ITALIA
Il toponimo I., di origine osca, accostato dal punto di vista etimologico al lat. vitulus ('vitello') e variamente interpretato (Rauhut, 1953; Marcato, 1990), si riferiva inizialmente all'estremità meridionale della Calabria. Già in epoca classica, e ufficialmente sotto l'impero di Augusto (27 a.C.14 d.C.), I. passò a indicare l'intera penisola fino alle Alpi, mentre le isole vennero aggiunte alla diocesi italiciana solo sotto Diocleziano (284-305).Nel Medioevo il nome I. conservò ancora per un certo periodo un valore politico-amministrativo (con riferimento alla prefectura Italiae e all'esarcato), ma poi, pur rimanendo vivo nell'uso scritto, assunse in genere un significato puramente geografico, il che si spiega del resto con la precoce frantumazione politica della penisola. Inoltre, come è stato notato (Rohlfs, 1959), la stessa forma latineggiante (I. e non Itaglia o Taglia) dimostra un'origine dotta (anche se autoctona; Serianni, 1994) e non una diffusione popolare, diversamente dalle denominazioni di altri paesi romanzi; significativa in tal senso è anche la frequente scrizione con la Y iniziale, riservata a nomi propri sentiti come 'dotti' o come 'stranieri'; è peraltro attestata anche la forma Etalia. Nell'Alto Medioevo il toponimo adottato Oltralpe e in Oriente per indicare l'I. fu per lo più quello di Langobardia 'terra dei Longobardi' (Rohlfs, 1959), che nei documenti di area italiana designa invece piuttosto la regione padana, anche in contrapposizione alla Romania e alla Tuscia; Brunetto Latini nel Trésor contrappone invece l'Ytaile alla Lombardie (Migliorini, 1960).Solo in età comunale, ma esclusivamente in ambito intellettuale, cominciò ad affermarsi l'idea della profonda unità della penisola sul piano culturale, al di là delle suddivisioni politiche e della stessa frammentazione linguistica in aree dialettali notevolmente differenziate. La consapevolezza dell'unità italiana è evidente in Dante Alighieri, nell'intera sua opera e in particolare nel De vulgari eloquentia, e poi in Francesco Petrarca (per es. nella canzone Italia mia, benché 'l parlar sia indarno; Rime, CXXVIII). Tuttavia, ancora nel Duecento e nel Trecento, il toponimo I. è usato prevalentemente con riferimento all'epoca romana o ancora in senso geografico, specie in contrapposizione a paesi stranieri (Durante, 1981). Un caso particolare è poi costituito dalla famosa scritta "Ytalia" nell'affresco di una vela della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi dipinto da Cimabue, dove l'analisi dei monumenti rappresentati dimostra inequivocabilmente che "si tratta di 'Ytalia-Roma'" (Andaloro, 1984, p. 144).Significativa è anche la storia dell'etnico: agli aggettivi latini Italus e Italicus stentò ad affiancarsi un termine volgare; del resto, nella stessa latinità medievale con riferimento alla contemporaneità venivano usati piuttosto Lumbardus e Tuscus, a volte accostati e quindi, almeno implicitamente, contrapposti, oppure veniva 'attualizzato' il termine Latinus. L'aggettivo italiano è attestato (a parte le anteriori presenze nell'antroponimia, accanto allo stesso nome I.; Aebischer, 1959) solo dalla metà del sec. 13°: dopo l'ytalien del Trésor di Brunetto Latini, che nel volgarizzamento di Bono Giamboni è tradotto tre volte con "d'Italia" e solo una volta con "italiano" (Aebischer, 1959), sono da ricordare le attestazioni in un volgarizzamento di Valerio Massimo (Migliorini, 1960) e quelle, più tarde, della Nuova cronica di Giovanni Villani (Serianni, 1994). Interessante è un passo di Boccaccio ("molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e viniziani e altri italiani", Decameron, II,9,47), dove l'aggettivo vale come "denominazione complessiva delle singole genti d'Italia" (Durante, 1981, p. 82), ma sembra sottintendere la coscienza di una più profonda unità etnica anche in ambiente mercantile (per altre implicazioni del passo sul piano della lingua, Serianni, 1994).L'uso di italiano con riferimento alla 'lingua che si parla e si scrive in I.', quella di coloro "qui sì dicunt" (Dante, De vulgari eloquentia, I, X, 1), è alquanto tardivo: sembra rimontare al sec. 15° come aggettivo e solo al 17° come sostantivo (Battaglia, 1973). La circostanza conferma come fino all'età moderna sia problematico includere la lingua tra gli elementi costitutivi della nazione italiana, anche perché, come è noto, per secoli l'unità linguistica venne affidata quasi esclusivamente all'uso scritto (Nencioni, 1995).
Bibl.: F. Rauhut, Le origini delle parole Italia e Italiano, Paideia 8, 1953, pp. 1-13; P. Aebischer, Italiano, in Ioanni Dominico Serra ex munere laeto inferiae. Raccolta di studi linguistici in onore di G.D. Serra, Napoli 1959, pp. 39-50; G. Rohlfs, Italia e Longobardia, ivi, pp. 343-344 (rist. in id., Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia, Firenze 1972, pp. 3-5); B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, p. 122; A. Cecilia, F. Brancucci, s.v. Italia, in ED, III, 1971, pp. 529-533; s.v. italiano, in S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, VIII, Torino 1973, pp. 625-627; G. Galasso, L'Italia come problema storiografico, Torino 1979; M. Durante, Dal latino all'italiano moderno. Saggio di storia linguistica e culturale, Bologna 1981, pp. 79-83, 129-137; s.v. italo, in M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, III, Bologna 1983, p. 634; M. Andaloro, Ancora una volta sull'Ytalia di Cimabue, AM 2, 1984, pp. 143-181; M.S. Sapegno, ''Italia'', ''Italiani'', in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, V, Le questioni, Torino 1986, pp. 169-221; C. Marcato, s.v. Itàlia, in Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino 1990, p. 334; L. Serianni, Sull'identità linguistica degl'italiani. Appunti, Scienzasocietà, 1994, 60, pp. 13-17; G. Nencioni, Identità linguistica e identità nazionale, La Crusca per voi, 1995, 10.P. D'Achille
La descrizione dell'I. per province, inserita da Paolo Diacono, che scrive verso la fine del sec. 8°, nell'Hist. Lang. (II, 14-24), in quanto - com'egli stesso dice - da quel punto in avanti le vicende in essa narrate avrebbero avuto come teatro appunto l'I., "si rifà al sistema dioclezianeo, aggiornato da successivi apporti, forse fino all'età di Giustiniano" (Capo, in Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, 1992, p. 437). Le province elencate sono diciotto. Esse vengono enumerate in un ordine "legato alla situazione storica [...] e cioè l'ingresso dei Longobardi da nord-est; si segue infatti la direzione della loro marcia - Venezia, Liguria, (Rezie), Alpi Cozie, Tuscia -, continuando poi a scendere lungo il Tirreno fino allo stretto di Messina e riprendendo poi dalle Alpi Appennine e dall'Emilia per ridiscendere, lungo l'Adriatico, fino a Otranto; le isole sono poste, come sempre, da ultimo" (ivi).1) Venetia. "Non è costituita solo da quelle poche isole che ora chiamiamo Venezia [quas nunc Venetias dicimus], ma il suo territorio si estende dai confini della Pannonia fino al fiume Adda [...] Alla Venezia è unita anche l'Istria e insieme sono considerate una provincia sola [...] La città