocento, che continuarono a esportare la lana, in limiti sempre più ridotti per l'indirizzo protezionistico dell'industria locale dei panni. Nell'Europa continentale si distinguono due settori: il centro-orientale e il nord-occidentale: nel primo dei quali gl'Italiani si diedero prevalentemente, tranne che nei territorî dell'attuale Confederazione Elvetica, alla direzione e allo sfruttamento delle miniere, e nel secondo attesero, in modo particolare, a operazioni finanziarie. Sul territorio tedesco, dove avevano preceduto dalla fine del Trecento gl'intraprenditori indigeni come appaltatori, specie nel Tirolo e nell'Ungheria, tornarono al loro posto di preminenza al decadere della oberdeutsche Hochfinanz nella seconda metà del '500, e negli ultimi decennî del secolo presero di nuovo a frequentare numerosi le principali piazze commerciali della Germania; del quale processo, detto appunto di Überfremdung "invadente intervento", nella vita economica dell'Europa centrale, si conoscono alcuni particolari riguardanti Lipsia, Colonia e Francoforte. A Friburgo e a Ginevra, invece, si curarono prevalentemente i prestiti, e con lauto profitto.
La Polonia era conosciuta dai nostri mercanti fin dal Duecento, da quando cioè i ricevitori pontificî delle decime, quasi tutti italiani, avevano affidato le somme raccolte alle compagnie toscane aventi succursali a Bruges. Quando prese a svilupparsi una vera immigrazione con carattere commerciale, si posero naturalmente alla testa i Genovesi che provenivano dalle colonie del Mar Nero; e poi seguirono Lucchesi, Bolognesi, Fiorentini e Veneziani. Gli anni più fortunati di tale attività furono quelli dal 1333 al 1434, che videro i regni di Casimiro il Grande, di Luigi d'Ungheria e di Ladislao II: dopo i quali ci si avviò alla decadenza. Nel periodo migliore, tanto le saline della zona di Cracovia, quelle cioè di Bochnia e di Wieliczka, quanto quelle di Leopoli, ossia di Drohobycz, Dolina e Przemyśl, furono governante da "supparii" italiani, che furono di solito anche podestà del luogo ed ebbero parte notevole nella legislazione mineraria del 1368. Si ricordano tra i principali: dei Genovesi alcuni appartenenti alla famiglia Cavallo; Goffredo Fattinanti supparius generalis"; Francesco di Cantello, aggregato alla nobiltà di Leopoli nel 1409; Giulio de Valentariis, morto ricchissimo nel 1468. Dei Veneziani il principale fu Pietro Bicarani, che batté anche moneta alla zecca regia. Tra i Fiorentini, Leonardo Bartoli, egli pure monetiere, l'ultimo suppario italiano delle saline occidentali, Pierozzo di Talento Tedaldi, morto nel 1495; Ottaviano Gucci "supparius Russie et magnus benefactor fratrum". Nell'Europa del nord i principali accentramenti si ebbero in Brabante e in Fiandra dove la banca Medici di Firenze, che aveva diramazioni ad Avignone, Basilea, Costanza, Ginevra, Londra e Lione, tenne una grande succursale a Bruges, danneggiata dal fallimento dei Lombardi del 1457, ma non irreparabilmente come le aziende mercantili e bancarie dei veneziani Querini e Morosini, e dei genovesi Adorno, Lomellino e Spinola. Tommaso Portinari fu diplomatico e banchiere di Carlo il Temerario e poi di Massimiliano, dal quale ebbe il diritto di riscossione del tonlieu di Gravelines. Nel '500 nei Paesi Bassi i nostri mercanti alternavano in Anversa l'esercizio dei traffici e il culto delle lettere. In Francia i nuclei più rilevanti si ebbero prima a Parigi e poi, dalla seconda metà del sec. XV, a Lione ove gl'Italiani - fra cui si ricordano, nel Quattro e nel Cinquecento, gli Arnolfini, i Balbani, i Buonvisi, i Buondelmonti, i Burlamacchi, i Capponi, i Cenami, i Del Bene, i Frescobaldi, i Sardini e i Guadagni - fecero prestiti ingenti ai sovrani francesi in guerra con gli Spagnoli. Nell'altro campo Carlo V ricevé dal cremonese Carlo Affaitati 100.000 ducati in una sola volta, a parte le somme più elevate ottenute da Cosimo de' Medici.
