ITALIA (XIX, p. 693)
Demografia (p. 743). - Il 21 aprile 1936 ha avuto luogo un nuovo censimento generale della popolazione, a cinque anni esatti di distanza dal precedente. La popolazione totale presente è risultata di 42.444.588 ab., quella residente di 42.993.602;. la densità (computata in base alla popolazione presente) è di 137 ab. per kmq. I risultati fondamentali del censimento sono esposti nella tabella a pag. 743, che è da confrontarsi con quella pubblicata a pag. 739 del vol. XIX.
Il numero delle provincie, per la creazione delle due nuove di Asti e Littoria è salito a 94; la popolazione media della provincia risulta perciò di 451.538 ab.; i comuni sono 7339 e la popolazione media del comune risulta perciò di 5783 ab.; il numero medio di comuni per provincia è di 78. Al 31 dicembre 1937 la popolazione presente era calcolata a 43.029.000 ab., quella residente a 43.578.000.
Il movimento della popolazione (aumento o diminuzione) nel quinquennio fra i due ultimi censimenti è graficamente rappresentato dall'annessa cartina, la quale può essere paragonata con quella a p. 743 del vol. XIX, con l'avvertenza che peraltro quest'ultima abbraccia un periodo decennale. Si osserverà che tra le provincie con diminuzione della popolazione continuano a figurarne quattro della Sicilia. Ora è da rilevare che per il periodo 1921-31 si è constatato che la diminuzione, che interessava allora quasi l'intera isola, non era effettiva, ma derivava dal fatto che nel 1921 e anche in censimenti anteriori la popolazione era stata artificiosamente computata in eccesso. Si è dovuto pertanto, dopo il 1931, provvedere a controlli e rettifiche, ma queste non furono sempre e dappertutto efficaci: pesa dunque ancora sui risultati demografici del 1936 il retaggio di idee e principî ormai fortunatamente superati. Probabilmente in nessuna parte dell'isola vi è stata reale diminuzione fra il 1931 e il 1936, o, se vi è stata, è dovuta al contingente di truppe e di operai in A.O. al momento del censimento.
La distribuzione della popolazione in accentrata e sparsa nel 1936 è dimostrata dalla seguente tabella:
I comuni con più di 100.000 ab. sono saliti a 22 con una popolazione complessiva di 7.780.119 ab.
Una pubblicazione dell'Istituto centrale di statistica, comparsa già nel 1935 ed eseguita perciò in base al censimento 1931, precisava più esattamente - tra l'altro - il concetto di "centro" e per conseguenza giungeva anche ad un più esatto computo della popolazione sparsa intorno alla quale le risultanze di censimenti precedenti lasciavano adito a qualche dubbio. La popolazione sparsa risultava in aumento dal 1921 al 1931, essendo passata dal 24,4% al 26,6%; nel 1936 si ha una lieve diminuzione (26,2%). Aumenti notevoli della popolazione sparsa si registrano per la Liguria e le Tre Venezie.
I comuni posti al disopra di 1500 m., che erano 20 nel 1931, salivano a 22 nel 1936, per la creazione del nuovo comune di Sestriere a 2026 m. e per il trasferimento della sede comunale di Ferrera Cenisio al Cenisio (1925 m.); Sestriere risulta il più alto capoluogo comunale di tutta la regione alpina. I comuni che hanno il capoluogo sopra i 1000 m. sono 227; il più alto comune dell'Appennino è Pescocostanzo (1360 m.).
Il numero dei centri che nel 1931 era di 27.082 è salito nel 1936 a 27.240. Due centri, che non sono sedi comunali, superano per altezza Sestriere e cioè Trepalle (2069 m.) frazione di Livigno in prov. di Sondrio, e S. Martino di Monteneve (2355 m.) in comune di Moso (Bolzano); quest'ultimo, che è certamente anche il centro abitato più elevato di tutte le Aloi, è un centro minerario (zinco): esso contava 139 ab. nel 1931, ma nel 1936 non figura come abitato; essendo stato temporaneamente sospesa l'attività delle miniere.
Il centro più elevato dell'Appennino è Roccacalascio a 1464 m. (43 ab. nel 1931 e 51 nel 1936). Ma appena il 5% dei centri italiani si trova a più di 1000 metri di altezza; il 25% è fra 500 e 1000 metri e il 70% al disotto di 500 metri; di questi, oltre il 23% sono sotto i 100 metri.
I centri con più di 20.000 abitanti (residenti) sono 148.
Tra i centri di recente formazione occupano il primo posto quelli sorti in seguito alla bonifica integrale: hanno carattere urbano i maggiori della regione pontina, Littoria, Sabaudia, Pontinia; carattere rurale Aprilia e i nuovi centri della Sardegna, Mussolinia, Fertilia. Altri centri nuovi sono sorti in regioni nelle quali si intensifica l'utilizzazione delle risorse del sottosuolo: tali Carbonia (v. App.) in Sardegna e Arsia nell'Istria (vedi App.).
Dal punto di vista demografico va segnalato anche che il popolamento dei nuovi centri di bonifica non avviene in genere con contingente fornito dai paesi circostanti, ma con famiglie provenienti da regioni sovrapopolate spesso assai lontane: i nuovi centri pontini vengono popolati prevalentemente con famiglie del Veneto, del Polesine, del Ferrarese; quelli della Sardegna con famiglie provenienti dal continente. Pertanto il popolamento delle regioni di bonifica si collega col fenomeno delle migrazioni interne, che, rigorosamente disciplinate, hanno assunto negli anni 1935 e 1936 nuovo considerevole sviluppo.
Il movimento migratorio per l'estero tende per contro sempre più a contrarsi. Nel 1936 sono espatriati 41.710 individui, la cifra minima constatata dopo gli anni della guerra mondiale quando l'emigrazione era praticamente annullata: sul totale su indicato 21.882 erano diretti a paesi europei, e 19.828 a paesi transoceanici. Giova notare che gli espatriati erano ancora intorno agli 83.000 negli anni 1932-33, furono 68.461 nel 1934 e 57.408 nel 1935; la riduzione è perciò progressiva e decisa. Di contro agli espatrî figurano cospicui rimpatrî: 32.760 nel 1936, dei quali 19.703 da paesi europei e 13.057 da paesi transoceanici. Pertanto il 90% dell'emigrazione per paesi europei sì può considerare temporanea; quanto all'emigrazione transoceanica, tenuto conto dei rimpatrî, le perdite definitive sono veramente ridotte al minimo. Nel 1936 degli espatriati per paesi transoceanici, 7139 si sono diretti agli Stati Uniti, 3803 nell'Argentina, il resto è distribuito tra varî altri paesi.
Marina mercantile (p. 769). - Al 30 giugno 1937 la marina italiana era costituita da 1270 navi per tonn. lorde 3.212.634; in questo complesso le motonavi ascendono a 287 per tonn. lorde 652.630 (Lloyd's Register, 1937-1938). La consistenza del naviglio italiano a propulsione meccanica è passata da milioni 3,093 tonn. nel 1933 a 2,875 nel 1934, a 2,838 nel 1935, a 3,057 nel 1936, a 3,174 nel 1937. Malgrado le stesse demolizioni del 1932-35, imposte dalla crisi mondiale, il tonnellaggio italiano è aumentato leggermente, sia in modo assoluto, sia in modo relativo, rispetto a quello mondiale: 4,82% nel 1933, 4,65 nel 1934, 4,63 e nel 1935, 4,97 nel 1936, 5,05 nel 1937. Ciò fu dovuto specialmente alle navi da passeggeri o miste, acquistate di seconda mano per la spedizione in Etiopia, mentre i cantieri erano impegnati per i lavori della marina militare, e non sarebbe stato possibile costruire nuovo naviglio nel tempo necessario. Perciò l'età media del naviglio è andata crescendo: le navi di età inferiore a 5 anni costituivano il 9,8% del tonnellaggio nel 1933, il 5,8 nel 1936, e soltanto l'1,4% nel 1937. Il rinnovamento del naviglio si impone, e infatti adeguati provvedimenti sono stati presi (aprile 1938). Tuttavia qualitativamente la marina mercantile italiana occupa ancora un buon posto tra le marine mondiali, giacché, secondo le ultime statistiche del Lloyd's Register, essa comprende 1,818 milioni di tonn. di navi oceaniche di almeno 4000 tonn. e di età inferiore a 25 anni, venendo dopo la Gran Bretagna (10,781 milioni di tonn.), gli Stati Uniti (5,043), la Germania (2,283), e il Giappone (2,273).
L'attività della marina mercantile è stata notevole durante il conflitto italo-etiopico, alla cui favorevole soluzione essa contribuì mediante uno sforzo grandioso che può essere apprezzato soltanto qualora si rifletta che Massaua è a 2500 miglia dalla metropoli e Mogadiscio a 3900. Mancano cifre complete per documentare questo sforzo; si può peraltro osservare che i transiti della bandiera italiana per il Canale di Suez sono ascesi a tonn. 6.077.000 nel 1935, con l'aumento di 3.988.000 tonn. sul 1934; a tonn. 6.545.000 nel 1936. La quota del naviglio italiano nel complesso dei transiti via Suez è passata dal 6,6% nel 1934 al 18% nel 1935, al 20,2% nel 1936; esso ha occupato il secondo posto, nel canale, venendo immediatamente dopo quello britannico.
La maggior parte del naviglio impiegato fu noleggiata dalle amministrazioni statali interessate, per il tramite di una Commissione centrale di noleggio; al trasporto delle truppe e degli operai furono destinati anche alcuni grandi transatlantici. Tra le navi noleggiate furono comprese otto unità mercantili, trasformate in navi ospedale, per un complesso di 74 mila tonn., capaci di 6000 letti.
A datare dal 1° gennaio 1937 (in base a decreti del 12 dicembre 1936, nn. 2081 e 2082) si è addivenuti a un nuovo assestamento della marina di linea, che rappresenta la conclusione di quel programma di concentrazione che iniziato nel 1926 ebbe un'ulteriore fase con le fusioni del 1932. Sono state difatti costituite quattro grandi compagnie che hanno assunto i servizî già gestiti dalle società: Italia, Cosulich, Lloyd Triestino, Tirrenia, Adriatica, Navigazione Libera Triestina, Veneziana, Adria, Sarda; le quali cessarono quindi, col 31 dicembre 1936, l'esercizio della navigazione, cedendo alle nuove società le navi, a prezzi già concordati.
Le quattro nuove società sono: a) Italia, con sede a Genova, capitale azionario 500 milioni, per l'esercizio delle linee con le Americhe; b) Lloyd Triestino, con sede a Trieste, capitale azionario 300 milioni, per l'esercizio delle linee con l'Africa oltre Suez e Gibilterra, con l'Asia oltre Suez e con l'Australia; c) Tirrenia, con sede a Napoli, capitale azionario 150 milioni, per l'esercizio delle linee del Tirreno con la Libia, periplo italico e Mediterraneo occidentale, Nord Europa; d) Adriatica, con sede a Venezia, capitale azionario 150 milioni, linee dell'Adriatico e del Mediterraneo Orientale (Levante).
È stata poi costituita anche la Fiumana (con sede a Fiume) per i servizî del Carnaro e Zara. In sostanza, col nuovo ordinamento, è stato esclusivamente assegnato un settore di traffico a ciascuna delle 4 compagnie, senza pericoli di interferenze reciproche. Per provvedere al fabbisogno finanziario è stato costituita, al disopra delle 4 aziende, ad iniziativa dell'I.R.I., una nuova società finanziaria marittima (Finmare) con capitale fino a 900 milioni, con lo scopo di assumere partecipazioni azionarie nelle società esercenti i servizî, curarne il coordinamento tecnico, prestare assistenza finanziaria. L'Istituto di ricostruzione industriale (I.R.I.) conserverà per sei anni (a datare dal 1° gennaio 1937) la maggioranza azionaria di queste società. Le quattro società continuano ad essere assistite dall'erario; esse hanno testé escogitato un programma di rinnovamento del materiale che entrerà fra breve nella fase esecutiva; esso comprende la costruzione di 44 navi per 250 mila tonn. (9 per la società Italia, 86 mila tonn.; 13 per il Lloyd Triestino, 82 mila tonn.; 17 per la Tirrenia, 43 mila tonn.; 5 per l'Adriatica, 39 mila tonn.; da aggiungere le grandi trasformazioni dei transatlantici Roma e Augustus). Spesa complessiva 1 miliardo e mezzo.
Ma occorre anche rinnovare il naviglio da carico per ringiovanirlo e per poter meglio rispondere alla missione della marina mercantile nella lotta per l'autarchia: si ritiene necessario, in un primo tempo, aumentarlo di circa 2 milioni di tonnellate. A tale scopo con r. decr.-legge in data 10 marzo 1938, n. 330, si è completamente rinnovata la legislazione sulle costruzioni navali mercantili e sull'armamento, trasformando il premio di costruzione nella concessione dell'importazione in franchigia dei materiali esteri occorrenti, ovvero in un compenso (pari a metà della dogana) ai materiali nazionali impiegati, e nella concessione agli armatori che faranno costruire le loro navi in Italia di cospicue facilitazioni finanziarie, consistenti in un contributo di ammortamento (stabilito in base alle caratteristiche tecniche delle navi, velocità e consumi) e in un contributo di interesse. Il decreto conferma l'esenzione temporanea dalle imposte (ricchezza mobile, registro) e prevede agevolazioni di carattere creditizio per lo sconto di una parte dei contributi statali. Lo stanziamento previsto dal decreto è di 100 milioni di lire all'anno per dieci anni, e si presume che in base ad esso il naviglio da carico nazionale possa rinnovarsi col ritmo di 200.000 tonn. di portata all'anno.
Quanto ai cantieri nazionali, il r. decr.-legge 15 aprile 1937, n. 451, ha assicurato "un controllato ordinamento dell'industria delle costruzioni navali adeguato alle preminenti esigenze della difesa nazionale e rispondente agli interessi di ordine sociale".
I cantieri hanno pure lavorato per conto dell'armamento estero, accettando anche parzialmente il pagamento sulla base del baratto; fra le ordinazioni mercantili più importanti citiamo i transatlantici Pitsudski e Báthory, costruiti per conto della Polonia; la motonave Vega e due altre motonavi per conto della Norvegia; un transatlantico svedese di 23 mila tonn. per conto della Svezia, ecc.
Il progresso sociale è stato grandissimo; i marittimi hanno veduto attuate molteplici provvidenze a loro favore; sono in corso disposizioni innovatrici per tutto quanto riguarda l'igiene, l'abitabilità e il conforto degli equipaggi di tutte le navi, comprese quelle da carico.
Aviazione civile (p. 770). - Negli anni 1934 e 1935 l'Ala Littoria ha assorbito tutte le società di navigazione aerea esistenti, ad eccezione delle Avio Linee Italiane.
Attualmente la rete aerea viene esercita su 30 linee con uno sviluppo di 33.487 chilometri, oltre alla rete aerea dell'Albania composta da 8 linee con una lunghezza totale di km. 1237; in totale la rete aerea conta 38 linee su un percorso complessivo di km. 34.720.
Le linee gestite dall'Ala Littoria sono: Roma-Ancona (giornaliera esclusa la domenica); Roma-Bologna; Roma-Cagliari (giornaliera c. s.); Roma-Sassari-Cagliari (trisettimanale); Venezia-Trieste (giornaliera c. s.); Venezia-Pola-Fiume (giornaliera c. s.); Trieste-Pola-Lussino-Zara-Ancona (giornaliera c. s.); Trieste-Brindisi-Atene-Rodi-Caifa (trisettimanale); Roma-Brindisi-Tirana-Salonicco (trisettimanale); Roma-Belgrado-Bucarest; Roma-Venezia-Monaco-Berlino, in collaborazione con la Deutsche Lufthansa (giornaliera); Venezia-Vienna-Budapest (trisettimanale); Venezia-Trieste-Klagenfurt-Bratislava-Praga, in collaborazione con la Čekoslovenské Státní Aerolinie; Roma-Venezia-Vienna-Cracovia-Varsavia, in collaborazione con la L.O.T.; Roma-Genova-Marsiglia (trisettimanale); Roma-Marsiglia-Parigi; Roma-Palermo-Melilla-Cadice (trisettimanale); Roma-Napoli-Palermo-Trapani-Tunisi (trisettimanale); Roma-Tunisi-Tripoli (trisettimanale); Roma-Napoli-Siracusa-Malta-Tripoli (giornaliera esclusa la domenica); Tripoli-Bengasi (trisettimanale) Linea dell'Impero (Roma-Bengasi-Karthum-Asmara-Dire Daua-Addis Abeba: quadrisettimanale); Asmara-Assab-Gibuti (bisettimanale); Addis Abeba-Dire Daua-Gibuti (giornaliera escluso il sabato per l'andata e la domenica per il ritorno); Asmara-Assab-Dire Daua-Gorrahei-Mogadiscio (trisettimanale).
Le linee gestite dalle Avio Linee Italiane sono: Roma-Milano (giornaliera esclusa la domenica); Roma-Torino (giornaliera c. s .); Torino-Milano-Venezia (giornaliera c. s.); Roma-Milano-Francoforte-Amsterdam, in collaborazione con la K.L.M. e la Deutsche Lufthansa (giornaliera c. s.); Torino-Parigi.
Le linee gestite dall'Ala Littoria in Albania sono: Tirana-Devoli (settimanale); Tirana-Corizza (trisettimanale); Tirana-Corizza-Valona-Tirana (settimanale); Tirana-Kukus (trisettimanale); Tirana-Kukus-Scutari-Tirana (settimanale); Tirana-Peshköpijë (trisettimanale); Tirana-Scutari (trisettimanale); Tirana-Valona (trisettimanale).
Fanno inoltre scalo sul territorio italiano le seguenti linee estere; Air France (francese): Marsiglia-Napoli-Corfù-Atene-Castelrosso-Tripoli di Siria-Damasco-Bagdad-Saigon. - Imperial Airways (inglese): Southampton-Marsiglia-Roma-Brindisi-Atene-Alessandria - Baghdād - Karachi-Calcutta-Bangkok-Singapore; Southampton-Marsiglia-Roma-Brindisi-Atene-Cairo-Karthum-Kisumu-Dar es Salam-Beira-Durban. - K.L.M. (olandese): Amsterdam-Marsiglia-Napoli-Atene-Rodi-Baghdād-Karachi-Batavia-Bandoeng. - Deutsche Lufthansa (tedesca): Berlino-Brindisi-Atene-Rodi-Damasco-Baghdād. - Società Lares (romena): Bucarest-Belgrado-Zagabria-Venezia-Milano.
Con decreto ministeriale del 18 febbraio 1937 l'elenco degli aeroporti e dei campi di fortuna sui quali è consentito l'approdo degii aeromobili è il seguente:
1. Aeroporti doganali:
a) aeroporti per l'atterraggio degli aeroplani: nel regno: Bari, Bolzano, Brindisi, Catania, Falconara, Milano (Taliedo), Napoli (Capodichino), Palermo (Boccadifalco), Pisa (San Giusto), Roma (Littorio), Sarzana, Torino (Mirafiori), Udine (Campoformido), Venezia (San Nicolò del Lido); nelle colonie: Amseat (Cirenaica), Asmara-Godaif (Eritrea), Assab (Eritrea), Bengasi-Berca (Cirenaica), Bender Cassim (Somalia), Dire Daua (Etiopia), Dusa Mareb (Somalia), Gobuin (Somalia), Massaua-Otumlo (Eritrea), Rocca Littorio (Somalia), Sirte (Tripolitania), Tessenei (Eritrea), Tripoli-Mellaha (Tripolitania);
b) aeroporti per l'ammaraggio degli idrovolanti (idroscali): nel regno: Ancona, Brindisi-porto, Como, Genova-porto, Lido di Roma, Napoli-porto, Palermo-porto, Siracusa-porto, Terranova Pausania, Trieste, Venezia (sant'Andrea), Zara; nelle colonie: Bengasi-porto (Cirenaica), Massaua-porto (Eritrea), Tripoli-porto (Tripolitania).
2. Aeroporti non doganali:
a) aeroporti per l'atterraggio degli apparecchi: nel regno: Bergamo (Ponte San Pietro), Bologna, Ferrara, Firenze, Foggia, Loreto, Novara, Padova, Pescara, Rimini, Siena, Trento (Gardolo), Vercelli, Verona (Boscomantico), Vicenza; nelle Colonie: Eil (Somalia), El Bur (Somalia), Itala (Somalia), Obbia (Somalia), Vittorio d'Africa (Somalia);
b) aeroporti per l'ammaraggio degli idrovolanti (idroscali): Lagosta, Pavia, Portorose, San Remo, Sesto Calende, Torino;
c) altre località nelle quali è consentito l'ammaraggio degli idrovolanti: Alassio, Stresa, Torre del Lago, Varazze.
3. Campi di fortuna (sui quali è consentito di effettuare approdi e partenze solo agli aeromobili da turismo): Alessandria, Aosta, Aquino (Frosinone), Arezzo, Ariano Irpino (Avellino), Bariano (Bergamo), Belluno, Borgotaro (Parma), Bovino (Foggia), Casabianca (Asti), Cecina (Livorno), Cisterna (Littoria), Cividate Camuno (Brescia), Fermo (Ascoli Piceno), Frosinone, Gioia del Colle (Bari), Grosseto, Lugo (Ravenna), Macerata, Mantova, Modena, Montecorvino Rovella (Salerno), Motta di Livenza (Treviso), Nicotera (Catanzaro), Nocera Tirinese (Catanzaro), Ulzio (Torino), Palazzo S. Gervasio (Matera), Pistoia, Pomposa (Ferrara), Portalbera (Pavia), Postumia (Trieste), Praia a Mare (Cosenza), Sessa Aurunca (Napoli), Spoleto (Perugia), Stimigliano (Rieti), Tarquinia (Viterbo), Terni, Terracina (Littoria), Tortoreto (Teramo).
Alle ditte (XIX, p. 771) negli ultimi anni si sono aggiunte, per quanto riguarda la costruzione dei velivoli, le seguenti: Cantieri Aeronautici Bergamascbi (appartenenti al gruppo "Caproni") con officine a Ponte S. Pietro; Aeronautica Lombarda con officine a Cantù; Nardi con officine a Milano; Officine Meccaniche Italiane con officine a Reggio nell'Emilia; Società Aeronautica Italiana (S.A.I.) con officine a Passignano sul Trasimeno; Società Anonima Industrie Meccaniche Aeronautiche Navali (SAIMAN) con officine al Lido di Roma; Aeronautica Umbra con officine a Foligno.
Forze armate (p. 777). - Esercito. - Con decreto-legge dell'11 ottobre 1934, e successivi aggiornamenti, sono state apportate modifiche all'ordinamento dell'esercito, il quale risulta costituito dai seguenti elementi: Corpo di Stato maggiore (ufficiali di Stato maggiore da tenente a colonnello); Carabinieri Reali (v. App.); Scuole militari (v. scuola: Ordinamento scolastico dell'esercito, App.); Fanteria (v. App.); Cavalleria (v. App.); Artiglieria (v. App.); Genio (v. App.); Servizio chimico militare retto da un generale di Corpo d'armata e diviso in 3 sezioni (esercito, aereonautica e marina); Distretti militari; Corpo sanitario militare; Corpo di commissariato militare; Corpo di amministrazione; Corpo veterinario militare; Servizio automobilistico militare (v. automobile: Automobilismo militare, App.); Tribunale supremo e tribunali militari; Reparti di correzione e stabilimenti militari di pena.
L'esercito metropolitano comprende attualmente:
a) Comando del corpo di Stato maggiore, retto dal capo di Stato maggiore (sottosegretario alla Guerra) dal quale dipendono il sottocapo di S. M. intendente, il sottocapo di S. M. per le operazioni e il sottocapo di S. M. per la difesa territoriale;
b) 4 comandi designati d'armata,
c) 15 corpi d'armata (I Torino, II Alessandria, III Milano, IV Bolzano, V Trieste, VI Bologna, VII Firenze, VIII Roma, IX Bari, X Napoli, XI Udine, XII Palermo, XIII Cagliari, XX Tripoli, XXI Bengasi);
d) 34 divisioni di fanteria: 1ª "Superga", 2ª "Sforzesca", 3ª "Monferrato", 4ª "Monviso", 5ª "Cosseria", 6ª "Legnano", 7ª "Leonessa", 9ª "Pasubio", 10ª "Piave", 11ª "Brennero", 12ª "Timavo", 13ª "Monte Nero", 14ª "Isonzo", 15ª "Carnaro", 16ª "Fossalta", 17ª "Rubicone", 18ª "Metauro", 19ª "Gavinana", 20ª "Curtatone e Montanara", 21ª "Granatieri di Sardegna", 22ª "Cacciatori delle Alpi", 23ª "Murge", 24ª "Gran Sasso", 25ª "Volturno", 26ª "Assietta", 27ª "Sila", 28ª "Vespri", 29ª "Peloritana", 30ª "Sabauda", 31ª "Caprera", 60ª "Sabrata", 61ª "Sirte", 62ª "Marmarica", 63ª "Cirene";
e) 5 divisioni alpine: 1ª "Taurinense", 2ª "Tridentina", 3ª "Julia", 4ª "Cunense", 5ª "Pusteria";
f) 3 divisioni celeri: 1ª "Eugenio di Savoia", 2ª "Emanuele Filiberto Testa di Ferro", 3ª "Principe Amedeo Duca d'Aosta";
g) 2 divisioni motorizzate: "Trento" e "Po";
h) 2 brigate corazzate: 1ª "Siena", 2ª "Milano";
i) 1 reggimento chimico,
l) 1 Comando truppe dell'Egeo.
Dal sottocapo di S.M. intendente dipendono gli uffici ordinamento e mobilitazione, trasporti e servizî; dal sottocapo di S. M. per le operazioni dipendono il 1° e 2° ufficio operazioni, Ufficio addestramento e storico, e servizio informazioni militari; dal sottocapo di S. M. per la difesa territoriale dipendono i 13 comandi di difesa territoriale in cui è suddiviso il territorio della nazione. I comandi di difesa si suddividono, alla loro volta, in 28 comandi di zona militare
Alla istituzione dei comandi di difesa territoriale e di zona militare si è addivenuti per separare nettamente le funzioni di comando degli organismi destinati a operazioni di campagna da quelle che si riferiscono piu precisamente al territorio dello stato e alle truppe che operano per la difesa del territorio stesso.
Per la costituzione delle divisioni di fanteria, celeri, alpine e motorizzate, v. divisione militare, App.
Il reggimento chimico è composto da 15 compagini chimiche, una per ciascun comando di corpo d'armata.
Le truppe di presidio nelle Isole italiane dell'Egeo sono costituite da 2 reggimenti di fanteria, 1 gruppo misto di artiglieria e i sezione automobilistica.
Per le forze armate coloniali dislocate nei territorî d'oltremare, vedi africa orientale italiana: Forze armate, App.; libia: Forze armate, App.
Marina militare (p. 779). - Nuove unità: Navi da battaglia: Vittorio Veneto e Littorio (varate nel 1937), da 35.000 tonn. e 30 nodi, armate con 9/381, 12/152, 12/90 antiaerei, catapulta per aerei. Le navi da battaglia Cavour e Cesare sono state rimodernate, la loro velocità portata a nodi 27 e l'armamento sostituito con 10/320,12/12c, 8/100 antiaerei. Le navi da battaglia Doria e Duilio sono in corso di rimodernamento e avranno caratteristiche simili alle precedenti.
Incrociatori leggieri: Sono stati ultimati gl'incrociatori Garibaldi e Duca degli Abruzzi, da 7800 tonn. e 35 nodi, armati con 10/152,8/100 antiaerei, catapulta per aerei.