più importante della Venezia era Aquileia; ora il suo posto è preso da Cividale [Forum Iulii]" (II, 14). Paolo ha sempre presente la X regio augustea, Venetia et Histria, ma registra anche alcuni mutamenti intervenuti nel frattempo. Ne parla ancora come di un tutto unico, benché la conquista longobarda avesse, già nel 569, con Alboino, separato una buona parte della Venetia 'mediterranea' (continentale) sia dalla Venetia 'marittima' sia dall'Istria, rimaste bizantine; le conquiste successive dell'Istria da parte del re longobardo Desiderio (770) e, diciotto anni dopo, da parte dei Franchi avevano, sì, ricollegata in qualche modo l'Istria alla Venetia continentale, anch'essa, nel 770, per intero longobarda (salvo una frangia costiera) da più di un secolo e, a partire dal 773, franca, ma ribadendo la sua separazione dalla Venetia marittima, sottrattasi a entrambe le conquiste. Al tempo stesso, Paolo sembra già dare quasi per nata Venezia città, su alcune poche isole della laguna. Usa per essa il plurale Venetiae, che però subito dopo, pur lasciando intendere che è ormai questo nuovo secondo senso a prevalere, adopera anche in riferimento a Venezia provincia, un modo, che risulta attestato la prima volta da Giordane (De origine actibusque Getarum, XXIX, 149), per sottolinearne la natura composita. Altra novità non altrettanto recente registrata da Paolo: il subentro di Cividale ad Aquileia come capitale della Venetia et Histria, avvenuto in seguito alla distruzione da parte di Attila. Di Cividale re Alboino aveva poi fatto la sede del primo ducato longobardo in I., nel momento stesso in cui, per metterla al sicuro dall'invasione, veniva trasferita da Aquileia a Grado, al margine orientale della laguna, la sede patriarcale. Ma, fra il 606 e il 607, i vescovi della terraferma ormai longobardizzata avevano eletto un altro metropolita (con sede prima ad Aquileia, poi a Cormons, quindi a Cividale), aggiungendo un ulteriore motivo alla separazione, già in atto per ragioni politiche, fra Venetia continentale e Venetia marittima.2) Liguria. "La seconda provincia è chiamata Liguria [...] In essa si trovano Milano e Ticino detta anche Pavia" (II, 15). Corrisponde all'I. nordoccidentale, tra le Alpi, l'Adda a E e il Po a S. Accanto a Milano, sola a essere menzionata nei cataloghi-base di cui Paolo disponeva, è nominata Ticinus/Papia, capitale del regno longobardo dall'inizio dell'8° secolo.3-4) Retia prima e Retia secunda. La Rezia, posta fra le Alpi, il lago di Costanza e il Danubio e suddivisa in due province da Diocleziano, apparteneva alla diocesi d'I., non all'I. propriamente detta.5) Alpes Cottiae. "Si estende dalla Liguria verso sud-est fino al mar Tirreno e ad ovest si unisce al territorio dei Galli. In essa si trovano Acqui [...], Tortona e il monastero di Bobbio, e anche le città di Genova e di Savona" (II, 16). Da notare la menzione del monastero di Bobbio, fondato da s. Colombano nel 612.6) Tuscia. "Essa comprende verso occidente l'Aurelia e verso oriente l'Umbria. In questa provincia è situata Roma, che un tempo fu la capitale di tutto il mondo. Nell'Umbria [...] ci sono Perugia, il lago Clitorio [fiume Clitunno] e Spoleto" (II, 16). Comprende Toscana, Lazio - fino a Roma inclusa - e parte dell'Umbria e delle Marche attuali. È da notare che l'Aurelia, dalla via omonima che andava da Roma a Tortona e poi ad Arles, è citata come un territorio anche da Gregorio Magno (Dialoghi, III, 17, 5-10) e che Paolo menziona l'Aurelia, l'Emilia e la Flaminia come le province che "prendono il nome dalle strade lastricate che partono da Roma e da coloro che le hanno costruite" (II, 19). Paolo non accenna ai mutamenti intervenuti nel frattempo per Roma, con la costituzione del ducato bizantino e poi del primo nucleo del dominio temporale dei papi, e per Spoleto, con la costituzione del ducato longobardo, poi franco.7) Campania. "Va dalla città di Roma fino al Sele [...] In essa si trovano le ricchissime città di Capua, Napoli e Salerno" (II, 17). Paolo, che pure scrive la Hist. Lang. a Montecassino, riflette la situazione del sec. 6° e non distingue - come fa invece nella seconda metà del sec. 7° l'Anonimo Ravennate (Cosmographia) - la Campania inclusa nel ducato longobardo di Benevento da quella rimasta bizantina, la cui porzione a N del corso medio del Liri faceva parte del dominio temporale dei papi (Campagna). Dà però rilievo a Salerno, ch'era uscito dall'anonimato per gli interventi edilizi promossi dal duca, poi principe, di Benevento, Arechi II, dopo il 774.8) Lucania. "Ha inizio dal fiume Sele e insieme alla Brizia [Brutii, l'od. Calabria] [...] giunge fino allo stretto di Messina lungo le coste del mare Tirreno [...], in essa si trovano le città di Paestum, Laino, Cassano, Cosenza e Reggio" (II, 17). Al tempo di Paolo, Paestum era stata già abbandonata; la menzione di Laino e di Cassano allo Ionio (prov. Cosenza) è forse dovuta al fatto che erano due località assurte a una certa importanza all'interno del ducato longobardo di Benevento.9) Alpes Appenninae. "Cominciano dove finiscono le Alpi Cozie. Queste montagne [...] dividono la Tuscia dall'Emilia e l'Umbria dalla Flaminia [...] C'è chi dice che Alpi Cozie e Appennine sono una sola provincia" (II, 18). È un punto della descrizione di Paolo che ha dato luogo a molte discussioni. Dalle località che Paolo attribuisce a questa provincia si evince che essa corrispondeva a un territorio estendentesi fra il Modenese, le Marche e la valle del Tevere.10) Emilia. "Comincia dalla Liguria e va in direzione di Ravenna, stando fra le Alpi Appennine e il corso del Po. È ornata di ricche città, cioè Piacenza e Parma, Reggio e Bologna e Foro di Cornelio, il cui castello è chiamato Imola" (II, 18). Il mutamento del nome di Forum Cornelii era avvenuto in seguito alla sua devastazione da parte dei Longobardi, intorno al 580.11) Flaminia. "È posta tra le Alpi Appennine e il mar Adriatico. Vi si trovano la più nobile tra le città, Ravenna, e altri cinque centri che con nome greco sono chiamati Pentapoli" (II, 19). Anche se, con la conquista longobarda (750), Ravenna era già entrata in una fase di decadenza, Paolo, che - come s'è visto - relega la grandezza di Roma tutta nel passato (olim), dà come ancora attuale il primato che Ravenna aveva conquistato all'inizio del sec. 5°, quando era subentrata a Milano come capitale dell'impero d'Occidente. Pentapoli (per la precisione, Pentapoli marittima, distinta dalla Pentapoli annonaria o interna) era il nome di un'unità amministrativa bizantina, non si sa se precedente o successiva all'invasione longobarda della penisola, che comprendeva Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona.12) Picenus. "Ha verso mezzogiorno [in realtà, verso O/SO] i monti Appennini, dall'altra parte il mar Adriatico e arriva fino al fiume Pescara. Qui sono le città di Fermo, Ascoli e Penne" (II, 19).13) Valeria, cui est Nursia adnexa. "Si trova tra l'Umbria, la Campania e il Piceno. A oriente raggiunge la regione dei Sanniti. La sua parte occidentale, che comincia dalla città di Roma, fu detta un tempo Etruria dal popolo degli Etruschi. Contiene