Vedi Italia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Italia costituisce il quarto stato dell’Unione Europea (Eu) in termini di popolazione e ricchezza economica. In virtù della propria collocazione geografica, inoltre, la penisola si pone all’intersezione di due aree regionali strategicamente rilevanti: l’Europa continentale a nord e il Mediterraneo a sud. La posizione geopolitica del paese ha così contribuito a plasmarne le linee guida della politica estera. In particolare, quantomeno a partire dal secondo dopoguerra, l’Italia ha seguito tre assi principali, rivolti rispettivamente agli Stati Uniti, all’Europa e ai paesi emergenti. Il rapporto con gli Stati Uniti si è definito a partire dalla ‘scelta occidentale’ dell’Italia, ossia l’ingresso nell’Alleanza atlantica nel 1949. Nelle relazioni con Washington la posizione strategica del paese – posto esattamente sul confine tra i due ‘blocchi’ – si tradusse in una rilevanza geopolitica destinata a perdurare per tutto il periodo della Guerra fredda. D’altra parte, la protezione garantita dall’alleato americano comportò l’installazione di basi militari sul territorio della penisola e, cosa forse più importante, ricadute non trascurabili sulla politica interna – che si sostanziarono nell’esclusione del Partito comunista dalle coalizioni di governo. Terminata la Guerra fredda, e svanita la minaccia sovietica, l’Italia ha mantenuto negli Stati Uniti un partner fondamentale e nella Nato la principale alleanza strategica, come testimoniato dalla partecipazione alle maggiori operazioni dell’Alleanza, in particolare l’attuale missione Isaf in Afghanistan e la più recente Unified Protector in Libia. La seconda priorità nella politica estera italiana è testimoniata dalla propensione del paese a sostenere (seppur con alcuni limiti) il progetto di integrazione europea. L’Italia non è solo tra i sei membri fondatori delle originarie comunità europee, ma vede nell’Eu lo strumento principale per amplificare la propria influenza internazionale. Nonostante alcune inevitabili tensioni con Bruxelles, negli ultimi anni si è assistito a una sostanziale convergenza con le istituzioni comunitarie. Fanno eccezione due brevi (ma acuti) disaccordi nel 2009: il primo ha riguardato la politica dei respingimenti degli immigrati provenienti dalla Libia, il secondo la richiesta presentata dall’Italia alla Commissione europea di rivedere gli impegni comunitari relativi alla riduzione delle emissioni nocive. Per quanto concerne la terza linea d’azione della politica estera, l’Italia ha sviluppato una serie di rapporti bilaterali, in particolare con i paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dei Balcani. In relazione ai vicini meridionali, la diplomazia italiana si è prodigata per rinsaldare i propri legami con la Libia, con la quale nel 2008-09 sono stati firmati importanti accordi di natura commerciale, di cooperazione sui flussi migratori e sulle risorse energetiche. La crisi libica del 2011, che ha oltretutto comportato forti attriti con i partner europei promotori dell’intervento militare come Francia e Regno Unito, non pare aver comportato forti contraccolpi nelle relazioni bilaterali tra Roma e Tripoli. Altrettanto importante è l’asse con la Turchia, paese con cui l’Italia intrattiene intense relazioni economiche (solo nel 2009 le imprese italiane si sono aggiudicate appalti pubblici in Turchia per un valore di 626 milioni di euro). L’Italia
è uno dei maggiori sostenitori dell’ingresso di Ankara nell’Unione Europea e vede nel paese un importante partner per la posizione strategica a cavallo tra Europa e Asia. Nei confronti del Medio Oriente, la politica estera italiana ha mantenuto una posizione di sostanziale equidistanza nella disputa israelo-palestinese (seppur con accenti diversi a seconda del colore del governo in carica), che le ha permesso di conservare rapporti amichevoli tanto con Israele che con i paesi arabi. In occasione della crisi di Gaza a cavallo tra il 2008 e il 2009, ad esempio, Roma ha sostenuto la legittimità dell’azione di Israele in quanto difensiva, riproponendo al tempo stesso l’idea di una sorta di ‘Piano Marshall’ per la Palestina. Oltre al conflitto israelo-palestinese, l’Italia è stata attiva in Libano, dove ha assunto un ruolo centrale all’interno della missione Unifil II delle Nazioni Unite, e verso l’Egitto, con cui ha avviato un rapporto privilegiato. Durante il 2013 e all’inizio del 2014, l’Italia, tramite l’azione del nuovo Ministro degli esteri Emma Bonino, si è resa anche protagonista del riavvicinamento tra l’Iran del nuovo presidente Rohani e la comunità internazionale, soprattutto per ciò che concerne i rapporti con l’Unione europea. Verso i Balcani, infine, la politica estera italiana è volta alla promozione della stabilità, in particolare al fine di stemperare le tensioni etniche e nazionali (soprattutto in Kosovo e Serbia) e combattere la criminalità organizzata. In questo teatro l’Italia ha mostrato un particolare interesse nei confronti della Serbia e del Montenegro, così come dell’Albania. Oltre ad essersi impegnata nel 2009 a dedicare sostanziosi investimenti in questi paesi, l’Italia si è fatta portatrice della domanda di ingresso della Serbia nell’Eu. Infine, l’Italiamostra un’elevata propensione al multilateralismo, come testimoniato dall’appartenenza e dalla partecipazione attiva all’interno delle principali istituzioni internazionali, quali le Nazioni Unite, il G8, il Wto e le già citate Eu e Nato. In particolare, per ciò che riguarda le Nazioni Unite, di cui il paese è uno dei primi contributori a livello mondiale, l’Italia si è impegnata nel difficile processo di riforma dell’Organizzazione. La proposta avanzata da Roma, che sulla questione si oppone tanto a grandi potenze come la Germania e il Giappone quanto a stati emergenti come India e Brasile, è di incrementare il numero di seggi non permanenti all’interno del Consiglio di sicurezza. Non diversamente, nell’ambito del G8, l’Italia si è prodigata per mantenere viva l’organizzazione quale vertice di comando dell’economia mondiale. Nel 2009 il paese ne ha detenuto la presidenza e ha dato ampia enfasi al summit organizzato all’Aquila (pochi mesi dopo il terremoto che ha distrutto parte della città). Tuttavia, di fronte all’ascesa dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), pare evidente che l’istituzione stessa sia destinata a cedere il passo verso forme alternative, come il G2 Usa-Cina, o il G20. Nonostante l’insistenza di Roma nel ribadire la centralità del G8 come concerto delle grandi potenze, è probabile che l’appello italiano sia destinato a cadere nel vuoto. Nella seconda metà del 2014, inoltre, l’Italia avrà la presidenza di turno dell’Unione Europea.
Dal 1946 l’Italia è una repubblica parlamentare. Le istituzioni principali comprendono il presidente della Repubblica, che riveste un ruolo istituzionale e di garanzia (sebbene a volte politicamente rilevante), eletto dal Parlamento in seduta comune assieme ai rappresentanti delle regioni; il Parlamento, bicamerale perfetto, formato da una Camera dei deputati, composta da 630 rappresentanti, e da un Senato, comprendente 322 membri; il presidente del Consiglio dei ministri, nominato dal presidente della Repubblica, il quale è sovente il leader del partito che ha ottenuto più seggi alla Camera dei deputati. Il mandato elettorale di deputati e senatori è di cinque anni, mentre il presidente della Repubblica rimane in carica per sette. Infine, la costituzione sancisce la divisione amministrativa del paese in 20 regioni e oltre 100 province.
