ITALIA
(XIX, p. 693; App. I, p. 742; II, II, p. 72; III, I, p. 913; IV, II, p. 243)
Il periodo compreso tra la crisi del mercato petrolifero mondiale, insorta durante la guerra arabo-israeliana del 1973, e i primi anni Novanta può essere annoverato tra quelli di più profonda trasformazione economica, sociale e territoriale, del paese. Le trasformazioni hanno coinvolto l'andamento demografico, il campo degli scambi demografici con l'estero, il peso esercitato dai settori produttivi nella vita del paese, il bilancio energetico, lo sfruttamento delle risorse marine, l'organizzazione delle città e l'assetto delle reti urbane, il governo dell'ambiente e le relazioni internazionali.
Significative trasformazioni hanno poi avuto per oggetto il tessuto amministrativo italiano che, a partire dal 1990, è stato interessato da successivi e rilevanti interventi da parte del legislatore. In particolare l'organizzazione dei sistemi territoriali italiani è destinata a essere sensibilmente influenzata dall'emanazione della l. 142 del 1990 relativa all'"Ordinamento delle autonomie locali" con la quale il legislatore ha provveduto all'identificazione di nove aree metropolitane sul territorio nazionale (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli), demandando alle regioni a Statuto speciale la possibilità di aggiungerne delle altre (e di fatto portandone il numero a 12, con l'inserimento di Palermo, Catania e Cagliari). Le regioni interessate avrebbero avuto a disposizione un anno di tempo, dall'entrata in vigore della legge, per provvedere alla delimitazione di ciascuna ''area metropolitana'' (alla quale la l. 142 ha assegnato funzioni corrispondenti a quelle esercitate dalla provincia) ed entro 18 mesi le stesse regioni avrebbero dovuto riordinare le circoscrizioni territoriali dei comuni dell'area metropolitana. In base a questo meccanismo, nelle province in cui è situata l'area metropolitana, l'intero assetto delle circoscrizioni amministrative è destinato ad essere ridisegnato.
Sempre nel corso dei primi anni Novanta sono state istituite ben otto nuove province (v. oltre: Istituzione delle nuove province) che costituiscono il primo nucleo di nuove unità amministrative. Di fatto sono tre i gruppi di nuove circoscrizioni comunali: a) le otto unità amministrative istituite nel corso del 1991 e per le quali le procedure di riconoscimento erano state avviate prima dell'entrata in vigore della l. 142 (Biella e Verbania in Piemonte, Lecco e Lodi in Lombardia, Prato in Toscana, Rimini in Emilia-Romagna, Crotone e Vibo Valentia in Calabria); b) altre nuove circoscrizioni provinciali per le quali la richiesta di istituzione è stata formalizzata dopo l'entrata in vigore della legge sul riordino delle autonomie locali e il cui riconoscimento è atteso nel breve termine (rispetto al 1993); vi rientrano quattro potenziali province: Castrovillari in Calabria, Fermo nelle Marche, Avezzano e Sulmona nell'Abruzzo; c) le circoscrizioni che dovrebbero venire alla luce posteriormente, in conseguenza dell'istituzione delle aree metropolitane. Per quanto riguarda questa categoria va ricordato che, nella prima metà del 1993, gli studi per programmare le aree metropolitane erano ancora in corso, sicché le conseguenze concrete che questa riforma avrebbe avuto nella geografia amministrativa italiana non erano ancora prefigurabili. Tuttavia è da ritenersi che le implicazioni saranno profonde, soprattutto nelle regioni caratterizzate da vaste formazioni urbane, addirittura − come accade lungo la direttrice Padana, sulla fascia di territorio tra Roma e Napoli, e lungo l'arco nord-tirrenico − dalla prospettiva di formazione di minuscole megalopoli.
In importanti parti del territorio nazionale, alla trasformazione della geografia delle circoscrizioni provinciali sarà associata quella della geografia delle circoscrizioni comunali. Infatti, in nove regioni, l'assetto delle circoscrizioni comunali comprese nelle istituende aree metropolitane dovrà essere riordinato in rapporto all'istituzione dell'area. Ciò comporterà la soppressione di comuni, la trasformazione delle circoscrizioni di altri e l'istituzione di nuovi.
Popolazione. − Evoluzione del quadro demografico. − Le note dominanti della trasformazione demografica possono essere così riassunte: rallentamento della natalità, contrazione delle emigrazioni e aumento delle immigrazioni, invecchiamento, avvicinamento alla crescita zero (v. anche censimento, in questa Appendice). Al censimento demografico del 1971, cioè alla vigilia della crisi politico-sociale degli anni Settanta, la popolazione residente italiana ammontava a 54,1 milioni di abitanti. Al censimento successivo (1981) risultava di 56,5 milioni di abitanti, mentre al censimento del 20 ottobre 1991 la popolazione residente era di 56.778.031 milioni di abitanti. Questi incrementi, elevati in passato e sempre più ridotti in tempi recenti, hanno mantenuto l'I. ai primi posti in Europa per numero di abitanti. La densità territoriale è salita a poco meno di 190 ab./km2: un valore notevole, inferiore soltanto a quello dei Paesi Bassi, del Belgio, della Repubblica Federale di Germania (e quindi delle due Germanie unite) e del Regno Unito. Tuttavia, è essenziale analizzare le componenti di questa crescita e prefigurare a quali traguardi condurrà l'effetto combinato di tali componenti. Queste valutazioni prospettiche offrono lo scenario di un paese con arresto di crescita demografica e, quindi, avviato verso problemi addirittura antipodici rispetto a quelli tradizionali, che invece derivavano da alti tassi di crescita della popolazione.
Nel 1992 nella popolazione italiana v'erano meno di 10 (9,8) nati vivi per 1000 abitanti. Questo tasso di natalità era ben inferiore a quello degli anni posteriori al secondo conflitto mondiale, quando v'erano circa 20 nati vivi per 1000 abitanti, ed era più basso di quello del decennio 1971-81, durante il quale il tasso medio era stato di 14,2‰. La tendenza al decremento è stata continua, in quanto a metà degli anni Ottanta il tasso di natalità si aggirava ancora sul 10‰. In quel momento la composizione media della famiglia italiana era di tre unità (genitori più un figlio), mentre un secolo prima era di cinque unità. Naturalmente, questa è un'evoluzione comune a tutti i paesi sviluppati, ma in I. − a giudizio dei demografi − si è accentuata recentemente, a causa di ragioni economiche, stili di vita, tecniche di contraccezione sempre più diffuse, disaffezione alla gravidanza, come pure dell'introduzione del divorzio e della conseguente scissione dei nuclei familiari.
Mentre il tasso di natalità raggiungeva valori così bassi, il tasso di mortalità scendeva a sua volta. All'inizio degli anni Cinquanta era del 12‰; nei primi anni Novanta si è attestato sul 9,3‰. Le cause di morte sono profondamente mutate rispetto al passato. Al termine del secondo conflitto mondiale erano diffuse le morti da malattie del'apparato respiratorio e gastrointestinale, mentre era ancora notevole la presenza di malattie ambientali tradizionali, come la malaria. Durante gli anni Ottanta le cause più frequenti sono state le malattie tumorali e quelle dell'apparato cardiocircolatorio. Per quanto riguarda i rischi ambientali, a quelli tradizionali, derivanti soprattutto dalla presenza di paludi, si sono sostituiti quelli derivanti dall'inquinamento e, quindi, dai modelli di organizzazione industriale e della vita urbana. Ovviamente, il miglioramento delle condizioni di vita ha prodotto una caduta verticale del tasso di mortalità infantile, espresso dal numero di morti nel primo anno di età: ancora all'inizio degli anni Settanta nel primo anno morivano 20 bimbi per ogni 1000 nati; a metà degli anni Ottanta il tasso era sceso al 10,8‰, e oggi si aggira sull'8,5‰.