le città di Tivoli, Carsoli, Rieti, Furconia e Amiterno e la regione dei Marsi, con il lago detto Fucino" (II, 20). Poiché l'antica Etruria era tutta a O del Tevere, l'errore di Paolo è una prova dell'oblio in cui era caduta la civiltà etrusca.14) Samnium. "Posto tra la Campania, il mar Adriatico e la Puglia, a cominciare da Pescara. Vi si trovano Chieti, Alfedena, Isernia, Sannio, ora consunta dal tempo [...] e la stessa capitale di queste province, la splendida Benevento" (II, 20). Benevento è detta capitale non del solo Sannio, ma anche harum provinciarum, delle province con cui il Sannio confina. È una delle maggiori concessioni che Paolo fa all'attualità, cioè all'esistenza del ducato, e dal 774 principato, longobardo di Benevento, che comprendeva anche parte della Campania e della Puglia.15) Apulia, cumsociata sibi Calabria. "In essa si trova la regione del Salento. Ad ovest e a sud-ovest ha il Sannio e la Lucania, ad oriente è limitata dal mar Adriatico. Ha città di grande floridezza, Lucera, Siponto, Canosa, Acerenza, Brindisi, Taranto e Otranto, adatta ai commerci, posta sull'estrema punta sinistra dell'Italia, che si estende per cinquanta miglia" (II, 21). La Calabria di allora comprendeva Salento e Terra d'Otranto. Per Paolo, così come successivamente per Dante, erano di destra le province che si affacciano sul Tirreno e di sinistra quelle che si affacciano sull'Adriatico.16-18) Sicilia, Corsica e Sardinia. La prima delle tre isole "è bagnata dal mar Tirreno e dallo Ionio"; le altre due "sono entrambe circondate dalle acque del Tirreno" (II, 22).Paolo Diacono ricorda inoltre che gli "antichi storici chiamarono la Liguria, parte della Venezia, l'Emilia e anche la Flaminia col nome complessivo di Gallia Cisalpina" e ne spiega la ragione (II, 23); infine, dà l'etimologia del nome I. e aggiunge che essa è chiamata anche Ausonia (nome dato inizialmente alla regione di Benevento) o Lazio (II, 24).Poco più di cinque secoli dopo Paolo Diacono, all'inizio del sec. 14°, Dante Alighieri, nel De vulgari eloquentia (I, X, 5), premette alla "rassegna delle varie letterature regionali italiane" (Mengaldo, in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, 1979, p. 16) una descrizione dell'Italia. Seguendo un ordine suggeritogli dalle rappresentazioni cartografiche del tempo, Dante, che non ha qualcosa di paragonabile all'ordinamento dioclezianeo cui rifarsi, giustappone, com'era inevitabile, nomi di regioni storiche che corrispondono anche a circoscrizioni politico-amministrative, nomi di circoscrizioni politico-amministrative e nomi di regioni storiche non corrispondenti a circoscrizioni politico-amministrative.Egli menziona anzitutto l'Apulia, cioè il territorio della parte continentale del regno di Sicilia (comprendente le attuali regioni di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria), distinguendo, rispetto alla dorsale appenninica che lo attraversa, il suo versante occidentale e tirrenico dall'orientale e adriatico; quindi Roma, cioè il Patrimonium sancti Petri originario, corrispondente al Lazio attuale (per Dante, come per Paolo, Latium era l'I.); il Ducatus, cioè il ducato di Spoleto (le città di Perugia, Orvieto, Viterbo e Civita Castellana sono date come in parte romane, in parte spoletine); la Tuscia, cioè la Toscana propriamente detta, non anche, come si evince da ciò che si è appena detto a proposito del ducato di Spoleto, la Tuscia romana; la Ianuensis Marchia, cioè Genova e il suo territorio; la Marchia Anconitana, cioè le attuali Marche; la Romandiola, cioè la Romagna, con Forlì come centro; la Lombardia, molto più vasta dell'attuale, ma non estendentesi a tutta l'I. settentrionale come in altri autori (per Dante essa includeva Ferrara e Piacenza e poi Modena, Reggio e Parma, nonché, implicitamente, Cremona; incerta è la collocazione del Piemonte; Bologna è data al confine fra Lombardia e Romagna); la Marchia Trivisiana cum Venetiis, cioè la terraferma veneta più Venezia; Forum Iulii, cioè il ducato del Friuli, così chiamato dal nome dell'antica colonia romana, menzionata anche da Paolo, corrispondente all'od. Cividale; l'Ystria; la Sicilia e la Sardinia. Dei nomi di province menzionati da Paolo Diacono sopravvivevano allora: le Venetiae, che sono ormai decisamente il nome di una città; la Tuscia, corrispondente alla Toscana attuale e non più alla grande provincia di Paolo che comprendeva anche Perugia, Spoleto e Roma; l'Apulia, che è da intendersi allora come l'omonimo ducato di cui fu investito a Melfi il normanno Roberto il Guiscardo da papa Nicolò II nel 1059 ("duca di Puglia e di Calabria e duca futuro di Sicilia", in quanto l'isola era ancora sotto la dominazione arabo-musulmana, e dove la Calabria è quella di oggi e non più il Salento) e che compare ancora come tale nell'intitolazione dei re angioini di Sicilia ("re di Sicilia, del ducato di Puglia e del principato di Capua"), assurto per una sorta di sineddoche a indicare l'intero regno meridionale, tanto più dopo che, in seguito al Vespro (1282), la Sicilia si era staccata dal resto, e in attesa che, per la definitiva rinuncia all'isola da parte dei sovrani angioini (1372), la parte continentale dell'ex regno normanno e svevo di Sicilia assumesse il nome di regno di Napoli; la Sicilia e la Sardinia. Dante trascura invece altri nomi di province che si ritrovano nella lista delle regioni della Rep. Italiana di oggi, e cioè il Veneto (la Venetia 'continentale'); la Liguria, che corrisponde alle Alpes Cottiae di Paolo; l'Umbria, sottoprovincia, allora, della Tuscia; la Campania; l'Emilia, congiunta ora alla Romagna; e la Calabria, che, come s'è detto, corrisponde agli ex Bruzii.Nell'elenco di Dante figurano due regioni nuove, di origine non più tardoantica ma altomedievale, tuttora esistenti, la Lombardia e la Romandiola (Romagna), che riflettono nei rispettivi coronimi la sedimentazione delle vicende narrate da Paolo nel resto della sua Historia, tutta incentrata da quel punto in avanti sullo scontro-incontro fra Longobardi e Romani in Italia. Peraltro la presenza dei Longobardi, dilatatasi via via a partire dal 569, il momento in cui "Alboino, entrato in Liguria, fece il suo ingresso a Milano" (II, 25), non si limitò alla Lombardia, la regione che ne perpetua il ricordo, più o meno estesa a seconda dei tempi e talvolta, nello stesso tempo, a seconda degli autori; né la presenza dei Romani - in cui sono da vedere i soli indigeni della penisola abitanti nei territori che, dopo l'invasione, continuarono a far parte dell'Impero romano (per i moderni, bizantino) - si limitò alla Romandiola, la regione che ne prese il nome, che subì anch'essa variazioni non trascurabili nella sua conformazione (le sole attuali prov. di Ravenna, Forlì e Rimini, oppure anche quelle di Bologna e Ferrara).Il nome Lombardia è la più manifesta, ma non l'unica traccia degli effetti della dominazione longobarda che si riscontri nella descrizione dantesca dell'Italia. Questa dominazione, che finì con l'essere molto estesa in chilometri quadrati, si presentava come compatta nella valle del Po, ma a pelle di leopardo nel resto della