La storia politica italiana del dopoguerra è contraddistinta da un momento di cesura, all’inizio degli anni Novanta, che ha portato alla transizione dalla cosiddetta ‘Prima Repubblica’ alla ‘Seconda Repubblica’. A trasformare il sistema politico italiano furono innanzitutto le ricadute interne dei mutamenti internazionali: a poco più di un anno dal crollo del Muro di Berlino il Partito comunista italiano (Pci), guidato dal segretario Achille Occhetto, venne infatti ufficialmente sciolto per dare vita al Partito democratico della sinistra (Pds). Sul piano interno, furono invece l’operazione giudiziaria ‘Mani pulite’ e i numerosi scandali che misero in luce un sistema ampiamente corrotto a spingere verso un netto ricambio della classe dirigente e dei principali partiti di governo: la Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi) vennero ufficialmente sciolti, e nelle elezioni del 1994 emersero prepotentemente nuovi partiti e nuovi leader: tra questi, la Lega Nord di Umberto Bossi e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Contestualmente, nel 1993, in seguito a un referendum popolare, si riformò il sistema elettorale, abrogando il principio proporzionale e sostituendolo con uno semi-maggioritario. Questa scelta era finalizzata a ridurre il numero dei partiti in Parlamento e assicurare così maggiore stabilità alle coalizioni di governo: dal 1945 a oggi si sono infatti succeduti più di cinquanta governi. Tuttavia, il nuovo sistema elettorale non ha portato i risultati sperati e nel 2005 è stato reintrodotto il sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento e un premio di maggioranza: alla Camera il premio consiste in almeno 54 seggi al partito che ottiene più voti, mentre al Senato la vittoria in una data regione garantisce il 55% dei seggi disponibili per quella regione.
Il nuovo sistema elettorale è stato adottato nelle elezioni del 2008, che sono state vinte dalla coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi. Berlusconi aveva ottenuto un’ampia maggioranza rispetto alla coalizione di centrosinistra, formata dal Partito democratico (Pd) e dall’Italia dei valori (Idv). Nel marzo del 2009 Berlusconi aveva riunito in un solo partito, battezzato Il popolo delle libertà (Pdl), il proprio partito Forza Italia e l’alleato di destra Alleanza nazionale. La Lega Nord, pur rimanendo parte della coalizione, aveva invece deciso di rimanere un partito indipendente. Nonostante la cospicua maggioranza parlamentare, nel 2010 il governo è di fatto entrato in crisi. Il fattore scatenante è stato riconducibile alla tensione tra il leader del Pdl Berlusconi e il co-fondatore del partito, nonché ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, il quale ha formato prima un gruppo parlamentare separato e poi un partito a sé stante, denominato Futuro e libertà per l’Italia (Fli). Dopo un voto di fiducia nel dicembre 2010 in cui il governo Berlusconi ha ottenuto la maggioranza per soli tre voti, il 2011 si era aperto quindi con una situazione di profonda incertezza per la politica italiana. Le elezioni amministrative del 2011 – in cui il Pdl ha perso la tradizionale roccaforte di Milano – hanno manifestato un progressivo cambiamento nelle scelte elettorali della popolazione e posto una sfida ulteriore alla tenuta del governo. La crisi del governo Berlusconi è stata accentuata dalla grave situazione finanziaria in cui versava il paese: ciò ha dato il via a una serie di pressioni internazionali – soprattutto all’interno dell’Unione Europea – affinché l’Italia adottasse misure di rigore, che hanno portato alle dimissioni del governo Berlusconi nel novembre del 2011. A seguito della nomina da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di Mario Monti a senatore a vita, le forze politiche si sono accordate intorno al nome dello stesso Monti quale capo di un governo tecnico, che guidasse l’Italia fino alle elezioni del 2013. Le misure imposte dal nuovo governo Monti, sul piano fiscale – tra cui la reintroduzione dell’imposta sui beni immobili, Imu – e sociale – con la riforma delle pensioni del ministro Elsa Fornero – sono inizialmente state approvate da una larga maggioranza, comprendente Pdl, Pd e Udc (Unione di centro), benché impopolari. Diverso è stato per altri tipi di riforme, come quelle giudiziarie e sulla corruzione, le quali hanno invece trovato i principali partiti che sostenevano Monti in disaccordo. Lo stesso governo Monti ha rassegnato le proprie dimissioni, nel momento in cui il maggior partito della coalizione a suo sostegno, il Pdl, ha annunciato l’intenzione di voler ritirare la fiducia. Le nuove elezioni per il rinnovo del Parlamento si sono tenute il 24 e 25 febbraio 2013 e hanno segnato l’inaspettata ascesa del Movimento 5 stelle, fondato dall’ex attore comico Beppe Grillo. Il movimento, presentatosi per la prima volta in un’elezione nazionale, è risultato il primo partito alla Camera dei deputati, con un risultato del 25,56%, contro il 25,42% del Partito democratico, guidato da Pierluigi Bersani. A livello di coalizioni, quella di centro-sinistra – comprendente, oltre al Pd, Sinistra ecologia e libertà (Sel), il Centro democratico (Cd) e il Südtiroler Volkspartei (Svp) – ha ottenuto alla Camera il 29,55% dei voti, mentre quella di centro-destra, con Berlusconi candidato premier e formato dal Pdl, la Lega Nord, Fli, La destra e altre formazioni minori, ha ottenuto il 29,18% dei consensi totali. Questo risultato ha portato a uno stallo nella formazione del nuovo governo, soprattutto in considerazione del fatto che al Senato la coalizione di centro-sinistra, che pure si è giovata del premio di maggioranza alla Camera, non ha riportato la maggioranza dei seggi. Contestualmente ai negoziati per la formazione del nuovo governo, inoltre, il nuovo parlamento eletto avrebbe dovuto eleggere il nuovo Capo dello stato, dal momento che il mandato di Giorgio Napolitano era in scadenza. Nel clima di immobilismo politico causato dal sostanziale pareggio delle forze in campo, con tre diversi fronti – centro-sinistra, centro-destra e Movimento 5 stelle – senza i numeri necessari per poter formare un governo da soli, proprio l’elezione del Presidente della repubblica è diventata il banco di prova per misurare gli equilibri. Il Pd si è spaccato sulla candidatura di Franco Marini prima e di Romano Prodi poi, erodendo in tal modo la credibilità di Bersani e creando le condizioni per un imprescindibile accordo con il Pdl sulla rielezione di Napolitano. Tale accordo ha costituito anche la base della formazione di una ‘grande coalizione’ di governo, formata da Pd e Pdl e con Enrico Letta del Pd come Primo ministro. Il nuovo governo dovrebbe traghettare il paese verso nuove elezioni, anche attraverso una nuova fase di riforme istituzionali, prima su tutte quella della legge elettorale. A complicare il quadro, all’interno degli stessi schieramenti di governo sono occorsi nuovi spaccamenti: da un lato, il Pdl si è scisso, dando vita alla rinascita di Forza Italia, che è passata all’opposizione, e al Nuovo centrodestra guidato dal Ministro dell’interno Angelino Alfano. Dall’altro lato, il Pd ha cambiato la propria dirigenza, con l’elezione a nuovo Segretario del partito di Matteo Renzi. Quest’ultimo ha impresso un’accelerazione al processo di riforma della legge elettorale, presentando al parlamento un progetto concordato con Forza Italia. Nel febbraio del 2014, in seguito alla richiesta della maggioranza del Pd di un cambio di governo, Letta si è dimesso e Matteo Renzi è stato incaricato da Napolitano di formare un nuovo esecutivo.