Cacciatorpediniere: 12 tipo Soldato (Aviere, Camicia Nera, Artigliere, Pontiere, Ascaro, Corazziere, Fuciliere, Alpino, Granatiere, Bersagliere, Pontiere, Lanciere): 1620 tonn., 39 nodi, 4/120, 6 tubi di lancio da 533; 4 tipo Oriani (Onani, Alfieri, Carducci, Gioberti) da 1486 tonn. e 34 nodi, 4/120, 6 tubi da 533.
Torpediniere: 16 (Alcione, Airone, Aretusa, Ariel, Clio, Calipso, Calliope, Circe, Lira, Libra, Lupo, Lince, Pallade, Partenope, Pleiadi, Polluce) in costruzione, da 679 tonn. e 34 nodi, 3/100, 4 tubi di lancio da 450; 16 tipo Sirio (Spica, Aldebaran, Cigno, Canopo, Cassiopea, Castore, Sagittario, Vega, Andromeda, Antares, Altair, Astore, Centauro, Climene, Perseo, Sirio), con caratteristiche uguali alle precedenti.
Avvisi scorta: 4 tipo Orsa (Orsa, Orione, Procione, Pegaso) da 855 tonn. e 28 nodi, armati con 2/100 e 4 tubi da 450.
Nave coloniale: Eritrea: 2170 tonn., 20 nodi, 4/120.
Sommergibili di media crociera: 9 (Marcello, Nani, Mocenigo, Veniero, Provana, Barbarigo, Emo, Morosini, Dandolo) in costruzione, da 941 tonn. e 17 nodi, 8 tubi di lancio da 533, 2/100; 3 (Brin, Galvani, Guglielmotti) in costruzione, da 896 tonn. e 17 nodi, con 8 tubi da 533, 1/120. Sommergibili di piccola crociera: 7 (Uarsheich, Uebi Scebeli, Scirè, Tembien, Durbo, Lafolè, Beilul) in costruzione, da 620 tonn. e 14 nodi, con 6 tubi da 533 e 1/100; 10 tipo Adua (Adua, Axum, Aradam, Alagi, Macallè, Neghelli, Gondar, Ascianghi, Dessiè, Dagabur) varati nel 1935-36, da 620 tonn. e 14 nodi, con 6 tubi da 533,1/100;2 (Argo, Velella) varati nel 1935, da 687 tonn. e 14 nodi, 6 tubi da 533, 1/100; 10 tipo Perla (Perla, Gemma, Berillo, Diaspro, Turchese, Corallo, Onice, Iride, Ambra, Malachite), da 620 tonn. e 14 nodi, con 6 tubi di lancio da 533 e 1/100. Sommergibili posamine: 1 (Atropo) in costruzione, da 1109 tonn. e 16 nodi, con 1/100,2 mitragliere controaerei, 6 lanciasiluri da 533; 2 (Foca, Zoea) varati nel 1936, da 1109/1533 tonn. e 16-8,7 nodi, con 6 tubi da 533, 1/100.
Il nuovo programma di costruzioni navali, deliberato il 7 gennaio 1938, comprende 2 navi di linea (Roma e Impero) da 35.000 t., 12 esploratori (Attilio Regolo, Scipione l'Africano, Caio Marzio, Cornelio Silla, Paolo Emilio, Pompeo Magno, Ottaviano Augusto, Claudio Druso, Vipsanio Agrippa, Claudio Tiberio, Giulio Germanico, Ulpio Traiano) e 18 sommergibili (G. Marconi, Leonardo da Vinci, Amm. Saint-Bon, Amm. Cagni, Amm. Millo, Amm. Caracciolo, Cons. Gen. Liuzzi, Alpino Bagnolini, Reginaldo Giuliani, Capitano Tarantini, Michele Bianchi, Luigi Torelli, Alessandro Malaspina, Maggiore Baracca, Com. Cappellini, Com. Faà di Bruno, 2 tipo Brin). Dette costruzioni dovranno essere terminate nel 1940-41; per tale epoca la flotta militare italiana consterà di 8 navi di linea, 7 incrociatori da 10.000 tonn., 12 incrociatori fra 5000 e 8000 tonn., 12 grandi esploratori oceanici, 12 esploratori da 2000 tonn., 20 grandi cacciatorpediniere, 24 cacciatorpediniere minori, 32 torpediniere d'alto mare e oltre 100 sommergibili.
Aviazione militare (p. 781). - Lo sviluppo dell'aeronautica metropolitana e coloniale ha portato a un nuovo assestamento dell'ordinamento aeronautico, stabilito con decr.-legge, n. 220, del 22 febbraio 1937. La R. Aeronautica in base a tale decreto è costituita da: 1 ufficio di Stato maggiore; 4 comandi di zona aerea territoriale; 1 comando di aeronautica della Sicilia; 1 comando di aeronautica della Sardegna; 1 comando di aeronautica dell'Egeo; i comando di aeronautica della Libia; 1 comando superiore di aeronautica per l'Africa Orientale Italiana.
L'armata aerea consta attualmente dei seguenti elementi: arma Aeronautica; corpo del Genio aeronautico; corpo di Commissariato aeronautico; corpo sanitario aeronautico; scuole militari della R. Aeronautica. Costituita secondo la legge del 1931 da 42 gruppi di squadriglie, l'armata aerea è formata su 93 gruppi di squadriglie, riuniti in numero variabile di unità aeree di ordine superiore.
Le aviazioni di presidio coloniale sono costituite da aliquote di forze aeree dislocate in territorî delle colonie e destinate esclusivamente ad assolvere compiti di presidio. Nei territorî coloniali sono altresì dislocate unità dell'armata aerea.
Oltre alle scuole menzionate (p. 782) sono state costituite: la Scuola di applicazione dell'arma aeronautica (Firenze), destinata al completamento della cultura militare degli ufficiali reclutati dalla R. Accademia aeronautica di Caserta; la Scuola paracadutisti; la Scuola di volo senza visibilità.
Culti (p. 917). - Divisione odierna (p. 920). - In seguito a provvedimenti della S. Congregazione concistoriale (23 settembre 1933) ed altri, sono da registrare le seguenti modificazioni:
Veneto: L'arcivescovato di Zara è da registrare come arcivescovato immediatamente soggetto (cessata la speciale amministrazione apostolica; v. anche: iugoslavia, App.).
Lazio superiore: Dal 2 maggio 1936 l'abbazia nullius di S. Martino al M. Cimino è unita in perpetuo alla diocesi di Viterbo e Tuscania; Lazio inferiore: l'abbazia di S. Maria di Grottaferrata è stata dichiarata abbazia nullius (26 settembre 1937).
Beneventano: Appartengono a questa regione conciliare, e non più alle Puglie, i vescovati immediatamente soggetti alla S. Sede di Foggia e Troia, e la sede metropolitana di Manfredonia (con l'amministrazione di Viesti).
Basilicata e Salernitano: Ha mutato nome in: Lucania e Salernitano.
Sicilia: Il 26 ottobre 1937 è stata creata la diocesi immediatamente soggetta, di Piana dei Greci per gl'Italo-Albanesi.
Si corregga altresì:
Etruria: Modigliana non è unita, come può apparire, a Pistoia e Prato.
Marche: Cagli e Pergola (non: Calvi).
Campania: Vescovato immediatamente soggetto di Aversa (non: Acerra, registrata esattamente tra i suffraganei di Napoli).
Lucania e Salernitano: Si aggiunga l'abbazia nullius della SS. Trinità di Cava dei Tirreni.
Puglie: Castellaneta e Oria non sono unite, come può sembrare.
Calabria: Ha assunto nome Crotone (rion più: Cotrone).
Finanze (p. 782). - Fallita con la Conferenza mondiale di Londra del giugno 1933 la speranza di una ripresa della collaborazione internazionale e irrigiditesi anzi le posizioni antagonistiche dei paesi del cosiddetto blocco oro e di quelli ancorati al dollaro e alla sterlina e con essi fluttuanti, il nazionalismo economico si accentuò dappertutto incidendo con nuovi aumenti di tariffe, limitazioni e divieti sulla situazione già critica dell'economia mondiale. Anche il commercio estero italiano doveva naturalmente risentirne e si contrasse infatti ulteriormente. Procedeva però d'altra parte il lavoro di assestamento della nostra attrezzatura produttiva e creditizia (disciplina dei consorzî obbligatorî e volontarî e degl'impianti industriali, attività dell'I.M.I. e dell'I.R.I., sviluppo degli accordi e contratti collettivi), gli sforzi tendenti ad allargare il mercato interno e a ridurre i costi cominciavano a far sentire i loro frutti, e l'ordinamento corporativo, superando la fase puramente sindacale con la costituzione delle corporazioni, nel febbraio 1934, cominciava a realizzare una concreta disciplina unitaria della produzione. La stessa abbondanza di disponibilità liquide, derivante, oltre che dalla formazione di nuovo risparmio, dalla prudenza dei risparmiatori di fronte alla scarsa convenienza degl'impieghi, traducendosi in una sensibile attenuazione dei saggi del denaro, finiva col favorire indirettamente le forze produttive; a stimolare l'afflusso di risparmio verso l'industria lo stato provvedeva poi, sia attraverso emissioni di obbligazioni di istituti appositi, sia riducendo l'interesse dei suoi titoli. È della primavera del 1934 la conversione di circa 60 miliardi di prestito consolidato 5% in redimibile 3,50%; operazione che, pur aggravando per lo stanziamento relativo alla differenza d'interesse e altre spese il deficit di bilancio del 1933-34 di 3,5 miliardi, avrebbe dovuto alleviare poi considerevolmente il carico annuale degl'interessi del debito pubblico. In complesso, i sintomi di ripresa dell'attività già visibili nel 1933, si concretarono nel 1934 in un aumento della produzione (nonostante la sfavorevole annata agraria) e, grazie anche a una costante e larga politica dei lavori pubblici, in una contrazione della disoccupazione, mentre il fermo contegno della lira e la graduale contrazione della circolazione permettevano un assestamento dei prezzi all'ingrosso intorno alla media generale e un'ulteriore diminuzione del costo della vita.
Frattanto però la nostra bilancia dei pagamenti, che nel 1933 poteva considerarsi equilibrata, era divenuta largamente deficitaria, essenzialmente per effetto del disavanzo commerciale passato da 1,5 miliardi circa negli anni 1931,1932 e 1933 a 2,4 nel 1934, e le riserve dell'Istituto di emissione - che fin dal 1928 si erano andate contraendo soprattutto in seguito ad operazioni d'investimento all'estero effettuate dal mercato italiano attratto dal più alto rendimento netto dei titoli italiani emessi all'estero e di molti titoli stranieri - subirono un accentuato drenaggio. Dal 49,94% alla fine del 1933 la copertura degl'impegni a vista della Banca d'Italia scese infatti al 41,27% alla fine del 1934 e fu quindi necessario ricorrere agli energici provvedimenti dell'8 dicembre 1934 (obbligo per tutti i cittadini italiani di denunciare i loro crediti verso l'estero e per le persone giuridiche di trasferire i crediti stessi all'Istituto nazionale per i cambî con l'estero) e a quelli del 16 febbraio e 1° marzo 1935 (contingentamento delle importazioni e disciplina delle compensazioni private), naturale integrazione del controllo imposto ai trasferimenti delle divise. A coordinare gli acquisti all'estero e a ripartire le divise disponibili fu creato poi, nel maggio 1935, un organo di natura politico-economica, la Sovrintendenza allo scambio delle valute, e infine resa obbligatoria per tutti la cessione dei crediti sull'estero (28 agosto 1935) e costituito (14 novembre 1935) il monopolio degli acquisti d'oro dall'estero; il 29 dicembre 1935 si addivenne alla creazione del Sottosegretariato di stato per gli scambî e valute (dal 20 novembre 1937 elevato a ministero) che assunse tutte le funzioni della Sovrintendenza e anche quelle spettanti in materia al Ministero delle corporazioni e alle cui dipendenze passarono naturalmente l'Istituto nazionale fascista per gli scambî con l'estero e l'Istituto nazionale per i cambî. Fu realizzata così nel delicato settore dei rapporti economici con l'estero (in gran parte regolati da accordi di clearing) quell'unità di controllo e di comando che era ormai assolutamente necessaria.
Infatti, mentre la situazione economica mondiale, nonostante i varî sintomi di ripresa manifestatisi nel 1935, era ancora notevolmente instabile specie per effetto della crescente tensione monetaria, la situazione politica internazionale era andata sempre più complicandosi e l'Italia, impegnata ormai nella campagna etiopica, si trovava a dover fronteggiare anche l'assedio economico. Le sanzioni e le conseguenti controsanzioni, imponendo una drastica contraziope degli scambî, indussero però a un più completo e razionale sfruttamento delle risorse nazionali e a rafforzare e orientare la nostra struttura produttiva in modo da conquistare la maggiore possibile indipendenza dall'estero (v. autarchia, App.). In conseguenza di questo nuovo indirizzo, oltre che delle necessità belliche, l'attività si sviluppò rapidamente in ogni campo della vita economica, con riassorbimento della disoccupazione e tendenza ascendente dei prezzi. Sviluppo, s'intende, indirizzato e controllato dallo stato, che aveva già raccolto nelle sue mani le leve di comando della produzione (soprattutto industriale) e del commercio estero e che nel marzo 1936 integrò il suo potere di manovra adottando un complesso di provvedimenti nel settore del credito dichiarato di interesse pubblico: creazione cioè di un organo unico di controllo, l'Ispettorato per la difesa del risparmio e per l'esercizio del credito, diretto dal governatore della Banca d'Italia e posto alle dipendenze di un comitato di ministri presieduto dal capo del governo; trasformazione della Banca d'Italia in "banca delle banche" e in istítuto di diritto pubblico; allargamento della sfera d'azione dell'I.M.I., di cui il Consorzio per sovvenzioni su valori industriali viene a costituire una sezione autonoma; e soppressione della sezione finanziamenti dell'I.R.I., mentre nella sezione smobilizzi dello stesso si accentra la gestione di considerevoli partecipazioni industriali e finanziarie dello stato, ecc. Si giunse così a un'armonica disciplina di tutte le forme di raccolta e di impiego del risparmio tale da consentirne l'incanalamento verso gl'investimenti più opportuni, e da ridurre i pericoli di concorrenza, di speculazione e di mancata coincidenza tra operazioni attive e passive; nello stesso tempo lo stato fu posto in grado di controllare più efficacemente la circolazione e i prezzi, sottraendoli al semiautomatismo di un rapporto numerico con la massa metallica dell'istituto di emissione.
S'andavano infatti accentuando i fattori di contrazione delle riserve auree (eccesso delle importazioni, riduzione dei noli attivi, del turismo, delle rimesse, forti spese per il passaggio del canale di Suez, ecc.), mentre la circolazione di biglietti necessariamente aumentava e già dal luglio 1935, per evitare una deflazione creditizia, era stato necessario sospendere l'obbligo dell'Istituto di emissione di tenere una riserva in oro e divise auree pari al 40% dei suoi impegni a vista. (Si ebbero, è vero, nel novembre 1935 le offerte di oro alla patria, ma questo afflusso eccezionale non andò a ingrossare le riserve della Banca rimanendo invece a disposizione dello stato per bisogni straordinarî). Il controllo della circolazione e dei prezzi fu poi naturalmente rafforzato quando, in seguito alla rottuta del blocco oro, anche l'Italia decise (5 ottobre 1936) di allineare la propria valuta riducendone il contenuto aureo da 0,07919 a 0,04677 (cioè del 40,94%). Questo ritorno alle posizioni di equilibrio 1927 riguardo sia al rapporto di valore tra la lira e le altre monete, sia a quello tra il livello nazionale e mondiale dei prezzi, doveva naturalmente eliminare lo svantaggio degli esportatori e gonfiare alcune partite attive della bilancia dei pagamenti, ma poneva in primo piano il problema della vigilanza sui prezzi per frenarne e graduarne l'inevitabile adeguamento; per renderla appunto più efficiente, tale vigilanza, che dall'ottobre 1935 era esercitata dal partito, attraverso il Comitato centrale e comitati provinciali intersindacali, col 28 aprile 1937 è stata invece attribuita al Comitato corporativo centrale e ai Consigli provinciali delle corporazioni e nel frattempo è stato disposto il blocco degli affitti e di altre importanti voci del bilancio familiare, è stato abolito il dazio oro ad valorem e sono stati ridotti altri dazî specifici; nel complesso gli aumenti dei prezzi all'ingrosso e al minuto e del costo della vita sono stati inferiori alla svalutazione (25,3%, 19,6%, 17,6% alla fine del 1937 in confronto al settembre 1936). E tutto questo mentre l'Istituto di emissione riusciva a contenere entro limiti ristretti l'aumento della circolazione e i cambî della lira si mantenevano press'a poco stabili sulla nuova parità. D'altra parte, nonostante una certa ripresa degli scambî dopo la fine delle sanzioni, specie di acquisti per la ricostruzione delle scorte e per fronteggiare scarsi raccolti, nell'insieme, nel 1936 e 1937, l'economia italiana ha accentuato il suo carattere "nazionale", ed è andata gradatamente assestando la sua attrezzatura in vista della prefissa autarchia. Il controllo statale si è rafforzato sia nel settore industriale, attraverso le cresciute attribuzioni degli organi corporativi e la costituzione di nuovi grandi organismi finanziati dallo stato a mezzo dell'I.R.I. (come la Finmare e la Finsider, che raccolgono le principali imprese marittime e siderurgiche), sia in quello del credito, con il perfezionamento della riforma del 1936 e l'inserzione dell'organizzazione bancaria nel sistema corporativo (r. decr. legge 17 luglio 1937, n. 1400 e r. decr. 1° luglio 1937, n. 1818); ma anche nel campo agrario, in cui prevale l'iniziativa individuale, va segnalata la costituzione degli ammassi obbligatorî, oltre a varie altre forme di disciplina e di finanziamento.
Senza parlare delle realizzazioni nell'agricoltura, può dirsi significativo l'aumento di attività verificatosi in complesso negli ultimi due anni e l'indice dell'occupazione industriale nel 1937 ha per la prima volta dopo la crisi superato quello medio del 1929; i depositi sono in complesso aumentati nell'ultimo biennio di 12,4 miliardi e il mercato finanziario riguardo soprattutto ai titoli azionarî è stato naturalmente attivo. Va ricordato inoltre come, a limitare gli extraprofitti derivanti dalla situazione eccezionale, abbia teso essenzialmente la limitazione al 6% dei dividendi delle società commerciali (settembre 1935), sostituita poi da un'imposta progressiva sugli stessi dividendi, e come a favorire i titoli di stato tenda in parte la nuova imposta sui frutti dei titoli al portatore non statali (settembre 1935). Provvedimenti quindi fiscali ed economici insieme cui vanno aggiunte anche le imposte straordinarie sulla proprietà immobiliare e sul capitale delle società anonime (ottobre 1936 e ottobre 1937), in quanto, oltre all'incremento delle entrate dello stato, si propongono una più equa ripartizione del carico tributario.
Non può chiudersi questa breve rassegna senza esaminare rapidamente come lo stato sia riuscito, facendo leva esclusivamente sulle risorse interne, e procurarsi i mezzi finanziarî per fronteggiare le ingenti spese straordinarie connesse con le operazioni militari e la valorizzazione dell'Impero, oltre che con il crescente intervento nell'economia. Mentre, attraverso il potenziamento graduale dei tributi ricorrenti e normali (v. imposte e tasse, XVIII, p. 928 segg., e App.), favorito anche dalla ripresa economica, il bilancio ordinario è stato avviato verso la meta stabilizzata dei 25 miliardi annui; nel settore del bilancio straordinario, tenuto contabilmente distinto dal primo, si è puntato sul prestito e sull'imposta straordinaria mobilitando dal luglio 1934 al marzo 1938 circa 36 miliardi di risparmio nazionale. Le voci più importanti di questa mobilitazione riguardano la riconversione nel settembre 1935 del redimibile 3,50% in consolidato 5% che, oltre a esonerare dal gravoso ammortamento, fornì allo stato 6,8 miliardi liquidi; il prestito redimibile (connesso con l'imposta straordinaria immobiliare del 5 ottobre 1936 che ne assicura il servizio) che fruttò 7 miliardi; le emissioni di buoni ordinarî del tesoro per circa 9 miliardi; e l'aumento di oltre 6,5 miliardi delle disponibilità in conto corrente presso la Cassa depositi e prestiti. Ed ecco le cifre sull'andamento del bilancio normale (in miliardi di lire):
da cui appunto risulta come l'aumento delle entrate effettive, in seguito sia alla ripresa economica, sia all'azione dell'amministrazione finanziaria, abbia permesso di raggiungere di nuovo il pareggio nel 1936-37. Nel frattempo il debito pubblico interno è naturalmente salito, mentre nessun incremento si è avuto in quello estero.
Al 31 dicembre 1937 i biglietti di banca in circolazione erano 17,5 miliardi e le riserve in oro e divise (le cui plusvalenze in seguito all'allineamento sono state attribuite allo stato) ammontavano a 4 miliardi. La circolazione metallica, riordinata con r. decr. 23 dicembre 1937, n. 2200, è di circa 3 miliardi. Con decr. min. 10 gennaio 1938 la circolazione autorizzata di biglietti di stato è stata elevata a 2,5 miliardi.
Bibl.: Oltre alle già citate pubblicazioni periodiche, v. Annali di economia, XII, Padova 1937.
Stemma dello Stato. - Mentre in generale gli stati (anche repubblicani) simboleggiano la loro esistenza e la loro azione con uno stemma ufficiale, che serve anche per avere un tipo unico di intestazione degli atti del governo, di autentica per le monete, ecc., il regno d'Italia ebbe uno stemma dello stato solo con r. d. 27 novembre 1890, n. 7282, dopo preparazione della consulta araldica. Il decreto istituiva il grande stemma dello stato, da usarsi nel grande sigillo dello stato, in occasioni solenni e nelle decorazioni monumentali; e il piccolo stemma, da usarsi dalle amministrazioni dello stato. Con la trasformazione costituzionale operata dal fascismo, apparve opportuno manifestare tale trasformazione anche araldicamente e con i decreti reali 11 aprile 1929, n. 504, e 9 agosto 1929, n. 1517, tanto il grande quanto il piccolo stemma vennero modificati, principalmente sostituendo nel grande stemma ai due leoni d'oro rampanti, e introducendo, nel secondo, due fasci littorî, addossati con l'ascia all'esterno, sostenenti lo scudo di Savoia.
Si ritiene generalmente che lo stemma sia uno di quegli emblemi dello stato il cui vilipendio è punito dall'art. 292 cod. pen.
Storia (p. 791).
I. - Il Concordato, concluso da Mussolini con la Santa Sede nel febbraio 1929 (v. laterano: Patti lateranensi, XX, p. 570) segna una nuova tappa nell'unificazione interna dell'Italia che ascende verso la potenza imperiale. In verità esso significa l'unità raggiunta fra la coscienza politica e la coscienza religiosa degl'Italiani. E per questo suo profondo valore nazionale si profila nella storia d'Italia come uno dei più grandi atti compiuti dopo il Risorgimento.
Ma l'opera dell'unificazione, che è nei primi compiti del regime fascista, si svolge progressiva nell'aspetto politico, per la nuova organizzazione dello stato e della vita sociale, nella formazione intellettuale, con la nuova disciplina della scuola, e in tutto l'assetto delle attività economiche.
Lo sviluppo della storia interna d'Italia si caratterizza dunque con questo costante indirizzo di unità, nella quale i diversi aspetti della vita nazionale e i diversi interessi degl'individui si integrano in forma solidale e si definiscono con funzioni di interdipendenza.
Notevole è anzitutto la trasformazione dello stato. Il bisogno di questa trasformazione, comune a tutti i paesi, è stato profondamente sentito dopo la guerra mondiale, che si rivela nella prospettiva storica anche come una gigantesca rivoluzione la quale crea in ogni nazione spostamenti di classi e di posizioni economiche e sociali, di stati e indirizzi spirituali, di possibilità statali con immediati riflessi sulle popolazioni. La trasformazione dello stato e della vita nazionale, operata dal fascismo, traduce con fedele e tempestiva aderenza questa rivoluzione che si è creata in Italia come in ogni altro paese del mondo. La rivoluzione fascista muta dalle basi il sistema delle gerarchie politiche, i poteri e i rapporti dello stato, risollevandone l'ordine e l'armonia. Lo stato, quale sintesi unitaria della collettività, si colloca sopra la nazione, come il governo, che lo rappresenta, si colloca fuori e sopra il potere legislativo.
Fino dal 16 novembre 1922, nella prima adunata parlamentare dopo la Marcia su Roma, Mussolini annuncia che il suo governo è "al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del parlamento". E per questa via si costituisce lo stato totalitario italiano il quale intende rappresentare la totalità e l'unità della nazione. Già una legge del 24 dicembre 1925 definisce le alte attribuzioni e prerogative nuove del capo del govemo mentre una successiva legge del 31 gennaio 1926 riconosce al potere esecutivo la facoltà di emanare delle norme giuridiche (italia: Ordinamento politico, XIX, p. 774; ministro, XXIII, p. 394; poteri, XXVIII, p. 118).
Di questa nuova forma politica Mussolini dà la precisa definizione: "Lo stato concreta l'organizzazione politica, giuridica, economica della nazione: è garante della sicurezza intenna ed estera ma è anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo. È lo stato che rappresenta la coscienza immanente della nazione". Lo stato e per esso il governo, nei suoi indirizzi politici sostanziali, si proiettano così nell'avvenire con un carattere di continuità quale il sistema democratico delle libertà e dell'alterna vicenda dei partiti non potrebbero consentire. Essi non sono più soltanto gli amministratori della vita liberamente creata dai cittadini; ma divengono la forza costruttiva e direttiva della nazione dalla quale attingono lo spirito. Con tali principî fondamentali la storia dello stato italiano, nel nuovo regime, è anzitutto storia di un potere esecutivo che riprende il diritto dell'iniziativa e della piena responsabilita senza più dipendere dal parlamentarismo. E questo è in certo modo un ritorno al vero spirito dello statuto.
Il nuovo ordine politico del fascismo è stato definito una dittatura con l'intenzione, evidentemente polemica, di riportarlo alle antiche forme della tirannia e dell'assolutismo. Ma esso corrisponde invece alle nuove necessità del tempo. Nel gran rapporto del fascismo del 14 settembre 1929 Mussolini ha detto: "La dittatura è nei fatti, cioè nella necessità di un comando unico, nella forza politica, morale e intellettuale dell'uomo che lo esercita per gli scopi che si prefigge".
Lo stato fascista opera direttamente o attraverso il partito e le organizzazioni che ne dipendono. Con la legge del 9 dicembre 1928 il Gran Consiglio del fascismo diviene una parte essenziale del nuovo ordine costituzionale dello stato. Il Gran Consiglio ha avuto origini rivoluzionarie. È stato l'adunata dei massimi gerarchi del partito fascista iniziata fin dal gennaio 1923. Ma la legge del 1928 gli dà figura, struttura e funzioni precise. Con essa il Gran Consiglio, che associa i membri del governo e del partito e i più diretti e alti rappresentanti di tutte le attività nazionali, diviene infatti il supremo organo consultivo della corona e del governo per tutte le gravi questioni: da quella della successione al trono a quella della nomina del capo del governo, in caso di vacanza, a quella dei trattati e delle decisioni più importanti che si riflettano su tutta la vita nazionale.
A sua volta il partito, che si sviluppa in forma di organizzazione politica sempre più integrale, adegua lo spirito e l'attività della nazione ai compiti del regime e mantiene il quotidiano contatto, fino alle ultime ramificazioni capillari, fra essa e lo stato.