penisola. Articolato in ducati, il regno longobardo ebbe dall'inizio alla fine una scarsa coesione. In particolare, i ducati di frontiera, come quelli del Friuli e di Trento e, oltre l'Appennino tosco-emiliano, quello della Tuscia, ebbero, facilitati anche dalla geografia, una larga autonomia. E, nella descrizione dantesca, si trovano puntualmente elencati la Toscana, a questo punto, ormai, una regione storica, e il Friuli, questo secondo, invece, non regione storica, ma comitato-ducato, dominio territoriale dal 1077 del patriarca di Aquileia, strettamente collegato con l'impero tedesco, come, sempre in nome della 'politica dei valichi', lo era anche il comitato di Trento, su cui aveva giurisdizione piena il vescovo di questa città, che Dante però non menziona.Sempre nella descrizione dantesca, quello che era stato il nucleo centrale della dominazione longobarda, cioè la Padania, non figura come un tutto unico, come una sola grande Lombardia, ma risulta diviso in due parti, la Lombardia (comunque più vasta, per Dante, dell'attuale, in quanto comprensiva di quasi tutta l'Emilia di oggi) e la Marca Trevigiana. Era, in qualche modo, come se riaffiorasse la distinzione, risalente all'età longobarda e caduta presto in desuetudine, fra Padania occidentale, o Neustria, e Padania orientale, o Austrasia.La Marca Trevigiana, che corrispondeva al Veneto attuale di terraferma, con esclusione della zona sudorientale (Adria, Rovigo), posta al limite settentrionale delle terre di tradizione bizantina e di influenza ravennate, era nata nel sec. 10° come Marca Veronese. Staccata dal regno d'I. e unita dapprima al ducato di Baviera, poi a quello di Carinzia, prese il nome dalla città che, per la sua posizione all'imboccatura o, se si preferisce, allo sbocco della valle dell'Adige, rivestiva una grande importanza strategica. Ma, nel corso del sec. 13°, in coincidenza con la politica di Federico II nell'I. nordorientale e con l'affermazione del dominio personale di Ezzelino III da Romano sulle città della Marca stessa, lo cambiò e assunse quello di Marca Trevigiana, che "non indicava più una struttura territoriale soggetta ad un potere unico, sia pure sempre più labile, ma un territorio geograficamente inteso, che continuava tuttavia ad esprimere nel suo stesso nome la consapevolezza da parte delle città maggiori di essere eredi di una tradizione comune di inquadramento pubblico" (Castagnetti, 1988, p. 17). Si aggiunga che la larga diffusione che ebbero contemporaneamente nel territorio della Marca i riti della civiltà cortese-cavalleresca fece sì che essa fosse anche comunemente chiamata la 'Marca gioiosa'.Notevole è l'accoppiamento che Dante propone del Veneto di terraferma con Venezia città. È impossibile pensare che egli presagisse l'espansione veneziana in terraferma, la cui prima tappa fu costituita dall'annessione di Treviso nel 1339. Né a suggerire l'accostamento può essere stata, a giudizio di un esperto come Folena (1965-1966), la prospettiva linguistica, che in questo caso risulterebbe più subordinata a "schemi etnico-storici", come se si avvertisse ancora la persistenza del substrato comune alle due Venezie della Tarda Antichità.Praticamente indipendenti, salvo che per brevi periodi, dal regno longobardo di Pavia erano i due ducati centromeridionali di Spoleto e di Benevento. Il primo fu assoggettato dai Franchi (774), ma sopravvisse come circoscrizione amministrativo-feudale del regno d'I., poi, a partire dal momento in cui entrò a far parte dello Stato della Chiesa, provvisoriamente dal 1198 e definitivamente dal 1231, come provincia di questo, conservando però la sua identità onomastica di Ducato, menzionata anche da Dante. Dante trascura invece il coronimo Principato, che perpetuava indirettamente ancora ai suoi tempi il ricordo del ducato di Benevento. Questo secondo ducato era rimasto a lungo longobardo, trasformandosi, al momento della caduta del regno di Pavia, in un principato, che si scisse, nell'849, nei principati di Benevento e di Salerno, città di cui già il primo principe di Benevento, Arechi II (758-787), aveva fatto la sua seconda residenza, e nella contea di Capua, a lungo in bilico fra autonomia e dipendenza dall'uno o dall'altro principato, ma anch'essa divenuta in seguito un principato. Questi tre potentati longobardi, molto spesso in conflitto fra loro, restarono in vita fino alla conquista normanna, costituendo nel loro insieme la Longobardia minore della storiografia moderna. Mentre il principato di Capua fu ancora concesso in feudo nel 1059 da Nicolò II al normanno Riccardo d'Aversa, finendo poi con l'essere menzionato nell'intitolazione dei re di Sicilia, il coronimo Principato sopravvisse, addirittura fino agli inizi del sec. 19°, con valenza amministrativa, alla perdita dell'indipendenza della Longobardia minore, sdoppiandosi sotto gli Angioini in due province, corrispondenti, rispettivamente, alle attuali prov. di Benevento e di Avellino, e a quella di Salerno con parte della Lucania, denominate, in riferimento alla dorsale appenninica che le separava, Principato Ulteriore (Ultra) e Principato Citeriore (Citra). Ma fu soprattutto quest'ultimo a "mantenere viva la tradizione della sua precedente unità", in quanto "il passaggio di Benevento alla sovranità pontificia [nel 1051] privò in effetti la provincia non solo del suo punto di riferimento storico, ma anche [...] dell'unico centro urbano di rispettabili dimensioni e di consolidata vocazione cittadina fra l'area campana e quella pugliese" (Galasso, 1992, p. 889).Romagna è un ripristino moderno, un derivato non da Romandiola, che è il nome con cui Dante menziona questa regione, bensì da Romania, un nome oggi usato prevalentemente dai linguisti per indicare l'area di diffusione del latino, ma che in origine indicava l'insieme dei territori da cui era costituito l'Impero romano, compresi quelli di lingua greca. In questo senso lo impiega Orosio (Le storie contro i pagani, VII, 43), che scriveva tra il 416 e il 418, quando attribuì al re goto Ataulfo il proposito di fare della Romania una Gothia.Rispetto a Romania, Romandiola è una sorta di diminutivo, che sta per 'piccola Romania', o, come veniva chiamata, Romagnola. Poiché non si sa con sicurezza quando sia entrato nell'uso, non si può nemmeno dire se la Romania, da cui si intendeva tenere distinta la Romandiola come entità a sé stante (Vasina, 1994), fosse l'insieme dei territori imperiali, o l'insieme dei soli territori imperiali in I., o se, addirittura, non volesse essere una 'piccola Roma', intendendo così prendere le distanze dallo Stato della Chiesa, che costituiva una minaccia per la sua autonomia.In ogni modo, è perfettamente comprensibile che il ricordo di Roma e del suo impero, in contrapposizione a quello che romano non era più (la Langobardia), abbia lasciato una traccia onomastica nel territorio adiacente a Ravenna - per Paolo Diacono "la più nobile tra le città" -, che, forte della posizione conquistata nella Tarda Antichità in conseguenza della sua collocazione geografica, a partire dalla riconquista giustinianea e fino al 750, era stata la sede del comando