Tendenzialmente, il movimento naturale della popolazione - espresso dalla somma algebrica dei tassi di natalità e di mortalità − si avvia verso lo zero. Infatti, l'eccedenza dei nati vivi sui morti, che è stata in media di 4,5 durante il decennio 1971-81, è scesa a 0,6 nel 1985 per attestarsi sullo 0,5 nei primi anni Novanta. Va tuttavia considerato che gli effetti della contrazione dei tassi di natalità sull'andamento della popolazione globale sono stati attenuati dall'inversione di tendenza nel movimento migratorio con l'estero. Fino alla crisi petrolifera del 1973, il saldo migratorio dell'I. era stato sempre passivo, cioè gli emigrati erano stati più numerosi degli immigrati; in certi periodi − per es. durante gli anni Cinquanta − il passivo era stato veramente consistente. Proprio nel 1973 per la prima volta il segno si è invertito: a fronte di 123.000 espatri vi sono stati 125.000 rimpatri. Da allora il saldo si è mantenuto positivo, sia pure per valori modesti: i rimpatri hanno prevalso sugli espatri per valori compresi tra 5000 e 10.000 unità. Questo ha mascherato in parte le perdite demografiche dovute al movimento naturale. Per quanto riguarda i movimenti in uscita, due terzi degli emigrati si dirigono verso paesi europei, meno di un quinto verso l'America e la restante parte verso gli altri continenti.
Al censimento del 1981 erano stati rilevati 211.000 stranieri, un numero tale da non incidere sul volto demografico del paese. Tuttavia, dopo quella data è cresciuta la consistenza dei movimenti immigratori. Due aree mediterranee forniscono i maggiori apporti: l'area africana, costituita dai paesi del Maghreb (soprattutto Marocco, Tunisia, Algeria), e alcuni paesi dell'area asiatica (soprattutto Libano). Anche gli altri flussi più consistenti provengono da aree extraeuropee, soprattutto dai paesi dell'Africa guineana e dal Sudest asiatico (Filippine, penisola indocinese). Un notevole flusso ha avuto luogo dal Vietnam dopo la vittoria del Nord sul Sud: i profughi che riuscirono a salvarsi dalle stragi compiute nelle acque antistanti il Vietnam in buona parte sono affluiti in Europa e un consistente numero si è inserito nella società italiana. I flussi immigratori dalle tre aree principali (Africa araba, Africa guineana, Sudest asiatico) si sono andati rafforzando nel tempo, in misura tale da incidere addirittura sul paesaggio urbano italiano. A partire dalla seconda parte degli anni Ottanta in alcune grandi città − come Roma, Napoli e Genova − si sono formati veri e propri quartieri di immigrati, dando vita a un fenomeno fino ad allora tipico di altri paesi, come gli Stati Uniti e la Francia.
La contrazione del tasso di mortalità, cui si è appena fatto cenno, ha provocato il prolungamento della vita: nei primi anni Novanta oltre la metà dei decessi riguarda persone con oltre 75 anni. L'età media (e quindi la Σ dei prodotti fra il numero di persone presenti in ciascuna classe di età annuale moltiplicato per la classe di età stessa, il tutto diviso per il numero degli abitanti) che era di 31,2 anni nel 1951, è passata a 34,9 anni nel 1981: 36,3 anni per i maschi e 37,6 per le femmine. Nella prima parte degli anni Novanta, la speranza di vita alla nascita era di 73,5 anni per i maschi e di oltre 80 per le femmine. Ovviamente, è in atto un invecchiamento della popolazione. Durante il quarantennio 1951-91, la percentuale dei giovani (in età fino a 14 anni) è scesa dal 26,1% al 17,2%; quella degli adulti (tra 25 e 64 anni) diminuita (dal 65,7% del 1951 al 54% del 1991); quella degli anziani si è elevata dall'8,2% al 12,3%. L'indice d'invecchiamento, costituito dal rapporto tra il numero degli anziani (oltre i 65 anni) e il numero dei giovani (meno di 14 anni), è salito da 0,46% (1951) a 0,71% (1991). Le conseguenze sociali sono state considerevoli. Tra le più incisive è da sottolineare la contrazione della domanda di servizi per l'istruzione elementare, provocata dalla riduzione della natalità, e l'aumento della domanda di servizi sanitari e di assistenza sociale per gli anziani.
In conclusione, le trasformazioni innescate fin dai primi anni Settanta conducono l'I. verso una sorta di rivoluzione demografica. Il fatto che tasso di natalità e di mortalità tendano a pareggiarsi potrebbe significare che la popolazione italiana procede verso la crescita zero. In realtà, le conseguenze sono ancora più drastiche. Infatti, per assicurare la stabilità demografica, cioè la crescita zero, è necessario che vi sia un numero medio di 2,1 figli per donna, pari a un tasso di natalità compreso tra 11‰ e 14‰: l'I. si trova al di sotto di questa soglia. Di conseguenza, la popolazione italiana si avvia non verso la stabilità, ma addirittura verso la diminuzione, seguendo in ciò il comportamento dei paesi sviluppati. Lungo questa strada si sono avviati la Svezia (dal 1967), la Germania Federale (dal 1969), e molti altri paesi industrializzati, tra cui il Giappone (dal 1974).
Tuttavia, in I. il processo ha assunto un aspetto originale, in quanto ha preso corpo più rapidamente che altrove.
Immigrazione: la svolta degli anni Novanta. − La linea di tendenza dell'evoluzione demografica ha cominciato a subire alterazioni all'inizio degli anni Novanta. Due fattori hanno inciso in modo particolare: a) l'intensificarsi delle immigrazioni extraeuropee verso l'area della CEE, la cui consistenza ha provocato un'improvvisa percezione sociale dell'importanza del fenomeno e delle potenziali, considerevoli implicazioni che esso potrebbe acquisire; b) le immigrazioni dai paesi ex comunisti verso l'Occidente, provocate dalle gravi crisi economiche e politiche che hanno sconvolto buona parte dell'Europa balcanica, dell'Europa centrale e dell'ex area sovietica.
Per quanto riguarda la composizione degli immigrati extracomunitari in I., nei primi anni Novanta si stimava che vi fossero 425.000 uomini e 250.000 donne. Gli immigrati di sesso maschile provenivano soprattutto da Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto. Le donne che, per la quasi totalità, svolgevano lavori di collaboratrici domestiche, provenivano da Somalia, Eritrea, Thailandia, Filippine, Isole di Capo Verde, Mauritius e Seicelle.
Per numero di immigrati extracomunitari, l'I. si poneva al quinto posto nella graduatoria dei paesi della CEE. Inoltre l'incidenza di questi apporti sulla popolazione nazionale era tra le più basse dell'area comunitaria. Nondimeno, mentre un'onda di xenofobia cominciava a salire in parecchi paesi, soprattutto in Francia e in Germania, la percezione sociale del problema si acuiva anche in I.: si lamentava la mancanza di una regolamentazione appropriata che garantisse il controllo di flussi in entrata, s'invocava un appropriato trattamento degli immigrati e la certezza che essi s'insediassero sul territorio nazionale soltanto ove esistesse una concreta prospettiva di lavoro. Era anche evidente che, a causa dell'insufficiente controllo del fenomeno da parte dell'amministrazione pubblica, le statistiche ufficiali erano sospettate di produrre una sottostima della presenza di immigrati sul territorio nazionale. In questo quadro due problemi acquistavano rilievo particolare: da un lato, le pessime condizioni ambientali in cui venivano a trovarsi gruppi senza risorse e alla ricerca di un lavoro qualsiasi; dall'altro lato, il rischio che questi gruppi accrescessero a dismisura il fenomeno del ''lavoro nero'' e venissero reclutati dalla delinquenza organizzata per attività di manovalanza criminale, per es. per lo spaccio di droga.
A questi problemi il governo ha fatto fronte con il D.L. 416 del 1989, convertito nella l. 39/1990, detta ''legge Martelli'' dal nome del ministro proponente. Il provvedimento, che fu oggetto di notevoli dibattiti e non cessò di suscitare polemiche anche nel periodo successivo all'emanazione, ha stabilito alcuni principi fondamentali: a) i cittadini extracomunitari possono entrare in I. per "motivi di turismo, studio, lavoro subordinato o lavoro autonomo, cura, familiari e culto"; b) entro il 30 ottobre di ogni anno viene definita "la programmazione dei flussi di ingresso in Italia per ragioni di lavoro degli stranieri extra-comunitari e del loro inserimento socio-culturale"; c) entro lo stesso termine viene definito "il programma degli interventi sociali ed economici atti a favorire l'inserimento socio-culturale degli stranieri, il mantenimento dell'identità culturale e il diritto allo studio e alla casa"; d) i contingenti di immigrati vengono determinati dal governo tenendo conto delle esigenze dell'economia nazionale, delle disponibilità finanziarie e delle strutture disponibili per assicurare adeguata accoglienza, delle richieste di permesso di soggiorno e dello stato delle relazioni e degli obblighi internazionali.