Con quasi 60 milioni di abitanti, l’Italia è il quarto paese più popoloso dell’Unione Europea dopo Germania, Francia e Regno Unito. La densità di popolazione è tra le più elevate del continente, anche se la distribuzione sul territorio risulta concentrata in alcune aree metropolitane. Nel corso degli ultimi anni la popolazione è leggermente incrementata, principalmente in virtù dell’elevata immigrazione. Il tasso di fecondità è pari a 1,41 figli per donna, inferiore alla media europea (pari a circa 1,5). Inoltre, disaggregando il dato per le sole donne italiane, tale valore scende a 1,33, mentre
per le donne straniere è di 2,05. Parallelamente alla bassa crescita demografica si registra un incremento nella vita media degli italiani: se nel 2002 la speranza di vita alla nascita era di 77,1 anni per gli uomini e 83 per le donne, attualmente tale valore è cresciuto rispettivamente a 79,6 e 84,7 anni. Il risultato di questi due fattori è l’invecchiamento relativo della popolazione. I flussi migratori registrano una tendenza positiva: all’inizio del 2011 risultavano 4.570.317 stranieri legalmente residenti nel paese (+7% rispetto all’anno precedente), a cui si stima vada aggiunto un altro milione di irregolari. L’effetto dell’immigrazione sulla crescita della popolazione è così duplice: oltre a portare nettamente in attivo il saldo migratorio, essa influisce positivamente anche sul saldo naturale (ovvero la differenza tra nascite e decessi). Un’osservazione più approfondita dei flussi migratori mostra il sorpasso, a partire dal 2008, dei migranti provenienti da paesi extracomunitari rispetto a quelli provenienti dall’Unione Europea. Questo dato è in parte dovuto alla regolarizzazione massiccia di immigrati presenti già da tempo in Italia (perlopiù collaboratrici domestiche e badanti), ma anche al rallentamento degli ingressi dai paesi dell’Europa centro-orientale. La maggior parte della popolazione straniera (86,5%) risiede nelle regioni centro-settentrionali, in particolare in Lombardia, Lazio, Veneto ed Emilia Romagna. L’incremento dei residenti non italiani ha generato nell’opinione pubblica la percezione di una maggiore insicurezza. Effettivamente, i dati relativi alla criminalità confermano almeno in parte la correlazione tra immigrazione e crescita del numero dei reati commessi, nonostante un significativo calo relativo agli omicidi. In particolare, la quota di detenuti non italiani cresce anno dopo anno in modo più che proporzionale rispetto alla crescita della popolazione immigrata. La popolazione italiana si differenzia dalla maggior parte degli altri paesi europei per una disparità consistente nella dinamica dei redditi e una distribuzione territoriale disomogenea. In base alle ultime rilevazioni Istat, il 28,4% delle persone residenti in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale e l’11,1% si trova in condizioni di deprivazione. In termini comparativi, l’Italia è inoltre uno dei paesi europei in cui la proporzione di situazioni a basso reddito relativo è più elevata: il 20% delle famiglie dispone di un reddito inferiore del 60% rispetto al valore mediano. Tale disparità si riflette su base territoriale nelle differenze tra regioni del nord e del mezzogiorno: mentre in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana il reddito medio familiare è superiore del 10-15% rispetto alla media nazionale, in Calabria, Sicilia, Basilicata, Campania, Molise e Puglia questo risulta inferiore del 20-30%. Infine, la proporzione di famiglie a basso reddito, che a livello nazionale è pari al 18%, sale fino al 36% in Campania e Calabria e al 41% in Sicilia. Complessivamente, il reddito delle famiglie residenti nel Sud Italia è pari al 73% di quelle del Nord. Per far fronte all’elevata incidenza delle situazioni a basso reddito, l’Italia adotta politiche distributive e redistributive in misura analoga agli altri membri dell’Eu. Rispetto agli omologhi, tuttavia, l’efficienza dei trasferimenti risulta minore: misurando il rapporto tra percentuale del prodotto interno lordo (pil) destinata alla spesa sociale (pensioni escluse) e riduzione della popolazione con redditi insufficienti si osserva in Italia un risultato pari al 17%, tra i peggiori in Europa insieme a Grecia e Spagna (per converso, a parità di spesa pubblica, i paesi scandinavi raggiungono un risultato prossimo al 70%). Il welfare italiano garantisce comunque una varietà di servizi, che pongono il paese nella media dei paesi più avanzati.
Per quanto concerne ad esempio il servizio sanitario nazionale, la densità di personale medico in rapporto alla popolazione (3,5 medici e 6,8 infermieri ogni 1000 abitanti) e la percentuale della spesa complessiva rispetto al pil (9,5%) si pongono di poco al di sopra della media europea. Infine, occorre segnalare un male endemico che grava sulla società italiana: l’Italia è infatti terreno di incontro tra una serie di organizzazioni criminali di stampo mafioso, la cui portata trascende i confini nazionali. Oltre alle forme autoctone quali la camorra, la ‘ndrangheta, cosa nostra e la sacra corona unita, si sono insediate ormai da anni forme analoghe di associazione a delinquere di origine russa, cinese, albanese e nigeriana. Insieme, queste organizzazioni svolgono una serie di attività illecite altamente remunerative, dal traffico di armi al racket della prostituzione, fino allo spaccio di stupefacenti.
Con un pil pari a 2076 miliardi di dollari nel 2013, l’economia italiana risulta nona su scala mondiale e quarta in Europa. Nello stesso anno il pil pro capite ammontava a quasi poco più di 30.000 dollari a parità di potere d’acquisto. L’attuale condizione è il risultato dell’eccezionale crescita sperimentata in seguito al secondo dopoguerra, quando il paese passò da uno stato di semi-arretratezza e un’economia basata principalmente sull’agricoltura a un’economia industrializzata e con un terziario avanzato. Ad oggi, il peso dell’agricoltura sul pil è pari soltanto all’ 1,9%. Inoltre, nonostante una netta diminuzione nel primo decennio del secolo, la produzione è frammentata in una miriade di aziende (perlopiù a conduzione familiare) di dimensioni ridotte. Questo comporta, rispetto ad altri paesi europei, una minore redditività e una serie di disfunzioni. Tra le piccole imprese, una percentuale crescente (circa il 7% del totale) svolge attività collaterali alla produzione agricola, come l’agriturismo e la lavorazione di prodotti agricoli. Anche Nel 2013, i dati confermano la tendenza di crescita già avviata dal 2009, infatti il settore agricolo ha registrato una crescita pari al 2% e un incremento delle esportazioni del 6,2%. L’occupazione nel settore è pari al 3,7% della forza lavoro complessiva. Per quanto concerne il settore secondario, l’industria rappresenta circa un quarto del pil e dà lavoro a quasi cinque milioni di persone (cui si sommano circa due milioni di lavoratori nel comparto dell’edilizia). La composizione del settore comprende più di un milione di aziende, di cui il 95% è costituito da piccole e medie imprese, localizzate principalmente nelle regioni del nord. Dopo una relativa crescita nel 2006 e nel 2007, la crisi del 2008-09 ha comportato una contrazione significativa, pari al 10,4% in due anni, di gran lunga superiore alla media europea. A questa ha fatto seguito una riduzione nell’occupazione proporzionalmente inferiore, pari al 3,5% (molte imprese sono infatti riuscite a contenere il numero dei licenziamenti facendo ricorso alla cassa integrazione). Passando infine al settore terziario, esso genera circa il 73% del pil, occupando il 67,8% della forza lavoro. Rientrano in questa categoria le imprese commerciali, quelle turistiche e di servizi alle persone e alle imprese. Secondo le rilevazioni Istat, anche il terziario ha subito una battuta d’arresto in seguito alla crisi: seppur limitata al 10,3%, la contrazione del settore in Italia risulta in controtendenza rispetto alla media europea, che ancora nel 2008 registrava un +1,5%. Per quanto concerne i flussi commerciali con l’estero, i principali partner commerciali sono gli stati europei e, in misura inferiore, gli Stati Uniti, il Brasile, la Cina e la Turchia. Nel 2013 il valore delle esportazioni ha raggiunto la cifra di quasi 450 miliardi di euro, segnando una crescita rispetto agli anni precedenti, dopo però un crollo del 20,9% del 2009. Allo stesso modo, anche le importazioni stanno ora registrando una ripresa rispetto al 2009 per un valore assoluto di circa 430 miliardi di euro. Questo valore è ampiamente inficiato dall’incremento dei prezzi delle materie prime, la cui incidenza sulle importazioni è passata in un anno dal 15,7% al 19,4%. A più di quattro anni dall’inizio della crisi, diversamente dai vicini dell’Europa settentrionale, l’economia italiana porta ancora i segni della recessione del 2008-09. Nel 2013, il tasso di crescita è stato nuovamente negativo e si è attestato a -1,8% e secondo l’Istat la disoccupazione è salita ormai al 12%. Dal 2007 al 2011 il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è passato dal 24% ad addirittura più del 40% a inizio 2014. La principale sfida del governo consiste quindi nel ridurre il debito e il disavanzo pubblico con misure restrittive, senza minare la fragile ripresa economica. Finora, per quanto i governi di Monti e Letta abbiano gestito le finanze pubbliche con cautela e rigore, poco è stato fatto per migliorare le prospettive di crescita nel medio e lungo periodo, poiché permangono vincoli strutturali alla produttività del paese, come ad esempio un mercato del lavoro relativamente meno flessibile rispetto ai partner commerciali, una scarsa concorrenza nei servizi non commerciabili, un’eccessiva frammentazione della produzione in piccole e medie imprese e un’elevata pressione fiscale. Per far fronte alle componenti di lungo periodo della debole ripresa, il precedente governo Monti avrebbe voluto inserire una serie di riforme per la liberalizzazione del mercato del lavoro e dei servizi, da includere nel pacchetto di austerity del maggio 2010. Tuttavia, trattandosi di misure altamente politiche, il governo tecnico ha preferito escluderle dall’agenda e concentrarsi sulle leve fiscali. Come gli altri paesi dell’area euro, anche l’Italia ha adottato politiche restrittive nel biennio 2011-12. Per garantire la stabilità e prevenire eventuali attacchi speculativi è infatti necessario ridurre il disavanzo pubblico, che nel 2012 e nel 2013 ha superato il 4% del pil, e limitare il debito pubblico, che nello stesso periodo è passato al 133% rispetto al pil. Per stimolare la crescita economica sarà tuttavia opportuno affiancare la politica macroeconomica a misure di sostegno delle imprese italiane verso i mercati che sono stati meno toccati dalla crisi (in particolare in Estremo Oriente). Nonostante l’economia italiana prima della crisi abbia testimoniato un maggior grado di internazionalizzazione, attualmente l’import-export si concentra sulle aree geograficamente più prossime.