La trasformazione dello stato porta naturalmente al suo seguito la trasformazione delle leggi. Di qui la riforma di tutti i codici. Essa è già deliberata due mesi dopo la Marcia su Roma con la legge del 20 dicembre I922. Gli studî di competenti commissioni tecniche, svolti con il compito di ispirare le nuove leggi alle concezioni nazionali e ai principî etici e politici del nuovo regime, si concludono in rapide tappe. Già il 19 ottobre 1930 sono pubblicati il codice penale e il codice di procedura penale. Il nuovo codice penale fonde insieme i tre elementi italiani della classica tradizione del diritto penale sul delitto e sulle pene, della nuova scienza positiva dell'antropologia criminale e dell'essenza del regime fascista con le sue nuove concezioni del diritto, soprattutto per quanto riguarda la difesa dello stato e della stirpe. Per gli altri codici sono già compiuti i progetti.
Questa organizzazione, essenzialmente politica, costituita per l'unificazione degli Italiani e lo sviluppo solidale delle loro libere attività, si completa con un'organizzazione egualmente unitaria di carattere economico e sociale che si sintetizza, attraverso un rapido processo di formazione, nel sistema corporativo.
La rivoluzione fascista, nel suo compito dell'integrale riforma nazionale secondo le necessità create dal tempo, ha posto subito il problema della nuova organizzazione dell'economia e, attraverso la disciplina della distribuzione della ricchezza, il problema della nuova organizzazione dei rapporti sociali.
Il sistema corporativo, che realizza appunto la rivoluzione fascista in atto nell'aspetto economico e sociale, va incontro al nuovo tempo e segna una tappa avanzata nell'evoluzione mondiale dell'economia e della società nazionale. I suoi principî ideali, i suoi metodi e i suoi risultati sono già divenuti tema di studio e di imitazone in tutti i paesi civili.
I capisaldi del sistema che opera una profonda trasformazione della società nazionale sono conosciuti (corporazione, XI, p. 459; corporativismo, App.). Essi partono dalla rappresentanza collettiva degl'interessi delle classi o dei gruppi - che non aveva mai avuto in Italia una disciplina giuridica prima della Marcia su Roma - ossia dal sindacato il quale, nel regime totalitario del fascismo, non può essere che uno solo e obbligatorio per ogni categoria. In due riunioni il Gran Consiglio del fascismo getta le basi della nuova costruzione. Il 23 gennaio 1925 esso pone il problema dell'inquadramento delle forze economiche nazionali, organizzate nel sistema dello stato e dei rapporti nazionali, e il 6 ottobre dello stesso anno traccia la via della nuova legislazione sindacale e sociale preparando così la legge del 3 aprile 1926, e la Carta del Lavoro del 21 aprile 1927, che disciplina i rapporti collettivi del lavoro (lavoro: Diritto di coalizione, XX, p. 660; carta: La Carta del Lavoro, IX, p. 206).
Il nuovo sistema supera il liberalismo democratico e il socialismo. Esso infatti sottomette l'interesse dell'individuo o del gruppo alla nazione e per essa allo stato: non annulla l'idea delle classi ma tende a conciliarle e stabilizzarle e prevede, per questa conciliazione permanente, in opposizione all'agnosticismo dello stato liberale, il continuo intervento e controllo statale.
Su queste basi i rapporti fra capitale e lavoro si sviluppano rapidamente verso un sistema di leggi sociali e di convenzioni che portano l'Italia alla compiuta unità interna e all'avanguardia del progresso sociale. L'Italia è, per esempio, il primo paese ad applicare la settimana di lavoro delle 40 ore - problema posto nell'Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra sin dall'autunno 1932 e mai risolto - con un accordo intersindacale dell'11 ottobre 1934, che diviene norma permanente per le industrie con un contratto collettivo del 23 giugno 1935, perfezionato con la norma del "sabato fascista" (v. App.), rivolta a scopi essenzialmente educativi e sociali. La limitazione dell'orario del lavoro settimanale non incide però sul bilancio della famiglia operaia. viene creato infatti, con un contratto collettivo concluso il 1° dicembre 1934 fra le due confederazioni industriali e confermato per decreto legge il 21 agosto 1936, un nuovo tipo di "salario familiare", che tiene conto dei figli di età inferiore ai 14 anni a carico dell'operaio (lavoro: Legislazione del lavoro, XX, p. 665).
Nel 1936 si poteva già stendere un bilancio dei risultati raggiunti nella nuova attività corporativa italiana. Risultava che non meno di 150 erano stati i temi trattati nelle prime riunioni delle corporazioni dopo un lavoro preparatorio svolto nelle varie associazioni sindacali. Mai dal tempo della formazione del regno unito d'Italia vi era stato, con competenze tecniche e visioni di insieme, un così integrale esame di tutti i problemi essenziali dell'economia nazionale, compiuto con la collaborazione degli organi dello stato e di tutti i fattori direttamente rappresentativi delle varie attività economiche. Senza annullare le iniziative individuali, tutte le attività economiche erano disciplinate e inquadrate, con fronti unitarî e progressivi piani regolatori.
Con questa unità organica delle attività, raggiunta nella solidarietà operante delle classi, l'Italia ha potuto superare i duri momenti depressivi dell'economia mondiale, creati dalla crisi del 1929 partita dagli Stati Uniti. Ha potuto pure resistere vittoriosamente all'assedio economico impostole con le sanzioni della Società delle nazioni in applicazione all'art. 16 del Covenant, dalla politica ostile dell'Inghilterra, riuscita a coalizzare cinquantadue stati, per fermare l'impresa italiana in Etiopia. E ora va organizzando la sua economia verso una forma autarchica che le assicuri, con l'indipendenza economica per i rifornimenti bellici e i bisogni elementari della nazione, la perfetta indipendenza politica e militare.
Alla fine dell'anno 1937 per tutti i settori dell'attività economica risultavano già tracciati a questo fine piani e mete di lavoro. Nuove produzioni erano avviate per la fabbricazione nazionale di cellulosa, necessaria alla carta e alle fibre tessili artificiali, di carburanti liquidi, di vetri e ceramiche, di prodotti minerarî, siderurgici e meccanici, tessili, chimici, farmaceutici e coloranti (autarchia, App.).
Questa rapida maturità delle corporazioni, divenute centri motori e regolatori dei varî settori economici e veri parlamenti di categoria di libero esame con la rappresentanza diretta e proporzionata di tutte le classi, prepara intanto la trasformazione della camera legislativa. Sin dall'8 giugno 1923, in un suo discorso al Senato, Mussolini aveva annunciato questa revisione: "Il parlamentarismo è stato ferito non a morte ma gravemente, da due fenomeni tipici del nostro tempo: da una parte il sindacalismo, dall'altra il giornalismo". I sindacati e le corporazioni portano al governo la conoscenza di tutti i bisogni della nazione da parte dei produttori e consumatori, e, oltre l'aspetto economico, di tutte le categorie di cittadini e di interessi, ossia dell'agricoltura, dell'industria, del commercio, della finanza e della vita intellettuale, mentre portano d'altra parte alla diretta conoscenza degl'interessati le direttive dello stato e i compiti che esso assegna a servizio dell'utilità collettiva della nazione. Appariva perciò evidente, come nuova tappa dell'evoluzione politica e corporativa dello stato fascista, il sempre più intimo accostamento fra le camere legislative e l'assemblea delle corporazioni.
La riforma della Camera dei deputati, preveduta sin dai primi anni del regime fascista e preannunciata da Mussolini nel suo discorso all'assemblea del Consiglio nazionale delle corporazioni del 14 novembre dell'anno XII, è approvata nella riunione dell'11 marzo 1938 dal Gran Consiglio del fascismo. È creata la nuova Camera dei fasci e delle corporazioni definita "organo legislativo e rappresentativo della nazione". Essa si forma con i componenti del Consiglio nazionale del partito e del Consiglio nazionale delle corporazioni: una somma di circa 600 deputati. Essa esprime quindi l'incontro associato delle più alte gerarchie politiche, designate dall'alto, e delle massime gerarchie sindacali, che sono la diretta espressione di tutte le categorie del lavoro, armonizzando per la funzione legislativa, che non può esaurirsi nella sfera tecnica ed economica, le più rappresentative forze della vita nazionale.
Anche la riforma della scuola appartiene alla storia dell'unificazione degl'Italiani e della formazione del loro pensiero.
La riforma si inizia nel 1923 con il grande sistema nuovo creato dal ministro Giovanni Gentile (v. italia: Educazione, XIX, p. 785 segg.) che Mussolini ha definito: "la più fascista delle riforme". Essa porta nella scuola spiriti e funzioni nuove. Immette la scuola nella vita nazionale e la riforma in tutti i suoi gradi e sistemi legislativi, dagl'istituti elementari a quelli superiori con il principio costante di un avviamento formativo. Le successive riforme dei ministri Fedele, Ercole e poi del quadrumviro De Vecchi e del ministro Bottai, si svolgono su questi principî, secondo le opportunità indicate dall'esperienza ma col proposito di non alterarne le basi originarie. La scuola fascista deve preparare le capacità professionali ma insieme lo spirito civico del cittadino. Essa deve insomma formare "l'uomo intero", il cittadino integrale. Nel suo principio creativo essa rievoca l'ammonimento di Massimo D'Azeglio che conclude la storia del Risorgimento: "Fare gl'Italiani".
La nuova scuola è libera dalla politica ma ne riflette i grandi valori ideali amplificando i problemi della cultura in quelli della nazione. Ma oltre che nello spirito, la scuola si unifica anche nell'organizzazione. Vengono infatti unificati gl'istituti e gl'insegnamenti. Il giuramento fascista richiesto agl'insegnanti di ogni grado assicura l'armonia tra l'insegnamento e le direttive ideali dello stato. E questa scuola, ormai unitaria in ogni suo grado, diviene anche un mezzo per superare un problema nazionale, non risolto dopo l'unificazione del regno d'Italia: la sopravvivenza dei residui spirituali e anche culturali delle antiche divisioni storiche della penisola e delle isole, delle tradizioni autonome polarizzate nelle diverse capitali, delle differenziazioni dialettali.
Ma lo sviluppo della scuola, soprattutto nell'Italia meridionale e nelle isole più neglette dai precedenti regimi, tende anche a portare la preparazione intellettuale della popolazione a un comune conveniente livello.
Il problema di questo squilibrio di condizioni fra le varie regioni italiane, ereditato dal 1870, non è soltanto di natura intellettuale, ma anche di natura strutturale e perciò economica e sociale. Lo sviluppo dell'economia produttiva e commerciale suppone adeguate ambientazioni tecniche. Non vi è attiva produzione industriale, come non vi può essere intensa economia agricola, se non vi sono le adeguate basi strutturali costituite dallo sviluppo delle agglomerazioni cittadine e dei borghi rurali, dalle strade e dalle ferrovie, dai porti e dagli acquedotti, dalla forma della proprietà e dei contratti agricoli, dalle capacità intellettive e professionali delle popolazioni. L'ineguale soluzione di questi problemi, che appartengono anzitutto allo stato, spiega appunto le profonde ineguaglianze di condizioni economiche e sociali che fino al limite della rivoluzione fascista si sono perpetuate sul territorio italiano. Perciò la politica dell'unificazione interna degl'Italiani, intesa nel suo senso integrale, porta naturalmente il fascismo a un grandioso sviluppo di tutta la politica dei lavori pubblici, intesa come mezzo elementare per attrezzare le regioni italiane meno sviluppate e sollevarle gradualmente, nelle loro capacità, al livello delle regioni tecnicamente più progredite. Questa politica di grande respiro, di quadrato senso romano, voluta da Mussolini subito dopo la conquista dello stato, è certamente uno dei fattorì memorabili nella storia della formazione della nuova Italia. Essa significa lavoro e civiltà. Essa va incontro ai bisogni di vaste popolazioni e insieme all'interesse collettivo della nazione che dalla progressiva organizzazione di molte regioni abbandonate trae nuovi elementi di produzione, di attività di ogni rango, di progresso sociale.
Tipica di questa politica è l'attività dedicata alle strade. L'Italia ritorna, per volontà di Mussolini, alle grandi concezioni della strada romana. Una legge del 17 maggio 1928 crea un'Azienda autonoma statale della strada con il compito di assumere la gestione tecnica della rete delle più importanti strade dello stato, rettificarne i percorsi, sistemarne i fondi e creare nuove arterie. La rete di queste strade ha oggi uno sviluppo di 20.600 chilometri e si articola in 137 arterie principali con nomi e numeri indicativi. Le prime arterie sono quelle che partono da Roma e si identificano nelle storiche vie consolari. Queste strade, rapidamente sistemate, contano oggi fra le più celebrate del mondo. Nel maggio 1936 esse erano già anche alberate per 7657 chilometri con oltre un milione e 100 mila piante di varia specie secondo le regioni. Squadre di cantonieri ne sorvegliano la manutenzione mentre una milizia della strada ne controlla i traffici (v. strada, XXXII, p. 807).
Alla politica delle strade si è aggiunta quella delle ferrovie. La grande riforma italiana si è diretta soprattutto a elettrificare le grandi linee per assicurare al movimento una forza motrice nazionale in sostituzione di quella del carbone importato dall'estero. Dal 1922 alla fine del 1936 risultavano già elettrificati 2555 chilometri di ferrovie contro 780 chilometri elettrificati nei ventidue anni precedenti. È in corso o approvata l'elettrificazione di altri 2000 km. di linee. Con questi quattromila chilometri elettrificati della rete statale, ai quali vanno aggiunti i 1779 chilometri pure elettrificati delle linee ferroviarie private, alla fine del 1937 l'Italia superava, nell'elettrificazione ferroviaria, del 50 per cento gli Stati Uniti e tutti i paesi di Europa.
Anche per gli acquedotti la politica fascista è stata presente e attiva. Il problema dell'acqua potabile e di irrigazione, è, si può dire, alla base della vita di quasi tutta l'Italia meridionale e delle grandi isole. Lo stesso irregolare sviluppo della proprietà rurale e delle colture, dei grandi borghi rurali della Sicilia e della Sardegna è in gran parte il risultato della scarsità o dell'irregolare distribuzione delle acque. L'epidemia colerica del 1884-85 nell'Italia meridionale ebbe la sua prima causa nella poca e cattiva acqua potabile. Lo stato si è assunto la diretta costruzione di acquedottì per la Lucania, la Sardegna, la Sicilia e altre vaste regioni. Dal 1922 al 1932 gli acquedotti costruiti si sono sviluppati già per 7929 chilometri di condutture, fornendo una massa di acqua di 21 mila litri al minuto secondo a 2193 centri con una popolazione di 10.140.000 abitanti (v. acque pubbliche, I, p. 411).
Con questa nuova attrezzatura del territorio italiano le attività economiche, organizzate e sospinte dallo stato, si sono rapidamente sviluppate verso l'equilibrio fra la produzione e il consumo nazionale. Grandi progressi ha fatto l'agricoltura. Nonostante la vasta estensione delle terre coltivate, la produzione agricola era insufficiente ai bisogni nazionali. Ancora alla vigilia della Marcia su Roma, nel 1921, con una popolazione di oltre 39 milioni di abitanti, l'Italia ha dovuto importare per 5 miliardi e 366 milioni di lire di generi alimentari. Fra essi il grano rappresentava circa 28 milioni di quintali per un valore di 3 miliardi di lire. Perciò Mussolini si volge al problema dell'agricoltura facendone uno dei capisaldi della politica fascista della ricostruzione.
Difficile è in Italia per l'agricoltura la disciplina economica, tecnica e sociale. La varietà dei terreni che alternano piani, colline e montagne, l'ineguale distribuzione delle acque, i differenti ordinamenti della proprietà e dei contratti agricoli, la differenza stessa dei sistemi e delle qualità di coltura, degli usi e dei costumi rurali sono altrettante ragioni di difficoltà per un piano regolatore unitario delle attività agricole. Mussolini ha posto anzitutto il problema basilare del grano (v. grano, App.). In un discorso alla Camera del 20 giugno 1925 egli annunciò l'organizzazione di una battaglia nazionale per dare incremento alla sua produzione: "Io ho preso formale impegno di condurre la battaglia del grano ed ho già preparato lo stato maggiore il quale dovrà agire sui quadri, rappresentati dai tecnici, e costoro dovranno muovere l'esercito, le truppe dell'agricoltura". Una legge del 4 luglio successivo crea questo stato maggiore della battaglia granaria, un comitato permanente del grano, sotto la presidenza di Mussolini, che fissa i tre temi di azione: la selezione delle sementi, i concimi e i perfezionamenti tecnici, i prezzi.
Per la prima volta in Italia, dopo la costituzione del regno, l'agricoltura è portata al primo piano delle cure statali e dell'onore nazionale. La battaglia del grano, che è per le sue premesse e i suoi risultati uno dei tipici aspetti della politica costruttiva del nuovo regime, si inizia già nel 1925: anno del più grande raccolto italiano con 65 milioni e mezzo di quintali. Essa si svolge, più che con l'aumento della superficie coltivata a grano, con il piano di un aumento del reddito unitario per l'intensificazione delle colture. E nonostante le alternative fatali delle buone e cattive annate, il raccolto del grano si sviluppa per una parabola ascendente raggiungendo 70,7 milioni di quintali nel 1929,81 milioni nel 1933,80 milioni nel 1937,80,8 milioni nel 1938.
Questo è il primo passo verso l'autarchia economica. Il grano prodotto in Italia deve bastare a tutti i bisogni del popolo. Per andare incontro ai bisogni delle masse contadine lo stato interviene creando grandi ammassi collettivi di grano, sotto il suo controllo, e anticipando a un prezzo fissato il suo pagamento così da liberare la campagna dalle strette della speculazione.
La battaglia del grano è l'inizio di tutta una nuova corrente attiva di sviluppo delle produzioni agricole. Essa porta al suo seguito un rapido progresso tecnico delle colture e dell'organizzazione agricola
Ma l'azione dello stato si dirige anche a conquistare nuove terre al lavoro risanando le regioni paludose o aride e potenziando quelle meno produttive. Quest'opera appartiene alla politica della bonifica (v. bonifica, VII, p. 413, e App.): anch'essa tipica del nuovo regime. Sono molte nella penisola e nelle isole le zone di acque stagnanti che si offrono a questa bonifica. Vi sono la Valle Padana, con tutte le zone contigue; i vasti territorî della Maremma toscana e grossetana, dell'Agro Romano e Pontino, del Volturno e del Sele; il Tavoliere delle Puglie sull'Adriatico; le regioni del Neto, di Sibari e di Metaponto sullo Ionio; di S. Eufemia e Rosarno sul Tirreno; e le piane di Catania in Sicilia e gli stagni costieri in Sardegna.
L'opera della bonifica si svolge con il doppio compito di liberare le terre malariche dalle acque paludose e di restituirle al popolamento e alla coltura con l'immediata creazione di fondi agricoli e di borghi rurali, attrezzati con strade, case e pubblici servizî. Dal 1870 alla fine del 1922 il regno d'Italia aveva speso per opere varie di bonifica un miliardo e 720,5 milioni di lire. Dal 1922 al 1935-36 lo stato fascista ha speso 5 miliardi e 177,3 milioni di lire, oltre 442,5 milioni per opere di sistemazione montana e 2 miliardi e 366,7 milioni per sussidî statali dati a opere private di bonifica.
Nel 1928 questa politica della colonizzazione interna si definisce su un più vasto piano organico integrale con la legge di Mussolini della "bonifica integrale" che unifica in una sola disciplina tutte le opere riguardanti le bonifiche idrauliche, le sistemazioni montane, le trasformazioni fondiarie, le irrigazioni e le costruzioni dalle strade fino alle case, fornendo i necessarî mezzi finanziarî. E un decreto del 13 febbraio 1933, concludendo una cinquantennale evoluzione legislativa, consacra il tipo nuovo della bonifica portandola dal piano solo igienico a quello demografico, economico e sociale. La politica è diretta a creare sul territorio nazionale nuove terre redditizie e abitabili, nuove basi di vita alla popolazione crescente, e a sviluppare la produzione. Nel suo alto valore economico e sociale essa esprime anche uno dei vitali principî del regime fascista: la difesa e lo sviluppo della ruralità per l'equilibrio nazionale contro gli eccessi e le delusioni dell'urbanismo industriale. L'opera bonificatrice fascista ha la sua sintesi più espressiva nella bonifica dell'Agro Pontino, alle porte di Roma (v. pontina, regione, XXVII, p. 897, e App.).
Allo sviluppo dell'agricoltura si accompagna per linee parallele lo sviluppo dell'industria italiana. Dilficile è stata la vita di questa industria nei primi anni del dopoguerra, quando essa ha dovuto trasformarsi verso le nuove produzioni della pace senza i necessarî mezzi finanziarî per la sopravvenuta sospensione dei crediti esteri. La crisi fu grave. Su 2217 società industriali, con un capitale di 13 miliardi di lire, più di un quarto, 596, chiudevano nel 1921 il bilancio in passivo con una perdita globale di oltre un miliardo di lire. Ma il disordine delle attività produttive, aggravato dalle ondate speculative ricorrenti nel tempo liberale, significava anche l'inizio del disordine sociale del quale furono già evidenti i segni nel 1920 con i primi tentativi comunisti dell'occupazione delle fabbriche svolti secondo gl'insegnamenti russi.
Lo stato fascista rivolge dunque il suo sguardo anche all'industria per riportarla all'ordine e alla normalità della produzione. La sua prima azione è diretta alla pace sociale che, sopprimendo gli scioperì e le serrate, restaura anche nelle fabbriche l'atmosfera tranquilla necessaria al lavoro produttivo. Conciliate le classi, restaurato l'ordine, inquadrate le attività verso i fronti corporativi, la produzione industriale italiana può riprendere rapidamente il suo corso e ritrovare il coraggio di nuove iniziative. Il suo iridice (1912: 100) sale infatti da 81 nel 1922, a 91 nel 1923, a 103 nel 1924, a 130 nel 1928. Nel 1929 si cominciano a sentire anche in Italia gli effetti della grande crisi mondiale. L'indice della produzione discende a 126 con una tendenza depressiva fino al 1932 quando raggiunge la quota di 98. Ma presto risale toccando già, nel 1935, il livello di 121,4. Gli operai occupati nelle industrie, che nel censimento del 1911 risultavano 2 milioni e 304 mila, erano già aumentati, nel 1927, a 4 milioni.
Anche l'industria si viene ora organizzando su un piano regolatore razionale che disciplina i suoi sviluppi secondo il bisogno, fuori di ogni tentativo speculativo. Lo stato ha favorito la concentrazione degli organismi industriali e determina, attraverso speciali commissioni, i limiti dei nuovi impianti secondo le riconosciute necessità nazionali e le utilità regionali. L'organizzazione corporativa crea a sua volta una nuova solidarietà fra le industrie e le armonizza con le attività agricole. Le sanzioni del 1935-36 e la nuova politica dell'autarchia economica, che le ha seguite, impongono ora all'industria nuovi compiti vitali di revisione e di creazione in tutti i settori. Un grande sviluppo prendono, per questi compiti, le industrie minerarie, siderurgiche e meccaniche e quelle tessili, che vanno sostituendo alle materie prime d'importazione nuovi prodotti sintetici di fabbricazione italiana, e quelle chimiche che tendono a liberare l'Italia dal più grande peso delle importazioni dei coloranti e dei prodotti chimici e farmaceutici.
Un grande contributo a questo sviluppo produttivo dà l'industria elettrica che, con la sua forza motrice e la sua energia calorifica, tende a ridurre per le ferrovie e le industrie l'uso del carbone straniero. Tra il 1923 e il 1934 la potenza installata sale da 2 milioni a 5 milioni e mezzo di kW e la produzione di energia balza da meno di 5 miliardi a 12 miliardi di kWh, mentre la capacità dei serbatoi per le cadute artificiali di acqua aumenta, nello stesso decennio, da 700 milioni a un miliardo e 580 milioni di metri cubi.
Lo sviluppo delle attività produttive italiane porta anche rapidamente a un più favorevole equilibrio della bilancia commerciale italiana: prima condizione per la difesa della moneta nazionale. L'Italia è uscita dalla guerra mondiale con un pesante sbilancio commerciale aggravato dalla crisi di transizione dell'industria dallo stato di guerra allo stato di pace. Il saldo passivo dei suoi traffici con l'estero è stato infatti di 9 miliardi e 400 milioni di lire nel 1919, di 15 miliardi e 800 milioni nel 1920 e di 8 miliardi e 500 milioni nel 1921. L'intervento fascista riduce rapidamente questo passivo a 5 miliardi nel 1924 e a 4 miliardi e 400 milioni nel 1928.
Il miglioramento è stato raggiunto per diverse vie. Prima: la stabilizzazione della lira, dopo un tumultuoso periodo di oscillazioni, annunciata da Mussolini nello storico discorso di Pesaro il 18 agosto 1926, in un momento molto duro per il cambio italiano (v. italia: Finanze, XIX, p. 782).
La stabilizzazione della lira, che inizia il nuovo tempo della ricostruzione finanziaria ed economica nazionale, è preparata da una serie di provvedimenti. Viene riservata alla Banca d'Italia l'esclusività delle operazioni di emissione, prima anche riconosciute al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia (6 maggio 1926). Sono consolidati oltre 20 miliardi di lire di debito pubblico a breve scadenza (6 novembre 1926). Un controllo della Banca d'Italia è stabilito su tutte le banche di credito ordinario per evitare i disordinati movimenti della finanza privata, le speculazioni e i conseguenti pericoli dell'inflazione. La lira italiana viene stabilizzata con r. decr. del 21 dicembre 1927 sulla parità di 19 per un dollaro e 92 per una lira sterlina britannica. Con una successiva riforma bancaria del 1931 gl'istituti di credito, già travolti nelle speculazioni industriali che snaturavano il loro carattere minacciando le sorti dei risparmî depositati, sono restituiti alla loro missione originaria di raccolta dei capitali e di gestione del credito commerciale. Restaurate le forze con questa riforma, gl'istituti hanno potuto dare intera la loro collaborazione alla difesa nazionale quando, durante l'impresa etiopica, in conseguenza delle sanzioni, sono cessati per l'Italia i crediti dall'estero.
La stabilizzazione della moneta italiana consente la restaurazione delle attività industriali, con la stabilità dei loro bilanci, e favorisce il normale sviluppo dei traffici internazionali. Ma il successivo deprezzamento delle più importanti monete mondiali - della sterlina, del dollaro e del franco francese - crea una nuova crisi di posizioni economiche per l'Italia che si trova, con la sua moneta rimasta troppo alta, in uno stato di squilibrio di fronte all'economia mondiale. Il governo deve quindi, con un decreto del 5 ottobre 1936, rivedere ancora una volta la moneta nazionale, riportandola alla parità di cambio con il dollaro e la sterlina quale era stata fissata nel 1927.
Ma, oltre la politica monetaria, altre ragioni spiegano lo sviluppo del commercio italiano. Fra esse la nuova disciplina delle attività economiche, l'intensificazione del lavoro produttivo e i nuovi indirizzi della politica commerciale, che nel 1922 era tutta da ricostruire perché regolata da vecchi accordi prebellici o sconvolta dalle nuove situazioni create dalla guerra e dai trattati di pace.
La nuova politica commerciale (v. trattato internazionale, XXXIV, p. 224) si è sull'inizio ispirata ai principî della più larga liberalità e della più volonterosa solidarietà internazionale. I suoi capisaldi, realizzati nella vasta serie di trattati commerciali conclusi tra il 1922 e il 1928, sono stati chiariti da Mussolini nel suo discorso del 18 marzo 1923 al Congresso internazionale delle camere di commercio e poi dai suoi delegati nella conferenza economica di Ginevra del 1927, nella quale l'Italia ha anche sostenuto il progetto di una convenzione per la riduzione delle tariffe doganali. Ma la tendenza degli stati si è orientata invece verso il progressivo protezionismo e i sistemi dell'artificiale limitazione delle importazioni, attraverso i contingentamenti e le economie chiuse, come quelli creati negli Stati Uniti, con le alte tariffe doganali e i divieti delle immigrazioni, e nel quadro dell'impero britannico, nei rapporti fra la Gran Bretagna e i Dominions, con le tariffe doganali preferenziali dell'accordo di Ottawa.