Col '500, gl'Italiani si spostano anche in Spagna e nel Portogallo. In Spagna si ricordavano ancora i Lombardi, immigrativi fin dal Duecento nonostante i decreti d'espulsione di Giacomo I, e non era ancora dimenticato il nome del pratese Francesco di Marco Datini, che Tommaso Marini di Genova vi dava, nel 1525, il segnale della seconda invasione del capitale italiano, particolarmente genovese e fiorentino. Alla fine del secolo e ai primi del Seicento i re cattolici dovevano milioni di ducati ai banchieri genovesi. Filippo III ricorse ampiamente, tra il 1608 e il 1611, ai cittadini di Genova, i Centurione, gl'Invrea, i Pallavicino, gli Spinola; e Carlo II ebbe, alla fine del Seicento, aiuti finanziarî da Paolo Spinola-Doria. Anche i banchieri fiorentini furono larghi di prestiti, soprattutto durante la lotta tra Spagna e Portogallo. Ai primi del Seicento il Monte di Pietà di Firenze finì per accentrare e convogliare grandissimi capitali in Spagna, auspici i granduchi, che nell'atto di assecondare la loro politica portarono, oltreché a dissesti bancarî, a rovine nel campo delle industrie e dei commerci, aggravate, piuttosto che alleviate, dalla rigida legislazione in materia fallimentare del 1582. La quale, non per caso, seguì alla guerra fra Spagna e Portogallo.
Gl'Italiani conservarono dunque anche dal Quattrocento in poi una grandissima importanza nel traffico del danaro, ma non tutta l'attività dei mercanti italiani si esaurì nel finanziamento dei principi. Nella seconda metà del Cinquecento si dové al Baroncelli il disegno della lotteria di stato dei Paesi Bassi, mentre gli Strozzi si distinguevano, proprio in quegli anni e in quella regione, nelle lotterie private, la cui posta era costituita da oggetti d'arte; Leonardo Massone di Benevento suggeriva a Filippo II di stabilire il monopolio del sale, che fu affidato al genovese Negron del Negro, tesoriere di Emanuele Filiberto; Silvestro Scarini, nel 1585, progettava il finanziamento d'una sorta di monte di pietà per mezzo di lotterie e di scommesse sul sesso dei nascituri, sull'esito dei processi, e via dicendo, lottando con le organizzazioni corporative locali, e preparando, sotto la protezione dei sovrani manifestantesi nella nota forma dei privilegi, le basi delle industrie nazionali. In modo veramente capitalistico organizzarono l'industria del vetro, che avevano impiantato da tempo, perché già dalla fine del sec. XIII vetrai veneziani erano passati in Francia e nel Belgio. Ad Anversa, dove all'inizio del sec. XVI si trovavano fabbriche italiane di cristalli e di vetri, Michele Cornacchini introduceva, nel 1541, anche la fabbricazione degli specchi esportando il geloso segreto da Venezia, e la cedeva nel 1552 al bresciano Giacomo Pasoletti. Nel 1607 s'imprendeva, ancora a iniziativa degl'Italiani, l'incisione sul vetro; nel 1638 l'arte vetraria di Liegi era in mano dei fratelli Enrico e Leonardo Buonuomini che, giunti a ottenere l'esclusività legale nel 1650, accaparrarono anche le vetrerie di Maastricht, di Anversa e di Bruxelles. Industrie minori furono la raffineria dello zucchero e la fabbrica del sapone, che esercitarono dappertutto, e in specie a Marsiglia; l'industria tessile, praticata soprattutto in Francia, dove a Tours, nel 1525, oltre 8000 telai erano diretti da maestri veneziani, lucchesi, fiorentini; l'industria armatoriale, a cui dal secondo decennio del Cinquecento diedero incremento specialmente a Dieppe e a Rouen.
In Oriente, invece, i mercati, fonte della ricchezza d'un tempo, erano ormai chiusi o si stavano chiudendo per i nostri uomini d'affari. Si è detto del progressivo ritiro delle colonie genovesi. I Fiorentini avevano a Pera soltanto 15 case di commercio nel 1551, che si ridussero a quattro nel 1554 e ad una nel 1556. Quanto ai Veneziani, che videro succedersi i fallimenti delle società bancarie dalla metà del Quattrocento, essi seguitarono i loro traffici fino alla metà del secolo successivo, ma prima la guerra di Cipro, poi quella degli Uscocchi e infine quella di Candia condussero a una rovina irreparabile. Dal Seicento gli Italiani si spostarono anche verso il nuovo centro dell'economia europea, l'Olanda, da dove alcuni partirono per le lontane colonie: come il lucchese Ottavio Sardi, che dopo aver commerciato ad Amsterdam dal 1755 al 1773, mosse nel 1774 per la Guinea e vi organizzò una fiorentissima piantagione di cotone e di caffè. Ma non abbandonarono tuttavia il loro vecchio centro di Anversa, dove nel 1705 il veneziano Pietro de Prioli, che fu uno dei direttori della Compagnia di Ostenda, fondò una grande banca che negoziò i prestiti della monarchia austriaca. I figli di Pietro, Baldassarre e Carlo, attrezzarono anche alcune aziende industriali, che fallirono nel 1781. Però le notizie che si hanno dei nostri mercanti all'estero in quest'ultimo periodo, se permettono di affermare che essi si trovarono ancora numerosi al di là delle Alpi, non consentono di precisare la loro funzione e la loro importanza: la quale non deve essere stata però di grande rilievo.