Il consumo interno lordo di energia in Italia ammonta a quasi 170 milioni di tonnellate equivalente di petrolio (mtep). Secondo una tendenza alla contrazione dei consumi manifestatasi per la prima volta nel 2006, i consumi energetici hanno risentito della sfavorevole congiuntura economica, attestandosi dal 2011 ad un livello che non si registrava dalla fine degli anni Novanta.
Il mix energetico nazionale è caratterizzato dalla preponderanza nell’utilizzo di petrolio e gas naturale, risorsa che, nonostante il calo congiunturale dovuto alla contrazione dei consumi, è andata acquistando un peso crescente sui consumi nazionali, giungendo nel volgere di un trentennio a eguagliare – e in prospettiva a sopravanzare – il ruolo del petrolio come principale componente del paniere dei consumi. D’altra parte, la bocciatura per via referendaria, nel 2011, dell’opzione di ritorno all’utilizzo dell’energia nucleare ha accantonato l’unico elemento che avrebbe potuto significativamente modificare la composizione del mix energetico nazionale. Nel medio periodo dunque, oltre al menzionato aumento del peso percentuale del gas naturale, la principale variazione nei consumi nazionali potrebbe derivare dall’obiettivo del raggiungimento di una quota del 17% di energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2020, in linea con gli accordi sottoscritti in sede europea.
Dato strutturale del comparto energetico dell’Italia, paese povero di risorse energetiche autoctone, è la dipendenza dagli approvvigionamenti dall’estero, che supera ampiamente l’80% del totale dei consumi a fronte di una media europea poco superiore al 55%. In particolare, la dipendenza dalle importazioni si è attestata nel 2011 al 92,4% per il petrolio e all’89,2% per il gas. L’elevata dipendenza dall’estero non sembra tuttavia tradursi in un elevato grado di vulnerabilità del sistema paese, scongiurato da un’efficace politica di diversificazione dei canali di approvvigionamento degli idrocarburi. Messo a dura prova dal conflitto scoppiato nel 2011 in Libia – tradizionalmente tra i principali fornitori di petrolio alla penisola – lo schema di approvvigionamento italiano ha mostrato sufficiente flessibilità da evitare ricadute sui consumi nazionali. Inoltre, la ripresa dei flussi di importazione in quantità tali da permettere alla Libia, nel 2012, di tornare a essere il primo fornitore nazionale (22,9% sul totale) dimostra che i legami di lungo periodo instaurati con i paesi produttori sono in grado di superare crisi congiunturali, per quanto profonde. Allo stesso modo, l’interruzione dei flussi di importazione dall’Iran a partire dall’estate 2012 e in linea con i provvedimenti europei non ha avuto ricadute sulla continuità delle importazioni di greggio.
Una altrettanto efficace politica di diversificazione dei fornitori sembra al contempo caratterizzare anche lo schema di approvvigionamento di gas naturale. A fronte di consumi che, anche a causa della contrazione degli ultimi anni, si sono attestati nel 2011 a 71,3 miliardi di metri cubi (Gmc/a), la rete infrastrutturale di approvvigionamento è in grado infatti di assicurare al paese oltre 110 Gmc/a. Oltre ad essere condizione imprescindibile per la tutela della sicurezza energetica nazionale, la ridondanza delle infrastrutture potrebbe d’altra parte permettere al paese di ri-esportare parte del gas naturale importato, assurgendo a hub della distribuzione della risorsa nell’Europa meridionale. Non a caso, oggi tale obiettivo è uno dei cardini della redigenda Strategia energetica nazionale.
Benché la dipendenza dalle importazioni non metta dunque a serio rischio il sistema Italia, essa tuttavia ha una ricaduta diretta e rilevante sui costi dell’energia. Sfiorando nel 2011 i 62 miliardi di euro, la ‘fattura energetica’ italiana, sulla quale petrolio e gas hanno pesato rispettivamente per il 56% e il 33%, è stata pari al 3,9% del prodotto interno lordo.
Oltre alla sicurezza dell’approvvigionamento, le politiche energetiche nazionali sono finalizzate all’abbattimento delle emissioni nocive per l’ambiente. Rispetto ai dati dei primi anni Ottanta, con la sola eccezione relativa al metano e all’anidride carbonica, si registra una sostanziale riduzione in diverse sostanze inquinanti, quali gli ossidi di zolfo (-90%), gli ossidi di azoto (-30%), il monossido di carbonio (-50%) e i composti organici volatili non metanici. L’anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra, dipende principalmente dalle centrali di produzione elettrica (33%), dai trasporti su strada (25%), dall’attività industriale (16%) e dal riscaldamento domestico (15%).
Per quanto concerne la lotta all’inquinamento, l’Italia ha sottoscritto sia la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) del 1992 sia il Protocollo di Kyoto del 1997. Nonostante il paese abbia mancato gli obiettivi di riduzione di gas serra stabiliti in questa sede per il periodo 2008-12, nell’agosto 2012, dopo due anni di rinvii, il ministero dell’ambiente ha presentato il Piano nazionale per la riduzione delle emissioni dei gas serra fino al 2020, incardinato negli obblighi europei e nella strategia dell’Eu al 2050. Nonostante i valori non del tutto incoraggianti della qualità dell’aria, nel 2012 l’Indice di performance ambientale dell’Università di Yale ha collocato l’Italia all’8° posto su scala mondiale. Questo risultato è dovuto al fatto che, oltre alle emissioni inquinanti, l’indice valuta diversi indicatori aggiuntivi – tra cui la vitalità dell’ecosistema e l’impatto dell’ambiente sulla salute degli individui – in cui il paese registra risultati molto positivi.