supremo unificato, il quale verso la fine del sec. 6° avrebbe preso il nome di Esarcato d'I., cui faceva capo una serie di ducati (Istria, Venezia, Pentapoli, Roma, Napoli, più tardi anche Calabria e Ferrara), in cui si articolava la residua presenza imperiale nella penisola, mentre la Sicilia dipendeva direttamente da Costantinopoli. Nel corso del sec. 8°, con il venir meno della funzione dell'Esarcato d'I. come comando unificato politico-militare dei domini bizantini, il termine di Esarcato cominciò a venire usato in riferimento al Ravennate, e talvolta anche alla Pentapoli, come nome della regione geografica che, caduto in desuetudine 'Esarcato' (prima nella cancelleria pontificia, poi in quella imperiale), avrebbe finito con l'assumere, appunto, la denominazione di Romandiola, in riferimento però, ora, al solo Ravennate.Roma è, evidentemente, per Dante lo Stato della Chiesa, ma egli, per il fatto che enumera a parte Ducatus, Marchia Anconitana e Romandiola, mostra di voler prescindere dai risultati conseguiti dalla politica di recuperationes, iniziata da papa Innocenzo III e poi proseguita con successo, dopo una serie di parziali indietreggiamenti, dai suoi successori, tendente a vedere riconosciuti i diritti che su quei territori Pipino e Carlo Magno avevano ceduto alla Chiesa, senza che nei quattro secoli intercorsi questa fosse riuscita a far valere le sue pretese consacrate nelle donazioni, e promesse di donazioni, carolinge. Dante, insomma, ha ancora presente quello che può essere definito il primo Stato della Chiesa e che alla fine del sec. 12° è menzionato come Patrimonium sancti Petri, con una designazione che, in origine (a partire dal quarto-quinto decennio del sec. 6°), era stata usata per indicare i nuovi, grandi complessi patrimoniali in cui vennero raggruppati gli sparsi possessi fondiari della Chiesa, ciascuno dei quali era poi contraddistinto da un nome proprio che rimandava alla provincia, alla città o alla via di comunicazione, nella quale, accanto alla quale o lungo la quale si trovava. Il Patrimonium sancti Petri di prima delle recuperationes corrispondeva al ducato bizantino di Roma, sul quale i papi cominciarono a esercitare in esclusiva i "diritti concreti legati alla sovranità" (Toubert, 1987, p. 155), a partire dal momento in cui, caduta Ravenna in mano ai Longobardi, non ci fu più un duca a Roma, senza che in questo passaggio di poteri intervenissero in alcun modo i sovrani franchi e la falsa 'donazione di Costantino'. Al tempo di Dante questo nucleo originario dello Stato della Chiesa era articolato nelle seguenti province: a N del Tevere, il Patrimonio di s. Pietro in Tuscia, corrispondente all'attuale prov. di Viterbo, con l'aggiunta di Civitavecchia (oggi prov. Roma) e Orvieto oggi umbra (prov. Terni); a E del Tevere, la Sabina; a S del Tevere, la Campagna-Marittima, che, a un certo momento non bene precisabile, si sarebbe scissa in due.Anche la Marchia Anconitana, come la Romandiola e Roma, aveva fatto parte, a suo tempo, della Romania in senso lato, contrapposta alla Langobardia. La marca d'Ancona, corrispondente in parte all'antica Pentapoli menzionata da Paolo Diacono, era stata creata nel 1090 ca. da Enrico IV come circoscrizione feudale; era stata rivendicata dal papato nel quadro della politica delle recuperationes e passata formalmente sotto il governo della Chiesa nel 1273, ma solo dagli anni cinquanta del sec. 14° (legazione del cardinale Egidio Albornoz) tale possesso divenne effettivo, come, del resto, fu il caso anche del ducato di Spoleto e della Romagna (Waley, 1987).Il termine Apulia, così com'è stato qui decodificato, esprimeva la forte impronta unitaria che le successive denominazioni normanna, sveva e, dal 1266, angioina avevano impresso al Mezzogiorno continentale, cancellando, almeno per Dante, le tracce toponomastiche delle precedenti dominazioni longobarda e bizantina. Quest'ultima aveva interessato, in forme diverse e in misura diversa a seconda dei tempi, le attuali regioni Campania, Basilicata, Puglia e Calabria.Per la Campania, più che di vera e propria dominazione bizantina si può parlare - limitatamente alla zona costiera (l'hinterland era longobardo) e con l'esclusione di Salerno, anch'essa longobarda -, dalla fine del sec. 8° in poi, di sovranità solo teorica (salvo brevi parentesi) o, meglio, di area di influenza politico-economica bizantina. Ciò vale, fino alla sottomissione a Ruggero II (1139), per il ducato di Napoli, e per quelli di Amalfi e di Gaeta, che, resisi autonomi da esso nel corso della seconda metà del sec. 9°, si sottomisero ai Normanni, rispettivamente, nel 1073 e nel 1064.Nel resto dell'I. peninsulare, la presenza bizantina, nel sec. 8° e nella prima metà del 9°, sotto la pressione longobarda e poi anche franca, andò riducendosi ai minimi termini, fino a limitarsi alla punta dello stivale (ormai non più Brutii, ma Calabria) e alla Terra d'Otranto, esposte entrambe alle incursioni, che si risolvevano talvolta in insediamenti più o meno duraturi, degli Aghlabidi di Ifrīqiya, ancor prima che, a partire dall'827, essi avviassero la conquista stabile della Sicilia, fino allora tema bizantino.La situazione cambiò all'inizio degli anni ottanta del sec. 9°, con Basilio I (867-886), primo sovrano della dinastia macedone che restituì all'impero quasi tutta la Calabria, Taranto e una gran parte del principato di Benevento. In Puglia, fu istituito il tema di Longobardia, con capitale Bari, e la Calabria, fino allora parte del tema di Sicilia, fu eretta, a sua volta, in un tema a sé stante, con capitale Reggio. In seguito, forse nella seconda metà del sec. 10° (ma la prima attestazione sicura è del 1042), fu istituito il tema di Lucania. Sempre nella seconda metà del sec. 10° (prima attestazione nel 970), i tre temi (se erano già tre) furono unificati nel 'catepanato d'I.', con Bari come capitale.Già al tempo di Federico II, l'attuale prov. di Foggia era una delle nove province del regno di Sicilia, chiamata Capitanata, nome che deriva da catepanato. Alla dominazione bizantina nell'I. meridionale rimanda certamente anche il nome di Basilicata, che nel 1932 fu sostituito con quello di Lucania, intendendosi così ripristinare il nome di una provincia dell'antica Roma. Non si sapeva, allora, che il nome Lucania aveva contraddistinto anche, in tempi più recenti, un tema bizantino, ciò che, del resto, non era ancora noto ai costituenti, che si preoccuparono nel 1947 di ripristinare il vecchio nome di Basilicata.
Bibl.:
Fonti. - Orosio, Le storie contro i pagani, a cura di A. Lippold, II, Milano 1976, p. 398; Giordane, De origine actibusque Getarum, a cura di F. Giunta, A. Grillone (Fonti per la storia d'Italia, 117), Roma 1991, p. 64; Gregorio Magno, Dialoghi, a cura di U. Moricca (Fonti per la storia d'Italia, 57), Roma 1924 (rist. anast. 1966), p. 180; Anonimo Ravennate, Cosmographia, a cura di M. Pinder, G. Parthey, Berlin 1860; Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992; Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P.V. Mengaldo, in id., Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, pp. 1-237.