È evidente che la legge ha stabilito criteri socialmente ed eticamente appropriati, ma non agevoli a tradursi in pratica, soprattutto in vaste parti del Mezzogiorno e delle isole, ove il tessuto dell'amministrazione pubblica è più debole e il contesto economico precario. In particolare è arduo mettere a punto programmi per un soddisfacente inserimento socioculturale dell'immigrato e, nello stesso tempo, garantirgli la salvaguardia dell'identità culturale e del diritto alla casa.
Mentre centri decisionali politici, sindacati e organizzazioni umanitarie stavano affrontando il problema delle immigrazioni dalle aree africane e asiatiche, all'orizzonte si è profilata la prospettiva di dover accogliere anche immigrati dall'area ex comunista. Infatti, nel 1990 e nel 1991 flussi di immigrati sono pervenuti in I. dall'Albania chiedendo asilo politico: i primi flussi sono stati accolti e si sono inseriti faticosamente nella comunità italiana; invece i flussi del 1991, che hanno dato luogo a vicende drammatiche (agosto 1991), per la maggior parte sono stati rinviati in Albania perché non sussistevano le condizioni di rifugiato politico. Nello stesso periodo, la guerra tra le repubbliche iugoslave ha indotto l'I. a offrire ospitalità agli immigrati dalla Croazia, sottoposta a distruzione da parte delle truppe federali iugoslave. Tuttavia, nel corso degli anni Novanta, a incidere di più sulla geografia dell'immigrazione in alcune parti della CEE, ivi compresa l'I., potrebbe essere la grave crisi economica che, a partire dal 1991, ha sconvolto l'Unione Sovietica, dal canto suo in preda a disgregazione politica. È stato valutato che, a seconda della gravità delle vicende che, durante gli anni Novanta, affliggeranno l'Europa centrale e orientale, ivi compreso lo spazio ex sovietico fino agli Urali, nell'area della CEE potrebbero affluire fin oltre 10 milioni di immigrati. Per altri dati, v. immigrazione, in questa Appendice.
Popolazione attiva. − Durante gli anni Settanta e, più ancora, negli anni Ottanta si è accentuata la trasformazione delle forze di lavoro. Al censimento demografico del 1951 in agricoltura operava il 42,2% della popolazione attiva; al censimento del 1990 la quota risultava ridotta all'8,3%. A questa diminuzione, che ha proceduto celermente soprattutto durante gli anni Sessanta, ha fatto seguito un aumento costante e consistente della popolazione attiva nell'industria durante gli anni Cinquanta e Sessanta: la popolazione di questo settore è passata dal 32,1% (1951) al 40,6% (1961) e al 44,4% (1971). Successivamente, la popolazione industriale è diminuita. Le cause fondamentali sono state il decadimento che ha colpito l'intero apparato dell'industria di base dopo la crisi del mercato del petrolio e gli effetti intervenuti nella divisione internazionale del lavoro. Nel settore delle attività terziarie, invece, la popolazione attiva ha sempre aumentato il proprio peso percentuale: 27,5% nel 1951, 30,3% nel 1961, 38,4% nel 1971 e 49,4% nel 1981. Durante gli anni Ottanta il processo non solo è aumentato ma si è anche accentuato. Questa crescita, tuttavia, ha attraversato due fasi diverse: nella prima fase, fino agli anni Settanta, l'aumento percentuale della popolazione addetta al terziario è avvenuto insieme all'aumento della popolazione industriale e si è manifestato come un processo collaterale all'industrializzazione del paese; nella seconda fase, che ha inizio negli anni Settanta, la crescita del peso della popolazione addetta al terziario non soltanto è connessa al declino di settori industriali un tempo trainanti, ma possiede anche un volto autonomo. Infatti, in questi anni si dispiega a pieno campo l'informatizzazione delle attività economiche e di essenziali funzioni sociali, per cui una crescente quota di popolazione addetta al terziario viene a essere costituita da professioni legate, direttamente o indirettamente, a questa divisione sociale del lavoro profondamente cambiata: è uno degli effetti più vistosi della trasformazione della società italiana.
I cambiamenti degli assetti professionali, testimonianza di mutamenti sociali nuovi, richiedono di essere messi in relazione con la partecipazione dei tre settori dell'economia al PIL. Nei primi anni Cinquanta (censimento del 1951) le attività primarie (agricoltura, allevamento, pesca, attività estrattive, ecc.) fornivano il 24% del prodotto lordo, mentre quarant'anni dopo ne fornivano appena il 4%. All'inizio degli anni Novanta l'industria contribuiva alla formazione del PIL meno di quarant'anni prima: 33% nel 1991 contro 36% nel 1951. Il settore dei servizi ha avuto, invece, una partecipazione crescente: 40% nel 1951, 46% nel 1961, 51% nel 1971, 53% nel 1981 e 63% nel 1990.
Condizioni economiche. - La crisi del mercato mondiale del petrolio insorta durante la guerra arabo-israeliana del 1973, ha segnato una svolta importante nella storia italiana. Infatti, fino ad allora l'economia del paese si era evoluta secondo i canoni della crescita, cioè attraverso uno sforzo continuo di estendere la base produttiva, in modo da mantenere elevati tassi di occupazione e un buon tasso di aumento del reddito. Questa politica, che affondava le sue radici in un regime di stabilità dei cambi internazionali e sui bassi costi delle fonti di energia e dei minerali, aveva avuto anche considerevoli ripercussioni sull'organizzazione del territorio: l'industrializzazione e l'urbanizzazione avevano prodotto immigrazioni dal Mezzogiorno e dalle isole verso l'area padana in misura tale da mutare il volto sociale delle città del Nord. All'inizio degli anni Settanta sono venute a mancare proprio le due condizioni fondamentali che alimentavano l'evoluzione dell'economia e l'organizzazione del territorio e poggiavano su un esteso tessuto di industrie di base e sul mantenimento di alti livelli occupazionali. In primo luogo, il passaggio da un regime di cambi fissi a un regime di cambi variabili, insorto proprio all'inizio del decennio, ha prodotto − giusto nel momento in cui avvenivano gli aumenti del prezzo del petrolio − considerevoli effetti sull'economia italiana: da allora i cambi sono andati soggetti a oscillazioni piuttosto consistenti e rapide in rapporto all'andamento reale dell'economia. D'altra parte, l'economia ha attraversato fasi delicate anche a causa di tensioni sociali acute fino a metà degli anni Settanta. In secondo luogo, l'aumento dei prezzi del petrolio ha prodotto anche, per trascinamento, l'aumento dei prezzi internazionali di buona parte dei minerali, accrescendo le difficoltà tipiche di un paese trasformatore di materie prime importate. Quella svolta ha condotto il paese verso la cosiddetta economia postindustriale.
Agricoltura. − Nel corso di un trentennio gli addetti all'agricoltura sono diminuiti da 8,6 milioni a 2,3 milioni circa: tale era la consistenza nella prima metà degli anni Ottanta. Ovviamente i valori sono molto diversi da regione a regione: la Lombardia, regione molto avanzata, impiega in agricoltura appena il 4% della popolazione attiva, mentre la Basilicata ne impiega ancora il 35%. In generale, malgrado i considerevoli investimenti in infrastrutture e gli sforzi per migliorare l'agricoltura, esiste un sensibile scarto tra le regioni settentrionali − in particolare la pianura padana − i cui livelli si avvicinano a quelli dell'Europa interna, e le regioni meridionali, i cui livelli si avvicinano a quelli del Mediterraneo meridionale. Il fatto che la popolazione agricola sia diminuita senza dar luogo a un accorpamento di proprietà − la cosiddetta ricomposizione fondiaria − ha fatto sì che estesi territori siano rimasti sottoutilizzati.