Secondo il rapporto Freedom in the World di Freedom House, l’Italia è un paese libero. Il paese ha ottenuto il miglior punteggio possibile in relazione al pluralismo politico, alla possibilità di partecipazione al processo elettorale e al funzionamento dell’apparato governativo. Stesso punteggio, dopo quattro anni di valore 2, è stato raggiunto in relazione alle libertà civili, ovvero libertà di espressione e di culto; diritti di associazione; rule of law; diritti individuali. Per quanto concerne la libertà di parola e di stampa, essa è garantita costituzionalmente. Esistono molti quotidiani e periodici, la maggior parte dei quali su base locale, mentre le principali testate giornalistiche sono legate a grandi gruppi editoriali o ai partiti. Rimane tuttavia eccezionale e controversa l’influenza dell’ex primo ministro Berlusconi sui media nazionali, sia all’interno della tv di stato sia tramite Mediaset, il gruppo privato da lui fondato e controllato dalla sua famiglia. Con poche eccezioni, negli ultimi anni si è assistito a una polarizzazione della stampa attorno a due posizioni estreme: alcune testate hanno assunto una posizione di critica serrata all’operato e alla vita privata del premier; altre si sono palesemente schierate in difesa dell’allora presidente del Consiglio. I rapporti tra governo e media sono diventati particolarmente tesi nell’estate del 2009, quando il giornale cattolico L’Avvenire ha criticato apertamente la condotta morale del premier nella vita privata. In tutta risposta, il quotidiano il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, ha dato avvio a una campagna volta a screditare il direttore dell’Avvenire, il quale alla fine è stato costretto alle dimissioni. Nello stesso periodo, il gruppo l’Espresso citò il premier per diffamazione, dopo che quest’ultimo aveva definito il quotidiano La Repubblica sovversivo e aveva incitato gli sponsor al boicottaggio. Ancora nel 2009, ha sollevato un intenso dibattito la proposta di legge volta a vietare la pubblicazione delle intercettazioni ambientali senza permesso del giudice. Dopo quasi un anno di polemiche, a giugno del 2010 la Camera ha ratificato un emendamento che consente la pubblicazione di quelle intercettazioni che siano ritenute rilevanti dalla cosiddetta udienza filtro, oppure quelle utilizzate dal pubblico ministero per motivare ordinanze cautelari o decreti di perquisizione. Passando alla libertà di religione, anch’essa è garantita dalla Costituzione. Sebbene la confessione cattolica sia dominante e la Chiesa cattolica goda di benefici particolari, non esiste una religione ufficiale di stato. Il governo ha firmato accordi con diversi gruppi religiosi, ai quali fornisce aiuti in misura proporzionale alla loro diffusione; rispetto ad altri paesi, manca però una legge generale sulla libertà di religione. Inoltre, data l’influenza (non solo morale) del Vaticano nella vita pubblica del paese, alcune voci critiche si sono levate per affermare una più netta e sostanziale separazione tra stato e chiesa. Questo tema non sembra però incontrare il favore dell’opinione pubblica: ne è un esempio la reazione sostanzialmente negativa a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel novembre del 2009 si è pronunciata contro l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche. Anche la libertà di associazione e il diritto di sciopero sono garantiti dalla Costituzione. Circa il 35% della forza lavoro è iscritta a un sindacato. Per quanto concerne la rule of law, il sistema giudiziario è imparziale e indipendente, ma soffre per la cronica lentezza dei processi. Esiste una tensione latente, che spesso emerge nel dibattito politico, tra la magistratura e il Pdl, in larga misura per i numerosi processi giudiziari a carico di Silvio Berlusconi. La tortura è illegale, ma alcune organizzazioni per i diritti umani hanno accusato le forze dell’ordine di aver ecceduto in alcune circostanze nell’uso della forza, in particolare contro immigrati clandestini. A partire dal 2009, le misure adottate all’interno del cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ hanno introdotto una nuova fattispecie di reato, l’immigrazione clandestina, su cui è ancora in corso un ampio dibattito. Per gli stranieri che entrano nel paese o si trattengono sul suolo nazionale in violazione delle norme sull’immigrazione è prevista non solo l’espulsione, ma anche la detenzione fino a sei mesi. Inoltre, agli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno sono stati negati alcuni diritti di base (come ad esempio quello di sposarsi). La parità di genere è almeno formalmente garantita: l’indennità di maternità corrisponde solitamente a cinque mesi di astensione dal lavoro a stipendio pieno. Anche le opportunità di accesso all’istruzione e di ingresso nel mondo del lavoro collocano il paese ai primi posti tra i paesi industrializzati. Ciononostante, il tasso di disoccupazione tra le madri è significativamente più elevato rispetto alle donne senza figli e ancor più rispetto alle single: quasi il 20% delle donne lascia o perde il lavoro alla nascita del primo figlio. Rimane inoltre una notevole disparità di trattamento a parità di impiego rispetto agli uomini. Infine, la presenza femminile all’interno delle istituzioni politiche rimane limitata: alle ultime elezioni parlamentari, le donne costituivano solo il 21% dei deputati. Un ultimo aspetto rilevante riguarda la corruzione, un problema costante nella politica italiana, nonostante il colpo di spugna alla classe dirigente della Prima Repubblica portato dall’inchiesta ‘Mani pulite’, e indipendentemente dal colore del governo in carica.
Analogamente a quanto accade negli altri grandi paesi europei, l’Italia dedica alla politica di difesa una quota relativamente limitata del bilancio statale. Nel 2013, secondo quanto comunicato dal governo italiano, il budget devoluto alla difesa è tuttavia risultato in crescita rispetto all’anno precedente, attestandosi a circa l’1,5% del pil. Nonostante tale dato sia stato soggetto a una cospicua volatilità nel corso degli ultimi venti anni, l’Italia conferma la tendenza comune nel Vecchio Continente a privilegiare altri settori di spesa, principalmente quelli legati al welfare. Questa allocazione delle risorse riflette i benefici dell’appartenenza alla Nato e, più in generale, all’assenza di minacce dirette al territorio nazionale. Infatti, da una parte l’alleanza con gli Stati Uniti ha storicamente garantito la presenza delle Forze armate americane sul suolo italiano; dall’altra, con il collasso dell’Unione Sovietica è venuta meno l’unica minaccia alle frontiere nazionali. Il fatto che sia svanita la principale minaccia militare all’integrità del paese non ha tuttavia eliminato il bisogno di una capacità di difesa, ma ha imposto al contrario una profonda revisione strategica. Principalmente in seguito alla fine della Guerra fredda, e in particolare come reazione alla lezione appresa durante la prima Guerra del Golfo (1990-91), le Forze armate italiane hanno avviato un significativo processo di riforma, che finora si è sostanziato nella sospensione a tempo indeterminato della leva di massa. Il passaggio da un esercito di coscritti a uno di volontari ha comportato una cospicua contrazione nel numero delle forze, che rispetto alla metà degli anni Novanta si sono più che dimezzate, e un miglioramento qualitativo a livello di addestramento ed equipaggiamenti. Rimangono tuttavia alcuni limiti, come testimoniato dall’ingente porzione di risorse destinate al personale (63%) e, per converso, dalla trascurabile quota riservata alla ricerca e sviluppo (3,7%). Per invertire tale tendenza il Consiglio dei ministri sta varando una corposa riforma al fine di privilegiare gli investimenti a scapito delle spese amministrative; ciò dovrebbe garantire da una parte la sostenibilità finanziaria della difesa e dall’altra una migliore efficacia operativa delle Forze armate in ambito europeo e Nato. In sostanza, ciò significherebbe che il 50% del bilancio verrebbe assegnato alla spesa del personale, mentre il restante 50% sarebbe suddiviso tra addestramento e ricerca e sviluppo. Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito poi a un accresciuto impegno in missioni internazionali: se negli anni Ottanta l’Italia partecipava in media a non più di dieci missioni all’anno, negli ultimi anni questo dato è triplicato: alla fine del 2011 il paese era impegnato con circa 6000 soldati in 30 missioni internazionali sparse in 19 paesi. Tra queste, le più importanti sono quelle in Afghanistan (Isaf), Kosovo (Kfor), Libano (Unifil II) e Bosnia (Althea), il cui onere finanziario complessivo su base annuale si attesta attorno a 1,2 miliardi di euro. A questi impegni si è aggiunto nel 2011 quello relativo alle operazioni di ‘nofly zone’ della Nato in Libia. La presenza italiana in questi contingenti multinazionali è assai rilevante, poiché il paese è il secondo contribuente in Libano (dove ricopre anche l’incarico del comando militare), il primo in Kosovo e il quarto in Afghanistan. In relazione alle Nazioni Unite, l’Italia figura al nono posto in termini di personale impegnato in missioni di peacekeeping. La ragione dell’attivismo italiano – e conseguentemente della peculiare disponibilità ad accollarsi costi superiori alle proprie possibilità – sembra dipendere più da valutazioni politiche che non da considerazioni di sicurezza: il vantaggio principale in termini di interesse nazionale consiste infatti nell’incrementare la visibilità e il peso dell’Italia all’interno delle istituzioni internazionali. Sul fronte interno, nonostante la tradizionale polarizzazione dei partiti in Parlamento, la decisione di impegnarsi in missioni all’estero (solitamente edulcorate dall’eufemismo ‘missioni di pace’) raccoglie solitamente un consenso bipartisan. Così è stato, seppur non senza polemiche e formalismi, anche per la partecipazione dell’Italia alle operazioni in Libia. Ciò è giustificato dal fatto che la partecipazione italiana avviene all’interno di contingenti multinazionali formalmente legittimati dall’egida di istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, la Nato e l’Unione Europea. Queste missioni si caratterizzano per una bassa intensità di violenza: con l’eccezione del teatro afghano, infatti, raramente i soldati italiani si trovano coinvolti in massicci scontri a fuoco. Tra le funzioni principali che il contingente italiano deve svolgere figurano: 1) la ricostruzione fisica, politica e infrastrutturale della zona interessata; 2) l’addestramento delle forze di polizia locali; 3) le operazioni militari per garantire la sicurezza e la stabilità. Mentre in Kosovo e in Bosnia la dimensione della sicurezza è relativamente marginale, in quanto il processo di stabilizzazione dei due paesi sembra ormai concluso, in Libano e in Afghanistan la situazione è ben diversa. Nel paese dei cedri la missione Unifil II è riuscita a garantire per più di quattro anni una sostanziale cessazione delle ostilità, ma il quadro politico del paese e della regione rimangono altamente instabili. Lo stesso può dirsi, a maggior ragione, per l’Afghanistan, dove la missione Isaf risulta ben lungi dall’aver raggiunto gli obiettivi preposti. Nonostante l’iniziale incremento delle truppe americane durante il primo mandato di Obama, a partire dal 2009 gli insorti hanno infatti ampliato il proprio raggio d’azione e incrementato la frequenza degli attacchi. Il contingente italiano è schierato nella zona occidentale del paese, che comprende le province di Herat, Badghis, Farah e Ghor. Qui, nel 2011 l’Italia ha avviato il processo di transizione con cui pone nelle mani delle forze afghane la responsabilità del mantenimento della sicurezza dell’area. Dal primo dispiegamento di uomini sul campo al settembre del 2012, le forze italiane hanno registrato 47 caduti, di cui la maggior parte per attacchi a fuoco o imboscate con ordigni improvvisati. Oltre alle funzioni di stabilizzazione e di supporto alla ricostruzione, l’Italia è impegnata in Afghanistan all’interno della missione dell’Unione Europea Eupol Afghanistan, il cui obiettivo è l’addestramento e il rafforzamento delle istituzioni di polizia in tutte le aree del paese. Infine, oltre alla partecipazione attiva alle missioni internazionali, negli ultimi anni l’Italia ha mostrato un rinnovato interesse per le iniziative lanciate in seno alla Politica europea di sicurezza e difesa, volte a dotare l’Eu di forze proprie per la gestione delle crisi.
di Gianfranco Pasquino
Dopo più di trent’anni anni di dibattiti, infruttuosi, ancorché non privi contenuti culturali, nel 2013 la tematica delle riforme istituzionali ha ricevuto una spinta possente dalla dura realtà. Nelle elezioni del febbraio 2013, la legge elettorale detta ‘Porcellum’ ha messo in luce tutta la sua drammatica, ma forse voluta, inadeguatezza. Tre partiti hanno ottenuto quasi lo stesso numero di voti, ma il premio di maggioranza ha consentito alla coalizione guidata dal Partito democratico di ottenere una cospicua maggioranza di seggi alla Camera. Le modalità di attribuzione dei premi in seggi, su base regionale, al Senato hanno determinato l’assenza di una maggioranza in quel ramo del Parlamento. Poiché a norma costituzionale il governo deve avere la fiducia di entrambe le Camere, è venuto al pettine il nodo, non facilmente estricabile, dell’antiquato (e ipertrofico) bicameralismo italiano, paritario quanto a poteri e funzioni, molto imperfetto quanto a funzionamento. Nonostante significativi passi verso la semplificazione degli enti locali, non è riuscita l’abolizione delle province. L’estensione degli scandali, in non pochi casi, reati, relativi all’uso del denaro pubblico per rimborsi, falsi o impropri, delle spese dei consiglieri regionali, si è venuto ponendo anche il problema della (co)esistenza di organismi costosissimi diventati sostanzialmente grandi ASL (Aziende sanitarie locali). Onnipresente nel dibattito pubblico è rimasto il finanziamento statale dei partiti politici, fortemente criticato anche dalla Corte dei conti nella sua stessa esistenza poiché abolito da un referendum popolare nel 1993. Soltanto alla fine del 2013 il governo ha varato un decreto che cambierà profondamente le modalità di finanziamento, riducendone i costi, dei partiti ad opera dello Stato e dei privati, che, però, andrà a regime nel lontano 2016. Prima, la nomina, effettuata dal Presidente della Repubblica, di un gruppo di ‘saggi’ per consigliare il governo sulle riforme istituzionali; poi la formazione decisa dal Ministro delle riforme istituzionali del governo di ‘larghe intese’, di una commissione di 35 esperti più 7 coadiutori, non sono approdate ad alcun esito significativo. La relazione conclusiva degli esperti si è limitata ad una sorta di ricognizione sullo stato delle conoscenze disponibili e delle possibili alternative. Tutto già ampiamente noto. Dal canto suo, il Parlamento non è riuscito a uscire dallo stallo relativo alla riforma elettorale, ripetutamente e accoratamente richiesta dal Presidente della Repubblica. Per di più, da parte del centro-destra è stata avanzata la legittima richiesta che qualsiasi riforma elettorale tenga conto di un’eventuale riforma del modello di governo. La comprensibile, ma comunque ingiustificabile, inazione del Parlamento, che significa dei partiti colà rappresentati, a procedere sulla via di una riforma di alto (ma anche di basso) respiro, ha portato a un’attesa quasi messianica della sentenza della Corte costituzionale investita da una richiesta di incostituzionalità della legge elettorale vigente. La Corte, chiamata a supplire alle carenze e alle incapacità dei parlamentari in una materia di enorme politicità: il meccanismo che traduce i voti in seggi, che attribuisce, secondo le preferenze degli elettori, potere politico ai partiti, che dà rappresentanza parlamentare, che ‘manda’ al governo e relega all’opposizione, ha risposto. La sua pesantissima sentenza ha colpito la legge vigente sui due punti qualificanti. Incostituzionali sono il premio di maggioranza e le liste bloccate. Rimandate le motivazioni a metà gennaio 2014, partiti e dirigenti, pur negando la delegittimazione di un Parlamento eletto con una legge giudicata incostituzionale, sembrano avere accelerato i tempi delle proposte e della discussione che conduca a un esito, che rimane comunque molto difficile a causa delle reciproche distanze, ma forse anche dell’inadeguatezza, politica e tecnica, delle proposte stesse. Né i cosiddetti proporzionalisti né i sedicenti maggioritari, pur discettando su bipolarismo e governabilità, hanno dato prova di avere idee chiare su come conseguirli. Cosicché, da un lato, l’assenza di riforme alimenta i sentimenti già diffusissimi di antipolitica e i movimenti che li sfruttano. Dall’altro, con la pronuncia della Corte costituzionale, è stata messa a nudo l’inadeguatezza dei partiti e di un parlamento composto, grazie alle liste chiuse e bloccate, da candidati/e nominati dai capi partito e dai capi-corrente senza nessun riferimento al loro consenso elettorale, alle loro biografie politiche, alla loro professionalità. Soltanto l’improrogabile necessità di rispondere alla sentenza della Corte potrà accelerare quantomeno la riforma elettorale alla quale è possibile che vengano collegate la differenziazione dei compiti del Senato e la riduzione del numero dei parlamentari. Nel 2014 si apriranno, dunque, alcune finestre di opportunità riformatrici.