Letteratura critica. - H. Schmidinger, Patriarch und Landesherr. Die weltliche Herrschaft der Patriarchen von Aquileja bis zum Ende der Staufer, Graz-Köln 1954; G. Folena La presenza di Dante nel Veneto, Atti e Memorie dell'Accademia patavina di scienze, lettere ed arti 78, 1965-1966, pp. 483-509; N. Cilento, Le origini della Signoria capuana nella Longobardia minore, Roma 1966; P. Delogu, A. Guillou, G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, I, Torino 1980; Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, ivi, III, Torino 1983; Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Lazio, Umbria e Marche, Lucca, ivi, VII, 2, Torino 1987; G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S. Pietro, ivi, pp. 1-151; P. Toubert, Il Patrimonio di S. Pietro fino alla metà del secolo XI, ivi, pp. 153-228; D. Waley, Lo Stato papale dal periodo feudale a Martino V, ivi, pp. 229-320; A. Castagnetti, Dalla Marca veronese alla Marca trevigiana, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV) sulle tracce di G.B. Verci (Istituto storico italiano per il Medio Evo. Studi storici, 199-200), Roma 1988, pp. 11-22; M. Pavan, G. Arnaldi, Le origini dell'identità lagunare, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, Roma 1992, pp. 409-456; G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), in Storia d'Italia, a cura di G. Galasso, XV, 1, Torino 1992; A. Vasina, s.v. Romagna, in Lex. Mittelalt., VII, 1994, coll. 978-980.G. Arnaldi
Il frazionamento politico dell'I. medievale si riflette direttamente nella produzione della moneta: essendo questa una delle espressioni del potere più fortemente rappresentativa, non stupisce che entità sovrane di ogni grandezza, inclusi i piccoli comuni, abbiano in qualche momento battuto moneta propria. Se apparentemente può quindi sembrare difficile parlare unitariamente di una monetazione dell'I. medievale, non sono pochi gli elementi comuni e di raccordo.La grande varietà delle monete italiane medievali può essere suddivisa di massima in due gruppi; se l'I. del regno di Sicilia ebbe dal sec. 12° una monetazione più omogenea di quella dell'I. centrosettentrionale, questa può essere a sua volta raggruppata in serie più ampie, regionali, a volte legate da accordi monetari, come quello del 1254 tra le città di Cremona, Parma, Brescia, Piacenza, Pavia, Tortona e Bergamo, che decisero di battere moneta intercambiabile, e, pur mantenendo i propri tipi cittadini, vi posero come contrassegno una stella, che doveva sostituire il segno della O crociata, stabilito in una precedente convenzione (Mazzi, 1882; per altri accordi monetari, Salvioli, 1901; Travaini, 1988). Inoltre, pur nelle diversità, le monete italiane medievali erano raccordate in sistemi di conto di scala di volta in volta regionale o multiregionale; nelle fonti si possono trovare così riferimenti a monete 'd'I.', come i denari milanesi che nel 1175 "in totam Ytaliam currebant" (ma in realtà si trattava solo dell'I. settentrionale e centrale; Travaini, 1989, p. 240), o le monete d'oro di molte zecche dei secc. 14° e 15°, equiparate e definite "tutti buoni fiorini di Talia" nella Pratica della Mercatura di Giovanni di Antonio da Uzzano (1442; Pagnini del Ventura, 1766, p. 152).L'I. altomedievale conobbe varie forme monetarie. I Goti e i Longobardi continuarono in qualche modo la tradizione tardoromana e bizantina, con emissioni in oro, oltre che in argento e bronzo, queste ultime abbandonate dai Longobardi (v. Goti; Longobardi; Vandali). Le riforme monetarie carolinge, a partire dal 781, con influenze anche a Roma, portarono all'abbandono dell'oro (definitivo nell'I. carolingia dopo i tremissi del periodo 773/774-781: i rarissimi solidi aurei carolingi posteriori provengono da zecche d'Oltralpe) e all'introduzione di un sistema monometallico basato sul denaro d'argento. Il numero delle zecche fu ridotto rispetto al periodo longobardo; le zecche attive nell'I. carolingia furono Pavia, Milano, Lucca, Pisa e Treviso, quest'ultima sostituita da Venezia intorno all'820: in questo modo la monetazione ebbe un carattere unitario, i denari emessi nelle varie zecche erano simili, con tipi generalmente epigrafici, con un tempio o una croce, e una fonte franca dell'849 parla di italica moneta argento (Grierson, 1976, ed. ingl. p. 43; v. Carolingia, Arte). Se Oltralpe erano molto diffusi come tipi monetali i monogrammi, questi sono più rari in I., fatta eccezione per gli antiquiores. I denari antiquiores, emessi a Roma congiuntamente dal papa e dall'imperatore, presentano caratteristiche a volte singolari, con il busto del papa o quello di s. Pietro che si distaccano dall'iconografia monetale carolingia, che molto raramente raffigura busti o ritratti (antiquiores con tipi figurativi si ritrovano occasionalmente a N delle Alpi, evidentemente preferiti dai pellegrini come ricordo del pellegrinaggio romano, Grierson, 1976, ed. ingl. p. 60; per i ritratti, Arslan, 1992, p. 843).Il campo ridotto delle monete e la sua forma circolare determinano un limite preciso all'espressione figurativa, ma sono anche una sfida per gli incisori, che seppero a volte tradurre e disporre in modo singolare parole e immagini, come per es. il rebus sul rovescio di un denaro di papa Benedetto IV con Ludovico III (901-903), dove le lettere RO e una mano aperta indicano il nome Romanus, sostitutivo del più comune monogramma per Roma (Corpus Nummorum Italicorum, 1910-1943, XV, p. 84, nr. 7).A S di Roma, Benevento e Salerno longobarde battevano monete che da un lato continuavano la tradizione aurea bizantina, con busti e croci, dall'altra sentivano l'influenza carolingia, emettendo denari argentei di tipo settentrionale. Verso la fine del sec. 9° le monete d'oro arabe cominciarono a diffondersi nelle città tirreniche della Campania, insieme ai folles bizantini di Costantinopoli, preparando il terreno a nuove monete locali che imitarono i modelli arabi e bizantini. Così, mentre la monetazione dell'I. settentrionale continuava fino alla fine del sec. 12° ad avere tipi per lo più epigrafici e monogrammi, o croci o stelle, con poche novità, come la porta (IANVA) sui denari genovesi dal 1139, imitata nel sec. 13° sui denari di Parma, nel Meridione si sviluppava una monetazione del tutto diversa, altamente figurativa. Questa, seguendo in parte un filone bizantino, ebbe inizio a Salerno poco dopo la metà del sec. 11°, a opera del principe longobardo Gisulfo II (1052-1077), il quale, accanto alle monete auree di imitazione araba, che erano prodotte anche ad Amalfi (v. Arabi), fece emettere follari di rame che esaltavano in primo luogo la personalità del sovrano, con un programma di propaganda veramente significativo, che raffigurava il principe in abiti imperiali, ora occidentali ora bizantini, insieme con la veduta delle fortificazioni di Salerno designata nella leggenda come OPVLENTA. Passata Salerno ai Normanni nel 1077, continuarono le emissioni di follari sotto i nuovi sovrani, fino al 1194, con una serie notevole di tipi sempre diversi, dovuti forse a renovationes monetae di origine fiscale. Tra i tipi vi sono busti e teste frontali e di profilo, fortificazioni, palme e altre piante, motivi decorativi vegetali e geometrici, animali di ogni genere: leoni, pantere, pavoni, aquile, e