Di fronte alle nuove condizioni del commercio mondiale create da queste correnti, anche l'Italia ha dovuto orientare la sua politica commerciale verso nuove forme protezioniste, che si sono accentuate durante le sanzioni e nel corso della nuova formazione dell'economia autarchica.
La politica economica intensiva italiana tende a creare nuovi mezzi di vita e di lavoro alla crescente popolazione e va perciò inserita nel grande piano del potenziamento demografico della nazione. Questa è una parola nuova che Mussolini, primo fra gli uomini di stato del mondo, lancia in un tempo caratterizzato da un generale impoverimento delle razze bianche, per una crescente denatalità creata dalla nuova civiltà industriale e da una tendenza egoistica delle classi più abbienti.
La forza numerica della nazione è uno dei vitali e insostituibili elementi della sua potenza. Una fiera politica nazionale, che tenda all'esaltazione della grandezza e alla formazione di un impero, non può dissociarsi da quella di un'attiva demografia.
Anche in Italia, per quanto iniziata in ritardo e con un ritmo meno intenso, si è fatta grave dopo la guerra mondiale la crisi della denatalità. Da una quota di 31,7 nati vivi per mille abitanti, nel quinquennio 1911-14, la natalità è infatti discesa, nella depressiva parentesi della guerra, a una quota di 27,9 nel 1919-21 per risalire a 29,5 nel 1922-25 e ridiscendere a 26,8 nel 1926-30 e a 23,8 nel 1931-35. Questa quota è ancora superiore a quella di tutte le altre più grandi nazioni. Il suo declino è in parte compensato da una parallela diminuzione delle morti che da una quota di 19,1 per mille abitanti, nel 1911-14, diminuiscono a 18,3, nel 1919-21, e poi, per l'efficacia della più attiva politica sanitaria del regime, a 17,3 nel 1922-25, a 16, nel successivo quinquennio, e a 14,1 nel 1931-35. Ma il fenomeno della progressiva denatalità prospetta il pericolo di una stasi nella consistenza numerica della nazione e di un conseguente declino, per la diminuzione delle classi giovani e delle forze attive capaci di difendere ed elevare il livello della potenza nazionale. Basta ricordare lo studio del Burgdörfer, direttore dell'ufficio di statistica della Germania, il quale ha calcolato che dal 1934 al 1955 il numero dei giovani che si presenteranno alla leva potrà risultare diminuito in Gran Bretagna da 392 mila a 296 mila, in Francia da 324 mila a 207 mila, e in Germania da 597 mila a 562 mila, mentre per l'Italia vi sarebbe la lieve diminuzione da 407 mila a 400 mila.
È con queste premesse che Mussolini getta il grido d'allarme e annuncia la nuova politica, tipica del fascismo, della difesa e della reintegrazione dell'entità numerica della nazione al servizio dell'idea di potenza. Nel suo storico discorso dell'Ascensione del 1926, che formula questa politica, egli ne dà anche la sintesi spìrituale: "sta di fatto che il destino delle nazioni è legato alla loro potenza demografica". Questa concezione nuova e attiva della storia nazionale, in funzione della potenza demografica, va trovando ormai largo seguito, almeno ideale, in tutti i paesi civili. La squallida dottrina di Malthus è superata da una visione ottimista e ricostruttiva del divenire umano e della sua civiltà. Ma a questa visione segue l'intervento dello stato che diviene anche una forza animatrice del fenomeno demografico (v. demografica, politica, App.).
Tale forza si applica per due direttrici: la lotta contro la mortalità e lo stimolo delle nascite. L'azione per la natalità si inizia dalla nuzialità, che viene in ogni modo favorita essendo considerata non soltanto più come un affare privato dei cittadini ma anche come un publicum munus, un elemento base della vita nazionale. Mentre tasse progressive e minorazioni di diritti per molti pubblici impieghi colpiscono i celibi, sono dati premî e agevolazioni per i matrimonî e preferenze negl'impieghi ai cittadini coniugati. Ma dal matrimonio l'azione protettiva statale si estende soprattutto alla tutela della madre e dei nuovi nati. Già il 10 dicembre 1925 una legge aveva creato l'Opera nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia, con risolute finalità sociali e con la diretta partecipazione dello stato. Essa assiste le madri povere ed estende la sua azione protettiva sui giovani fino all'età di 18 anni, ossia su una massa di circa 15 milioni e mezzo di cittadini. I risultati non sono stati lenti a venire. Nel 1935, per esempio, le persone assistite, madri e bambini, furono 1.713.978 con una spesa di circa 153 milioni di lire. E però la mortalità infantile del primo anno è discesa dal 12,79 per cento dei nati vivi nel 1922 e 9, 99 nel 1934-35.
L'opera di protezione dell'infanzia è integrata da un'opera assistenziale di colonie marine e montane per i bambini poveri diretta dal partito fascista. Iniziata nel 1925 essa si è rapidamente estesa, tanto che nel 1936 ha potuto già organizzare 3821 colonie con 690.750 bambini.
Quest'opera si amplifica in quella dell'Opera Nazionale Balilla passata nel 1937 alle dipendenze del Partito (v. fascismo, App.).
È questa una delle più sostanziali creazioni del regime. Fondata su tre principî - l'assistenza, l'educazione e la preparazione, in senso integrale, del bamtiino alla vita nazionale - essa ha un profondo significato sociale e politico, oltre che demografico. Essa si ispira al senso storico della continuità della nazione e alla volontà politica della perennità del regime, riparando a tutte le fratture che si possano creare fra l'una e l'altra generazione nella vita spirituale e politica. Un regime rivoluzionario non può concentrarsi tutto sulla generazione che l'ha creato senza isolarsi nel divenire nazionale. Il regime fascista si è perciò rivolto subito ai giovani nel calcolo che essi saranno gli uomini, i cittadini responsabili del domani. L'Opera Nazionale Balilla, costituita con la legge del 3 aprile 1926, è la prima formazione politica delle giovani generazioni: recluta i fanciulli e i giovani di tutte le classi sociali. Alla fine del 1937 contava oltre 6 milioni di organizzati, in gran parte di famiglie contadine, operaie e artigiane. Ha un inquadramento militare, ma una azione educativa e professionale. Da questa politica demografica il fascismo passa gradualmente, per tappe naturali, ad una più risoluta politica di razza (v. razza, App.).
L'inquadramento militare e lo spirito guerriero dell'organizzazione politica del fascismo hanno creato la nuova base delle forze armate italiane. Forze armate nuove sono sorte direttamente dalla rivoluzione fascista con lo squadrismo, tipico fenomeno italiano del volontarismo derivato dalle squadre di azione formatesi durante il fermento rivoluzionario e trasformato, dopo la Marcia su Roma, in una milizia regolare, costituita con una decisione del Gran Consiglio del 12 gennaio 1923.
I compiti di questa Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, fissati dal decreto del 14 gennaio 1923 la pongono "al servizio di Dio e della Patria e agli ordini del Capo del governo", e la impegnano "in concorso con i corpi armati per la pubblica sicurezza e con il regio esercito a mantenere all'interno l'ordine pubblico e a preparare e conservare inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell'Italia nel mondo". La milizia, compiutamente inquadrata e armata, come le altre forze militari, si può ormai considerare, oltre che guardia della rivoluzione, una forza attiva della difesa dello stato. Essa ha eroicamente partecipato alle operazioni di guerra nella Libia, dal settembre 1923, e in quelle dell'Africa Orientale per la conquista dell'Etiopia, nelle quali ha offerto 1205 morti fino al 1936 e si è meritata 14 medaglie d'oro.
Ma questa milizia si organizza nei territorî di oltremare anche come nucleo di colonizzazione. Sin dal settembre 1934 essa si è costituita in Libia come un'organizzazione armata territoriale, ripartita in 4 legioni, delle quali le prime tre si compongono di contadini sardi, siciliani e abruzzesi atti alla vita e al lavoro coloniale. La stessa colonizzazione armata si è iniziata nel 1937 nelle nuove terre conquistate dell'Africa Orientale.
Ma tutte le forze armate hanno trovato nel regime il loro vigoroso ricostruttore e l'esaltatore del loro spirito guerriero nel quale si foggia tutta l'anima nazionale.
Soprattutto ampia è stata l'azione della restaurazione della marina e della nuova arma aerea. Dopo il 1918 la marina italiana si era dispersa senza più un'adeguata ricostruzione secondo la dura ma preziosa esperienza della guerra mondiale. È solo dopo il 1922 che la marina si rinnova con un piano organico d'insieme e si sviluppa per gradi successivi.
È di quell'anno la conclusione della prima convenzione navale mondiale conclusa a Washington (v. XXXV, p. 676) fra le grandi potenze marinare. Questa convenzione disciplina però solo i rapporti navali per i tipi delle grandi navi di linea, dei grandi incrociatori di 10 mila tonnellate e delle navi porta-aerei, lasciando insoluto il problema dei rapporti fra le unità navali più leggiere e mobili, le siluranti e i sottomarini, che pure avevano rivelato durante la guerra mondiale la loro temibile potenza. Il patto di Washington fissa una gerarchia di forze fra le potenze, consacrando la parità fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e una posizione di inferiorità del Giappone di fronte a queste due potenze, con una proporzione di 3 a 5, e un rango ancora minore dell'Italia e della Francia, parificate per il tonnellaggio delle grandi navi.
Su queste linee del trattato di Washington, ormai decaduto e non più rinnovato per le successive competizioni navali delle grandi potenze, l'Italia ha sviluppaio la sua nuova marina da guerra secondo le direttive che sono state esposte sopra.
I compiti dell'Impero, le situazioni create nel Mediterraneo e neglì oceani in conseguenza di tali compiti e dei latenti conflitti politici, spiegano questa nuova imponente forza marinara.
Ad essa si aggiunge quella aerea (v. aeronautica, App.), ricreata anch'essa dalle basi solo dopo il gennaio 1923, quando venne costituito un primo commissariato per l'aeronautica divenuto poi ministero autonomo. L'aviazione italiana, agguerrita da lunghe prove fra le quali rimangono storiche quelle atlantiche guidate dal quadrumviro maresciallo Italo Balbo e da un giovane figlio appena ventenne di Mussolini, Bruno, sostenute da un'industria nazionale ormai autonoma, conta oggi fra le più notevoli forze aeree del mondo, tipica espressione della potenza virile e delle nuove capacità organizzative della nazione italiana.
II. - La tonificazione e lo sviluppo della politica interna italiana, in tutte le sue forme e i suoi aspetti, hanno per naturale seguito l'espansione della politica estera. Uscita dalla guerra mondiale quasi in un isolamento nazionale per l'attitudine ostile dei grandi alleati rivelatasi, appena cessato il bisogno dell'aiuto italiano, già durante la formazione dei trattati di pace; dominata dalle pressioni francobritanniche; incapace di orientarsi decisamente per i molti vitali problemi rimasti insoluti; oscurata dal malcontento e dal disordine interno, la politica italiana ha potuto ritrovare una sua consistenza e una sua individualità soltanto dopo il 1922, quando, con la risoluzione dei maggiori problemi interni e la nuova pace sociale ottenuta con la solidarietà delle classi, ha potuto rivolgersi, nelle robuste direttive di Mussolini, ai rapporti internazionali.
Lo sviluppo della nuova politica estera, che passa attraverso successive tappe ben definite, riflette progressivamente la nuova coscienza della forza e del diritto italiani. Il 27 novembre 1922, in un discorso al Senato, Mussolini ne impostava gli orientamenti basilari: "Intendo fare della politica estera che non sarà avventata ma non sarà nemmeno rinunciataria. Credo di essere riuscito già a qualche cosa: a far capire agli alleati e forse anche ad altri popoli di Europa l'esatta visione di un'Italia quale è quella che vedo nascere sotto i miei occhi: un'Italia gonfia di vita che non vive di rendita sul passato, come un parassita, ma intende costituire con le sue proprie forze, col suo travaglio, col suo martirio, colla sua passione, le sue fortune avvenire".
Queste frasi vanno ricordate perché sono la chiara impostazione dei nuovi principî della politica estera italiana la quale si rivela, nella loro luce, sviluppata con una lineare logica successione di tempi e di azioni, sempre fedele a sé stessa se anche apparentemente variabile nella contingenza di taluni episodî. Per la prima volta la politica estera italiana viene definita in funzione dei reali bisogni delle tendenze elementari della collettività nazionale, nella coscienza della sua forza e dei suoi diritti e nell'ansia della sua potenza. Come tale essa diviene una politica di movimento, di revisione e di progressive conquiste.
La sua prima tappa è quella della liberazione dalle pesanti eredità del passato, dai problemi rimasti aperti dalla guerra che ingombravano le vie per la nuova azione. Sono anzitutto tipiche di questo momento le azioni di Mussolini rivolte ad una sistemazione dei rapporti con la nuova grande Iugoslavia - che è sistemazione adriatica - con la ratifica degli accordi di Santa Margherita e di Rapallo (1923), fino al patto di amicizia e collaborazione italo-iugoslavo, firmato a Roma il 27 gennaio 1924, che tende a dissipare gli elementi della rivalità fra l'Italia e la Iugoslavia creati dai trattati di pace e dalle evidenti tendenze di qualche potenza estranea.
Appartiene pure a questo momento l'azione svolta per la definizione dell'Albania indipendente, con precisi confini, come garanzia per l'equilibrio adriatico e balcanico. Tale azione ha trovato sulla sua via risolute ostilità, come quelle opposte da taluni gruppi ellenici che hanno provocato l'assassinio del generale Tellini (1923), nel momento in cui egli, a capo di una commissione per la delimitazione dei confini del nuovo stato albanese, si trovava in prossimità dell'Epiro greco. Questo eccidio, del quale il governo di Atene non ha voluto subito assumersi la responsabilità, ha portato per reazione alla temporanea occupazione italiana di Corfù, e ad una tensione di rapporti fra l'Italia e l'Inghilterra, levatasi per i suoi noti interessi mediterranei, a guardiana dell'indipendenza ellenica.
Appartiene ancora a questo momento la parte presa dall'Italia nello statuto e nel regime di Tangeri dai quali l'Inghilterra e la Francia volevano escluderla.
Ma soprattutto, su un piano europeo più generale, si svolge un deciso intervento italiano nella conferenza di Londra del 1922 e in quella di Parigi del 1923 per una sommaria e coraggiosa liquidazione dei problemi finanziarî derivanti dalla guerra, per i quali Mussolini propone "il colpo di spugna sulla tragica contabilità della guerra", presentando per la prima volta il tema dell'interdipendenza fra le riparazioni dovute dagli stati vinti e i debiti di guerra degli Alleati verso gli stati creditori più ricchi. Tale azione si sviluppa quindi anche nella definizione del debito di guerra dell'Italia verso gli Stati Uniti e poi verso la Gran Bretagna avvenuta all'inizio del 1926.
Muovendosi attraverso successive revisioni, questa complessa politica porta, esattamente secondo i principî enunciati da Mussolini, a una risoluzione internazionale di Losanna nel luglio 1932 che dà fine alle riparazioni dovute dalla Gemiania, ossia alle clausole finanziarie del trattato di Versailles. E da quel tempo, sulla base del principio dell'interdipendenza affermato da Mussolini nei problemi finanziarî della guerra, sono cessati anche i pagamenti degli stati alleati debitori.
Da questa prima fase di politica estera, rivolta soprattutto a chiudere il pesante e complesso passato in gran parte ereditato dalla guerra, l'Italia passa a un secondo tempo di più diretta azione costruttiva con un più largo spirito europeo. I principî ispiratori di questo tempo sono quelli dell'autonomia della politica italiana, della restaurazione dell'equilibrio delle forze e delle posizioni in Europa superando il sistema delle gerarchie e delle ineguaglianze, aggravato dai trattati di pace, e - come parte di questo equilibrio - del riconoscimento europeo degl'interessi e dei diritti della nazione italiana, trascurati e manomessi nella soluzione data alla guerra vinta in comune.
L'azione italiana si volge perciò, con generosa visione europea, a sostenere le rivendicazioni dei grandi mutilati dai trattati di pace, Germania, Austria, Ungheria e Bulgaria che hanno perduto non soltanto vasti lembi del loro territorio ma anche il rango della sovranità indipendente per gli armamenti e altri diritti nazionali.
La politica verso la Germania si sviluppa per questa linea, attraverso notevoli e drammatici episodî e spesso con aperte ostilità da parte della Gran Bretagna e soprattutto della Francia.
Nel 1924 l'Italia rifiuta di associarsi all'occupazione franco-belga della Ruhr in conseguenza del sospeso pagamento germanico delle riparazioni. Durante la conferenza internazionale di Ginevra del 1932 per la limitazione degli armamenti sostiene il diritto della parità della Germania provocando l'opposizione della Francia, col risultato finale dell'uscita della Gemiania dalla Società delle nazioni e del suo libero riarmo deliberato dal governo di Berlino con atto unilaterale, contro i divieti formali del trattato di Versailles. Questa politica di comprensione e di collaborazione dell'Italia per le giuste rivendicazioni politiche e nazionali della Germania, aumenta di tono dopo che il movimento nazionalsocialista, così affine al fascismo, guidato da Adolfo Hitler conquista, il 30 gennaio 1935, il potere: e si sviluppa, con breve parentesi di stasi, fino ad un formale accordo politico italo-germanico consacrato nei protocolli di Berlino dell'ottobre 1936.
Anche nei riguardi dell'Austria e dell'ungheria l'Italia svolge una politica di assistenza e collaborazione, ispirata soprattutto dal movente di sostenere il loro sistema politico ed economico nei più duri momenti della crisi per salvaguardarne la consistenza e l'individualità nazionale contro i tentativi di sovrapposizione politica ed economica dei circostanti nuovi stati. Con tale aspetto l'azione italiana s'innesta nella politica più generale dell'Europa danubiana.
Questa zona nevralgica dell'Europa, dalla quale è partita già la scintilla della guerra mondiale, ha sofferto nei primi anni della pace una quadruplice crisi creata dal crollo dell'impero austroungarico e dell'unità politica ed economica che esso costituiva, dalla depressíone sopravvenuta nel commercio dei prodotti agricoli particolarmente sentita nei paesi danubiani, prevalentemente agrarî, dal travaglio interno di assestamento politico e sociale dei nuovi stati e dalla profonda rivalità sorta nei rapporti fra i minori stati successori, aggravata dal peso della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Iugoslavia e Romania) costituita soprattutto per il controllo dell'Austria e in particolar modo dell'Ungheria.
La politica delle grandi potenze europee è stata fertile nel comporre piani di soluzione per questo grave problema danubiano. Ma due tesi contrarie si sono trovate di fronte. La Francia e la Cecoslovacchia hanno proposto, con l'evidente tendenza di preparare un'associazione più o meno federativa, un'intesa economica limitata a cinque soli dei paesi successori dell'impero austro-ungarico: i tre della Piccola Intesa e l'Austria e l'Ungheria, con l'esclusione delle grandi potenze e quindi anche dell'Italia. Il governo di Roma ha sostenuto invece la necessità dì un intervento delle grandi potenze confinanti, ossia dell'Italia, che conta anche fra gli stati successori dell'Austria, e della Germania, per il notevole valore degli scambî commerciali che essi rappresentano nel sistema danubiano.
Constatata l'impossibilità degli stati danubiani minori di trovare un punto d'intesa diretta, Mussolini prese l'iniziativa di un accordo di carattere politico ed economico fra l'Italia, l'Austria e l'Ungheria consacrato nei protocolli di Roma del 17 marzo 1934, e rinnovato e amplificato con un protocollo addizionale del 18 marzo 1936. La base di quest'atto è quella del rispetto dell'indipendenza e dei diritti dei tre stati, della collaborazione per la pace e la restaurazione economica, con misure di favore per il commercio austriaco e ungherese, e dell'intesa prwentiva fra i tre paesi sui problemi di diretto interesse e su quelli di carattere più generale ma vitale.
Il sistema politico dei protocolli fu poi completato da una intesa austro-germanica dell'11 luglio 1936 con la quale la Germania riconosceva la piena sovranità dello stato federale austriaco e l'Austria confermava il suo inalienabile carattere tedesco.
Con questi accordi l'Austria e l'Ungheria hanno potuto rapidamente riprendere il loro posto politico attivo nella zona danubiana ed aumentare notevolmente le loro esportazioni verso l'Italia con importanti benefici per la loro economia produttiva.
Ma al di là dei rapporti con la Germania e gli stati danubiani, l'azione della politica estera italiana si è svolta su un piano generale di valore europeo. Contro talune tendenze di intese universalistiche, illuse dall'inconsistente speranza della possibilità di un accordo simultaneo fra tutti gli stati, pur senza una definizione concreta dei loro diversi interessi e rapporti, l'Italia ha sempre sostenuto una tendenza verso intese graduali, raggiunte con patti bilaterali o limitatamente plurilaterali, capaci di definire realisticamente gl'interessi di ciascuna nazione partecipante. E pertanto al patto della Società delle nazioni, che ha rivelato presto alla prova delle esperienze la sua inconsistenza, e al piano di un'intesa paneuropea proposto nel 1931 dal ministro degli Esteri di Francia Briand, presto svaporato nel nulla, il governo fascista, dopo aver dato la sua firma al patto di Locarno del 1925, che l'impegnava insieme con l'Inghilterra alla garanzia dell'attuale frontiera renana, ha proposto nel 1933 un più diretto e largo patto a quattro, che associasse l'Italia, la Gran Bretagna, la Germania e la Francia.
Tale patto, che doveva completare e rafforzare con finì più vasti quell'atto fondamentale per la pace europea che è stato il patto di Locarno, tendeva, a differenza di questo, a porre la Germania e la Francia in una posizione eguale a quella dell'Italia e dell'Inghilterra per avviare le quattro potenze verso una stabile intesa collaborativa, superando le divisioni della guerra, per trovare una formula di soluzione ai grandi problemi aperti nei loro rapporti che erano e sono tanta parte vitale del sistema della pace europea. Ma questo piano, subito accettato dalla Germania e anche dal governo britannico, è stato disarticolato e devirilizzato dal governo francese che ne ha stemperato i valori sostanziali con larghe riserve ed eccessivi riferimenti al patto della Società delle nazioni.
Anche nella politica della limitazione degli armamenti, che ha avuto in una breve stagione un'intensa quanto effimera fioritura, l'azione dell'Italia è stata precisa e risoluta. Nel 1930 una conferenza navale, convocata a Londra per il riesame delle questioni in parte già definite nella conferenza di Washington del 1922, era fallita per il dissenso manifestatosì fra la Gran Bretagna e la Francia e per l'illegittimo tentativo di minorare le posizioni italiane, di parità con la Francia, già acquisite e consacrate a Washington. Nell'inverno del 1932 una nuova conferenza per gli armamenti, di carattere più generale, è convocata a Ginevra. Fra tanti piani proposti dalle varie parti il governo fascista pone tre principî fondamentali: l'equilibrio degli armamenti di tutte le potenze, in funzione della pace europea e mondiale; la resistenza alle esagerate tendenze militariste di talune potenze; la rivendicazione del diritto italiano alla parità. La politica italiana degli armamenti era già stata definita sin dal 5 giugno 1928 in un discorso di Mussolini al Senato, nel quale egli aveva affermato l'interdipendenza di ogni specie di armamenti e il diritto della parità italiana con la nazione continentale più armata, accettando come limite le cifre più basse.
La conferenza di Ginevra s'inizia il 2 febbraio 1932. Alla vigilia il governo italiano propone all'assemblea della Società delle nazioni una generale tregua degli armamenti per un anno. Il 10 febbraio la delegazione italiana presenta un progetto organico per la limitazione quantitativa e qualitativa di tutti gli armamenti. Tale progetto è sintetizzato in questi capisaldi: per la marina la contemporeanea soppressione delle grandi navi di linea, dei sottomarini e dei porta-aerei; per l'esercito l'abolizione dell'artiglieria pesante e dei carri d'assalto; per l'aviazione l'eliminazione delle forze da bombardamento: in tutti i campi il bando della guerra chimica e batteriologica e la revisione delle leggi di guerra per assicurare la protezione delle popolazioni civili. Questa è una politica realistica: lontana dall'utopia del disarmo, ferma invece a un'equa limitazione sulla base del parallelismo degli armamenti e delle forze. Ma contro questo indirizzo chiaro, costruttivo e giusto si levano notevoli opposizioni, ispirate soprattutto dalla volontà di rifiutare il diritto della parità degli armamenti alla Germania, e da quella, non meno evidente, di non riconoscere all'Italia le posizioni di eguaglianza che le sono dovute per la sua statura politica e per il grande sacrificio della guerra.
Nel febbraio 1933, dopo la conquista del governo in Germania da parte di Adolfo Hitler, si acuisce il conflitto fra la Germania e la Francia sul problema degli armamenti. L'Italia interviene per una mediazione, fondata sul principio di una limitazione degli armamenti delle potenze armate al livello già raggiunto e di una elevazione degli armamenti delle potenze disarmate ad un livello minimo necessario agli elementari bisogni della loro sicurezza. Mussolini comprende che il riarmo delle potenze disarmate è fatale: domanda che avvenga nel quadro di un accordo generale per mantenere gli equilibrî internazionali e attivare con essi la collaborazione europea. Ma il governo francese rifiuta la formula italiana e si irrigidisce sul principio di una preventiva adesione generale al patto e al meccanismo della Società delle nazioni, ossia alla formula detta della "sicurezza collettiva" intesa come un rigoroso impegno non soltanto di non aggressione ma anche di mutua assistenza. E soprattutto per tali opposizioni che, dopo agitate vicende, la conferenza mondiale del disarmo tramonta aprendo la via a una nuova corsa di tutti i paesi verso i grandi armamenti.
Insistendo sulla sua via di chiarificazione nei rapporti europei, il governo italiano tende anche a una definizíone delle relazioni con la Francia. Il 7 gennaio 1935, viene firmato a Roma un accordo fra Mussolini e il ministro degli Affari esteri di Francia Laval che sembra finalmente portare, dopo quasi un ventennio di incertezze e di tensioni, questa utile pacificazione. L'accordo, richiamandosi all'articolo 13 del trattato di Londra, che ha preparato l'intervento dell'Italia nella guerra mondiale, assicura da parte francese una somma minima di compensi coloniali all'Italia in cambio di una revisione dello statuto degl'Italiani per la Tunisia. In aggiunta alle brevi rettifiche di frontiera fra la Libia e la Tunisia, già concordate con l'accordo Bonin-Pichon del 1919, nel settore di Gadames-Gat e in quello di Gat-Tummo, è concessa a beneficio dell'Italia una nuova rettifica della frontiera meridionale della Libia mentre la frontiera con la Somalia Francese è lievemente modificata a favore dell'Italia, ed è accordata una partecipazione alla ferrovia francese Gibuti-Addis Abeba. In compenso per la Francia è modificato sostanzialmente lo statuto degl'Italiani della Tunisia riducendo la validità di ogni loro diritto al limite del 1965.
Questo accordo, nel suo testo pubblicato, non rivela un perfetto equilibrio. I compensi alla Francia non appaiono necessarî come contropartita alle rettifiche coloniali date all'Italia che rappresentano solo una tardiva e limitata esecuzione dell'impegno assunto dalla Francia verso l'Italia con l'articolo 13 del patto di Londra. Ma dietro l'accordo di Roma del 7 gennaio vi è anche l'intesa, non manifestata in atto pubblico, della libertà di azione riconosciuta all'Italia sul territorio etiopico.