La Carnegie di Washington ha appena pubblicato un interessante libro intitolato «The Uncertain Legacy of Crisis – European Foreign Policy Faces the Future». La tesi, sfortunatamente condivisibile, è che cinque anni di crisi economica hanno cambiato sia il modo col quale la EU si specchia nel sistema internazionale che il modo col quale il mondo interagisce con noi. La crisi ha accelerato il relativo declino dell’Europa: è ormai difficile vendere come armonioso e vincente il nostro modello. La severità della crisi, inoltre, ha spinto i singoli governi europei a dedicarsi più intensamente alla diplomazia economica e commerciale, mettendo da parte i principi di fondo dell’Unione. Una valutazione della politica estera del governo Letta non può prescindere da questo quadro generale: la spiegazione dell’incerta eredità di questo tempo sulla proiezione della EU nel mondo è anche lo specchio dello stato della diplomazia italiana. Ma prima di affrontare come la presidenza del consiglio, la Farnesina e il ministero della difesa cerchino di garantire il nostro profilo nel mondo, è necessaria un’osservazione generale. La politica estera è praticamente scomparsa dal dibattito interno e forse dall’interesse nazionale: non ne parlano i pur numerosi talk show radio-televisivi, è irrilevante nelle pagine dei giornali. Se si eccettua l’Europa – ormai un tema di politica interna – e molto più raramente la vicenda dei due marò in India, non capita mai che i partiti citino nei loro dibattiti o nelle loro polemiche una questione internazionale né la posizione italiana su questa o quella crisi. Nonostante la nostra geografia e le pericolose instabilità mediorientali, quasi rifiutiamo di considerare che una forte e attiva politica mediterranea sia prioritaria quanto la legge di stabilità o la riforma elettorale. In questo quadro è stato difficile che il governo dedicasse tempo e risorse economiche alla diplomazia. Oltre ad averne avuto poco dell’uno e dell’altro, farlo sarebbe stato impopolare. Gli stessi viaggi all’estero di Enrico Letta sono stati regolarmente condizionati dal dibattito e dalle emergenze della politica estera. Come la gran parte dei ministri degli esteri ‘politici’, Emma Bonino ha dato la sua impronta. Il filo della sua politica estera ha seguito quello della sua intera storia politica e personale: europeismo, impegno attivo nell’affermazione dei diritti umani e della giustizia internazionale. L’Europa non è solo il luogo dove risolvere i nostri problemi ma dove fare scelte comuni; e l’atlantismo, nel quale gli Stati Uniti chiedono agli europei impegni più concreti, per Bonino non è stata solo sicurezza ma anche affermazione e promozione dei valori democratici che distinguono l’Occidente. Essendo riconosciuta come una potenza economica (per quanto in crisi) e non politica, da tempo la diplomazia commerciale è al centro della nostra politica estera. La crisi e la constatazione che il nostro export è l’unica voce positiva nel nostro deprimente quadro economico, hanno spinto il governo a incrementare questa attività. Soprattutto a favore della piccola e media impresa: un marchio di fabbrica del sistema italiano ma privo della forza di affrontare da solo il mercato globale. Sono state avviate iniziative lodevoli come ‘Destinazione Italia’ che cerca non solo le opportunità nei mercati già emergenti ma anche in quelli potenziali. Tuttavia il tentativo più politico di definire una posizione verso i fronti di crisi a sud (Medio Oriente e Golfo) e ad est (Balcani, Ucraina, Russia), come quello economico di promuovere nuovi mercati, scontano la crisi. «Migliorare l’equilibrio fra le priorità e gli strumenti della politica estera» è il linguaggio diplomatico della Farnesina per dire che la coperta è drammaticamente corta. Le disponibilità del ministero sono lo 0,2% del bilancio dello Stato. Sono stati chiusi consolati e ridotto il personale di molte ambasciate in Occidente per aprire sedi nuove in Turkmenistan, Saigon e altre sedi. Quando la Gran Bretagna investe per la Siria 150 milioni di dollari e l’Italia 38, fatalmente questo si riverbera sul peso politico del nostro paese in un’area di crisi estremamente sensibile per noi. Ma anche la razionalizzazione del personale, anche le nuove sedi aperte dove i mercati sono più promettenti, alla fine hanno effetti limitati. Mediamente i nostri uffici commerciali hanno 2-3 funzionari: più o meno come i Paesi Bassi o la Danimarca, mentre i nostri alleati e concorrenti economici ne hanno una cinquantina. Nella strategica Pechino ne abbiamo quattro, la Francia una quarantina.
Le elezioni politiche italiane del 25-26 febbraio 2013 hanno per molti versi segnato la fine della cosiddetta ‘Seconda repubblica’, quantomeno perché hanno comportato il passaggio da un sistema partitico bipolare a una configurazione multipolare ancora piuttosto instabile. Dal 1994 fino alle elezioni del 2006 il sistema partitico italiano ha presentato infatti le caratteristiche di un ‘bipolarismo frammentato’: un assetto contrassegnato dalla presenza di due grandi coalizioni, ognuna delle quali composta da una pluralità di formazioni, talvolta piuttosto piccole ma dotate comunque di un rilevante potenziale di ‘ricatto’. Rispetto a questo quadro, le elezioni del 2008 avevano sancito una parziale riduzione della frammentazione, grazie alla nascita di due nuovi grandi soggetti (Partito democratico e Popolo della libertà) e all’esclusione dall’arena parlamentare di alcuni piccoli partiti che non erano stati in grado di superare le soglie di sbarramento. Le consultazioni del 2013 hanno invece impresso una netta inversione di tendenza, dovuta sia all’insuccesso dei vecchi partiti, sia all’emergere di nuovi protagonisti. Un dato rilevante è innanzitutto costituito dalla diminuzione della partecipazione elettorale, che ha segnato un decremento del 5,3% rispetto al 2008, toccando così il livello più basso nella storia repubblicana. Un simile dato riflette soprattutto l’elevatissima sfiducia nei confronti della classe politica e dei partiti ‘tradizionali’, ulteriormente accresciuta dalle difficoltà legate alla crisi economica e alle misure fiscali e previdenziali adottate a partire dal 2011. Se la disaffezione si è tradotta in parte in una crescita dell’astensione, essa ha però alimentato anche una fortissima richiesta di cambiamento politico, testimoniata dalla consistente perdita di consensi da parte di PD e PDL, i due principali protagonisti del bipolarismo italiano. In termini percentuali, il PD ha perso infatti nel 2013 quasi 8 punti percentuali rispetto al 2008 (pari a circa 3,5 milioni di voti), nonostante la coalizione di centro-sinistra sia riuscita a ottenere grazie alla legge elettorale la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Il PDL ha invece subito una flessione di 12 punti, che in termini assoluti equivale a un’emorragia di più di 6 milioni di voti. Se il tributo pagato da PD e PDL è probabilmente anche un effetto del loro sostegno alle misure di austerità adottate dal governo ‘tecnico’ presieduto da Mario Monti, a trarre benefici della loro sconfitta non sono state le forze di opposizione più consolidate e già presenti in Parlamento. La Lega nord, coalizzatasi peraltro col PDL, ha perso infatti circa metà del suo precedente elettorato (attestandosi al 4,1% alla Camera e al 4,3% al Senato), mentre Rivoluzione civile, un cartello che si colloca nell’area di sinistra, non è riuscita neppure a superare la soglia di sbarramento, fermandosi alla Camera al 2,3%. In minima parte, a raccogliere i voti in uscita dalle due principali coalizioni è stato invece il nuovo polo di centro, che alla Camera dei deputati (con Unione di centro, Futuro e libertà per l’Italia e Scelta civica) ha ottenuto il 10,6% dei voti, mentre al Senato (sotto l’unica sigla Con Monti per l’Italia) si è attestato al 9%. Ma il vero trionfatore delle elezioni del 2013 è stato senza dubbio il Movimento 5 Stelle. Presentatosi per la prima volta alle consultazioni politiche nazionali, il M5S alla Camera è diventato infatti addirittura il primo partito, con il 25,6%, mentre al Senato ha conquistato il 23,6% dei consensi. A rendere anomalo il M5S non è però solo la strabiliante performance elettorale, perché dal punto di vista organizzativo, comunicativo e ideologico esso rappresenta un caso per molti versi unico