L'acqua disponibile nel Mezzogiorno e nelle isole non è ancora sufficiente − malgrado le importanti opere irrigue realizzate − per sostenere una buona agricoltura mediterranea. La circostanza è tanto più importante se si tiene conto che l'ingresso nella CEE di Spagna, Portogallo e Grecia ha aperto un consistente e pericoloso fronte concorrenziale per le produzioni italiane di frutta e ortaggi. Inoltre, verso la fine degli anni Ottanta sono insorti movimenti cosiddetti ''verdi'' o ''ecologisti'' contrari all'impiego in agricoltura di sostanze chimiche ritenute dannose alla salute. A fronte di questi problemi v'è da tener conto che, soprattutto negli anni Ottanta, s'è sviluppata un'intensa opera per introdurre procedure automatizzate e informatizzate in agricoltura, per migliorare le colture con metodologie bioingegneristiche e per elevare il livello della commercializzazione: i risultati potranno essere constatati nel corso degli anni Novanta (vedi oltre: Evoluzione del settore agricolo).
Fonti di energia. − L'evoluzione del bilancio energetico è uno degli elementi fondamentali per comprendere se e in quali modi cambi l'economia di un paese. Dalla fine della seconda guerra mondiale all'inizio degli anni Settanta il bilancio energetico italiano si era evoluto all'insegna dell'inversione del diagramma di carico. In breve si trattava di questo: nella fase prebellica era stata condotta un'intensa utilizzazione delle risorse idrauliche, sicché l'energia idroelettrica copriva la base del diagramma di carico, e alle altre fonti energetiche − termoelettrica e geotermoelettrica − era riservata la copertura delle punte della domanda. La crescita industriale italiana, intervenuta a partire dagli anni Cinquanta, aveva provocato una lievitazione della domanda di energia a tassi superiori al 7% annuo. Ciò aveva reso necessario l'impiego crescente di combustibili, fino al punto che l'energia termoelettrica aveva coperto la base del diagramma di carico e all'energia idroelettrica era riservata la copertura delle punte. Si trattava, ovviamente, di energia termoelettrica ricavata in ampia parte da olio combustibile derivante dall'utilizzo di petrolio importato a basso costo dall'area del Golfo Arabico. Questa politica aveva indotto a insediare potenti centrali termoelettriche in prossimità dei porti marittimi, nei quali avveniva lo sbarco del petrolio.
L'aumento improvviso dei prezzi del petrolio intervenuto nel 1973 ha costretto a mutare la politica energetica: la parola chiave è diventata ''differenziazione''. Occorre differenziare il bilancio energetico in rapporto alle fonti impiegate, giacché la domanda energetica nazionale in questo momento dipende dal petrolio in misura maggiore di quanto accada negli altri paesi della CEE. Occorre altresì differenziare le zone di provenienza degli idrocarburi importati, per evitare di accentrare gli approvvigionamenti in zone a rischio come quelle del Golfo Arabico. I risultati ottenuti nel campo della differenziazione delle fonti energetiche si possono sintetizzare nei seguenti termini: nel 1973 i combustibili liquidi coprivano il 75,6% della domanda di energia, mentre alla fine degli anni Ottanta ne coprivano appena il 56,7%; nello stesso tempo il gas naturale, di cui è cresciuta la produzione nazionale, è passato dal 10,4% al 28,4%; i combustibili solidi sono rimasti quasi stazionari (9,4% nel 1973, 5,6% nel 1989); lo stesso è accaduto per le fonti naturali − geotermiche e idrauliche − passate dal 9,2% al 9,3%; le fonti nucleari, già modeste, hanno cessato di partecipare al bilancio energetico.
Questi risultati sono il prodotto di interventi molto incisivi, soprattutto sull'organizzazione del territorio e sulla politica ambientale. Nella prima parte degli anni Ottanta si pensò che il modo più efficace per differenziare il bilancio energetico consistesse nell'alimentare le centrali termoelettriche con carbone invece che con olio combustibile. Fu redatto un piano di massiccio impiego di carbone da vapore − da importarsi da aree tradizionali, quali Polonia e Stati Uniti, e da aree emergenti, come Australia, Sud Africa e Cina − che si sarebbe dovuto trasportare con grandi navi, con portata di 100.000÷150.000 t e sbarcare in due porti tirrenici (Gioia Tauro e Vado Ligure) e in due porti adriatici (Bari e Trieste), per essere immesso in centrali locali e nella rete italiana di consumo. Questo piano è stato abbandonato qualche anno dopo, soprattutto a causa di forti opposizioni da parte di gruppi ecologisti nei riguardi del carbone, generatore di fumi e di polveri dannose per l'ambiente. Opposizione ancora più decisa si è sviluppata contro la produzione di energia da combustibili nucleari, fino al referendum antinucleare del 1987, in conseguenza del quale fu abbandonato il piano di costruzione di centrali nucleari, e rimase senza commesse l'industria nucleare concentrata a Genova.
Sul piano della differenziazione delle provenienze di fonti di energia, le trasformazioni più incisive hanno avuto luogo nel campo degli idrocarburi. All'inizio degli anni Settanta il Medio Oriente forniva il 54,7% del petrolio importato in I.; questa percentuale si è ridotta al 42% nella seconda metà degli anni Ottanta. Durante lo stesso periodo i paesi africani (Maghreb e paesi guineani) hanno accresciuto i loro apporti dal 35% al 43%; dal Mare del Nord sono state importate quote di una certa consistenza; dall'Unione Sovietica sono state aumentate le importazioni; Norvegia e Messico sono stati inclusi tra i paesi fornitori. Tuttavia, le trasformazioni più grandi sono avvenute nel campo del gas naturale, grazie all'aumento della produzione nazionale con estrazioni dal sottofondo marino. Alla fine degli anni Cinquanta venivano installati i primi, rudimentali, impianti di estrazione offshore innanzi alla costa ravennate. Durante gli anni Sessanta le produzioni sperimentali sono cresciute. Negli anni Settanta le vicende del mercato internazionale hanno fornito un grande impulso alla produzione offshore. I progressi sono stati considerevoli. A metà degli anni Ottanta una trentina di piattaforme era in esercizio nell'Adriatico centrale e settentrionale, cioè nel cosiddetto ''Settore Nord'' dell'ENI. Estrazioni di gas naturale venivano compiute anche in aree ioniche. Al largo della costa sud-orientale della Sicilia entrava in esercizio la prima piattaforma dell'ultima generazione, capace di estrarre petrolio da fondali profondi oltre 300 metri. La partecipazione del petrolio di produzione nazionale al fabbisogno nazionale non è cresciuta molto: è passata da 1,1 milioni del 1973 a 4,3 milioni di t del 1991. In complesso neppure quella del gas naturale è mutata molto: nello stesso periodo è passata da 15,3 a 17,4 miliardi di m3. Tuttavia, è cambiata la provenienza: all'inizio degli anni Novanta il 73% della produzione nazionale era di provenienza offshore. Le importazioni avvenivano dall'Algeria, attraverso il metanodotto che la collega con la Sicilia, dai Paesi Bassi e dall'Unione Sovietica.
L'attività estrattiva offshore ha potuto dispiegarsi in un contesto marittimo molto diverso da quello tradizionale. Infatti, a partire dalla fine degli anni Ottanta l'I. ha condotto una politica piuttosto energica per acquisire fasce marittime alla propria giurisdizione e ha avuto una funzione trainante nella nascita di piattaforme continentali nel Mediterraneo. Secondo il diritto marittimo internazionale, la piattaforma continentale è una fascia di mare, estesa fino a 200 miglia nautiche dalla linea di base, entro la quale lo stato litoraneo può sfruttare le risorse del fondo e del sottofondo. In pratica, uno stato litoraneo non può estrarre idrocarburi dal sottofondo del mare se non all'interno della piattaforma continentale soggetta alla propria giurisdizione. Nell'ipotesi in cui le linee di base di due paesi distino tra loro meno di 400 miglia nautiche, è necessario che tra i governi intervengano trattati per dividere lo spazio marino in due fasce di rispettiva pertinenza. Nel 1968 l'I. ha stipulato con la Iugoslavia il primo trattato del genere nel Mediterraneo, in modo da dividere l'Adriatico in due piattaforme continentali, italiana e iugoslava. Ciò ha reso possibile l'avvio della politica di estrazione di gas naturale, di cui s'è detto.