Il problema di questa libertà di azione si era improvvisamente aperto nel dicembre 1934 dopo un nuovo incidente provocato sulla frontiera somala dai continuati movimenti aggressivi delle forze armate etiopiche. Il 5 dicembre una formazione di circa 1500 soldati regolari etiopici, al comando del fitaurari Scifferà, attacca improvvisamente un piccolo presidio italiano a Ual-Ual. L' attacco non provocato, di natura evidentemente offensiva, viene respinto per il pronto intervento di altre truppe e di forze aeree italiane. È intanto constatato il fatto singolare della presenza, in prossimità del luogo dello scontro, di una missione militare britannica, al comando del colonnello Clifford, alla quale erano stati aggregati per protezione gran parte degli armati abissini partecipanti all'attacco di Ual-Ual. L'incidente sanguinoso è soltanto un nuovo episodio di una lunga ininterrotta serie di violenze aggressive etiopiche contro i territorî, gl'interessi, la vita e i beni dei cittadini d'Italia nell'Africa Orientale.
Lo stato dei rapporti fra l'Italia e l'impero etiopico era divenuto intollerabile. Movimenti etiopici di aggressione alle colonie italiane erano stati già tentati in precedenza, mentre l'Italia era impegnata nella campagna libica e poi nella guerra mondiale. Nel marzo-aprile 1914 il negus Uolde Ghiorghis, governatore di Gondar, con un corpo di truppe di oltre 50 mila uomini, si era avanzato nel Tigrè fino alla frontiera eritrea provocando per la difesa l'invio in Eritrea di truppe metropolitane e il ritorno dalla Libia di battaglioni eritrei. Nel febbraio 1915 il negus Micael era stato sorpreso a preparare un piano di attacco contro l'Eritrea con l'adunata di un corpo di truppe di circa 150 mila uomini, costringendo l'Italia a mobilitare le sue forze coloniali a difesa dell'Eritrea e della Somalia e ad astenersi dalle operazioni di carattere coloniale svolte dagli Alleati in Africa e in Asia. Nel 1925-26 durante le operazioni di polizia nella Somalia settentrionale italiana, il governo etiopico aveva accolto sul suo territorio le colonne dei ribelli rifornendoli di armi e munizioni.
Ma oltre questi movimenti offensivi di evidente significato, il governo italiano aveva dovuto constatare e denunciare da parte etiopica 25 offese alle sue rappresentanze diplomatiche e consolari, tra il 1916 e il 15 agosto 1935, 15 atti contro la vita, i beni e gli interessi italiani, fra il novembre 1924 e l'agosto 1935, e 51 razzie, aggressioni e incidenti di frontiera, spesso sanguinosissimi, provocati talvolta da grandi spedizioni etiopiche armate, tra il febbraio 1923 e il 31 maggio 1935.
Constatato dunque il completo fallimento di una politica di pace e collaborazione ripetutamente tentata dal governo italiano con il governo etiopico, si imponeva una risoluta e sostanziale chiarificazione, per la garanzia della vita e degli interessi e il libero sviluppo delle iniziative economiche degli Italiani sul territorio etiopico, secondo i diritti preveduti dai trattati ripetutamente conclusi fra i governi di Roma e di Addis Abeba e già riconosciuti nelle convenzioni internazionali concluse dall'Italia con la Gran Bretagna e la Francia.
Questo problema della chiarificazione dei rapporti italo-etiopici si inserisce nel più generale problema dei diritti italiani alle colonie.
Con la sua popolazione, cresciuta sul principio del 1935 ad oltre 42 milioni di abitanti, l'Italia è uscita dalla guerra a mani vuote nella ripartizione dei territorî coloniali. Contro 2.620.000 chilometri quadrati di nuovi territorî coloniali, con una popolazione di 9 milioni e 335 mila abitanti, guadagnati dalla Gran Bretagna in Africa, Oceania e Asia, e 922 mila chilometri quadrati, con una popolazione di 4.335.000 abitanti, guadagnati dalla Francia in Africa e in Asia, il nuovo acquisto dell'Italia si è infatti ridotto a 90 mila chilometri quadrati con una popolazione di appena 100 mila abitanti.
Non si possono del resto definire reali compensi coloniali la cessione fatta dall'Inghilterra all'Italia del territorio britannico dell'Oltregiuba, spopolato e sterile, sanzionata dal trattato di Londra del 15 luglio 1924, sulla base delle lettere scambiate fra Milner e Tittoni il 13 settembre 1919, né le rettifiche di confine fra la Libia e l'Egitto, definite con l'accordo del Cairo del 6 dicembre 1925, con il quale l'Egitto cedeva all'Italia l'Oasi di Giarabub, già quasi abbandonata, ma otteneva in cambio la Baia di es-Sollūm e la zona di Ramla. Tanto meno si possono considerare utili compensi coloniali le successive cessioni francesi del 1935 che riguardano anch'esse territorî sterili e spopolati.
La crescente densità della popolazione italiana, la naturale elevazione del suo tono di vita, la necessità di un libero sviluppo economico non potevano più contenersi sul territorio nazionale e sui pochi possedimenti coloniali italiani dell'Africa settentrionale e orientale. Le periodiche crisi dell'agricoltura e dell'industria italiana, sulla fine del sec. XIX e sull'inizio del sec. XX, hanno avuto una delle loro cause essenziali nell'insufficiente base economica dell'Italia. E per questo nell'ultimo quarto del sec. XIX e sino alla vigilia della guerra mondiale si è sviluppato dall'Italia un grandioso e desolato movimento di emigrazione che ha varcato presto i confini dell'Europa e del Mediterraneo e si è diretto verso le Americhe, risolvendosi per una gran parte in una perdita definitiva del capitale umano e dei mezzi della ricchezza d'Italia e perciò in una nuova ragione di povertà dell'Italia, nell'apparente liberazione del suo peso demografico, in contrasto con il rapido arricchimento di molti territorî stranieri prodotto con la fatica dei coloni italiani. In sessant'anni di emigrazione, dal 1876 al 1935, l'Italia ha veduto partire 18.148.355 emigranti, solo in minima parte compensati dai rimpatrî e per una grande parte invece perduti economicamente e anche nazionalmente per la naturalizzazione, operata, oltre che nelle Americhe, in Europa, soprattutto in Francia, dove, secondo il censimento del 1931, risultavano già naturalizzati come cittadini francesi 100.642 Italiani sugli 808.038 dimoranti.
Un regime politico, fieramente nazionale, che difenda il suo popolo nella sua elementare entità demografica, nella sua missione storica, nel suo diritto di potenza, legittimato dalla sua capacità di lavoro e di civiltà, non poteva perciò rimanere estraneo a questa dispersione delle vive forze produttive della nazione cagionata dall'emigrazione. L'intervento del governo fascista si è infatti subito rivolto ad arginare le emigrazioni e a potenziare invece tutte le possibilità economiche nazionali.
Questa sua politica di restaurazione economica si è sviluppata anche verso il territorio coloniale. In Libia, infatti, dopo la rioccupazione, avvenuta fra il 1923 e il 1924, del Garian, di Misurata, Nalut, Gadames, Misda e altre zone, in gran parte abbandonate durante la guerra mondiale, s'inizia una nuova politica continuativa, e non più episodica, di valorizzazione dei territorî coloniali, considerati parte integrante del territorio nazionale, ai fini demografici, economici e militari, con la creazione di grandi imprese di colonizzazione e il progressivo trasferimento di famiglie di contadini italiani.
Ma i risultati di questa politica volonterosa non bastano. I territorî italiani e coloniali non possono seguire con la loro produttività e le loro risorse i bisogni di una grande nazione, ascendente nella sua entità demografica e nel tono della sua vita civile. Per questo il governo fascista si era rivolto al territorio etiopico con la speranza di trovarvi i mezzi di una pacifica espansione economica in collaborazione con il governo abissino.
È qui da ricordare che in passato l'Inghilterra stessa aveva additato all'Italia l'Etiopia come campo della sua espansione. È l'Inghilterra, infatti, che spinge l'Italia ad occupare Massaua, come punto di partenza per la penetrazione verso l'interno, per avere aiuti nelle imprese contro le agitazioni mahdiste e per arginare l'espansione della Francia. Quando nel 1883 s'impianta in Egitto, è ancora l'Inghilterra che definisce, per una collaborazione con l'Italia, anche le sfere d'Influenza nell'Africa Orientale. I protocolli italo-britannici Rudinì-Dufferin del 1891 e quelli Crispi-Clare Ford del 1894 riservano infatti all'influenza italiana quasi tutto il territorio etiopico e confermano l'indirizzo del trattato italo-etiopico di Uccialli del 1889, concluso con Menelik, che poneva tutta l'Etiopia sotto il protettorato italiano. Questo indirizzo è stato riconfermato col trattato tripartito italo-franco-britannico del 1906 e precisato ancora in un accordo Mussolini-Graham del 1925, con il quale l'Italia e l'Inghilterra s'impegnavano in un reciproco aiuto per la costruzione di una ferrovia italiana attraverso il territorio etiopico, che congiungesse l'Eritrea alla Somalia, ad ovest di Addis Abeba, e per il regolamento delle acque del Lago Tana in gran parte affluenti del Nilo.
È appunto seguendo questa politica che l'Italia firma ad Addis Abeba il 2 agosto 1928 un patto di amicizia e collaborazione con l'Etiopia. Nel preambolo di tale patto era detto che i due paesi s'impegnavano a sviluppare le loro relazioni economiche. Nel suo art. 3 era precisato che i due paesi si sarebbero adoperati "ad ampliare e far prosperare il commercio esistente". Annessa al patto era pure una convenzione che prevedeva la costruzione di una strada da Assab a Dessié per lo sviluppo diretto di questo commercio con un diritto di porto franco all'Etiopia ad Assab. Ma il patto non ha potuto mai avere alcun seguito. Ogni iniziativa economica italiana ha trovato sul territorio etiopico infrangibili barriere. Agli ingegneri italiani che dovevano tracciare il percorso della strada Assab-Dessié, fu perfino impedito di penetrare, per i loro studî nel territorio etiopico. A questi impedimenti economici si aggiungeva la serie degli atti aggressivi. L'Etiopia si chiudeva deliberatamente alla politica espansiva di pace e di collaborazione dell'Italia. E con questa resistenza veniva a mancare la base, riconosciuta dagli stessi Britannici, di tutto il sistema dei possessi coloniali italiani in Eritrea e in Somalia.
Il tentativo aggressivo abissino di Ual-Ual è del 5 dicembre 1934. Il patto di amicizia italo-etiopico prevedeva per ogni incidente la procedura della conciliazione e dell'arbitrato. L'Italia segue questa via. Ma già il 14 dicembre viene segnalata una mobilitazione etiopica nelle provincie del Harar e dell'Ogaden. Il 19 dicembre in una riunione di ras, convocata dal negus, è deciso all'unanimità, meno due, un attacco etiopico alle colonie italiane. Il giorno dopo s'inizia una nuova parziale mobilitazione etiopica in molte provincie. Alla fine di dicembre si rilevano già i primi schieramenti offensivi etiopici contro le due colonie italiane ancora indifese. È calcolato che 58 mila uomini siano adunati contro i confini della Somalia e 16 mila contro l'Eritrea.
In queste condizioni la procedura di conciliazione e di arbitrato si svolge lenta e si annuncia inutile. Tanto più che si va delineando un'evidente tendenza franco-britannica diretta a evitare l'aperto riconoscimento di una responsabilità etiopica. Il 29 gennaio il governo italiano propone al governo britannico di esaminare la situazione etiopica in vista della sua gravità. Non riceve alcuna risposta. Il quadrumviro generale De Bono, ministro delle Colonie, viene mandato in Eritrea per organizzare la difesa italiana. Tra il 5 e l'11 febbraio è ordinata una prima mobilitazione italiana delle due divisioni "Gavinana" e "Peloritana". Ma la situazione precipita. Nell'aprile risulta che già mezzo milione di armati etiopici è stato mobilitato, mentre solo 30 mila soldati italiani sono arrivati nelle due colonie. Il pericolo delle colonie italiane indifese, a quattro e otto mila chilometri di distanza dalla Penisola, è evidente.
Solo nell'aprile la Gran Bretagna dà segni di interesse per il caso etiopico. In un suo viaggio a Roma, il ministro Eden propone a Mussolini la cessione all'Italia dell'Ogaden, che l'Inghilterra avrebbe compensato all'Etiopia con la cessione del porto di Zeila e di una zona di territorio da questo porto della Somalia Britannica al territorio etiopico. Ma questa proposta è inaccettabile. Il territorio dell'Ogaden è arido, economicamente quasi inutile. Il porto di Zeila, in mani etiopiche, significa per il negus un più libero rifornimento di armi e per l'Italia una più grave minaccia abissina.
Ma è ormai evidente che i governi di Londra e di Parigi sostengono la provocazione etiopica. La commissione arbitrale, raccolta a Parigi e presieduta dal ministro di Grecia a Parigi Nicola Politis, emette un singolare giudizio il quale, mentre afferma ben chiaro che "nessuna responsabilità potrebbe essere imputata al governo italiano e ai suoi agenti sui luoghi", tende però anche ad eliminare, con un fraseggiare evasivo, una responsabilità etiopica, quasi che a Ual-Ual i fucili avessero sparato da soli.
La preparazione militare italiana deve dunque continuare e accelerarsi. Nell'agosto 1935 i ministri degli Esteri britannico e francese concertano a Parigi una nuova proposta di conciliazione per l'Italia: un'assistenza collettiva della Società delle nazioni per lo sviluppo economico e la riorganizzazione collettiva dell'Etiopia, che verrebbe poi affidata alle tre nazioni confinanti - l'Inghilterra, la Francia e l'Italia - e sarebbe infine abbandonata tutta all'Italia. Questa formula ha un solo valore: fornisce la dimostrazione internazionale dell'incapacità dell'Etiopia a svilupparsi e riorganizzarsi con le proprie risorse. Ma altera, a beneficio dell'Inghilterra e della Francia, i principî dei precedenti accordi fra le tre potenze, che riconoscevano le prevalenti posizioni italiane, e non dà al governo italiano alcuna garanzia di un disarmo politico e militare contro gl'interessi italiani. Il governo italiano deve rifiutare. In gran parte della stampa britannica e francese, soprattutto nelle zone democratiche e antifasciste, si è intanto creato un movimento di aperta ostilità all'Italia.
Il 4 settembre il rappresentante italiano presenta alla Società delle nazioni un memoriale sulla situazione etiopica, con la documentazione delle aggressioni abissine, dichiarando che il governo italiano rifiuta di trattare a Ginevra su un piede di eguaglianza con l'Etiopia, la quale si è esclusa volontariamente dalla Società delle nazioni non avendo adempiuto alle condizioni proposte e accettate per il suo ingresso. Il 6 settembre il consiglio della Società delle nazioni decide la nomina di una commissione di cinque membri per l'esame del conflitto italo-etiopico e la ricerca di una formula di soluzione pacifica. Ma nello stesso giorno, con un evidente gesto intimidatorio, il govenno britannico decide una forte concentrazione navale nel Mediterraneo. Il 18 settembre il Comitato dei cinque presenta le sue conclusioni: assistenza collettiva della Società delle nazioni all'Etiopia con l'aggiunta di lievi aggiustamenti territoriali fra l'Italia e l'Etiopia sulla costa, incoraggiati dall'Inghilterra e dalla Francia, e riconoscimento di un preminente interesse italiano nello sviluppo economico dell'Etiopia. Ma anche queste proposte dimenticano deliberatamente il valore sostanziale dei precedenti accordi raggiunti fra l'Italia, la Gran Bretagna e la Francia e non assicurano all'Italia alcuna garanzia contro il ripetersi delle aggressioni etiopiche.
Il 28 settembre è annunciata la mobilitazione generale dell'Etiopia. Un proclama lanciato dal negus dice che: "dopo la vittoria, in ricompensa dei loro servizî al re dei re, saranno dati ai guerrieri l'Eritrea e la Somalia". Non è più tempo di indugi e di dubbî. La minaccia etiopica, incoraggiata dall'attitudine della diplomazia britannica e dal largo movimento inscenato fra i partiti e i giornali di sinistra dell'Europa, impone una pronta azione riparatrice. Il 3 ottobre le truppe italiane, al comando del generale Emilio De Bono, passano il Mareb ed entrano in territorio etiopico.
Questa rapida successione di date ha un valore sostanziale. Essa prova che l'azione italiana si inizia solo quattro giorni dopo la definitiva constatazione del piano offensivo etiopico, rivelato dalla mobilitazione generale, e quindici giorni dopo la dimostrazione dell'attitudine ostile della Società delle nazioni. Il patto Kellogg-Briand, che mette la guerra fuori legge, contiene una riserva fondamentale per il diritto di autoprotezione. Il governo britannico nella sua politica di reazione all'impresa italiana ha negato all'Italia questo diritto, ma lo ha nel medesimo tempo esso stesso esercitato quando con 15 mila uomini ha invaso il territorio delle tribù indipendenti, alquanto agitate, di là dal confine nord-ovest dell'India.
Quattro giorni dopo l'inizio dell'azione italiana si forma a Ginevra, con irregolare procedura, un comitato della Società delle nazioni per giudicare l'azione italiana. Il giorno dopo, su domanda del delegato etiopico, esso condanna l'Italia per violazione del patto societario, senza avere neppure preso in considerazione il memoriale italiano che documenta la lunga politica aggressiva dell'Etiopia e spiega le ragioni italiane. Il 10 ottobre è decisa a Ginevra l'applicazione contro l'Italia dell'articolo 16 del patto, ossia delle sanzioni finanziaria ed economiche che entreranno in vigore il 18 novembre e tendono all'isolamento dell'Italia con il rifiuto di crediti esteri e la chiusura dei mercati alle esportazioni italiane. Una parte di queste sanzioni, quella della sospensione dei crediti, era stata però arbitrariamente già applicata, qualche settimana prima della decisione societaria, da parte della Gran Bretagna, che aveva anche preso l'iniziativa di elaborare in precedenza tutto il calcolo e il meccanismo delle sanzioni.
L'Italia affronta dunque la sua impresa dell'Africa Orientale con due fronti di guerra: l'uno militare contro le masse armate etiopiche e l'altro politico ed economico contro gli stati dichiaratisi sanzionisti - ben 52 - coalizzati dalla politica britannica che prende l'iniziativa del comando e della violenta offensiva.
L'azione militare, preparata dal generale Emilio De Bono nei pochi mesi precedenti l'inizio dell'impresa, con una grandiosa trasformazione dei porti e della struttura stradale dell'Eritrea e della Somalia, si svolge sotto l'alto comando del maresciallo Badoglio che in sette mesi porta le truppe all'occupazione di Addis Abeba nel cuore dell'impero etiopico (v. italo-etiopica, guerra, App.).
Ma se vittoriosa è la guerra militare in territorio africano, non meno fiera è la resistenza nazionale italiana, in Europa e nel mondo, contro l'assalto economico e politico delle nazioni sanzioniste. Non ostante la minacciosa concentrazione della flotta britannica nel Mediterraneo, alla quale il governo di Londra aveva aggiunto segreti patti di collaborazione con la Francia, la Grecia e la Turchia, l'Italia tiene testa, tranquilla e disciplinata, alla nuova tempesta.
L'agricoltura, l'industria e il commercio si prodigano in un nuovo regime di guerra difensiva per resistere all'isolamento economico e sostituire i prodotti stranieri che l'Italia, reagendo alle sanzioni, rifiuta di comperare nei mercati dei paesi sanzionisti. Tutti i cittadini italiani, e prima la regina, offrono, come un simbolo, gli anelli d'oro della loro "fede" all'erario. E le sanzioni, che nei calcoli britannici avrebbero dovuto esaurire la resistenza economica e finanziaria d'Italia in pochi mesi, rivelano il loro fallimento. La sera del 9 maggio 1936 Mussolini adunando per la terza volta, nel corso dei sette mesi guerrieri, i cittadini a Piazza Venezia e parlando di là a tutti gl'Italiani e al mondo, annuncia la resurrezione dell'Italia imperiale. Il Gran Consiglio del fascismo, adunato a Palazzo Venezia, ha approvato un decreto con il quale i territorî e le genti che appartenevano all'impero di Etiopia vengono posti sotto la sovranità piena ed intera del regno d'Italia e il titolo di imperatore di Etiopia è assunto per sé e per i suoi successori dal re d'Italia.
Mussolini annuncia pure che l'Italia "vuole la pace" per sé e per tutti. E però questa grande parola, che solleva l'unità e la fierezza nazionale di tutti gl'Italiani, non è raccolta a Parigi e tanto meno a Londra. Le sanzioni sono abbandonate, ma una vasta corrente si è creata con calcolati artifici nelle opinioni pubbliche per muovere i popoli contro l'Italia, accusata, per la sua impresa coloniale d'Africa, di minaccia aggressiva a tutta l'Europa. Protetti da questa corrente, i governi di Londra e di Parigi sospingono la politica dei grandi armamenti, che fanno approvare anche dai partiti delle sinistre già antimilitariste, e rifiutano il riconoscimento del fatto compiuto nell'Africa Orientale, del nuovo Impero italiano, pretendendo che esso possa solo avvenire per una decisione collettiva della Società delle nazioni. E l'Italia, mentre provvede a organizzare rapidamente la nuova e grande conquista, per farne la base utile e protetta di un largo sbocco demografico ed economico nazionale, deve dunque ancora sostenere in Europa una vivace politica di carattere quasi polemico che prende anche gli aspetti di una lotta di ideologie fra il fascismo, chiamato regime autoritario, e le democrazie.
La linea della politica estera italiana è precisa e ferma. In più occasioni, dopo la conquista dell'impero, Mussolini dichiara il sincero desiderio dell'Italia di un chiarimento dei rapporti con la Gran Bretagna e gli altri paesi già sanzionisti. Il nuovo ministro degli Affari esteri, conte Galeazzo Ciano, con uno dei suoi primi atti fa pervenire il 30 giugno 1936 al presidente delll'Assemblea della Società delle nazioni una lunga nota di 7 punti con la quale, dopo avere illustrato le varie fasi del conflitto diplomatico creato attorno al caso etiopico, spiega le posizioni italiane e riconferma il desiderio italiano di una "leale ed effettiva comprensione fra gli stati" indicando la possibilità di una pacificazione generale con il realistico riconoscimento dei fatti compiuti. Ma le enunciazioni di Mussolini e la nota del suo ministro non hanno seguito.
Nei primi giorni del luglio 1936 la situazione politica, che si era venuta creando in Spagna per la lotta dei partiti dopo il ritiro del re, precipita in un conflitto armato. Il governo repubblicano, sempre più influenzato dalle correnti estremiste, provoca la reazione delle forze nazionali che, dopo una serie di falliti tentativi, esplode in un movimento armato capitanato dal generale Franco. Questo conflitto minaccia, per i suoi profondi caratteri, un perturbamento europeo. Il governo francese prende l'iniziativa di un impegno europeo per il non intervento negli affari spagnoli. La risposta del governo italiano è immediata e precisa. Esso dichiara la piena adesione ma domanda che il non intervento sia integrale, ossia non si limiti alle sole astensioni ufficiali dei governi ma si estenda al divieto delle esportazioni e al transito delle armi e munizioni, dell'arruolamento dei volontarî e della raccolta di fondi per l'una o l'altra parte. Però questa tempestiva richiesta non è accettata. La Francia e la Russia, ritenendo che nella guerra civile della Spagna siano impegnati anche interessi generali della democrazia e dei sovieti e sia possibile svolgere un'azione armata dimostrativa contro il fascismo, iniziano un largo rifornimento di armi, munizioni e uomini a favore del governo repubblicano provocando, per il necessario equilibrio e per la giusta reazione alla dichiarata manovra antifascista, qualche mese dopo, un successivo movimento di aiuti italiani, germanici e portoghesi alle forze nazionali spagnole. Il conflitto spagnolo diviene in tal modo una nuova ragione di controversia politica fra le grandi potenze e soprattutto fra l'Italia e la Germania da un lato, e dall'altro la Gran Bretagna e la Francia che figurano di vedere nell'atteggiamento italiano un'iniziativa diretta a sovvertire il sistema politico del Mediterraneo.
Questo conflitto fra le grandi potenze occidentali accelera il processo di un più intimo riavvicinamento politico fra l'Italia e la Germania. Già durante l'impresa etiopica la Ge mania, come l'Austria e l'Ungheria, aveva rifiutato, nonostante le contrarie pressioni, di partecipare alla politica delle sanzioni. E questo leale atteggiamento, insieme al riconoscimento delle affinità fra le ideologie politiche dei due regimi e della comunità di molti generali problemi internazionali, diviene la premessa naturale di una nuova e formale intesa fra i governi di Berlino e di Roma.
Il 23 ottobre il ministro degli Esteri Ciano firma a Berlino con il ministro degli Affari esteri del Terzo Reich, una serie di protocolli politici di larga portata che definiscono, sul piano di una stabile collaborazione, i rapporti fra l'Italia e la Germania e prevedono l'impegno della consultazione dei due governi nei grandi problemi europei e mondiali di comune interesse, la collaborazione nell'Europa danubiana ai fini della pace, il comune atteggiamento nel problema spagnolo per il quale è stabilito il riconoscimento del governo del generale Franco, la cooperazione economica e il principio di una lotta associata contro il comunismo. L'accordo, che Mussolini definirà l'"Asse Roma-Berlino", getta le basi di un nuovo sistema di ricostruzione politica europea. Il 24 ottobre il Führer e cancelliere del Reich, Adolfo Hitler, ricevendo nella sua residenza di Berchtesgaden il conte Ciano, gli comunica che il governo del Reich ha proceduto al formale riconoscimento dell'impero italiano di Etiopia.
Un nuovo indirizzo, nettamente individuato, viene così segnato nella politica estera italiana. Ma esso non vuol significare un isolamento dell'Italia dalla politica di collaborazione con le altre potenze. In un grande discorso del 2 novembre al popolo di Milano, Mussolini, riconfermando l'importanza vitale della nuova "verticale Roma-Berlino", lancia alla Francia, all'Inghilterra e alla Iugoslavia l'invito a una chiarificazione dei loro rapporti politici.
L'invito sembra accolto anzitutto dalla Gran Bretagna. Nelle conversazioni diplomatiche seguite fra Roma e Londra, il problema mediterraneo trova una sua prima definizione in una dichiarazione, firmata il 2 gennaio 1937 a Roma, con la quale i due governi, italiano e britannico, si scambiano delle assicurazioni relative al reciproco rispetto dell'attuale statu quo mediterraneo. Può sembrare che un nuovo tempo più sereno cominci nei rapporti fra l'Italia e la Gran Bretagna. Ma presto l'orizzonte di nuovo si oscura per il risorgere di dominanti correnti britanniche, influenzate dalle sinistre e concentrate nell'indirizzo politico del ministro degli Esteri Eden, che, rifiutando il riconoscimento dell'Impero, tendono con misteriosi fini a cristallizzare le loro posizioni ostili.
Più favorevoli e rettilinei si sviluppano invece i rapporti fra l'Italia e la Iugoslavia. Questi rapporti, già definiti con un promettente patto di amicizia e di conciliazione nel 1925, si erano andati oscurando negli anni successivi in conseguenza di una ripresa di attività delle organizzazioni irredentiste, create sul territorio iugoslavo ai confini della Venezia Giulia, e dell'ingiustificata diffidenza di Belgrado per la politica svolta dall'Italia nei riguardi dell'Albania, costituita e garantita come stato indipendente. Ma l'esperienza di quasi un decennio di perturbamenti politici nei rapporti fra l'Italia e la Iugoslavia porta al riconoscimento della necessità di restaurare fra loro la buona intesa politica ed economica, superando da una parte e dall'altra le agitazioni irredentiste e ricercando invece i naturali elementi dell'accordo.