L'espansione dei mercanti e dei banchieri italiani all'estero continua, nelle nuove forme imposte dall'evoluzione economica e dai progressi della tecnica, anche nei secoli XIX e XX. I campi di questa espansione sono specialmente rappresentati dalle due Americhe, ove l'attività italiana nel campo commerciale e bancario ha modo di emergere sopra tutto grazie al numero di connazionali ivi emigrati, ma si estende anche largamente fuori dalla loro cerchia. Sotto le voci argentina; brasile, ecc. si troveranno appositi paragrafi dedicati alla storia della nostra emigrazione e alla varia attività svolta dagl'Italiani. Seguirla con esattezza non sarebbe qui possibile, data l'imponenza di essa e il carattere diversissimo assunto anche in singoli brevi periodi. Naturalmente questa forma d'espansione ha particolarmente sofferto in seguito alla quasi completa chiusura degli sbocchi emigratorî e alla crisi economica mondiale.
È mancata sinora un'opera complessiva che illustri l'attività degli Italiani all'estero e i tentativi isolati e parziali che furono fatti non riuscirono rispondenti alla vastità e all'importanza dell'argomento. Le fonti, contenute in tutti gli archivî del mondo, non sono state ancora convenientemente sfruttate a questo scopo; scarsissime le fonti edite, tra cui ricordiamo, per i mercanti e i colonizzatori nel Medioevo, il Diplomatarium Veneto-Levantinum, pubblicato, negli Atti della Deputazione veneta di storia patria; la Nuova serie di documenti sulle relazioni di Genova con l'Impero Bizantino, in Atti della Società ligure di storia patria, XVIII; per gli ecclesiastici la Series Episcoporum; per gli esploratori le varie relazioni di viaggi e le pubblicazioni quale l'Indicazione di opere e documenti sopra i viaggi, le scoperte, le carte nautiche, il commercio, le colonie degli Italiani nel Medioevo, Lucca 1862; ecc.
Dal 1928 il governo italiano ha intrapreso la raccolta sistematica di tutti i documenti e le notizie riferentisi agl'Italiani all'estero. A cura del Ministero degli affari esteri e con la collaborazione del R. Istituto di archeologia e storia dell'arte è sorto così l'archivio de L'Opera del Genio Italiano all'Estero, che raccoglie in appositi schedarî e in una collezione fotografica i risultati di vasti studî condotti in Italia e delle ricerche compiute all'estero dagli uffici italiani di rappresentanza; e nel 1933 si è iniziata la pubblicazione d'una serie di monografie destinate a illustrare l'attività degl'Italiani nei singoli paesi e specialità.
Opere generali: F. Carloni, Gli Italiani all'Estero dal sec. VIII ai dì nostri, Città di Castello 1888-1908, voll. 3; L. Benvenuti, Dizionario degli Italiani all'Estero, Firenze 1890; E. Verga, Gli Italiani all'Estero all'Esposizione di Milano, in La Nuova Antologia, 1907; C. Rusconi, Le emigrazioni italiane da Dante ai nostri giorni, Torino 1853-54, voll. 2; G. Heyd, Le colonie commerciali degli Italiani in Oriente nel Medioevo, trad. di Giuseppe Müller, Venezia 1866-68, voll. 2; A. Schaube, Storia del commercio dei paesi latini nel Mediteraneo; Torino 1915; F. L. Pullè, Le conquiste scientifiche e civili dell'Italia in Oriente dall'antichità ai tempi nuovi, in Annali Università di Bologna, 1911-12, pp. LXIX-CLIV; S. L. Peruzzi, Storia del commercio e dei banchieri di Firenze in tutto il mondo conosciuto dal 1200 al 1345, Firenze 1868-70, voll. 2; G. Müller, Documenti delle relazioni delle città toscane con l'Oriente cristiano e coi Turchi fino al 1531, Firenze 1879; C. Pagano, Delle imprese e del dominio dei Genovesi nella Grecia, 2ª ed., Genova 1852; A. Vigna, Codice diplomatico delle colonie Tauro-liguri, Genova 1868-71; P. Amat di S. Filippo, Biografie dei viaggiatori italiani e bibliografia delle loro opere, Roma 1875-1882; C. Bertacchi, Geografi ed esploratori contemporanei, Milano 1929; O. F. Tencajoli, Principesse sabaude nella storia di altri Paesi, Roma 1930; G. Gerola, Artisti trentini all'Estero, Trento 1930; F. C. Chuch, The Italian Reformers (1534-64), New York 1932; C. Manfroni, L'opera del Genio Italiano all'estero: I Colonizzatori Italiani durante il Medioevo e il Rinascimento, I, Roma 1933; L. A. Maggiorotti, L'opera del Genio Italiano all'estero: Architetti ed architetture militari nel Medioevo, Roma 1933.