Si sono poi stipulati i seguenti trattati: nel 1971, tra I. e Tunisia, per dividere la piattaforma continentale del Canale di Sicilia; nel 1974, con la Spagna, per dividere la piattaforma continentale a ovest della Sardegna; nel 1977, con la Grecia, per la piattaforma continentale del Mar Ionio. Nello stesso tempo si verificavano due altri importanti avvenimenti. In primo luogo, l'I. ha ridefinito le proprie linee di base, portandole molto più a mare di quanto fossero quelle antecedenti. Ne sono derivate conseguenze non trascurabili: estesi tratti di mare costiero sono diventati acque interne; tutte le fasce di giurisdizione, come mare territoriale e zona contigua, sono state trasferite più a mare, perché la loro estensione è misurata a partire dalle linee di base. In secondo luogo, l'estensione del mare territoriale è stata portata da 6 miglia a 12 miglia nautiche dalla linea di base. In conclusione, dall'inizio degli anni Settanta lo spazio marino soggetto alla giurisdizione nazionale si è notevolmente esteso, rendendo possibile la diffusione di rilevanti attività marittime, come l'acquacoltura e l'estrazione offshore di idrocarburi.
Industria. − Nei primi anni Settanta, allorché insorse la crisi delle materie prime, l'I. aveva raggiunto elevati tassi di crescita industriale, fondati sullo sviluppo di industrie di base, assunte come poli per incrementare produzioni di semilavorati e di prodotti finiti. Il risultato di questa politica, che tutto il mondo occidentale aveva seguito fin dal primo dopoguerra, era stato l'organizzazione dei cosiddetti poli industriali. Ne erano protagonisti alcuni essenziali settori: siderurgia, raffinazione del petrolio, petrolchimica di base, produzione di energia termoelettrica. Poiché la produzione industriale si basava sull'importazione di fonti di energia e di minerali, ne conseguiva che questi grandi impianti dovessero essere installati sulla costa, all'interno o in vicinanza di porti mercantili. Di conseguenza, per oltre un ventennio il panorama industriale italiano si sviluppò secondo due linee: l'espansione di attività basate sulla siderurgia e sulla raffinazione del petrolio; la propensione alla localizzazione costiera degli impianti di base. In tal modo le coste italiane vennero organizzate con importanti aree: Genova, Piombino, Napoli, Priolo Melilli, Taranto, Ancona, Porto Marghera, Cagliari possono essere ricordate come le più significative.
I fattori insorti successivamente hanno provocato alcuni cambiamenti. In primo luogo, le aree industriali litoranee, fondate sull'industria di base, hanno subito contrazioni produttive e, in taluni casi, vere e proprie chiusure di aziende. In tal modo, si è profilata l'esigenza di riutilizzare preziosi spazi litoranei e di trarre spunto da questa circostanza per attenuare o rimuovere impatti ambientali che le produzioni di base comportano a danno dell'atmosfera e del mare. Nella seconda parte degli anni Ottanta la ristrutturazione di queste aree appariva come una delle più incisive trasformazioni territoriali. Mentre i grandi impianti industriali di base subivano contraccolpi e incorrevano in crisi, si sono diffuse medie e piccole imprese, basate su produzioni di qualità, sull'impiego d'informatica e di tecnologie avanzate e rivolte a due mercati: forniture di semilavorati per grandi aziende, forniture di prodotti finiti all'estero. V'è da dire che la diffusione dell'informatica ha indotto grandi imprese − si pensi a quelle automobilistiche − a far ricorso ad attività esterne piuttosto che incrementare propri reparti. Di conseguenza, il tessuto produttivo si è diversificato e ha risentito della propensione a non concentrarsi in aree affollate di insediamenti. Ne hanno guadagnato l'economia e l'organizzazione del territorio. Collateralmente a questo processo v'è stata una certa diffusione di ''attività sommerse'', cioè di produzioni di semilavorati o di prodotti finiti al di fuori dei circuiti economici ufficiali e, quindi, al di fuori di imposizioni fiscali. Questo processo, presente in parecchi paesi avanzati, ha avuto in I. − soprattutto nei tardi anni Settanta e nei primi anni Ottanta − una diffusione tale che, a giudizio di molti, è stato un fattore non secondario per provocare una sorta di ''miracolo'' economico. Per quanto attiene il concorso dei settori produttivi alla formazione del PIL dell'intera economia industriale, all'inizio degli anni Ottanta era presente la seguente situazione: le attività metallurgiche e meccaniche fornivano il 30% del prodotto lordo industriale; seguivano il settore tessile e dell'abbigliamento con il 18%, il settore alimentare con il 13% e il settore della lavorazione del legno con l'8%. Tutti gli altri registravano quote inferiori.
Attività terziarie. − Nel settore terziario, protagonista delle fasi recenti dell'economia italiana, le imprese erano 1 milione nei primi anni Cinquanta e sono passate a 1,7 nel trentennio successivo. Nello stesso periodo gli addetti sono più che raddoppiati, passando da 2,7 a 5,7 milioni. I modi con cui i comparti fondamentali del settore hanno partecipato al PIL sono significativi: il commercio partecipava per il 40% nel 1951 e appena per il 33% nel 1981; lo stesso è accaduto nel settore dei trasporti, la cui partecipazione è scesa, nel trentennio, dal 23% al 19,3%; il settore degli alberghi e dei pubblici esercizi ha accresciuto la propria partecipazione appena dal 4,2% al 6,2%. Al contrario, i comparti del credito e delle assicurazioni hanno quasi raddoppiato la propria quota di produzione di ricchezza, passando dal 10,4% (1951) al 19,1% (1981). Le libere professioni sono rimaste stazionarie, attorno al 22%. Tuttavia, durante gli anni Ottanta si sono diffuse molte professioni legate all'informatica, ai media e ad altre attività, tanto da far ritenere che quest'ultimo settore dovrebbe accrescere il proprio peso relativo nell'economia terziaria. Il turismo ha consolidato la propria funzione essenziale per l'economia del paese. Nei primi anni Novanta il movimento turistico era stimato in 167,5 milioni di presenze italiane e in oltre 84 milioni di presenze straniere. I consumi dei turisti non italiani erano valutati in 7000 miliardi di lire. L'offerta turistica nazionale era basata su 1,7 milioni di posti letto in strutture alberghiere, in circa 330.000 posti letto in alloggi privati e oltre 1,2 milioni di posti in campeggi.
Comunicazioni e trasporti. − Durante gli ultimi decenni la mobilità delle persone sul territorio nazionale e attraverso i confini, così come il traffico delle merci, all'interno del paese e con l'estero, non hanno interrotto la loro espansione. A fronte di questo andamento non vi sono stati mutamenti strutturali nella rete delle vie di comunicazione, con la conseguente accentuazione di alcune anomalie italiane. La prima anomalia riguarda il rapporto tra trasporto stradale e trasporto ferroviario. Tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta il movimento delle persone nella rete ferroviaria italiana è cresciuto quasi del 25% (da 36 a oltre 45 miliardi di ''passeggeri per chilometro'', p/km). Tuttavia, in termini relativi − cioè in rapporto agli altri mezzi di trasporto − le ferrovie non hanno guadagnato terreno. Anzi, l'incidenza delle ferrovie si è ridotta: all'inizio degli anni Settanta il trasporto ferroviario di persone costituiva poco più del 10% del trasporto totale di persone, mentre nella prima parte degli anni Novanta era già sceso sotto l'8%. Nel trasporto merci la sfasatura è ancora più accentuata. Malgrado le politiche tese a incrementare il trasporto ferroviario di merci, il volume di merci trasportate con questo mezzo è rimasto stazionario attorno a 20÷21 miliardi di ''tonnellate per chilometro'' (t/km). Ciò ha fatto sì che, in termini relativi, il ruolo delle ferrovie sia andato riducendosi: negli anni Settanta trasportavano il 16% delle merci sul territorio nazionale, mentre negli anni Novanta sono scese ben sotto il 10%. La seconda anomalia riguarda la posizione italiana rispetto all'area della CEE. La rete ferroviaria italiana costituisce il 14,5% della rete della CEE. Tuttavia, mentre sulla rete nazionale è accolto poco più del 20% dei passeggeri della CEE, vi trova posto appena il 10% del traffico merci. A titolo comparativo, si può notare che sulla rete francese, estesa poco più del doppio di quella italiana, v'è un traffico merci quattro volte superiore; il rapporto si riduce di poco, a circa 3,5, quando il confronto venga compiuto con la ex Germania Federale.