Il 25 marzo 1937 il ministro degli Affari esteri, conte Galeazzo Ciano, e il presidente del consiglio iugoslavo, Stojadinović, firmano a Belgrado due accordi, politico e commerciale, che gettano, ingrandite e schiarite, le basi della nuova intesa. L'accordo politico, con una durata di cinque anni, prevede la reciproca neutralità in caso di aggressione non provocata di una delle parti, la consultazione per misure comuni in caso di complicazioni internazionali, l'eliminazione della guerra nel regolamento delle eventuali controversie sorgenti, la soppressione di ogni propaganda ostile sui territorî nazionali. L'accordo commerciale crea la base preliminare di una più larga collaborazione economica che potrà assumere la forma di un accordo regionale più stretto. La firma di questi accordi, che riporta la pace nell'Adriatico e sui confini della Venezia Giulia e crea un nuovo punto di chiarificazione nell'Europa danubiana e balcanica, è salutata con eguale cordialità in Italia e in Iugoslavia. Maturata in tempi più propizî essa porta presto a una fiduciosa collaborazione. E di tale felice sviluppo ha fornito la prova la calorosa accoglienza fatta al capo del governo iugoslavo, Stojadinović, venuto a Roma nel dicembre 1937 per incontrarsi con Mussolini.
La collaborazione politica fra l'Italia e la Germania, ricostituita con le affinità delle ideologie e dei grandi compiti da svolgere per la difesa associata dei comuni interessi e per una migliore ricostruzione europea, diviene nell'anno 1937 il fatto politico fondamentale dell'Europa. Contro di essa si muovono, con ripetuti e sempre vani tentativi di dissociazione, le diplomazie dei grandi paesi democratici ma ad essa si vanno accostando molti stati minori d'Europa i quali sentono il pericolo dell'ora e cercano nelle forze dell'ordine, rivelate dalle due grandi potenze, quella garanzia generale della pace che la Società delle nazioni e le democrazie, sovvertite dalle infiltrazioni comuniste non possono più assicurare.
È in questo orientamento nuovo dell'Europa che Mussolini varca i confini per incontrarsi a Monaco e a Berlino col capo della rivoluzione nazionalsocialista e del Terzo Reich, Adolfo Hitler. La sera del 28 settembre i capi delle due rivoluzioni, in una gigantesca adunata di popolo al Maifeld, sui margini di Berlino, lanciano ancora una volta all'Europa la grande parola della pace. Adolfo Hitler esalta l'incontro il quale "non è una delle solite riunioni ma una dimostrazione del fatto che 115 milioni di uomini sono animati dallo stesso ideale" e Mussolini, dopo aver riconfermato la solidarietà degli spiriti e dell'azione politica fra l'Italia e la Germania, afferma che le due nazioni "vogliono la pace e sono sempre pronte a lavorare per la pace, per la pace vera e feconda che non ignora ma risolve i problemi della convivenza fra i popoli".
Ma anche questo solenne invito alla pace cade senza eco.
Gli sviluppi della guerra civile di Spagna, nella quale si rivelano manifesti gli indirizzi e gli interventi della Russia sovietica e delle correnti politiche di sinistra della Francia, prospettano sempre più evidente l'oscura minaccia del comunismo che dalla Russia tende a propagarsi in tutto il mondo civile. Gli avvenimenti di Spagna erano stati infatti preveduti e perciò preparati nel loro corso, precipitante verso la rivoluzione rossa, in un congresso del Komintern, il comitato centrale dell'Internazionale comunista, che ha la sua sede a Mosca. D'altra parte il movimento comunista, associato alle varie democrazie, che gli riconoscono un diritto di cittadinanza per mediocri interessi di coalizione elettorale o governativa e per l'opposizione ai movimenti fascisti, si rivelava sempre più avviato a una lotta aperta contro i regimi "autoritarî" e contro gli ordinati sistemi dei rapporti internazionali. Di fronte a questi fatti, che pongono il problema della conservazione della stessa civiltà europea e mondiale, l'Italia e la Germania, perfezionando l'intesa anticomunista già formulata nei protocolli di Berlino, firmano a Roma, insieme col Giappone, il 6 novembre 1937, un patto tripartito anticomunista, con il quale i tre stati convengono di tenersi reciprocamente informati sulle attività dell'Internazionale comunista, di concertare le necessarie misure di difesa e di cooperare strettamente per metterle in atto.
Questo patto importante, che supera la consueta sfera degli strumenti diplomatici per elevarsi a superiori visioni e compiti di interesse civile, rappresenta anche un nuovo accostamento formale dei tre più grandi regimi "autoritarî" del mondo ed estende, in forme nuove, la presenza dell'Italia fino al Pacifico, allargando le basi della sua politica estera già profondamente consolidata, dopo la conquista dell'Impero, sul Mar Rosso e sull'Oceano Indiano con naturali irradiazioni verso l'Oriente. Poche settimane dopo l'Italia riconosce il nuovo impero del Man-chu kwo, costituito in seguito all'intervento delle armi giapponesi in Cina nel 1931, e nel giugno 1938 conclude con esso e con il Giappone un largo trattato commerciale.
La situazione europea, dominata dai latenti o aperti conflitti fra la Gran Bretagna e la Francia da una parte e l'Italia e la Germania dall'altra e aggravata dagli sviluppi internazionali della guerra civile di Spagna e dalla nuova nefasta lotta di ideologie politiche iniziata dalle correnti democratiche, non dà sul finire dell'anno 1937 alcun segno di schiarimento. I governi britannico e francese continuano a rifiutare il riconoscimento dell'Impero italiano: condizione preliminare posta dall'Italia per ogni politica di collaborazione. Tentano anzi di soffocare e divergere i movimenti, sempre più numerosi, che si manifestano in molti dei paesi già sanzionisti per questo riconoscimento e per la restaurazione di normali rapporti diplomatici e politici con l'Italia.
Di fronte a tale confusione, creata dai diversi atteggiamenti e dai diversi linguaggi, l'Italia prende la decisione di abbandonare definitivamente la Società delle nazioni dalla quale era già di fatto rimasta assente dal giorno dell'iniquo verdetto sulle sanzioni. La decisione è annunciata da Mussolini la sera dell'11 dicembre in una quarta adunata del popolo a Piazza Venezia. Ed è accolta con irrefrenabili manifestazioni di consenso dalla grande folla dei cittadini. Subito dopo il governo germanico conferma, con un'esplicita dichiarazione, il suo proposito di non riprendere mai più i già rotti rapporti con Ginevra. Da questo momento s'inizia la fatale decadenza della Società delle nazioni, insorta contro l'Italia per la difesa dell'ultimo stato schiavista del mondo.
L'anno 1937 si chiude così con un'affermazione di chiarezza e di potenza della politica estera italiana che si separa risolutamente dagli utopistici e insidiosi indirizzi delle intese universalistiche gabellate per assicurazioni collettive della pace, e ritorna al più realistico sistema, sempre affermato da Mussolini, dei patti bilaterali e delle dirette chiarificazioni dei rapporti fra i singoli stati.
Non meno espressivo, per la politica estera italiana, è l'inizio del 1938. Nuovi problemi di vasto significato europeo si aprono. Nuove prove sono domandate e date dalla fermezza degl'indirizzi italiani. Mentre l'Europa continua ad essere divisa e in conflitto per il corso della guerra civile di Spagna e le fatali deviazioni delle correnti democratiche, influenzate dalle infiltrazioni comuniste, e trascinate ad una più aperta lotta delle ideologie politiche, precipita verso la sua conclusione il movimento dell'unificazione poliiica fra la Germania e l'Austria.
Con la pronta adesione italiana al grande evento internazionale (v. austria: Storia, App.) si eleva il tono dell'amicizia politica fra l'Italia e la Germania. Quando nel maggio il Führer cancelliere, Adolfo Hitler, accompagnato dalle più alte personalità del governo e del partito del Reich, viene in Italia, per restituire la visita di Mussolini in Germania, trova in tutta l'Italia una pronta e cordiale accoglienza. Il patto italo-germanico è ancora una volta riconsacrato dalla solidarietà delle masse che ne hanno compreso il profondo valore politico e la grande importanza storica. La sera dell'8 maggio, rispondendo a un brindisi di Mussolini, Adolfo Hitler dichiara ancora in un suo solenne discorso: "È mia incrollabile volontà ed è anche mio testamento politico al popolo tedesco che consideri intangibile per sempre la frontiera delle Alpi eretta tra noi dalla natura".
Questa unione politica di centoventi milioni di uomini, creata dal patto italo-germanico, si conferma dunque nel 1938 come la più stabile e chiara costruzione internazionale costituita in Europa per la difesa associata dei diritti delle nazioni che vi partecipano e per l'equilibrio delle grandi forze europee dominanti.
Mentre così si perfeziona e si cristallizza, nell'agitata prova degli eventi, la solidarietà italo-germanica, un nuovo indirizzo si viene profilando nella politica britannica. Il 31 luglio 1937, il primo ministro britannico Neville Chamberlain, da poco tempo succeduto a Baldwin, aveva inviato una lettera autografa a Mussolini invitandolo a considerare il problema di una chiarificazione dei rapporti italo-britannici e di un ritorno alla collaborazione. A questo invito Mussolini aveva risposto con pronta e cordiale adesione. E da tale data si svolgono con diverso ritmo e con pause alternate, create dalle contrastanti vicende europee, gli scambî di vedute fra il ministro degli Affari esteri d'Italia, conte Galeazzo Ciano, e l'ambasciatore di Gran Bretagna a Roma, Lord Perth. Ma un più regolare sistema di negoziati s'inizia dopo il 21 febbraio 1938, quando il ministro Eden, il quale non pago di aver diretto la politica del sanzionismo contro l'Italia durante l'impresa etiopica tendeva a capeggiare le più accese correnti britanniche dell'antifascismo, abbandona la direzione degli Affari esteri in seguito a un dissenso con il primo ministro britannico, provocato appunto dal problema dei negoziati fra l'Italia e la Gran Bretagna. La politica estera britannica, più direttamente influenzata dallo spirito realistico di Chamberlain, riprende l'indirizzo da lui tracciato con la sua lettera a Mussolini del 31 luglio 1937. Un primo colloquio romano fra il ministro Ciano e Lord Perth del 9 marzo avvia su un concreto piano i negoziati che si concludono, alla presenza di Mussolini, il 14 aprile in un colloquio finale svolto a Palazzo Venezia.
Nel pomeriggio del 16 aprile, è firmato a Roma il definitivo e complesso testo dell'accordo italo-britannico. Il patto, costituito da un protocollo e da otto accordi e dichiarazioni allegate e da uno scambio di note, è un sistema d'intese politiche di carattere veramente imperiale. Esso si profila assai più largo di respiro e di funzioni del primo gentlemen's agreement del 2 gennaio 1937 e sembra gettare le basi di una nuova collaborazione politica fra l'Italia e la Gran Bretagna non più soltanto nel Mediterraneo ma anche nel Mar Rosso, consacrando la nuova posizione imperiale raggiunta dall'Italia con la conquista dell'Etiopia.
Con il nuovo sistema di accordi, i due governi, mentre riconfermano i reciproci impegni del rispetto per l'intangibilità delle condizioni territoriali, politiche e militari esistenti nel Mediterraneo, con particolare ma non esclusivo riguardo alla Spagna, si assicurano la prima condizione dell'equilibrio delle forze promettendosi lo scambio delle informazioni sulle forze militari e sull'apprestamento delle basi navali e aeree nel Mediterraneo e nel Mar Rosso e nei territorî dei confinanti possessi imperiali. Ma reciproci impegni si assumono anche i due imperi per il rispetto dell'indipendenza politica e dell'integrità territoriale dei due grandi stati arabi della costa orientale del Mar Rosso, l'Arabia Saudita e lo Yemen, che occupano i due terzi della vasta Penisola Arabica e, fronteggiando l'impero italiano, sono chiamati a sviluppare naturali e pacifici rapporti di collaborazione economica con l'Italia. Con tale indirizzo gli accordi di Roma escludono qualsiasi tentativo di concorrente penetrazione o di privilegio delle due potenze europee nella Penisola Arabica e vi creano invece un equilibrio di diritti e di posizioni. Anche sulle isole del Mar Rosso, sulle quali è cessata la sovranità turca in conseguenza dell'articolo 16 del trattato di pace di Losanna del 1923, sono definiti con perfetto equilibrio gl'interessi e le influenze delle due potenze con la ripartizione dei funzionarî e dei fanalisti presenti.
Ma un completo chiarimento, almeno di principio, è anche raggiunto nella definizione dei diritti e delle posizioni italiane nel territorio etiopico. Senza pregiudizio della piena, incondizionata, esclusiva e totalitaria sovranità italiana, la questione del Lago Tana è riportata ai suoi termini naturali, già definiti fin dal 1925 con lo scambio di lettere Mussolini-Graham secondo le quali le acque del lago non saranno alterate nel loro regime di corso naturale verso il Nilo.
Il problema dell'impiego militare degl'indigeni dell'Africa Orientale Italiana, già proposto nella nota che il ministro Ciano aveva inviato a Ginevra sin dal 29 giugno 1936, è definito nel senso che l'Italia aderisce al principio che i militi indigeni siano riservati soltanto ai compiti della difesa locale e della polizia: principio che sarà di fatto applicato dal governo di Roma, naturalmente solo quando lo applicheranno in eguale misura tutti gli altri stati. Infine, lasciando a successivi accordi il compito di definire i rapporti fra il territorio dell'Africa Orientale Italiana e i círcostanti territorî britannici, è riconfermata la garanzia, già consacrata con il trattato del 1888, della libertà della navigazione attraverso il Canale di Suez in pace e in guerra.
L'attuazione di questo sistema di accordi del 16 aprile è condizionata a due fatti contingenti e non ancora realizzati nel giorno della firma: il riconoscimento britannico dell'Impero italiano e il ritiro delle forze italiane dalla Spagna. Queste due condizioni si rivelano lente a venire. Subito dopo la firma dell'accordo italo-britannico il governo francese tenta di iniziare con l'Italia i negoziati per la conclusione di un accordo italo-francese, ispirato agli stessi principî. Ma, impegnato nella guerra civile di Spagna, con un sempre più aperto intervento a favore del movimento rosso, la sua posizione appare ben diversa da quella britannica e non può conciliarsi con l'indirizzo della politica italiana rivolta risolutamente in favore della vittoria delle forze nazionali spagnole, condizione di una vera indipendenza politica della Spagna e di un sicuro equilibrio di forze nel Mediterraneo. Le conversazioni diplomatiche italo-francesi, iniziate a Roma da un incaricato di affari di Francia, in assenza dell'ambasciatore richiamato e non più sostituito per il mancato riconoscimento francese dell'Impero italiano, si svolgono dunque incerte rivelandosi ben presto incapaci di vitalità.
Per iniziativa del governo britannico, dopo la firma degli accordi italo-britannici, il consiglio della Società delle nazioni, nella sua riunione di maggio, è chiamato a esaminare lo stato di fatto creato in Etiopia e decide di lasciare piena libertà di decisione circa il riconoscimento formale del nuovo Impero italiano. Questa iniziativa britannica è presa d'accordo con il governo francese il quale la sostiene anche a Ginevra. Ma, riconosciuta in seguito l'impossibilità di arrivare ad un sollecito accordo con l'Italia, è ancora il governo francese, con le sue iniziative e i suoi varî mezzi di propaganda e di azione, che interviene per tentare di trattenere il governo britannico dall'applicazione dell'accordo con l'Italia, ritardando il suo riconoscimento dell'Impero, e sommuovendo i partiti britannici antifascisti contro la politica di riavvicinamento con l'Italia così risolutamente definita da Chamberlain. Nello stesso tempo le correnti francesi creano nuovi punti di complicazione nel problema spagnolo per impedire o almeno per ritardare quel ritiro di tutte le forze straniere presenti nella guerra civile di Spagna, che è anch'esso preveduto nell'accordo italo-britannico.
Ma, sostenuta da una robusta forza armata, sostenuta sopra tutto dalla disciplina e dal lavoro della nazione stretta intorno al suo Capo, la politica estera italiana fronteggia con serenità questi tentativi del disordine, mentre riprende sempre più dominante in Europa e nel mondo la sua forza equilibratrice e la sua vigilanza per la difesa degl'interessi nazionali e imperiali in uno dei più oscuri momenti dell'ultimo ventennio.
Legislature del Parlamento del regno di Sardegna e del regno d'Italia.
1. (8 maggio-30 dicembre 1848). - Senato. Presidente: Coller Gaspare; vicepresidenti: Brignole-Sale Antonio, Manno Giuseppe, Alfieri di Sostegno Cesare. - Camera. Presidente: Gioberti Vincenzo; vicepresidenti: Merlo Felice, De Marchi Gaetano, Durando Giacomo.
2. (1° febbraio-30 marzo 1849). - Senato. Presidente: Manno Giuseppe; vicepresidenti: Alfieri di Sostegno Cesare, Plezza Giacomo. - Camera. Presidente: Pareto Lorenzo; vicepresidenti: Bunico Benedetto, Depretis Agostino.
3. (30 luglio-20 novembre 1849). - Senato. Presidente: Manno Giuseppe; vicepresidenti: Alfieri di Sostegno Cesare, Plezza Giacomo. - Camera. Presidente: Pareto Lorenzo; vicepresidenti: Bunico Benedetto, Depretis Agostino.
4. (20 dicembre 1849-20 novembre 1853). - Senato. Presidente: Manno Giuseppe; vicepresidenti: Alfieri di Sostegno Cesare, Plezza Giacomo. - Camera. Presidente: Pinelli Pier Dionigi (morto il 25 aprile 1852), Rattazzi Urbano (nominato ministro guardasigilli il 27 ottobre 1853), Bon-Compagni Carlo; vicepresidenti: De Marchi Gaetano, Palluel Ferdinando, Benso Gaspare, Rattazzi Urbano, Bon-Compagni Carlo, Dabormida Giuseppe, Lanza Giovanni.
5. (19 dicembre 1853-25 ottobre 1857). - Sfnato. Presidenti: Manno Giuseppe, Alfieri di Sostegno Cesare (dal 12 novembre 1855); vicepresidenti: Alfieri di Sostegno Cesare, Plezza Giacomo, Des Ambrois de Névache Luigi, Siccardi Giuseppe. - Camera. Presidente: Bon-Compagni Carlo, Cadorna Carlo (dal 7 gennaio 1857); vicepresidenti: Benso Gaspare, Lanza Giovanni, Cadorna Carlo, Moffa di Lisio Guglielmo, Sappa Giuseppe, Tecchio Sebastiano senior.
6. (14 dicembre 1857-21 gennaio 1860). - Senato. Presidente: Alfieri di Sostegno Cesare; vicepresidenti: Des Ambrois de Névache Luigi, Sclopis di Salerano Federico. - Camera. Presidente: Cadorna Carlo, Rattazzi Urbano (dal 10 gennaio 1859); vicepresidenti: Depretis Agostino, Quaglia Zenone, Tecchio Sebastiano senior.
7. (2 aprile-17 dicembre 1860). - Senato. Presidente: Alfieri di Sostegno Cesare; vicepresidenti: Ridolfi Cosimo, Pasolini Giuseppe, Serra Domenico, Casati Gabrio. - Camera. Presidente: Lanza Giovanni; vicepresidenti: Andreucci Ferdinando, Minghetti Marco, Tecchio Sebastiano senior, Malmusi Giuseppe.
8. (18 febbraio 1861-7 settembre 1865). - Senato. Presidente: Settimo Ruggero, Sclopis Federico (25 maggio 1863, dimissionario il 24 ottobre 1864), Manno Giuseppe; vicepresidenti: Sclopis F., Vacca Giuseppe, Marzucchi Celso, Pallavicino Trivulzio Giorgio, Pasolini Giuseppe, Ferrigni Giuseppe, Ridolfi Cosimo, Arese Francesco, Cadorna Carlo. - Camera. Presidente: Rattazzi Urbano (nominato presidente del Consiglio dei ministri il 3 marzo 1862), Tecchio Sebastiano sen., Cassinis Giovanni Battista (dal 25 marzo 1863); vicepresidenti: Tecchio Sebastiano sen., Fardella di Torrearsa Vincenzo, Poerio Carlo, Andreucci Ferdinando, Minghetti Marco, Restelli Francesco, Miglietti Vincenzo, Cantelli Girolamo, La Farina Giuseppe.
9. (18 novembre 1865-13 febbraio 1867). - Senato. Presidente: Casati Gabrio; vicepresidenti: Durando Giacomo, Marzucchi Celso, Vacca Giuseppe, Fardella di Torrearsa Vincenzo, Pasini Ludovico. - Camera. Presidente: Mari Adriano; vicepresidenti: Crispi Francesco, Depretis Agostino, De Luca Francesco, Restelli Francesco, Mordini Antonio, Pisanelli Giuseppe, Ferraris Luigi.
10. (22 marzo 1867-2 novembre 1870). - Senato. Presidente: Casati Gabrio; vicepresidenti: Marzucchi Celso, Cadorna Carlo, Vigliani Paolo Onorato, Pasini Lodovico, D'Afflitto Rodolfo, Castelli Edoardo, Cibrario Luigi. - Camera. Presidente: Mari Adriano (nominato ministro guardasigilli il 27 ottobre 1867), Lanza Giovanni (dimissionario l'8 agosto 1868), Mari Adriano (riel., sino al 14 agosto 1869), Lanza Giovanni (18 novembre-14 dicembre 1869), Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Pisanelli Giuseppe, Restelli Francesco, Cavalli Ferdinando, Coppino Michele, Mordini Antonio, Berti Domenico, Broglio Emilio, Cairoli Benedetto, De Sanctis Francesco.
11. (5 dicembre 1870-20 settembre 1874). - Senato. Presidente: Fardella di Torrearsa Vincenzo; vicepresidenti: Vigliani Paolo Onorato, Marzucchi Celso, D'Afflitto Rodolfo, Mamiani della Rovere Terenzio, Scialoja Antonio senior, Cambray-Digny Guglielmo, Cantelli Girolamo, Serra Francesco Maria, Pallavicini Francesco, Mirabelli Giuseppe, Sauli Francesco, Arese Francesco. - Camera. Presidente: Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Mordini Antonio, Pisanelli Giuseppe, Chiaves Desiderato, Restelli Francesco, Ferracciù Nicolò, Piroli Giuseppe.
12. (23 novembre 1874-3 ottobre 1876). - Senato. Presidente: Des Ambrois de Névache Luigi (morto il 3 dicembre 1874), Pasolini Giuseppe; vicepresidenti: Serra Francesco Maria, Scialoja Antonio senior, Mamiani della Rovere Terenzio, Arese Francesco, Eula Lorenzo, De Filippo Gennaro, Tabarrini Marco, Pallavicini Francesco. - Camera. Presidente: Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Piroli Giuseppe, Barracco Giovanni, Restelli Francesco, Maurogònato Pesaro Isacco, Correnti Cesare, Peruzzi Ubaldino, Mancini Gerolamo, Coppino Michele, Rasponi Gioacchino, Abignente Filippo.
13. (20 novembre 1876-2 maggio 1880). - Senato. Presidente: Tecchio Sebastiano senior; vicepresidenti: Conforti Raffaele, Durando Giacomo, Borgatti Francesco, Poggi Enrico, Saracco Giuseppe, Amari Michele, Caccia Gregorio, Alfieri di Sostegno Carlo. - Camera. Presidente: Crispi Francesco (nominato ministro dell'Interno il 26 dicembre 1877), Cairoli Benedetto (nominato presidente del Consiglio dei ministri il 24 marzo 1878), Farini Domenico (dimissionario il 19 marzo 1880), Coppino Michele; vicepresidenti; De Sanctis Francesco, Spantigati Federico, Puccioni Piero, Maurogònato Pesaro Isacco, Farini Doomenico, Villa Tommaso, Pianciani Luigi, Tajani Diego.
14. (26 maggio 1880-2 ottobre 1882). - Senato. Presidente: Tecchio Sebastiano senior; vicepresidenti: Conforti Raffaele, Bolgatti Francesco, Caccìa Gregorio, Alfieri di Sostegno Carlo. - Camera. Presidente: Farini Domenico; vicepresidenti: Abignente Filippo, Varè Giovanni Battista, Maurogònato Pesaro Isacco, Spantigati Federico.
15. (22 novembre 1882-27 aprile 1886). - Senato. Presidente: Tecchio Sebastiano senior (dimissionario 27 novembre 1884), Durando Giacomo; vicepresidenti; Borgatti Francesco, Caccìa Gregorio, Alfieri di Sostegno Carlo, Caracciolo di Bella Camillo. - Camera. Presidente: Farini Domenico (dimissionario il 12 marzo 1884), Coppino Michele (nominato ministro dell'Istruzione pubblica il 3 aprile 1884), Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Spantigati Federico, Varè Giovanni Battista, Tajani Diego, Di Rudinì Antonio, Pianciani Luigi, Berti Domenico, SolidatiTiburzi Luigi.
16. (10 giugno 1886-22 ottobre 1890). - Senato. Presidente: Durando Giacomo, Farini Domenico (dal 16 novembre 1887); vicepresidenti: Saracco Giuseppe, Tabarrini Marco, Cannizzaro Stanislao, Giannuzzi-Savelli Bernardino, Pessina Enrico, Ghiglieri Francesco. - Camera: Presidente: Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Maurogònato Pesaro Isacco, Mordini Antonio, Buonomo Giuseppe, Villa Tommaso, Di Rudinì Antonio, Miceli Luigi, Baccelli Guido.
17. (10 dicembre 1890-10 ottobre 1892). - Senato. Presidente: Farini Domenico; vicepresidenti: Tabarrini Marco, Cannizzaro Stanislao, Pessina Enrico, Ghiglieri Francesco. - Camera. Presidente: Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Baccelli Guido, Villa Tommaso, Di Rudinì Antonio, Tenani Giovan Battista, Ferracciù Nicolò, Cavalletto Alberto.
18. (23 novembre 1892-8 maggio 1895). - Senato. Presidente e vicepresidenti come nella precedente legislatura. - Camera. Presidente: Zanardelli Giuseppe (dimissionario il 20 febbraio 1894), Biancheri Giuseppe; vicepresidenti: Villa Tommaso, Baccelli Guido, Mussi Giuseppe, Caetani Onorato, Damiani Abele, Mordini Antonio.
19. (10 giugno 1895-3 marzo 1897). - Senato. Presidente e vicepresidenti come nella legislatura 18. - Camera. Presidente: Villa Tommaso; vicepresidenti: Chinaglia Luigi, Finocchiaro-Aprile Camillo, Chimirri Bruno, Bonacci Teodorico.
20. (5 aprile 1897-18 maggio 1900). - Senato. Presidente: Farini Domenico, Saracco Giuseppe (dal 16 novembre 1898); vicepresidenti: Cremona Luigi, Guarneri Andrea, Canonico Tancredi, Villari Pasquale, Cannizzaro Stanislao, Finali Gaspare, Ghiglieri Francesco, Pessina Enrico. - Camera. Presidente: Zanardelli Giuseppe (nominato ministro guardasigilli il 14 dicembre 1897), Biancheri Giuseppe, Zanardelli G. (16 novembre 1898-dimissionario 25. maggio 1899), Chinaglia Luigi, Colombo Giuseppe (14 novembre 1899); vicepresidenti: Chinaglia Luigi, Cappelli Raffaele, Palberti Romualdo, Mussi Giuseppe, De Riseis Giuseppe, Colombo Giuseppe, Gianturco Emanuele, Gallo Niccolò.