Opere particolari: F. Quillet, Le arti italiane in Ispagna, ossia storia di quanto gli artisti italiani contribuirono ad abbellire le Castiglie, Roma 1825; P. Peragallo, Cenni intorno alla colonia italiana in Portogallo nei secoli XIV, XV, XVI, in Miscellanea di storia italiana, XL (1904); A. Baschet, Les comédiens italiens à la cour de France sous Charles IX, Henri III, Henri IV et Louis XIII, Parigi 1882; C. Piton, Les Lombards en France et à Paris, Parigi 1892-93, voll. 2; E. Monaci, Gli Italiani in Francia durante il Medioevo, in Atti Acc. Lincei, rend. sedute solenni, I (1892-1901); Charpin Feugerolle, Les Florentins à Lyon, Lione 1894; R. Picot, Les Italiens en France au XVIe siècle, Bordeaux 1902; J. Mathorez, Notes sur les Italiens en France du XIIIe siècle jusqu'au règne de Charles VIII, Bordeaux 1918; E. Rodocanachi, Les médicins et les astrologues italiens en France, in Études et fantaisies historiques, Parigi 1919; N. Giacchi, Il contributo militare degli italiani durante il periodo napoleonico (1796-1818), in Bollettino Uff. storico stato maggiore, II (1927); F. Piccolomini, I mercanti senesi a Marsiglia nel secolo XIII, un decennio di mercatura senese: 1221-1230, Siena 1932; A. Medea, Arte italiana alla corte di Francesco I, Milano 1932; L. Einstein, The Italian Renaissance in England, New York 1902; J. Galiffe, Le refuge italien de Genève au XVIe et XVIIe siècles, Ginevra 1881; M. Landau, Die italienische Literatur am österreichischen Hofe, Vienna 1879; trad. ital. di G. A. De Stein Rebecchini, Aquila 1880; S. Ciampi, Notizie di medici, musicisti e artisti italiani in Polonia e polacchi in Italia, Lucca 1830; L. Fournier, Les Florentins en Pologne, Lione 1893; F. F. De Daugnon, Gli Italiani in Polonia dal sec. IX al XVIII, Crema 1905-1906, voll. 2; G. Ptasnik, Gli Italiani a Cracovia dal sec. XVI al XVIII, Roma 1909; U. Franchino, L'Arte in Polonia, Milano 1928; C. Vacani, Gli Italiani in Russia, 1826; F. Nunziante, Gli Italiani in Russia durante il secolo XVIII, in La Nuova Antologia, LXIV (1929); L. A. Balboni, Gl'Italiani nella civiltà egiziana del sec. XIX, Alessandria d'Egitto 1906, voll. 3; Comitato Geografico Nazionale Italiano, L'opera degli Italiani per la conoscenza dell'Egitto e per il suo risorgimento civile ed economico. Scritti di varî autori raccolti e coordinati a cura di Roberto Almagià, Roma 1926; E. C. Branchi, Il primato degli Italiani nella storia e nella civiltà americana, Bologna 1925; G. Schiavo, The Italians in Missouri, Chicago e New York 1929; G. Parisi, Storia degli Italiani nell'Argentina, Roma 1907; E. Anzilotti, Gl'Italiani all'Uruguay, Roma 1911; Il Brasile e gli Italiani, pubblicazione del Fanfulla, 1906; Gli Italiani nel Brasile, S. Paolo 1922-26, voll. 3. - Sulle missioni degl'Italiani si veda la bibliografia della voce missioni e delle voci dedicate ai singoli missionarî.