La crescita della mobilità tra il paese e l'estero è aumentata al punto da mettere a dura prova l'apparato aeroportuale nazionale. Nel 1991 negli aeroporti italiani sono arrivati 327.000 vettori, con un movimento di circa 44,7 milioni di passeggeri imbarcati e sbarcati, 820.000 t di posta e oltre 4,3 milioni di t di merci. Nel corso degli anni Ottanta, il traffico aereo ha assunto − come in tutta l'Europa − ritmi di crescita superiori a quelli previsti, richiedendo misure straordinarie per moltiplicare, durante l'estate, le rotte commerciali nello spazio nazionale. Importanti opere si sono compiute in quel decennio: è stato ristrutturato l'aeroporto di Milano Linate ed è stato avviato un ampio programma di potenziamento degli aeroporti di Roma, mentre è entrato in esercizio il nuovo aeroporto di Genova.
Durante gli anni Ottanta le trasformazioni imposte ai porti marittimi dall'avvento del container e di rivoluzionarie tecnologie nel trasporto marittimo di merci, hanno raggiunto livelli considerevoli. L'I., con un ritardo di almeno dieci anni rispetto agli altri paesi sviluppati, ha dovuto dar vita a un piano di ristrutturazione organizzativa dei porti marittimi, tale da sottoporre a movimentazione, con costi accettabili, containers in terminali attrezzati con impianti automatizzati e con gestione computerizzata. Mentre alcuni porti medi, come La Spezia e Ravenna, si adeguavano celermente a queste esigenze, situazioni problematiche si profilavano nei due porti maggiori, Livorno e Genova. Dal 1970 Livorno ha aumentato senza sosta il proprio traffico di containers, portandosi in qualche anno − con circa 500.000 pezzi − al vertice della graduatoria mediterranea. Genova, invece, ha sofferto della mancanza di strutture adeguate: è stato varato un programma di potenziamento, imperniato sulla costruzione del porto satellite di Voltri, che dovrebbe dare i suoi frutti negli anni Novanta. Tuttavia, ambedue i porti − Livorno e Genova − sono stati afflitti da tensioni politiche tra le compagnie dei lavoratori e il governo, i primi ostili a introdurre innovazioni loro non gradite nell'organizzazione del lavoro. Queste vicende hanno provocato una caduta di competitività del sistema portuale italiano. Alla fine del decennio nei porti italiani transitavano 255 milioni di t di merci provenienti dai traffici internazionali e 123 milioni di t di merci di cabotaggio nazionale.
Il traffico nelle aree metropolitane ha costituito un problema sempre più importante. A fronteggiarlo ha concorso lo sviluppo delle metropolitane. Durante gli anni Settanta la rete delle metropolitane è quasi raddoppiata, portandosi vicino a 60 km, e durante il decennio successivo ha fruito di ulteriori incrementi, grazie a opere attivate in parecchie città, tra cui Milano e Genova. A metà degli anni Ottanta il traffico era stimato in oltre 2 miliardi di p/km, e ha costituito un problema sempre più assillante per le città. Da un lato, il trasporto su autovetture è cresciuto in misura tale da vanificare i miglioramenti nell'accessibilità alle città e da saturare la rete viabile interna. Dall'altro lato, lo scarico dei gas delle autovetture ha costituito un preoccupante fattore d'inquinamento atmosferico, che ha raggiunto livelli di pericolosità in parecchie aree metropolitane (Milano, Roma, Napoli, Genova). Le città, d'altra parte, hanno dovuto fronteggiare alcune importanti implicazioni, derivanti dalle trasformazioni economiche e sociali cui s'è fatto cenno. Le loro aree industriali hanno dovuto essere riorganizzate; nella localizzazione degli insediamenti s'è avvertita una certa tendenza a portarsi fuori dell'area urbana tradizionale, donde il fenomeno della deurbanizzazione, che ha richiesto interventi in sede di pianificazione; nei centri storici delle città, sedi di preziosi patrimoni culturali, si sono dovuti attuare interventi conservativi e di restauro, per i quali le risorse disponibili non sono sufficienti; lo sviluppo di nuovi tipi di terziario ha indotto a realizzare nuovi tipi di quartieri degli affari; l'espansione della ricerca scientifica e tecnologica ha imposto la creazione di nuove università e di parchi tecnologici; l'invecchiamento della popolazione ha richiesto l'allestimento di nuovi tipi di strutture ospedaliere e assistenziali.
Quadri ambientali e qualità della vita. − La percezione di quanto l'organizzazione tradizionale della città possa incidere negativamente sulla qualità della vita fa parte di una percezione più ampia, che riguarda la gestione delle risorse naturali e della protezione ambientale, e che, emersa all'inizio degli anni Settanta, si è sempre più radicata nella coscienza sociale, cosicché la politica dell'ambiente è diventata una componente fondamentale della società italiana nell'ultimo scorcio del 20° secolo.
Tensioni tra la domanda e la disponibilità di risorse si sono avvertite sempre più in merito all'approvvigionamento idrico. Secondo recenti valutazioni le disponibilità idriche del paese possono essere valutate in: 18 miliardi di m3/anno utilizzabili dalla circolazione idrica superficiale, 22 miliardi di m3/anno procacciabili attraverso la rete di dighe e di invasi della montagna alpina e appenninica, 13 miliardi di m3/anno da falde sotterranee. In totale, si tratta di 53 miliardi di m3/anno. D'altro canto, il fabbisogno idrico stimato negli anni Ottanta ammontava a 54 miliardi di m3/anno, così suddivisi: 8 per usi civili, 32 per l'agricoltura, 13 per l'industria e 1 per la navigazione interna. Pur considerando che si tratta di stime, è constatabile come, in ogni caso, il paese si sia rapidamente avviato − durante gli ultimi due decenni − verso la saturazione delle risorse idriche procurabili entro limiti di convenienza economica. Annate siccitose, come quelle della seconda parte degli anni Ottanta, hanno contribuito a sottolineare la gravità del fenomeno, che appare ancora più elevata se si tiene conto che una parte delle acque, superficiali e sotterranee, è inquinata.
La rete idrografica è stata compromessa da parecchi comportamenti umani. Prima di tutto, dal diboscamento, che ha assunto dimensioni considerevoli tanto nella regione alpina che nelle aree appenniniche. A ciò si aggiungano gli incendi boschivi, in gran parte di natura colposa e dolosa: la superficie boschiva attuale è di appena 6 milioni di ha, contro 20÷22 milioni di ha disponibili all'inizio del Novecento. Il dilavamento e la conseguente erosione accelerata si sono accentuati e diffusi proprio a causa di comportamenti degradativi del manto boschivo e d'incuria nella gestione degli alvei dei corsi d'acqua. La frequenza delle frane ne è stata una conseguenza tipica. Tra gli eventi più rilevanti si ricordano la frana di Ancona (1983) e la frana della Valtellina (1987). Tuttavia, sono le miriadi di movimenti franosi, di piccole dimensioni ma molto frequenti, che costituiscono gli aspetti più allarmanti del fenomeno, perché ne dimostrano la natura strutturale. Durante gli anni Ottanta i comportamenti meteorologici, costituiti dall'alternanza di annate aride e calde con annate fredde e umide, hanno contribuito ad accelerare i fenomeni erosivi.