21. (16 giugno 1900-18 ottobre 1904). - Senato. Presidente: Saracco Giuseppe; vicepresidenti: Cannizzaro Stanislao, Finali Gaspare, Di Sambuy Ernesto, Santamaria-Nicolini Francesco, Canonico Tancredi, Mezzacapo Carlo. - Camera. Presidente: Gallo Niccolò; Villa Tommaso (dimissionario il 22 febbraio 1902), Bianchieri Giuseppe; vicepresidenti: Palberti Romualdo, De Riseis Giuseppe, Guicciardini Francesco, Marcora Giuseppe, Torrigiani Filippo.
22. (30 novembre 1904-8 febbraio 1909). - Senato. Presidente: Canonico Tancredi (dimissionario il 20 marzo 1908), Manfredi Giuseppe; vicepresidenti: Blaserna Pietro, Codronchi-Argeli Giovanni, Paternò di Sessa Emanuele, Villari Pasquale, Manfredi G., Rattazzi Urbano. - Camera. Presidente: Marcora Giuseppe (dimissionario l'8 marzo 1906), Biancheri Giuseppe (dimissionario il 30 gennaio 1907), Marcora Giuseppe; vicepresidenti: Fortis Alessandro, De Riseis Giuseppe, Gorio Carlo, Torrigiani Filippo, Lacava Pietro, Finocchiaro-Aprile Camillo.
23. (24 marzo 1909-29 settembre 1913). - Senato. Presidente: Manfredi Giuseppe; vicepresidenti: Blaserna Pietro, Paternò di Sessa Emanuele, Rattazzi Urbano, Villari Pasquale, Casana Severino. - Camera. Presidente: Marcora Giuseppe; vicepresidenti: Cappelli Raffaele, Finocchiaro-Aprile Camillo, Guicciardini Francesco, Costa Andrea, Fani Cesare, Sacchi Ettore, Girardi Francesco, Carmine Pietro, Grippo Pasquale.
24. (27 novembre 1913-29 settembre 1919). - Senato. Presidente: Manfredi Giuseppe (morto il 6 novembre 1918), Bonasi Adeodato; vicepresidenti: Blaserna Pietro, Paternò di Sessa Emanuele, Cefaly Antonio, Cavasola Giannetto, Bonasi Adeodato, Colonna Fabrizio, Di Prampero Antonino. - Camera. Presidente: Marcora Giuseppe; vicepresidenti: Carcano Paolo, Grippo Pasquale, Cappelli R., Alessio Giulio, Rava Luigi, Finocchiaro-Aprile C., Arlotta Enrico, Morelli-Gualtierotti Gismondo.
25. (1° dicembre 1919-7 aprile 1921). - Senato. Presidente: Tittoni Tommaso; vicepresidenti: Di Prampero Antonino, Cefaly Antonio, Colonna Fabrizio, Melodia Niccolò, Hortis Attilio, Torrigiani Filippo. - Camera. Presidente: Orlando Vittorio Emaunele (dimissionario il 25 giugno 1920), De Nicola Enrico; vicepresidenti: De Nava Giuseppe, Meda Filippo, Ciuffelli Augusto, Berenini Agostino, Rossi Luigi, Rodinò Giulio, Squitti Baldassarre, Tedesco Francesco.
26. (11 giugno 1921-25 gennaio 1924). - Senato. Presidente: Tittoni Tommaso; vicepresidenti: Melodia Niccolò, Colonna Fabrizio, Torrigiani Filippo, Cefaly Antonio, Perla Raffaele. - Camera. Presidente: De Nicola Enrico; vicepresdenti: Riccio Vincenzo, Gasparotto Luigi, Casalini Giulio, Mauri Angelo, Pietravalle Michele, Tovini Livio, Federzoni Luigi.
27. (24 maggio 1924-21 gennaio 1929). - Senato. Presidente: Tittoni Tommaso; vicepresidenti: Melodia Niccolò, Zupelli Vittorio, Perla Raffaele, Mariotti Giovanni. - Camera. Presidente: Rocco Alfredo (nominato ministro della Giustizia il 5 gennaio 1925), Casertano Antonio; vicepresidenti: Grandi Dino, Giunta Francesco, Gasparotto Luigi, Rodinò Giulio, Paolucci Raffaele, Acerbo Giacomo, Guglielmi Giorgio.
28. (20 aprile 1929-19 gennaio 1934). - Senato. Presidente: Federzoni Luigi; vicepresidenti: Bonin Longare Lelio, Tanari Giuseppe, D'Amelio Mariano, Zupelli Vittorio. - Camera. Presidente: Giuriati Giovanni; vicepresidenti: Acerbo Giacomo, Buttafochi Carlo, Paolucci Raffaele, Bodrero Emilio.
29. (dal 28 aprile 1934). - Senato. Presidente: Federzoni Luigi; vicepresidenti: Lanza di Scalea Pietro, De Capitani d'Arzago Giuseppe, Ferrari Giuseppe Francesco, Guglielmi Giorgio. - Camera. Presidente: Ciano Costanzo; vicepresidenti: Buttafochi Carlo, Paolucci Raffaele, Caradonna Giuseppe.
Elenco dei ministeri del regno di Sardegna e del regno d'Italia dalla proclamazione dello statuto.
La carica di "Presidente del consiglio", fu soppressa il 24 dicembre 1925; in sua vece venne istituita quella di "Capo del governo, primo ministro segretario di stato".
I primi ministeri istituiti furono quelli: 1. dell'interno; 2. degli esteri; 3. di grazia giustizia e culti; 4. delle finanze; 5. della guerra; 6. dell'istruzione pubblica; 7. dei lavori pubblici.
Essi hanno ancora attualmente la stessa denominazione, ad eccezione del Ministero dell'istruzione pubblica, che dal 12 settembre 1929 ha assunto quella di "Ministero dell'educazione nazionale". Il Ministero di grazia, giustizia e culti, che il 16 novembre 1919 assunse la denominazione di Ministero della giustizia e degli affari di culto, il 20 luglio 1932 riprese quella di "grazia e giustizia", e le attribuzioni relative agli affari di culto passarono al Ministero degli interni.
Successivamente furono istituiti i seguenti ministeri: 8. di agricoltura, industria e commercio. Istituito il 22 agosto 1848, soppresso il 26 febbraio 1852, ricostituito il 12 luglio 1860, nuovamente soppresso il 26 dicembre 1877, ricostituito il 30 giugno 1878, diviso nei due ministeri "dell'agricoltura" e "dell'industria, commercio e lavoro" il 22 giugno 1916 (quest'ultimo "Ministero per l'industria e il commercio", dal 3 giugno 1920). Il 5 luglio 1923 i due ministeri anzidetti vennero soppressi e fu istituito il "Ministero dell'economia nazionale", che dal 12 settembre 1929 ha assunto la denominazione di "Ministero dell'agricoltura e delle foreste"; 9. della marina, istituito il 21 gennaio 1860. Fino a quel momento la marina era rimasta alle dipendenze del Ministero della guerra, fuorché dall'11 ottobre 1850 al 29 maggio 1852, durante il qual tempo fu annessa al Ministero dell'agricoltura, e poi a quello delle finanze; 10. del tesoro, istituito il 26 dicembre 1877. Dal 24 marzo 1878 al 29 dicembre 1888 i ministri delle Finanze furono incaricati della reggenza del Ministero del tesoro. Dal 31 dicembre 1922 il Ministero del tesoro si è fuso con quello delle finanze; 11. delle poste e dei telegrafi, istituito il 10 marzo 1889, soppresso il 30 aprile 1924 e sostituito dal "Ministero delle comunicazioni", cui furono aggiunti i servizî del Commissariato della marina mercantile e delle ferrovie dello stato; 12. delle colonie, istituito il 6 luglio 1912; dall'8 agosto 1937 ha assunto la denominazione di "Ministero dell'Africa Italiana"; 13. delle armi e munizioni, istituito il 16 giugno 1917, e trasformato in commissariato generale il 15 settembre 1918; 14. delle armi e trasporti, istituito il 15 settembre e soppresso il 24 novembre 1918; 15. per l'assistenza militare e le pensioni di guerra, istituito il 10 novembre 1917, soppresso il 25 novembre 1919; 16. per gli approvvigionamenti e i consumi alimentari, istituito il 22 maggio 1918, soppresso il 23 giugno 1919 e trasformato in sottosegretariato del Ministero dell'industria, commercio e lavoro; 17. per la ricostituzione delle terre liberate, istituito il 19 gennaio 1919, soppresso il 25 febbraio 1923; 18. del lavoro e della previdenza sociale, istituito il 3 giugno 1920, soppresso il 27 aprile 1923; 19. dell'aeronautica, istituito il 30 agosto 1925; 20. delle corporazioni, istituito il 2 luglio 1926; 21. della stampa e propaganda, istituito il 24 giugno 1935. La sua denominazione è stata cambiata in quella di "Ministero della cultura popolare", il 27 maggio 1937. Nell'elenco che segue, i singoli ministeri sono ricordati secondo l'ordine di precedenza.
1. (16 marzo-27 luglio 1848). - Presidente: Balbo Cesare; interni: Ricci Vincenzo; esteri: Pareto Lorenzo; grazia e giustizia: Sclopis di Salerano Federico Paolo; finanze: Di Revel Ottavio; guerra: Franzini Antonio; istruzione pubblica: Bon-Compagni Carlo; lavori pubblici: Des Ambrois Luigi.
2. (27 luglio-15 agosto 1848). - Presidente: Casati Gabrio; interni: Plezza Giacomo; esteri: Pareto Lorenzo; grazia e giustizia: Gioia Pietro; finanze: Ricci Vincenzo; guerra: Collegno Giacinto; istruzione pubblica: Rattazzi Urbano, Gioberti Vincenzo; lavori pubblici: Paleocapa Pietro; agricoltura: Durini Giuseppe, Rattazzi U.; senza portafoglio: Gioberti Vincenzo, Moffa di Lisio Guglielmo.
3. (15 agosto-16 dicembre 1848). - Presidente: Alfieri di Sostegno Cesare, sostituito (11 ottobre) da Perrone Ettore; interni: Pinelli Pier Dionigi; esteri: Perrone E.; grazia e giustizia: Merlo Felice; finanze: Di Revel Ottavio; guerra: Franzini Antonio, Dabormida Giuseppe, La Marmora Alfonso; istruzione pubblica: Merlo F., Bon-Compagni Carlo; lavori pubblici: Santa Rosa Pietro; agricoltura: Alfieri C. int., santa Rosa P. int., Torelli Luigi; senza portafogli: Colla Federico, Regis Giovanni.
4. (16 dicembre 1848-27 marzo 1849). - Presidente: Gioberti Vincenzo, sostituito (21 febbraio) da Chiodo Agostino; interni: Sineo Riccardo, Rattazzi Urbano; esteri: Gioberti Vincenzo, Chiodo A. int., Colli Vittorio, De Ferrari Domenico; grazia e giustizia: Rattazzi U., Sineo R.; finanze: Ricci Vincenzo; guerra: De Sonnaz Ettore, La Marmora Alfonso, Chiodo A.; istruzione pubblica: Cadorna Carlo; lavori pubblici: Tecchio Sebastiano senior; agricoltura: Buffa Domenico.
5. (27 marzo 1849-21 maggio 1852). - Presidente: De Launay Claudio, sostituito (7 maggio 1849) da D'Azeglio Massimo; interni: Pinelli Pier Dionigi, Galvagno Filippo, Pernati Alessandro; esteri: De Launay C., D'Azeglio Massimo; grazia e giustizia: Cristiani Cesare, De Margherita Luigi, Siccardi Giuseppe, Galvagno F. int., De Foresta Giovanni, Galvagno F.; finanze: Nigra Giovanni, Cavour Camillo; guerra: Dabormida Giuseppe, Della Rocca Enrico, Bava Eusebio, La Marmora Alfonso; istruzione pubblica: Gioberti Vincenzo int, Mameli Cristoforo, Gioia Pietro, Farini Luigi Carlo; lavori pubblici: Galvagno F., Santa Rosa Pietro int., Paleocapa Pietro; agricoltura: Galvagno F., Mathieu Antonio, Santa Rosa P., Galvagno F. int., Cavour C.; senza portafogli: Gioberti Vincenzo.
6. (21 maggio-4 novembre 1852). - Presidente: D'Azeglio Massimo; interni: Pernati Alessandro; esteri: D'Azeglio M.; grazia e giustizia: BonCompagni Carlo; finanze: Cibrario Luigi; guerra: La Marmora Alfonso; istruzione pubblica: Bon-Compagni C. regg.; lavori pubblici: Paleocapa Pietro.
7. (4 novembre 1852-1° maggio 1855). - Presidente: Cavour Camillo; interni: Ponza di San Martino Gustavo, Rattazzi Urbano int.; esteri: Dabormida Giuseppe, Cavour; grazia e giustizia: Bon-Compagni Carlo, Rattazzi Urbano; finanze: Cavour; guerra: La Marmora Alfonso, Durando Giacomo; istruzione pubblica: Cibrario Luigi; lavori pubblici: Paleocapa Pietro.
8. (4 maggio 1855-19 luglio 1859). - Presidente: Cavour Camillo; interni: Rattazzi Urbano, Cavour; esteri: Cavour, Cibrario Luigi, Cavour; grazia e giustizia: De Foresta Giovanni; .finanze: Cavour, Lanza Giovanni; guerra: Durando Giacomo, La Marmora Alfonso; istruzione pubblica: Cibrario Luigi, Lanza G., Cadorna Carlo; lavori pubblici: Paleocapa Pietro, Bona Bartolomeo; senza portafogli: Paleocapa P.
9. (19 luglio 1859-21 gennaio 1860). - Presidente: La Marmora Alfonso; interni: Rattazzi Urbano; esteri: Dabormida Giuseppe; grazia e giustizia: Miglietti Vincenzo; finanze: Oytana Giovanni Battista; guerra: La Marmora Alfonso; istruzione pubblica: Casati Gabrio; lavori pubblici: Monticelli Pietro.
10. (21 gennaio 1860-6 giugno 1861). - Presidente: Cavour Camillo; interni: Cavour regg., Farini Luigi Carlo, Minghetti Marco; esteri: Cavour; grazia e giustizia: Cassinis Giovanni Battista; finanze: Vegezzi Francesco Saverio, Bastogi Pietro; guerra: Fanti Manfredo; marina: Cavour; istruzione pubblica: Mamiani Terenzio, De Sanctis Francesco; lavori pubblici: Jacini Stefano sen., Peruzzi Ubaldino; agricoltura: Corsi Tommaso, Natoli Giuseppe; senza portafogli: Corsi T., Niutta Vincenzo.
(12 giugno 1861-3 marzo 1862). - Presidente: Ricasoli Bettino; interni: Minghetti Marco, Ricasoli B.; esteri: Ricasoli B.; grazia e giustizia:, Miglietti Vincenzo; finanze: Bastogi Pietro; guerra: Ricasoli B. regg., Della Rovere Alessandro; marina: Menabrea Luigi Federico; istruzione pubblica: De Sanctis Francesco; lavori pubblici: Peruzzi Ubaldino; agricoltura: Cordova Filippo.
11. (3 marzo-8 dicembre 1862). - Presidente: Rattazzi Urbano; interni: idem; esteri: idem, Durando Giacomo; grazia e giustizia: Cordova Filippo, Conforti Raffaele; finanze: Sella Quintino; guerra: Petitti Agostino; marina: Persano Carlo; istruzione pubblica: Mancini Pasquale Stanislao; Matteucci Carlo; lavori pubblici: Depretis Agostino; agricoltura: Pepoli Gioacchino; senza portafogli: Poggi Enrico.
12. (8 dicembre 1862-24 marzo 1863). - Presidente: Farini Luigi Carlo; interni: Peruzzi Ubaldino; esteri: Pasolini Giuseppe; grazia e giustizia: Pisanelli Giuseppe; finanze: Minghetti Marco; guerra: Della Rovere Alessandro; marina: Ricci Giovanni; Menabrea Luigi F. int., Di Negro Orazio; istruzione pubblica: Amari Michele; lavori pubblici: Menabrea L. F.; agricoltura: Manna Giovanni.
13. (24 marzo 1863-28 settembre 1864).- Presidente: Minghetti Marco; interni: Peruzzi Ubaldino; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Pisanelli Giuseppe; finanze: Minghetti M.; guerra: Della Rovere Alessandro; marina: Di Negro Orazio, Cugia Efisio; istruzione pubblica: Amari M.; lavori pubblici: Menabrea Luigi F.; agricoltura: Manna G.
14. (28 settembre-31 dicembre 1865). - Presidente: La Marmora Alfonso; interni: Lanza Giovanni, Natoli Giuseppe int., Chiaves Desiderato; esteri: La Marmora A.; grazia e giustizia: Vacca Giuseppe, Cortese Paolo; finanze: Sella Quintino; guerra: Petitti Agostino; marina: La Marmora A. regg., Angioletti Diego; istruzione pubblica: Natoli Giuseppe; lavori pubblici: Jacini Stefano sen.; agricoltura: Torelli Giuseppe.
15. (31 dicembre 1865-20 giugno 1866). - Presidente: La Marmora Alfonso; interni: Chiaves Desiderato; esteri: La Marmora A.; grazia e giustizia: De Falco Giovanni; finanze: Scialoja Antonio sen.; guerra: Di Pettinengo Ignazio; marina: Angioletti Diego; istruzione pubblica: Berti Domenico; lavori pubblici: Jacini Stefano sen.; agricoltura: Berti D. regg.
16. (20 giugno 1866-10 aprile 1867). - Presidente: Ricasoli Bettino; interni: idem; esteri: idem int., Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Borgatti Francesco, Ricasoli B. int., Cordova Filippo regg.; .finanze: Scialoja Antonio sen., Depretis Agostino; guerra: Di Pettinengo Ignazio, Cugia Efisio; marina: Depretis A., Biancheri Giuseppe; istruzione pubblica: Berti Domenico, Correnti Cesare; lavori pubblici: Jacini Stefano sen., De Vincenzi Giuseppe; agricoltura: Cordova F.; senza portafogli: La Marmora Alfonso.
17. (10 aprile-27 ottobre 1867). - Presidente: Rattazzi Urbano; interni: Rattazzi U.; esteri: Di Campello Pompeo; grazia e giustizia: Tecchio Sebastiano sen.; .finanze: Ferrara Francesco, Rattazzi U. regg.; guerra: Di Revel Ignazio; marina: Pescetto Federico; istruzione pubblica: Coppino Michele; lavori pubblici: Giovanola Antonio; agricoltura: De Blasiis Francesco.
18. (27 ottobre 1867-5 gennaio 1868). - Presidente: Menabrea Luigi F.; interni: Gualterio Filippo; esteri: Menabrea L. F.; grazia e giustizia: Mari Adriano; finanze: Cambray-Digny Guglielmo; guerra: Bertolè-Viale Ettore; marina: Menabrea L. F. regg., Provana Pompeo; istruzione pubblica: Broglio Emilio; lavori pubblici: Cantelli Girolamo; agricoltura: Cambray-Digny G. int., Broglio E. regg.
19. (5 gennaio 1868-13 maggio 1869). - Presidente: Menabrea L. F.; interni: Cadorna Carlo, Cantelli Girolamo; esteri: Menabrea L. F.; grazia e giustizia: De Filippo Gennaro; finanze: Cambray-Digny Guglielmo; guerra: Bertolè-Viale Ettore; marina: Riboty Augusto; istruzione pubblica: Broglio Emilio; lavori pubblici: Cantelli G., Pasini Lodovico; agricoltura: Broglio E. regg., Ciccone Antonio.
20. (13 maggio-14 dicembre 1869). - Presidente: Menabrea Luigi F.; interni: Ferraris Luigi, Di Rudinì Antonio; esteri: Menabrea L. F.; grazia e giustizia: De Filippo Gennaro, Pironti Michele, Vigliani Paolo Onorato; finanze: Cambray-Digny Guglielmo; guerra: Bertolè-Viale Ettore; marina: Riboty Augusto; istruzione pubblica: Bargoni Angelo; lavori pubblici: Mordini Antonio; agricoltura: Minghetti Marco.
21. (14 dicembre 1869-10 luglio 1873). - Presidente: Lanza Giovanni; interni: idem; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Raeli Matteo, De Falco Giovanni; finanze: Sella Quintino; guerra: Govone Giuseppe, Ricotti Cesare; marina: Castagnola Stefano regg., Acton Guglielmo, Riboty Augusto; istruzione pubblica: Correnti Cesare, Sella Quintino regg., Scialoja Antonio sen.; lavori pubblici: Gadda Giuseppe, De Vincenzi Giuseppe; agricoltura: Castagnola S.
22. (10 luglio 1873-18 marzo 1876). - Presidente: Minghetti Marco; interni: Cantelli Girolamo; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Vigliani Paolo Onorato; finanze: Minghetti Marco; guerra: Ricotti Cesare; marina: De Saint-Bon Simone Antonio; istruzione pubblica: Scialoja Antonio sen., Cantelli G. regg., Bonghi Ruggero; lavori pubblici: Spaventa Silvio; agricoltura: Finali Gaspare.
23. (25 marzo 1876-25 dicembre 1877). - Presidente: Depretis Agostino; interni: Nicotera Giovanni; esteri: Melegari Luigi; grazia e giustizia: Mancini Pasquale Stanislao; finanze: Depretis A.; guerra: Mezzacapo Luigi; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Coppino Michele; lavori pubblici: Zanardelli Giuseppe, Depretis A., int.; agricoltura: Majorana-Calatabiano Salvatore.
24. (26 dicembre 1877-24 marzo 1878); Presidente: Depretis Agostino; interni: Crispi Francesco, Depretis A. int.; esteri: Depretis A.; grazia e giustizia: Mancini Pasquale Stanislao; finanze: Magliani Agostino; tesoro: Bargoni Angelo; guerra: Mezzacapo Luigi; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Coppino Michele; lavori pubblici: Perez Francesco Paolo.
25. (24 marzo-19 dicembre 1878). - Presidente: Cairoli Benedetto; interni: Zanardelli Giuseppe; esteri: Corti Luigi, Cairoli B.; grazia e giustizia: Conforti Raffaele; finanze: Zeismit-Doda Federico; tesoro: idem regg.; guerra: Bruzzo Giovanni, Bonelli Cesare; marina: Di Brocchetti Enrico, Brin Benedetto; istruzione pubblica: De Sanctis Francesco; lavori pubblici: Baccarini Alfredo; agricoltura: Cairoli B. regg., Pessina Enrico.
26. (19 dicembre 1878-14 luglio 1879). - Presidente: Depretis Agostino; interni: idem; esteri: idem, int.; grazia e giustizia: Tajani Diego; finanze: Magliani A.; tesoro: idem, regg.; guerra: Mazé de la Roche Gustavo; marina: Ferracciù Nicolò; istruzione pubblica: Coppino M.; lavori pubblici: Mezzanotte Camillo; agricoltura: Majorana-Calatabiano Salvatore.
27. (14 luglio-25 novembre 1879). - Presidente: Cairoli Benedetto; interni: Villa Tommaso; esteri: Cairoli B.; grazia e giustizia: Vaiè Giovanni Battista; finanze: Grimaldi Bernardino; tesoro: idem, regg.; guerra: Bonelli Cesare; marina: idem. regg.; istruzione pubblica: Perez Francesco Paolo; lavori pubblici: Baccarini Alfredo; agricoltura: Cairoli B. regg.
28. (25 novembre 1879-29 maggio 1881). - Presidente: Cairoli Benedetto; interni: Depretis Agostino; esteri: Cairoli B.; grazia e giustizia: Villa Tommaso; finanze: Magliani Agostino; tesoro: idem, regg.; guerra: Bonelli Cesare, Milon Bernardino, Ferrero Emilio; marina: Acton Ferdinando; istruzione pubblica: De Sanctis Francesco, Baccelli Guido; lavori pubblici: Baccarini Alfredo; agricoltura: Miceli Luigi.
29. (29 maggio 1881-25 maggio 1883). - Presidente: Depretis Agostino; interni: idem.; esteri: Mancini Pasquale Stanislao; grazia e giustizia: Zanardelli G.; finanze: Magliani A.; tesoro: idem., regg.; guerra: Ferrero Emilio; marina: Acton Ferdinando; istruzione pubblica: Baccelli Guido; lavori pubblici: Baccarini Alfredo; agricoltura: Berti Domenico.
30. (25 maggio 1883-30 marzo 1884). - Presidente: Depretis A.; interni: idem; esteri: Mancini P. S.; grazia e giustizia: Giannuzzi-Savelli Bernardino; finanze: Magliani A.;tesoro: idem, regg.: guerra: Ferrero Emilio; marina: Acton F., Del Santo Andrea; istruzione pubblica: Baccelli G.; lavori pubblici: Genala Francesco; agricoltura: Berti Domenico.
31. (30 marzo 1884-29 giugno 1885). - Presidente: Depretis Agostino; interni: idem; esteri: Mancini Pasquale Stanislao; grazia e giustizia: Ferracciù Nicolò, Pessina Enrico; finanze: Magliani Agostino; tesoro: idem, regg.; guerra: Ferrero Emilio, Ricotti Cesare; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Coppino Michele; lavori pubblici: Genala Francesco; agricoltura: Grimaldi Bernardino.
32. (29 giugno 1885-4 aprile 1887). - Presidente: Depretis Agostino; interni: idem; esteri: idem int., Di Robilant Carlo; grazia e giustizia: Tajani Diego; finanze: Magliani Agostino; tesoro: idem, regg.; guerra: Ricotti Cesare; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Coppino Michele; lavori pubblici: Genala Francesco; agricoltura: Grimaldi Bernardino.
33. (4 aprile-29 luglio 1887). - Presidente: Depretis Agostino; interni: Crispi Francesco; esteri: Depretis A., Crispi F. int.; grazia e giustizia: Zanardelli Giuseppe; finanze: Magliani Agostino; tesoro: idem, regg.; guerra: Bertolè-Viale Ettore; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Coppino Michele; lavori pubblici: Saracco Giuseppe; agricoltura: Grimaldi Bernardino.
34. (7 agosto 1887-9 marzo 1889).- Presidente: Crispi Francesco; interni: idem; esteri: idem, int.; grazia e giustizia: Zanardelli Giuseppe; finanze: Magliani Agostino, Grimaldi Bernardino; tesoro: Magliani int., Perazzi Costantino; guerra: Bertolè-Viale Ettore; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Coppino Michele, Boselli Paolo; lavori pubblici: Saracco Giuseppe; agricoltura: Grimaldi B., Miceli Luigi.
35. (9 marzo 1889-6 febbraio 1891). - Presidente: Crispi Francesco; interni: idem; esteri: idem, int.; grazia e giustizia: Zanardelli Giuseppe; finanze: Seismit-Doda Federico, Giolitti Giovanni int., Grimaldi Bernardino; tesoro: Giolitti G. (dimiss. 9 dicembre 1890), Grimaldi B.,int.; guerra: Bertolè-Viale Ettore; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Boselli Paolo; lavori pubblici: Finali Gaspare; agricoltura: Miceli Luigi; poste e telegrafi: Lacava Pietro.
36. (6 febbraio 1891-15 maggio 1891). - Presidenti: Di Rudinì Antonio; interni: Nicotera Giovanni; esteri: Di Rudinì A.; grazia e giustizia: Ferraris Luigi (dimissionario il 31 dicembre 1891), Chimirri Bruno; finanze: Colombo Giuseppe (dimissionario il 4 maggio 1892), Luzzatti Luigi int.; tesoro: Luzzatti L.; guerra: Pelloux Luigi; marina: Di Rudinì A. int., De Saint Bon Simone Antonio; istruzione pubblica: Villari Pasquale; lavori pubblici: Branca Ascanio; agricoltura: Chimirri B., Di Rudinì A. int.; poste e telegrafi: Branca A. int.