forse un cinghiale, apparentemente copiato da una moneta antica di Paestum, esempio tra altri della presenza dell'Antico nell'arte normanna. Anche a Capua e a Gaeta furono emessi follari raffiguranti fortificazioni con torri e busti dei santi locali (secc. 11°-12°). Le monete di Capua raffigurano anche i principi, ma non quelle di Gaeta, per i motivi ricordati dalle fonti: quando a Gaeta il duca Riccardo di Carinola, nel 1123, volle emettere un tipo con la propria effigie scatenò una sollevazione popolare che lo costrinse a ritirare il progetto e promettere che la moneta locale sarebbe rimasta immutata; un segno ben preciso di come le potenzialità espressive e programmatiche della moneta fossero sentite, sia dai sovrani sia dal pubblico (Travaini, 1995).La zecca di Mileto, in Calabria, emise per Ruggero I conte di Sicilia e Calabria (1060-1101) follari di largo modulo, dove fu rappresentato con grande effetto il conte armato a cavallo, e la figura di Maria seduta con il Bambino in braccio, in forme originali, del tutto svincolate dall'iconografia bizantina: moneta-simbolo dei Normanni, crociati ante litteram per aver sottratto la Sicilia agli Arabi. Anche le monete di rame di Ruggero II (1105-1154), battute a Messina, e nel 1140 il ducale d'argento di Palermo, offrirono il campo a immagini che esaltavano la potenza del conte poi duca e anche re di Sicilia: le vesti e gli atteggiamenti nei quali il sovrano è raffigurato sottolineano precisamente la sua carriera politica e indicano chiaramente quale ne fosse la coscienza di sé, come sovrano cristiano di un popolo trilingue, che emetteva monete con leggende in arabo, in greco e in latino. Sulle monete normanne di rame, inoltre, furono rappresentati i santi locali, precocemente rispetto alle monete dell'I. settentrionale, a parte s. Michele sulle monete longobarde, s. Pietro sugli antiquiores romani e s. Gennaro sulle monete di rame a Napoli nel 9° secolo.La fine della dominazione normanna e l'avvento degli Svevi nel 1194 portarono un brusco cambiamento nelle tradizioni monetali meridionali: Enrico VI (1190-1197) abolì le monete di rame, che avevano rappresentato fino ad allora il più vivace terreno per espressioni figurative, e impose come moneta principale i denari di basso argento (25% ca. di argento in lega), simili a quelli del Nord. I denari svevi raffigurano aquilette, croci, busti - questi ultimi solo per Federico II (1220-1250) -, stelle e crescenti lunari, e in gran parte sono prevalentemente epigrafici. Restarono in uso i tarì d'oro, monete di origine araba, che ancora sotto Enrico VI e Federico II conservavano leggende in arabo corretto, poi progressivamente deformate in un decorativismo pseudocufico che si ritrova anche in altre forme artistiche normanne e sveve. I tarì d'oro degli Svevi sono spesso caratterizzati da aquile: tra queste si segnala un tipo di Manfredi (1258-1266) con forse il suo busto diademato posto sul corpo di un'aquila (v.), come nascente dall'aquila stessa (Spahr, 1976, p. 213, nr. 184). Un'autentica novità fu l'augustale (v.), introdotto da Federico II nel 1231 e prodotto nelle zecche di Brindisi e Messina, con il suo busto-ritratto di classica plasticità, che restò tuttavia un fatto isolato nella monetazione.La monetazione dell'I. settentrionale divenne iconograficamente più varia dalla fine del 12° secolo. L'introduzione di monete grosse, di argento quasi puro, e con un campo più ampio di vari millimetri, apriva nuove possibilità di espressione artistica. Il primo grosso fu probabilmente quello di Venezia, con S. Marco e il doge, e Cristo in trono, seguito presto da altri grossi di varie zecche comunali.I santi sono spesso presenti sulle monete dell'I. settentrionale, scelti come rappresentanti dell'identità cittadina: oltre a s. Marco, rappresentato in busto dal sec. 11° sui denari di Venezia, i santi vescovi ebbero parte importante; per es. Ciriaco ad Ancona, Gaudenzio a Rimini, Donato ad Arezzo, Emidio ad Ascoli Piceno furono raffigurati sui 'grossi agontani' del sec. 13°, emessi con caratteristiche tanto simili da suggerire un accordo monetario intercomunale. Altri santi ricorrenti sono Ambrogio a Milano, Petronio a Bologna, Giovanni a Firenze e, inoltre, la Vergine a Pisa. Ma non solo santi erano scelti a rappresentare l'identità cittadina: Virgilio campeggia sulle monete del Comune di Mantova (Corpus Nummorum Italicorum, 1910-1943, IV, p. 221, nr. 1), e Ovidio, tramite le iniziali del verso "Sulmo mihi patria est", era il simbolo di Sulmona sulle monete battute in quella zecca nei secc. 14°-15° da Angioini, Durazzeschi e da Carlo VIII.Se le monete medievali dei comuni italiani spesso presentano una iconografia ripetitiva e in parte monotona, con immobilizzazione dei tipi per decenni, quando non per secoli (per es. le monete di Genova, Siena, Firenze, Venezia), pure è possibile cogliervi le innovazioni di forme e di stile (per la identificazione di elementi evolutivi nei tipi dei fiorini di Firenze, immutati dal 1252 al 1533: Ives, 1952; Bernocchi, 1974-1985, II). Studiando le lunghe serie dei ducati veneziani, emessi dal 1284 con tipi sempre uguali fino alla fine del sec. 18°, si può cogliere benissimo il senso di quei mutamenti, spesso gradualmente introdotti senza interventi personali, frutto del 'gusto' di epoche figurative nuove che quasi impercettibilmente mutavano la mano dell'incisore. È questo il caso della graduale introduzione di forme gotiche nelle monete comunali centrosettentrionali, mentre a Napoli fu la volontà di Carlo I d'Angiò (1266-1285) a cambiare radicalmente la tradizione locale, introducendo la vivace scena dell'Annunciazione sui carlini del 1278 (Travaini, 1994). Più raramente, infine, il cambiamento poteva anche essere opera di veri artisti, come nel caso di un raro ducato di Antonio Venier (1382-1400), sul quale si coglie per la prima volta nella serie un intento ritrattistico, con la notazione della barba, elemento che va ricollegato alla presenza nella zecca di Venezia di incisori di eccezione quali i fratelli Lorenzo e Marco Sesto, autori di 'protomedaglie', se non delle prime medaglie rinascimentali, da identificarsi in alcuni rari bronzi coniati per celebrare i signori padovani verso la fine del sec. 14° (Stahl, 1993; v. Moneta). Tra i primi ritratti monetali, dopo quelli sull'augustale di Federico II e sul 'reale' di Carlo I d'Angiò, si può ricordare quello su un soldino argenteo di Pandolfo Malatesta (1404-1421) della zecca di Brescia (Corpus Nummorum Italicorum, 1910-1943, IV, p. 84, nr. 11): un episodio ancora isolato, prima della fioritura quattrocentesca, ma che costituisce un segno chiaro dell'ambiente ormai maturo per la rappresentazione del sovrano nei suoi caratteri individuali, ancorché idealizzati.Altro elemento che merita attenzione, ma ancora da approfondire in studi specifici, è quello del movimento degli incisori e dei modelli da una zecca all'altra negli innumerevoli casi di imitazioni (Gamberini di Scarfea, 1956). Esemplare in proposito il tipo della Vergine in trono con il Bambino delle serie pisane, riscontrabile quasi identico sui denari di Aquileia (Corpus Nummorum Italicorum, 1910-1943, XI, p. 29, nrr. 44ss., p. 303, nrr. 14ss.; Bernardi, 1975, pp. 108, nrr. 131-132; Travaini, 1983, pp. 42-47).