Nel trentennio 1950-1980 circa 1 miliardo di t di sabbie e ghiaie è stato prelevato dall'alveo del Po. In molti altri corsi d'acqua sono avvenuti consistenti prelievi di materiali inerti. In particolare, quest'attività è stata intensa nelle foci fluviali, cioè nella fascia di contatto tra le acque dolci e quelle salate. Le dimensioni e la vastità del fenomeno hanno provocato la distruzione di molti ecosistemi, alcuni dei quali − come quelli dell'interfaccia tra mare e circolazione idrica continentale − sono dotati di particolare valore naturalistico. Tuttavia, i danni maggiori derivano dall'abbassamento della falda, che nel bacino del Po è stato così accentuato da mettere a repentaglio le basi dei ponti e degli invasi. Di conseguenza, negli anni Ottanta si è assunta consapevolezza della necessità di un'inversione di tendenza, in modo da produrre le condizioni idonee affinché i corsi d'acqua riprendano la loro erosione del fondo, trasportando da monte a valle i materiali necessari a colmare lo scompenso provocato negli ultimi decenni. Si tratta di un'opera lunga, che richiede particolare cura nella gestione degli alvei.
Per effetto della contrazione degli apporti rocciosi da parte dei corsi d'acqua, lunghi tratti dei litorali sono soggetti a erosione, donde l'arretramento delle spiagge. Durante gli anni Ottanta è venuto alla ribalta il rischio dell'innalzamento del livello del mare. Da un lato vi concorrerebbero, almeno nella fascia adriatica centrale e settentrionale, cause endogene costituite dall'abbassamento della falda continentale per effetto del prelievo di acqua e di idrocarburi, e cause esogene, giacché, in seguito all'aumento della temperatura del pianeta, i livelli della copertura oceanica tendono diffusamente a innalzarsi. Queste circostanze hanno fatto sì che, negli anni Ottanta, il problema della gestione delle coste sia stato avvertito come uno dei più delicati e più gravi dell'intero spettro dei problemi ambientali.
Naturalmente, poiché il ciclo dell'acqua si conclude in mare, i mari italiani hanno suscitato crescenti preoccupazioni per le alterazioni cui sono andati soggetti. Consapevole che il miglioramento delle condizioni ambientali dei mari soggetti alla giurisdizione nazionale non sarebbe stato possibile se non nell'ambito di una collaborazione che coinvolgesse l'intero bacino mediterraneo, durante gli anni Settanta l'I., insieme a Francia e a Spagna, esercitò un'apprezzata azione per favorire intese intra-mediterranee. L'United Nations Environmental Programme (UNEP), istituito nel 1972, non tardò a predisporre il Regional Seas Programme (1974) all'interno del quale il Mediterraneo fu scelto come prima area in cui promuovere intese regionali (MAP, Mediterranean Action Plan). Nel 1976, a Barcellona, fu sottoscritta, da tutti i paesi affacciati sul bacino, la Convenzione per la protezione del Mediterraneo dall'inquinamento. Questo strumento di cooperazione si è arricchito di quattro protocolli: a) per la prevenzione dell'inquinamento dagli scarichi da navi e da aerei (1976); b) per fronteggiare l'inquinamento derivante da petrolio e da altre sostanze in caso di emergenza (1976); c) per proteggere l'ambiente marino dall'inquinamento di origine tellurica (1980); d) per proteggere ''aree speciali'', cioè aree ecologicamente importanti o fragili (1984). Un quinto protocollo, relativo alla protezione dell'ambiente marino dall'attività industriale offshore (in pratica, dalle attività di ricerca e di sfruttamento di idrocarburi) dovrebbe entrare in vigore nella prima metà degli anni Novanta.
Secondo le valutazioni dell'Atlas of the Oceans, nei primi anni Ottanta nel Tirreno centrale e meridionale si scaricavano 10.000 t di fosforo l'anno, 70.000 t di azoto, 10.000 t di mercurio e 3.000 t di idrocarburi. Occorrevano oltre un milione di t di ossigeno per ridurre le sostanze non organiche ossidabili immesse in mare, e 370.000 t di ossigeno per aggredire le sostanze organiche. Nel Mar Adriatico si scaricavano ogni anno 85.000 t di fosforo, 250.000 t di azoto, 45.000 t di mercurio e 4.000 t di idrocarburi. Occorrevano 1,6 milioni di t di ossigeno per eliminare gli scarichi di sostanze non organiche e 800.000 t per le sostante organiche. Nel Mar Ionio erano scaricate 23.000 t di fosforo, 60.000 t di azoto, 10.000 t di mercurio e altrettante di idrocarburi. Per aggredire le sostanze non organiche occorrevano 600.000 t di ossigeno; per le sostanze organiche ne occorrevano 200.000. Lo spazio marino compreso tra Pisa e il Golfo del Leone costituisce una delle più delicate aree del Mediterraneo, almeno per due motivi: in primo luogo, perché il litorale, sia italiano che francese, è occupato da una striscia di intensi insediamenti urbani, e accoglie un numero consistente di porti di ogni dimensione e importanti aree industriali; in secondo luogo, perché attraverso il delta del Rodano sono immesse in mare considerevoli quantità di sostanze, soprattutto organiche. In questo spazio vengono scaricate 120.000 t annue di fosforo, 400.000 t di azoto, 30.000 t di mercurio e 10.000 t di idrocarburi. Per ridurre le sostanze inorganiche occorrono 2,4 milioni di t di ossigeno, e 900.000 t per le sostanze organiche. Altrettanto considerevoli le alterazioni ambientali provocate dall'occupazione dei litorali italiani. Secondo le valutazioni del MAP nelle fasce costiere italiane sono insediati circa 42 milioni di abitanti, pari a oltre il 70% della popolazione del paese. Inoltre, nell'ambito mediterraneo, le coste italiane sono quelle che − insieme alle coste del Sudest della Francia − hanno la maggiore densità di raffinerie di petrolio (oltre 5 milioni di t annue) e la maggiore densità di industrie siderurgiche, metallurgiche e chimiche. Quasi tutta la fascia costiera italiana è classificata "ad alta densità turistica".
Alla fine degli anni Ottanta la popolazione italiana disponeva di oltre 3500 calorie pro capite sicché, per risorse alimentari, rientrava in un'area ad alto tenore, che comprendeva l'intera Europa. Sul versante meridionale del Mediterraneo, disponibilità così elevate erano presenti soltanto in Libia, in Israele e in Turchia. Per reddito medio pro capite l'I., con quasi 19.000 dollari l'anno (nel 1991 secondo le stime della Banca mondiale), si colloca in una fascia di reddito piuttosto elevato. Nell'ambito europeo il paese si dispone in una posizione intermedia fra paesi che superano i 20.000 dollari l'anno (Lussemburgo, Svezia, Svizzera, Danimarca, Germania, ecc.) e paesi con redditi ancora inferiori ai 10.000 dollari (Grecia, Portogallo, paesi dell'Europa orientale, ecc.).
L'analfabetismo è continuamente diminuito: nel 1951 il tasso di analfabetismo era pari al 12,9%, mentre nel 1991 è risultato del 3%. Questo valore ha condotto l'I. a far parte dell'area europea con più basso tasso di analfabeti.
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Istituzione delle nuove province. - L'ordinamento amministrativo italiano, che fino al 1967 era articolato su 92 province, nel corso degli anni Settanta si è arricchito di tre nuove unità (Isernia, Pordenone e Oristano) alle quali ne sono state aggiunte ben altre otto: quelle di Biella, Crotone, Lecco, Lodi, Rimini, Vibo Valentia e Prato, istituite con D.L. 6 marzo 1992 (rispettivamente ai nn. 248-254) e quella di Verbano-Cusio-Ossola, istituita con D.L. 30 aprile 1992 n. 277. Il totale delle unità amministrative è così salito a 103. È previsto che le nuove province divengano operative a partire dal 1995.