nell’intero contesto delle democrazie occidentali. Si tratta infatti di una formazione politica nata sul web, ma ciò che caratterizza maggiormente il movimento sono soprattutto, da un lato, la forte critica alla forma-partito e alla democrazia rappresentativa, e, dall’altro, il ruolo di leader esercitato da un ex comico, Beppe Grillo (il quale si limita peraltro a dirigere il movimento e la sua comunicazione, senza candidarsi direttamente a cariche pubbliche). La prima ossatura del M5S prese forma attorno al blog di Grillo, attivo dal 2005 su temi legati alla difesa dell’ambiente, alle promozione delle energie rinnovabili, agli scandali finanziari e alla corruzione politica. In seguito, iniziarono a costituirsi gruppi Meetup, che a livello locale raccoglievano attivisti impegnati su questioni e proposte specifiche. Un salto notevole dal punto di vista della visibilità nazionale fu però segnato l’8 settembre 2007 dal successo del cosiddetto ‘V-day’, una manifestazione indetta da Grillo contro la ‘casta’ dei professionisti della politica. Da quel momento, il movimento incominciò a promuovere la formazione di liste civiche per le elezioni amministrative, adottando come riferimento comune il simbolo delle cinque stelle (le quali rappresentano l’energia pulita, la connettività, l’acqua, la raccolta dei rifiuti, i servizi sociali). Solo a partire dal 2009, dopo l’infruttuoso tentativo di Grillo di partecipare alle primarie del PD, cominciò a prendere forma un vero e proprio soggetto politico nazionale. Alle elezioni regionali del 2010 il M5S si presentò infatti in cinque regioni, e nelle successive consultazioni amministrative del 2012 riuscì a conquistare diversi comuni e un capoluogo di provincia (Parma), preparando così il terreno per il successo del 2013. La rapida ascesa del M5S ha naturalmente molte cause, ma può essere spiegata soprattutto con la capacità di questo soggetto politico (e del suo leader) di utilizzare la campagna contro i partiti e la classe politica per intercettare voti provenienti sia dallo schieramento di centro-sinistra, sia da quello di centro-destra. D’altro canto, il M5S non si colloca lungo l’asse destra-sinistra, ma adotta piuttosto una posizione di critica verso tutti i partiti presenti in Parlamento. E anche il carattere di questa opposizione per alcuni versi ‘anti-sistema’, insieme al risultato interlocutorio delle elezioni, contribuisce a conferire al sistema multipolare una forte instabilità. Un’instabilità che si riflette sia sulla coesione interna dei singoli partiti e delle coalizioni elettorali (che in effetti si disgregano rapidamente), sia nei rapporti fra i partiti, e dunque nella debolezza del governo delle ‘larghe intese’, guidato da Enrico Letta e sostenuto da PD, PDL e Scelta civica.
Nel 2013 l’Unione Europea ha iniziato a mettere in atto un coordinamento delle politiche economiche più attento alle riforme strutturali per favorire la competitività e la crescita. Anche in tema di bilanci pubblici, cresce l’enfasi sulla loro qualità strutturale e non ci si concentra più solo sull’austerità dei soli saldi. E’ un cambiamento disegnato nel 2012 con un forte contributo del governo italiano . Eppure in Italia non è stato compreso e le riforme non hanno trovato sufficiente consenso. Il governo Monti è caduto e dopo una difficile transizione che ha richiesto anche elezioni anticipate, è stato il governo Letta a doversi misurare con la questione delle riforme strutturali all’interno del quadro europeo. Ma il quadro politico italiano è rimasto caratterizzato da una continua instabilità politica. Si pensi ai due momenti chiave della concertazione economica con la Commissione. La fase primaverile del cosiddetto ‘semestre europeo’, nel quale i governi presentano i programmi di medio termine e ricevono giudizi e raccomandazioni da Bruxelles; e la fase del tardo autunno quando, secondo le nuove procedure, i governi presentano le Leggi di stabilità, cioè i budget, le decisioni economico-finanziarie pluriennali, sulle quali le autorità europee si pronunciano prima dei Parlamenti nazionali. Ebbene: la fase primaverile ha visto, addirittura, il programma firmato dal governo decaduto, in carica per l’ordinaria amministrazione. La valutazione e le raccomandazioni del Consiglio europeo sono poi giunte dopo nemmeno due mesi dall’insediamento di Letta, a un governo privo di un programma dettagliato e considerato provvisorio e limitato nei suoi scopi. Quanto alla fase di fine anno, la discussione sulla Legge di stabilità, sia a Roma che con Bruxelles, è iniziata in una fase convulsa dei lavori parlamentari, ingolfati da mille questioni, fra le quali niente meno che le riforme della legge elettorale e della costituzione. E’ iniziata proprio quando la maggior parte di uno dei due principali partiti della coalizione passava all’opposizione e nell’altro si lottava non del tutto serenamente per la leadership. Cosicché non si è potuto approfittare del tentativo della Commissione di trasferire l’enfasi dalla mera austerità taglia-deficit alle riforme per la competitività e la crescita. Un tentativo che né la politica né l’opinione pubblica nazionali hanno colto con chiarezza e apprezzato. La prova sono le delibere e le raccomandazioni che l’Italia ha ufficialmente ricevuto da Bruxelles. In giugno è stata decisa la nostra uscita dal deficit eccessivo, coronando gli sforzi del governo Monti per portarlo sostanzialmente sotto il 3% del PIL. Ma all’Italia veniva concesso di riavvicinarsi al 3% rimborsando i debiti pregressi della pubblica amministrazione. E le deliberazioni di giugno si concludevano scandendo sei raccomandazioni: solo la prima richiamava il deficit nell’insistere perché mettessimo davvero in pratica le decisioni prese; le altre cinque riguardavano vari fronti di riforma per rilanciare la competitività e la crescita del Paese. Andavano dall’efficienza della pubblica amministrazione e il coordinamento fra i vari livelli di governo , alla semplificazione normativa, dalla governance delle banche alla riforma dei mercati finanziari, dall’avanzamento delle riforme del mercato del lavoro alle liberalizzazioni e alle modalità di erogazione dei servizi pubblici. La quinta raccomandazione riguardava la qualità delle imposte e cominciava drasticamente: si sposti tassazione dal lavoro e dal capitale verso il consumo, la proprietà immobiliare e la conservazione ambientale. Ma l’Italia non ha saputo seguire questo diverso accento della sorveglianza europea. Non sono state accelerate le riforme. Clamorosa è stata la disobbedienza alla richiesta di riformare la tassazione: abbiamo infatti insistito nel tentar di ridurre quella sugli immobili e di evitare l’aumento dell’IVA, a costo di rinviare e rendere risibile la contrazione di quella sul lavoro. Anche il disegno della nuova Legge di stabilità, che abbiamo presentato in novembre, non ha incorporato in modo convincente un programma di riforme strutturali. Ed è soprattutto per questo che ha ricevuto critiche dalla Commissione. Qualcuno ha parlato di ‘bocciatura’: non sembra l’espressione appropriata. Come non sembra appropriato intendere il giudizio come tutto incentrato sul possibile mancato rispetto degli obblighi numerici su deficit e debito. Infatti si ricordano le raccomandazioni ‘qualitative’ di giugno e si censura l’Italia per «aver fatto pochi progressi nelle riforme strutturali». Rimane la possibilità di cambiar rotta col 2014. La riforma principale sul tavolo sembra quella del mercato del lavoro e dei meccanismi occupazionali, soprattutto nei confronti dei giovani. L’Europa ha varato aiuti specifici per facilitare alcuni aspetti di questo tipo di riforme nei paesi membri. Il governo sembra impegnato ad avanzare svelto su questo fronte. Sarà cruciale il piano di riforme che siamo tenuti a presentare all’Europa nella prima parte dell’anno. E, più innanzi, sarà cruciale favorire, anche con la nostra Presidenza del Consiglio europeo, la maturazione di un’idea che è già stata contemplata in sede comunitaria: quella che gli incentivi alle riforme strutturali vengano alimentati applicando il cosiddetto ‘approccio contrattuale’, cioè approvando accordi bilaterali fra l’EU e i singoli stati membri che si impegnano a fare certe riforme a fronte di meccanismi premiali che ne agevolano il finanziamento mentre ne multano la mancata realizzazione.