37. (15 maggio 1892-28 novembre 1893).- Presidente: Giolitti Giovanni; interni: idem; esteri: Brin Benedetto; grazia e giustizia: Bonacci Teodorico (dimissionario il 24 maggio 1893), Eula Lorenzo (morto il 5 luglio 1893), Santamaria-Nicolini Francesco (dimissionario il 27 settembre 1893), Armò Giacomo; finanze: Ellena Vittorio (dimissionario il 7 luglio 1892), Grimaldi Bernardino int., Gagliardo Lazzaro; tesoro: Giolitti G. int., Grimaldi B.; guerra: Pelloux Luigi; marina: De Saint-Bon Simone Antonio (morto il 26 novembre 1892), Brin B. int., Racchia Carlo Alberto; istruzione pubblica: Martini Ferdinando; lavori pubblici: Genala Francesco, Giolitti G. int.; agricoltura: Lacava Pietro; poste e telegrafi: Finocchiaro-Aprile Camillo.
38. (15 dicembre 1893-14 giugno 1894). - Presidente: Crispi Francesco; interni: idem; esteri: Blanc Alberto; grazia e giustizia: Calenda di Tavani Vincenzo; finanze: Sonnino Sidney; tesoro: idem, int.; guerra: Mocenni Stanislao; marina: Morin Enrico Costantino; istruzione pubblica: Baccelli Guido; lavori pubblici: Saracco Giuseppe; agricoltura: Boselli Paolo; poste e telegrafi: Ferraris Luigi.
39 (14 giugno 1894-5 marzo 1896). - Presidente: Crispi Francesco; interni: idem; esteri: Blanc Uberto; grazia e giustizia: Calenda di Tavani Vincenzo; finanze: Boselli Paolo; tesoro: Sonnino Sidney; guerra: Mocenni Stanislao; marina: Morin Enrico Costantino; istruzione pubblica: Baccelli Guido; lavori pubblici: Saracco Giuseppe; agricoltura: Barazzuoli Augusto; poste e telegrafi: Ferraris Luigi.
40. (10 marzo-11 luglio 1896). - Presidente: Di Rudinì Antonio; interni: idem; esteri: Caetani Onorato; grazia e giustizia: Costa Giacomo Giuseppe; finanze: Branca Ascanio; tesoro: Colombo Giuseppe; guerra: Ricotti Cesare; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Gianturco Emanuele; lavori pubblici: Perazzi Costantino; agricoltura: Guicciardini Francesco; poste e telegrafi: Carmine Pietro; senza portafogli: Codronchi Giovanni, commissario civile per la Sicilia.
41. (11 luglio 1896-14 dicembre 1897). - Presidente: Di Rudinì Antonio; interni: idem; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Costa Giacomo Giuseppe (morto il 15 agosto 1897), Di Rudinì A., int., Gianturco Emanuele; finanze: Branca Ascanio; tesoro: Luzzatti Luigi; guerra: Pelloux Luigi; marina: Brin Benedetto; istruzione pubblica: Gianturco E., Codronchi G. (fino al 18 settembre 1897); lavori pubblici: Prinetti Giulio; agricoltura: Guicciardini Francesco; poste e telegrafi: Sineo Emilio; senza portafogli: Codronchi G. (fino al 18 settembre 1897), commissario civile per la Sicilia.
42. (14 dicembre 1897-1° giugno 1898). - Presidente: Di Rudinì Antonio; interni: idem; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Zanardelli Giuseppe; finanze: Branca Ascanio; tesoro: Luzzatti Luigi; guerra: Di San Marzano Alessandro; marina: Brin Benedetto (morto il 24 maggio 1898), Di San Marzano A., int.; istruzione pubblica: Gallo Niccolò; lavori pubblici: Pavoncelli Giuseppe; agricoltura: Cocco-Ortu Francesco; poste e telegrafi: Sineo Emilio (morto il 26 febbraio 1898), Luzzatti Luigi, int..
43. (1°-26 giugno 1898). - Presidente: Di Rudinì Antonio; interni: idem; esteri: Cappelli Raffaele; grazia e giustizia: Bonacci Teodorico; finanze: Branca Ascanio; tesoro: Luzzatti Luigi; guerra: Di San Marzano Alessandro; marina: Canevaro Felice; istruzione pubblica: Cremona Luigi; lavori pubblici: Afan de Rivera Achille; agricoltura: Di Rudinì A. int.; poste e telegrafi: Frola Secondo.
44. (29 giugno 1898-14 maggio 1899). - Presidente: Pelloux Luigi; interni: idem; esteri: Canevaro Felice; grazia e giustizia: Finocchiaro-Aprile Camillo; finanze: Carcano Paolo; tesoro: Vacchelli Pietro; guerra: Di San Marzano Alessandro; marina: Palumbo Giuseppe; istruzione pubblica: Baccelli Guido; lavori pubblici: Lacava Pietro; agricoltura: Fortis Alessandro; poste e telegrafi: Nasi Nunzio.
45. (14 maggio 1899-24 giugno 1900). - Presideme: Pelloux Luigi; interni: idem; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Bonasi Adeodato; finanze: Carmine Pietro; tesoro: Boselli Paolo; guerra: Mirri Giuseppe (dimissionario il 7 gennaio 1900), Pelloux L. int., Ponza di San Martino Coriolano; marina: Bettòlo Giovanni; istruzione pubblica: Baccelli Guido; lavori pubblici: Lacava Pietro; agricoltura: Salandra Antonio; poste e telegrafi: Di San Giuliano Antonino.
46. (24 giugno 1900-14 febbraio 1901). - Presidente: Saracco Giuseppe; interni: idem; esteri: Visconti-Venosta Emilio; grazia e giustizia: Gianturco Emanuele; finanze: Chimirri Bruno; tesoro: Rubini Giulio, Chimirri Bruno, int., Finali Gaspare; guerra: Ponza di San Martino Coriolano; marina: Morin Enrico Costantino; istruzione pubblica: Gallo Niccolò; lavori pubblici: Branca Ascanio; agricoltura: Carcano Paolo; poste e telegrafi: Pascolato Alessandro.
47. (15 febbraio 1901-29 ottobre 1903). - Presidente: Zanardelli Giuseppe; interni: Giolitti Giovanni (dimissionario il 21 giugno 1903), Zanardelli int.; esteri: Prinetti Giulio, Morin Enrico Costantino (int. dal 9 febbraio e titolare dal 22 aprile 1903); grazia e giustima: Cocco-Ortu Francesco; finanze: Wollemberg Leone (dimissionario il 3 agosto 1901), Crcano Paolo; tesoro: Di Broglio Ernesto; guerra: Ponza di San Martino Coriolano (dimissionario il 27 aprile 1902), Morin E. C. int., Ottolenghi Giuseppe; marina: Morin E. C., Bettòlo Giovanni (22 aprile-21 giugno 1903), Morin int.; istruzione pubblica: Nasi Nunzio; lavori pubblici: Giusso Girolamo (dimissionario il 19 febbraio 1902), Zanardelli G. int., Balenzano Nicola (26 marzo 1902); agricoltura: Picardi Silvestro (dimissionario il 18 aprile 1901), Zanardelli G. int., Baccelli Guido (4 agosto 1901); poste e telegrafi: Galimberti Tancredi.
48. (3 novembre 1903-12 marzo 1905): Presidente: Giolitti Giovanni; interni: idem; esteri: Tittoni Tommaso; grazia e giustizia: Ronchetti Scipione; finanze: Rosano Pietro (morto il 9 novembre 1903), Luzzatti Luigi int., Majorana Angelo (24 novembre 1904); tesoro: Luzzatti L.; guerra: Pedotti Ettore; marina: Giolitti G. int., Mirabello Carlo; istruzione pubblica: Orlando Vittorio Emanuele; lavori pubblici: Tedesco Francesco; agricoltura: Rava Luigi; poste e telegrafi: Stelluti-Scala Enrico (dimissionario il 5 dicembre 1904), Tedesco F., int.
49. (16-27 marzo 1905). - Presidente: Tittoni Tommaso int.; interni: idem, int.; esteri: idem; grazia e giustizia: Ronchetti Scipione; finanze: Majorana Angelo; tesoro: Luzzatti L.; guerra: Pedotti Ettore; marina: Mirabello Carlo; istruzione pubblica: Orlando V. E.; lavori pubblici: Tedesco Francesco; agricoltura: Rava Luigi; poste e telegrafi: Tedesco F. int.
50. (28 marzo-22 dicembre 1905). - Presidente: Fortis Alessandro; interni: idem; esteri: Tittoni Tommaso; grazia e giustizia: Finocchiaro-Aprile Camillo; finanze: Majorana Angelo; tesoro: Carcano Paolo; guerra: Pedotti Ettore; marina: Mirabello Carlo; istruzione pubblica: Bianchi Leonardo; lavori pubblici: Ferraris Carlo; agricoltura: Rava Luigi; poste e telegrafi: Morelli-Gualtierotti Gismondo.
51. (24 dicembre 1905-8 febbraio 1906). - Presidente: Fortis Alessandro; interni: idem; esteri: Di San Giuliano Antonino; grazia e giustizia: Finocchiaro-Aprile Camillo; finanze: Vacchelli Pietro; tesoro: Carcano Paolo; guerra: Majnoni d'Intignano Luigi; marina: Mirabello Carlo; istruzione pubblica: De Marinis Errico; lavori pubblici: Tedesco Francesco; agricoltura: Fortis A. int., Malvezzi de' Medici Nerio; poste e telegrafi: Marsengo-Bastia Ignazio.
52. (8 febbraio-27 maggio 1906). - Presidente: Sonnino Sidney; interni: idem; esteri: Guicciardini Francesco; grazia e giustizia: Sacchi Ettore; finanze: Salandra Antonio; tesoro: Luzzatti Luigi; guerra: Majnoni d'Intignano Luigi; marina: Mirabello Carlo; istruzione pubblica: Boselli Paolo; lavori pubblici: Carmine Pietro; agricoltura: Pantano Edoardo; poste e telegrafi: Baccelli Alfredo.
53. (29 maggio 1906-10 dicembre 1909). - Presidente: Giolitti Giovanni; interni: idem; esteri: Tittoni Tommaso; grazia e giustizia: Gallo Niccolò (morto il 7 marzo 1907), Orlando Vittorio Emanuele; finanze: Massimini Fausto (dimissionario il 19 aprile 1907), Majorana Angelo (int. 24 marzo-19 aprile 1907), Lacava Pietro; tesoro: Majorana Angelo (dimissionario il 17 maggio 1907), Carcano Paolo; guerra: Viganò Ettore (dimissionario il 29 dicembre 1907), Casana Severino (dimissionario il 4 aprile 1909), Spingardi Paolo; marina: Mirabello Carlo; istruzione pubblica: Fusinato Guido (dimissionario il 2 agosto 1906), Rava Luigi; lavori pubblici: Gianturco Emanuele (dimissionario il 7 novembre 1907), Giolitti G. int., Bertolini Pietro; agricoltura: Cocco-Ortu Francesco; poste e telegrafi: Schanzer Carlo.
54. (11 dicembre 1909-31 marzo 1910). - Presidente: Sonnino Sidney; interni: idem; esteri: Guicciardini Francesco; grazia e giustizia: Scialoja Vittorio; finanze: Arlotta Enrico; tesoro: Salandra Antonio; guerra: Spingardi Paolo; marìna: Bettòlo Giovanni; istruzione pubblica: Daneo Edoardo; lavori pubblici: Rubini Giulio; agricoltura: Luzzatti Luigi; poste e telegrafi: Di Sant'Onofrio Ugo.
55. (31 marzo 1910-2 marzo 1911); - Presidente: Luzzatti Luigi; interni: idem; esteri: Di San Giuliano Antonino; grazia e giustizia: Fani Cesare; finanze: Facta Luigi; tesoro: Tedesco Francesco; guerra: Spingardi Paolo; marina: Leonardi-Cattolica Pasquale; istruzione pubblica: Credaro Luigi; lavori pubblici: Sacchi Ettore; agricoltura: Raineri Giovanni; poste e telegrafi: Ciuffelli Augusto.
56. (30 marzo 1911-19 marzo 1914). - Presidente: Giolitti Giovanni; interni: idem; esteri: Di San Giuliano Antonino; colonie: Bertolini Pietro; grazia e giustizia: Finocchiaro-Aprile Camillo; finanze: Facta Luigi; tesoro: Tedesco Francesco; guerra: Spingardi Paolo; marina: Leonardi-Cattolica Pasquale (dimissionario il 29 luglio 1913), Millo Enrico; istruzione pubblica: Credaro Luigi; lavori pubblici: Sacchi Ettore; agricoltura: Nitti Francesco Saverio; poste e telegrafi: Calissano Teobaldo (morto il 21 settembre 1913), Tedesco F. int., Colosimo Gaspare (dal 24 novembre 1913).
57. (21 marzo-5 novembre 1914). - Presidente: Salandra Antonio; interni: idem; esteri: Di San Giuliano Antonino (morto il 16 ottobre 1914), Salandra A. int.; colonie: Martini Ferdinando; grazia e giustizia: Dari Luigi; finanze: Rava Luigi; tesoro: Rubini Giulio; guerra: Grandi Domenico (dimissionario l'11 ottobre 1914), Zupelli Vittorio; marina: Millo Enrico (dimissionario il 13 agosto 1914), Viale Leone; istruzione pubblica: Daneo Edoardo; lavori pubblici: Ciuffelli Augusto; agricoltura: Cavasola Giannetto; poste e telegrafi: Riccio Vincenzo.
58. (5 novembre 1914-18 giugno 1916). - Presidente: Salandra Antonio; interni: idem; esteri: Sonnino Sidney; colonie: Martini Ferdinando; grazia e giustizia: Orlando Vittorio Emanuele; finanze: Daneo Edoardo; tesoro: Carcano Paolo; guerra: Zupelli Vittorio (dimissionario il 4 aprile 1916), Morrone Paolo; marina: Viale Leone (dimissionario il 24 settembre 1915), Salandra A. int., Corsi Camillo (30 settembre 1915); istruzione pubblica: Grippo Pasquale; lavori pubblici: Ciuffelli Augusto; agricoltura: Cavasola Giannetto; poste e telegrafi: Riccio Vincenzo; senza portafoglio: Barzilai Salvatore (dal 16 luglio 1915).
59. (18 giugno 1916-29 ottobre 1917). - Presidente: Boselli Paolo; interni: Orlando Vittorio Emanuele; esteri: Sonnino Sidney; colonie: Colosimo Gaspare; grazia e giustizia: Sacchi Ettore; finanze: Meda Filippo; tesoro: Carcano Paolo; guerra: Morrone Paolo (dimissionario il 15 giugno 1917), Giardino Gaetano; armi e munizioni: Dallolio Alfredo; marina: Corsi Camillo (dimissionario il 15 giugno 1917), Triangi Arturo (dimissionario il 16 luglio 1917), Del Bono Alberto; istruzione pubblica: Ruffini Francesco; lavori pubblici: Bonomi Ivanoe; agricoltura: Raineri Giovanni; industria, commercio e lavoro: De Nava Giuseppe; poste e telegrafi: Fera Luigi; trasporti marittimi e ferroviarî: Arlotta Enrico (dimissionario il 15 giugno 1917) e Bonomi I. int. dal 22 aprile 1917 (durante l'assenza di Arlotta), Bianchi Riccardo; senza portafoglio: Arlotta E. (16 giugno 1917), Raineri G. (nominato ministro dell'Agricoltura il 22 giugno 1916), De Nava G. (nominato ministro dell'Industria, commercio e lavoro, il 22 giugno 1916), Bissolati Leonida, Bianchi Leonardo, Comandini Ubaldo, Scialoja Vittorio.
60. (29 ottobre 1917-23 giugno 1919). - Presidente: Orlando Vittorio Emanuele; vice presidenti: Villa Tommaso (18 gennaio-18 giugno 1919), Colosimo Gaspare (9 marzo 1919, per assenza del presidente e per impedimento del vicepresidente Vìlla); interni: Orlando V.E., Villa T. int., Colosimo G. int.; esteri: Sonnino Sidney; colonie: Colosimo G.; grazia e giustizia: Sacchi Ettore (dimissionario il 17 gennaio 1919), Facta Luigi; finanze: Meda Filippo; tesoro: Nitti Francesco Saverio (dimissionario il 17 gennaio 1919), Stringher Bonaldo; guerra: Alfieri Vittorio (dimissionario il 20 marzo 1918), Zupelli Vittorio (dimissionario il 17 gennaio 1919), Caviglia Enrico; armi e munizioni: Dallolio Alfredo (dimissionario il 14 maggio 1918), Zupelli V. int.; armi e trasporti: Villa T.; marina: Del Bono Alberto; istruzione pubblica: Berenini Agostino; lavori pubblici: Dari Luigi (dimissionario il 31 dicembre 1918), Bonomi Ivanoe; agricoltura: Miliani Giambattista (dimissionario il 17 gennaio 1919); industria, commercio e lavoro: Ciuffelli Augusto; poste e telegrafi: Fera Luigi; trasporti marittimi e ferroviari: Bianchi Riccardo (dimissionario il 14 maggio 1918), Villa T. (dimissionario il 17 gennaio 1919), De Nava Giuseppe; assistenza militare e pensioni di guerra: Bissolati Leonida (dimissionario il 31 dicembre 1918), Zupelli V. int., Girardini Giuseppe; approvvigionamenti e consumi: Crespi Silvio (dimissionario il 18 giugno 1919), Ferraris Maggiorino; terre liberate: Fradeletto Antonio.
61. (23 giugno 1919-21 maggio 1920). - Presidente: Nitti Francesco Saverio; interni: idem; esteri: Tittoni Tommaso (dimissionario il 25 novembre 1919), Scialoja Vittorio; colonie: Rossi Luigi (dimissionario il 13 marzo 1920), Nitti F. S. int.; grazia e giustizia: Mortara Lodovico; finanze: Tedesco Francesco (dimissionario il 13 marzo 1920); Schanzer Carlo; tesoro: Schanzer C. (dimissionario il 13 marzo 1920), Tedesco F. int. (dal 21 luglio 1919 per l'assenza di Schanzer), Luzzatti Luigi; guerra: Sechi Giovanni int., Albricci Alberico (dimissionario il 13 marzo 1920), Bonomi Ivanoe; marina: Sechi G.; istruzione pubblica: Baccelli Alfredo dimissionario il 13 marzo 1920), Torre Andrea; lavori pubblici: Pantano Edoardo (dimissionario il 13 marzo 1920), De Nava Giuseppe; agricoltura: Visocchi Achille (dimissionario il 13 marzo 1920), Falcioni Alfredo; indusiria, commercio e lavoro: Ferraris Dante; poste e telegrafi: Chimienti Pietro (dimissionario il 13 marzo 1920), Alessio Giulio; trasporti marittimi e ferroviarî: De Vito Roberto (dimissionario il 13 marzo 1920), De Nava G. int.; assistenza militare e pensioni di guerra: Da Como Ugo (sino al 24 novembre 1919); terre liberate: Nava Cesare (dimissionario il 13 marzo 1920), Raineri Giovanni.
62. (21 maggio-15 giugno 1920). - Presidente: Nitti Francesco Saverio; interni: idem; esteri: Scialoja Vittorio; colonie: Ruini Bartolomeo; Grazia e giustizia: Falcioni Alfredo; finanze: De Nava Giuseppe; tesoro: Schanzer Carlo; guerra: Rodinò Giulio; marina: Sechi Giovanni; istruzione pubblica: Torre Andrea; lavori pubblici: Peano Camillo; agricoltura: Micheli Giuseppe; industria, commercio e lavoro: Abbiate Mario (dimissionario il 2 giugno 1920), De Nava G. int.; poste e telegrafi: Paratore Giuseppe; terre liberate: La Pegna Alberto; lavoro e previdenza sociale: Abbiate Mario.
63. (15 giugno 1920-4 luglio 1921). - Presidente: Giolitti Giovanni; interni: idem; esteri: Sforza Carlo; colonie: Rossi Luigi; grazia e giustizia: Fera Luigi; finanze: Tedesco Francesco (dimissionario il 10 agosto 1920), Facta Luigi; tesoro: Meda Filippo (dimissionario il 2 aprile 1921), Bonomi Ivanoe; guerra: Bonomi I., Rodinò Giulio (dal 2 aprile 1921); marina: Sechi Giovanni; istruzione pubblica: Croce Benedetto; lavori pubblici: Peano Camillo; agricoltura: Micheli Giuseppe; industria e commercio: Alessio Giulio; posie e telegrafi: Pasqualino-Vassallo Rosario; terre liberate: Raineri Giovanni; lavoro e previdenza sociale: Labriola Arturo.
64. (4 luglio 1921-26 febbraio 1922). - Presidente: Bonomi Ivanoe; interni: idem; esteri: idem, int.; Tomasi della Torretta Pietro; colonie: Girardini Giuseppe; grazia e giustizia: Rodinò Giulio; finanze: Soleri Marcello; tesoro: De Nava Giuseppe; guerra: Gasparotto Luigi; marina: Bergamasco Eugenio; istruzione pubblica: Corbino Mario Orso; lavori pubblici: Micheli Giuseppe; agricoltura: Mauri Angelo; industria e commercio: Belotti Bortolo; poste e telegrafi: Giuffrida Vincenzo; terre liberate: Raineri Giovanni; lavoro e previdenza sociale: Beneduce Alberto.
65. (26 febbraio-1° agosto 1922). - Presidente: Facta Luigi; interni: idem; esteri: Schanzer Carlo; colonie: Amendola Giovanni; grazia e giustizia: Rossi Luigi; finanze: Bertone Giovan Battista; tesoro: Peano Camillo; guerra: Lanza di Scalea Pietro; marina: De Vito Roberto; istruzione pubblica: Anile Antonino; lavori pubblici: Riccio Vincenzo; agricoltura: Bertini Giovanni Battista; industria e commercio: Rossi Teofilo; poste e telegrafi: Colonna di Cesarò Giovanni Antonio (dimissionario il 2 marzo 1922), Fulci Luigi; terre liberate: Facta L. int., Ferraris Maggiorino; lavoro e previdenza sociale: Dello Sbarba Arnaldo.
66. (1° agosto-31 ottobre 1922). - Presidente: Facta Luigi; interni: Taddei Paolino; esteri: Schanzer Carlo; colonie: Amendola Giovanni; grazia e giustizia: Alessio Giulio; finanze: Bertone Giovan Battista; tesoro: Paratore Giuseppe; guerra: Soleri Marcello; marina: De Vito Roberto; istruzione pubblica: Anile Antonino; lavori pubblici: Riccio Vincenzo; agricoltura: Bertini Giovanni Battista; industria e commercio: Rossi Teofilo; poste e telegrafi: Fulci Luigi; terre liberate: Luciani Vito; lavoro e previdenza sociale: Dello Sbarba Arnaldo.
Governo fascista (dal 31 ottobre 1922). - Presidente - Capo del governo, primo ministro segretario di stato: Mussolini Benito; esteri: Mussolini int., Grandi Dino (12 settembre 1929-20 luglio 1932), Mussolini, Ciano Galeazzo (dall'11 giugno 1936); interni: Mussolini, Federzoni Luigi (17 giugno 1924-6 novembre 1926), Mussolini; colonie-Africa Italiana: Federzoni Luigi (dimissionario il 17 giugno 1924), Mussolini int., Lanza di Scalea Pietro (1° luglio 1924-6 novembre 1926), Federzoni Luigi (dimissionario il 18 dicembre 1928), Mussolini, De Bono Emilio (12 settembre 1929-17 gennaio 1935), Mussolini, Lessona Alessandro (11 giugno 1936-20 novembre 1937), Mussolini; grazia e giustizia: Oviglio Aldo (dimissionario il 5 gennaio 1925), Rocco Alfredo (dimissionario il 20 luglio 1932), De Francisci Pietro (dimissionario il 24 gennaio 1935), Solmi Arrigo; finanze: De Stefani Alberto (dimissionario il 10 luglio 1925), Volpi Giuseppe (dimissionario il 9 luglio 1928), Mosconi Antonio (dimissionario il 20 luglio 1932), Jung Guido (dimissionario il 24 gennaio 1935), Thaon di Revel Paolo; tesoro: Tangorra Vincenzo (dimissionario il 21 dicembre 1922), De Stefani A. int.; guerra: Díaz Armando (dimissionario il 30 aprile 1924), Di Giorgio Antonino (dimissionario il 4 aprile 1925), Mussolini int., Gazzera Pietro (12 settembre 1929-22 luglio 1933), Mussolini; marina: Thaon di Revel Paolo (dimissionario l'8 maggio 1925), Mussolini int., Sirianni Giuseppe (12 settembre 1929-6 novembre 1933), Mussolini; aeronautica: Mussolini int., Balbo Italo (12 settembre 1929-6 novembre 1933), Mussolini; istruzione pubblica - educazione nazionale: Gentile Giovanni (dimissionario il 1° luglio 1924), Casati Alessandro (dimissionario il 5 gennaio 1925), Fedele Pietro (dimissionario il 9 luglio 1928), Belluzzo Giuseppe (dimissionario il 12 settembre 1929), Giuliano Balbino (dimissionario il 20 luglio 1932), Ercole Francesco (dimissionario il 24 gennaio 1935), De Vecchi di Val Cismon Cesare Maria (dimissionario il 15 novembre 1936), Bottai Giuseppe; lavori pubblici: Carnazza Gabriello (dimissionario il 1° luglio 1924), Sarrocchi Gino (dimissionario il 5 gennaio 1925), Giuriati Giovanni (dimissionario il 30 aprile 1929), Mussolini, Bianchi Michele (12 settembre 1929-morto il 3 febbraio 1930), Di Crollalanza Araldo (13 febbraio 1930-24 gennaio 1935), Razza Luigi (morto il 7 agosto 1935) Cobolli Gigli Giuseppe (dal 5 settembre 1935); agricoltura: De Capitani Giuseppe; industria e commercio: Rossi Teofilo; lavoro e previdenza sociale: Cavazzoni Stefano; economia namonale: Corbino Mario Orso (dimissionario il 1° luglio 1924), Nava Cesare (dimissionario il 10 luglio 1925), Belluzzo Giuseppe (nominato ministro dell'istruzione pubblica il 9 luglio 1928), Martelli Alessandro (dimissionario il 12 settembre 1929); agricoltura e foreste: Acerbo Giacomo (12 settembre 1929-24 gennaio 1935), Rossoni Edmondo; poste e telegrafi - comunicazioni: Colonna di Cesarò Giovanni Antonio (dimissionario 5 febbraio 1924), Ciano Costanzo (5 febbraio 1924-30 aprile 1934), Puppini Umberto (dimissionario il 24 gennaio 1935), Benni Antonio Stefano; terre liberate: Giuriati Giovanni; Corporazioni: Mussolini (2 luglio 1926-12 settembre 1929), Bottai Giuseppe (dimissionario il 20 luglio 1932), Mussolini (sino all'11 giugno 1936), Lantini Ferruccio; stampa e propaganda - cultura popolare: Ciano Galeazzo (26 giugno 1935-11 giugno 1936), Alfieri Dino; scambî e valute: Guarneri Felice (dal 20 novembre 1937).
Folklore (XIX, p. 966).
Musica popolare: (p. 968). - Grande antichità e popolarità hanno le canzoni enumerative e iterative, delle quali M. Barbi ha per primo individuato il tipo e possiede, raccolte da ogni parte d'Italia, gran numero, con notevoli varietà tra loro, nella sua raccolta inedita.