Bibl.:
Fonti. - G.F. Pagnini del Ventura, Della decima e delle altre gravezze imposte dal Comune di Firenze, II, 4, Lisboa-Lucca 1766 (rist. anast. Bologna 1967).
Letteratura critica. - D. Massagli, Introduzione alla storia della zecca e delle monete lucchesi, Lucca 1870 (rist. anast. 1976); A. Portioli, La zecca di Mantova, 2 voll., Mantova 1879-1880; A. Mazzi, La convenzione monetaria del 1254 e il denaro imperiale di Bergamo nel secolo XIII, Bergamo 1882; N. Papadopoli, Le monete di Venezia, 3 voll., Venezia 1893-1919; F. Malaguzzi Valeri, La zecca di Bologna, Milano 1901; G. Salvioli, s.v. Moneta, in Enciclopedia Giuridica Italiana, X, 3, Milano 1901, pp. 16-128; Q. Perini, Le monete di Verona, Rovereto 1902; L. Rizzoli, Q. Perini, Le monete di Padova, Rovereto 1903; Corpus Nummorum Italicorum, 20 voll., Roma 1910-1943 (rist. anast. 1970); G. Sambon, Repertorio generale delle monete coniate in Italia e da Italiani all'estero dal secolo V al XX, I, Periodo dal 476 al 1266, Paris 1912 (rist. anast. Bologna 1975); E. Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma 1915; A. Sambon, Recueil des monnaies médiévales du sud de l'Italie avant la domination des Normands, Paris 1919 (rist. Bologna 1976); G. Castellani, s.v. Moneta. La moneta nel Medioevo e nell'età moderna, in EI, XXIII, 1934, pp. 639-653; H.E. Ives, The Design of the Florentine Florins as an Aid to their Dating, American Numismatic Society. Museum Notes 5, 1952, pp. 103-112; C. Gamberini di Scarfea, Le imitazioni e le contraffazioni monetarie nel mondo. Primo tentativo di uno studio generale e pratico ad uso dei numismatici, III, Le principali imitazioni e contraffazioni italiane e straniere di monete di zecche italiane medioevali e moderne, Bologna 1956; P. Grierson, I grossi 'senatoriali' di Roma, 1253-1363, Rivista italiana di numismatica e scienze affini 58, 1956, pp. 36-69; R. Spahr, Le monete siciliane dagli Aragonesi ai Borboni (1282-1836), Palermo 1959; O. Murari, La monetazione dell'Italia settentrionale nel passaggio dal Comune alla Signoria, Nova historia 13, 1961, pp. 31-45; s.v. Moneta e medaglia, in EUA, IX, 1963, coll. 569-616: 591-595, 613-614; F. Panvini Rosati, La monetazione comunale in Italia, Bologna 1963; A. Gasparinetti, Storia della zecca di Bergamo, Bergamo 1969; F. Muntoni, Le monete dei papi e degli stati pontifici, 4 voll., Roma 1972-1974; L. Lenzi, Le monete di Pisa, I, Pisa 1973; F. Panvini Rosati, Numismatica e sfragistica, in Civiltà delle arti minori in Toscana, "Atti del I Convegno sulle arti minori in Toscana, Arezzo 1971", Firenze 1973, pp. 169-184; Le zecche minori toscane fino al XIV secolo, "Atti del III Convegno internazionale di studi, Pistoia 1967" (Centro italiano di storia e d'arte di Pistoia), Bologna [1974]; M. Bernocchi, Le monete della Repubblica fiorentina (Arte e archeologia. Studi e documenti, 5-7, 11, 24), 5 voll., Firenze 1974-1985; G. Bernardi, Monetazione del patriarcato di Aquileia, Trieste [1975]; G. Pesce, G. Felloni, Le monete genovesi. Storia, arte ed economia nelle monete di Genova dal 1139 al 1814, Genova 1975; R. Spahr, Le monete siciliane dai Bizantini a Carlo I d'Angiò (582-1282), Zürich-Graz 1976; P. Grierson, Monnaies du Moyen Age, Fribourg 1976 (ed. ingl. Coins of Medieval Europe, London 1991); id., Bibliographie numismatique, Bruxelles 19792; L. Travaini, Il rispostiglio di Oschiri (Sassari), Bollettino di numismatica 1, 1983, pp. 27-216; M. Pannuti, V. Riccio, Le monete di Napoli, Lugano 1984; C. Crippa, Le monete di Milano dai Visconti agli Sforza dal 1329 al 1535, Milano 1986; P. Grierson, M. Blackburn, Medieval European Coinage, I, The Early Middle Ages (5th-10th Centuries), Cambridge 1986; L. Bellocchi, Le monete di Bologna, Bologna 1987; A. Finetti, Numismatica e tecnologia. Produzione e valutazione della moneta nelle società del passato, Urbino 1987; L. Travaini, Mint Organisation in Italy between the Twelfth and Fourteenth Century: a Survey, in Later Medieval Mints: Organisation, Administration and Techniques, "The Eighth Oxford Symposium on Coinage and Monetary History, Oxford 1988", a cura di N.J. Mayhew, P. Spufford (BAR. International Series, 389), Oxford 1988, pp. 39-60; id., La moneta milanese tra X e XII secolo, "Atti dell'11° Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Milano 1987", Spoleto 1989, I, pp. 223-243; id., Le aree monetarie italiane alla fine del Medioevo, in Le Italie del Tardo Medioevo, a cura di S. Gensini, Pisa 1990, pp. 362-389; A. Cavicchi, La moneta medievale in Italia da Carlo Magno al Rinascimento, s.l. 1991; E.A. Arslan, Emissioni monetarie e segni del potere, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell'Alto Medioevo occidentale, "XXXIX Settimana di studio del CISAM, Spoleto 1991", Spoleto 1992, II, pp. 791-850; E. Biaggi, Monete e zecche medievali dal sec. VIII al XV, Torino 1992; B. Paolozzi Strozzi, G. Toderi, F. Vannel Toderi, Le monete della Repubblica senese, Milano 1992; S. Balbi de Caro, Monete e popoli in Italia nell'età di mezzo (La moneta a Roma e in Italia, 2), Roma 1993; A. Stahl, A Fourteenth Century Venetian Coin Pattern, Rivista italiana di numismatica e scienze affini 95, 1993, pp. 597-604; L. Travaini, La monetazione nell'Italia del Duecento e la sua trasformazione gotica, in Gotico europeo in Italia, a cura di V. Pace, M. Bagnoli, Napoli 1994, pp. 343-350; id., La monetazione nell'Italia normanna (Istituto storico italiano per il Medio Evo. Nuovi studi storici, 28), Roma 1995; I Gonzaga, Moneta, arte, storia, a cura di S. Balbi de Caro, cat., Milano 1995.L. Travaini