Nell'ordinamento amministrativo italiano l'iter per l'istituzione di nuove province segue particolari fasi, soprattutto alla luce della normativa espressa nella l. 142 del 1990 ''Ordinamento delle autonomie locali''. Si ricorda che a norma dell'art. 133 della Costituzione, l'istituzione di una nuova provincia, se si mantiene nell'ambito della stessa regione, avviene mediante una legge della Repubblica, su iniziativa dei comuni e sentita la regione stessa. La citata l. 142 del 1990 ha integrato la disciplina costituzionale individuando, all'art. 16, alcuni criteri e indirizzi cui i comuni devono attenersi. In particolare essa prevede che ciascuna circoscrizione provinciale corrisponda a un'area territorialmente omogenea quanto a sviluppo sociale, culturale ed economico, e abbia una dimensione idonea a consentire una programmazione dello sviluppo che favorisca il riequilibrio complessivo delle aree. Inoltre, l'intero territorio di ogni comune deve far parte di una sola provincia e la popolazione delle province risultanti dalle modificazioni territoriali non dev'essere inferiore a 200.000 abitanti. L'art. 16 prescrive poi che all'iniziativa dei comuni segua l'adesione della maggioranza della popolazione; il consiglio comunale vota la propria adesione, obbligatoriamente, con maggioranza assoluta dei propri componenti. Spetta alle province preesistenti garantire alle nuove, in proporzione al territorio, personale, beni e risorse finanziarie.
Le otto nuove unità amministrative sono dislocate: in Piemonte (Biella e Verbania), in Lombardia (Lecco e Lodi), in Calabria (Crotone e Vibo Valentia), in Emilia-Romagna (Rimini) e in Toscana (Prato). Sette province su otto comprendono nel loro territorio comuni appartenuti a un'unica provincia maggiore, tranne Lecco istituita sottraendo comuni alle province di Bergamo e Como. Le caratteristiche geografiche, sociali ed economiche delle nuove province, schematicamente, risultano essere le seguenti:
Biella. − La provincia di Biella comprende 83 comuni tutti scorporati da quella di Vercelli. Da sempre il Biellese ha costituito una zona piuttosto omogenea e nel complesso abbastanza isolata rispetto alle principali vie di comunicazione che solcano la fascia pedemontana. Essa comprende la bassa Val Sesia, è racchiusa a nord da un semicerchio montuoso con vette superiori ai 2500 m, a ovest e a est da importanti bacini idrografici (Sessera, Elvo) ed è attraversata dal fiume Cervo. La consistenza demografica del capoluogo è pari a 50.993 abitanti. Altri centri importanti sono Cossato, Trivero, Gattinara, Candelo, tutti con popolazione oscillante fra i 5000 e i 15.000 abitanti. Va notato come Biella già da un decennio abbia superato Vercelli (suo precedente capoluogo) per dimensioni demografiche. Per quanto attiene la natura delle attività economiche, la nuova provincia si presenta con una notevole omogeneità e già nel 1973 si era costituita in circondario. Fra i settori industriali largo sviluppo ha il comparto tessile, il quale ha origini antichissime e una tradizione che dura dall'Alto Medioevo; le fortune del comparto sono da ricollegarsi, fra l'altro, anche alla presenza nel territorio di importanti corsi d'acqua. Fra le altre attività va ricordata l'industria meccanica, mentre si mantiene diffusa nell'area la matrice montano-pastorale.
Verbania. − La provincia di Verbania presenta una caratteristica particolare già nella sua denominazione, infatti il nome esteso è Verbano-Cusio-Ossola. Si compone di 77 comuni precedentemente inclusi nella provincia di Novara. Il capoluogo è Verbania, che deriva il suo nome dal lago sul quale si affaccia: il Lago Maggiore, anticamente detto − per l'appunto − Verbano. A sua volta il comune di Verbania è di recente istituzione (1939) ed è stato ottenuto unendo Pallanza (sede comunale) e Intra. La provincia presenta una gamma abbastanza diversificata di attività economiche; oltre le industrie meccaniche e tessili, notevole sviluppo hanno le attività terziarie, collegate sia alle spiccate vocazioni turistiche presenti nel territorio sia alle intense comunicazioni interne e internazionali (Sempione). Fra le località turistiche più rinomate, oltre Verbania, si ricordano Cannobio, Cannero e Griffa, situate sul Lago Maggiore, e Macugnaga alle pendici orientali del Monte Rosa.
Lecco. − La provincia di Lecco, unica delle nuove nella quale confluiscono comuni di due differenti province (84 provenienti dalla provincia di Como e 6 da quella di Bergamo), è collocata sulla sponda orientale del Lago di Como, a cavaliere del ramo di Lecco; comprende la Brianza orientale, la Valsassina e un gruppo di comuni situati attorno a Calolziocorte. Da sottolineare l'unanimità dei consensi mostrata dai 90 comuni all'istituzione della provincia. La popolazione del capoluogo sfiora i 50.000 abitanti. Il territorio provinciale, che in massima parte si estende in un ambiente montano, ospita una popolazione sparsa, ed era caratterizzato da difficili collegamenti con il precedente capoluogo (Como). Attività economica trainante è il turismo, che si avvale di qualificate strutture e che ha in Merate, Mandello, Oggiono, Bellano e Colico i centri principali. Sviluppato è anche il settore agricolo con la presenza di coltivazioni di cereali e ortaggi. Il comparto industriale è presente con il settore tessile (Bellano, Merate, Oggiono) e metalmeccanico (Mandello).
Lodi. − La provincia di Lodi comprende 61 comuni, tutti provenienti dalla provincia di Milano. È ubicata a sud dell'area metropolitana milanese ed è compresa tra il fiume Adda a est, il Lambro a ovest e il Po a sud. Dal 1975 nell'ambito della provincia di Milano era stato istituito l'omonimo circondario. Fra le attività economiche un ruolo di spicco spetta all'agricoltura, il cui sviluppo è legato all'intero sfruttamento delle acque per fini irrigui, sfruttamento reso possibile dall'adozione di particolari tecniche idrauliche. Elemento caratteristico di quest'area è la cosiddetta marcita, prato irriguo che a causa della funzione termale delle acque, anche durante l'inverno, viene sempre mantenuto in condizione vegetativa. Questo tipo di coltura oggi è in parte abbandonato per la più redditizia coltivazione del granoturco. Lo sviluppo del settore industriale ha incontrato seri ostacoli per la contiguità dell'area milanese, la quale ha relegato il Lodigiano a un ruolo subalterno come serbatoio di manodopera. Lodi, al pari delle principali città comprese nella nuova provincia (Codogno, Sant'Angelo, Casalpusterlengo, Castiglione d'Adda), da alcuni anni presenta un'inversione della tendenza demografica, e il Lodigiano, da tipica zona d'esodo dovuto alla vicinanza con Milano (circa 30 km), sta vivendo una fase di saldi demografici attivi, proponendosi così come un'area dinamica in grado di avviare processi di riequilibri territoriali nell'ambito della regione.
Rimini. − L'istituzione di questa provincia, creata scorporando 20 comuni dalla provincia di Forlì, si configura come un adeguamento della situazione di diritto a quella di fatto, attraverso il riconoscimento della condizione di sostanziale autonomia che caratterizzava il comprensorio di Rimini. Tale riconoscimento segue di circa 20 anni l'istituzione dell'omonimo circondario (1974). La necessità dell'autonomia amministrativa è confermata dal fatto che nel nuovo capoluogo operano da tempo, con proprie sedi, organizzazioni politiche, imprenditoriali, sindacali. Anche molti uffici statali vi hanno localizzato proprie strutture, separate da quelle provinciali. Un potente fattore di omogeneità funzionale della nuova provincia è rappresentato dallo sviluppo assunto dal settore turistico: nel solo capoluogo hanno sede ben circa 1500 esercizi alberghieri. L'area, che si affaccia sulla costiera adriatica e verso l'interno confina con la Repubblica di San Marino, oltre alla cimosa costiera comprende le ultime propaggini dell'Appennino (la Valmarecchia, l'alta valle del Conca) e oltre al capoluogo ospita i centri di Santarcangelo di Romagna, Riccione, Cattolica, Bellaria-Igea Marina. Tutta la fascia costiera ha subito un grande processo di urbanizzazione a scopi turistici: di fatto lungo una striscia di una sessantina di km si estende, pressoché ininterrottamente, una città lineare costituita da alberghi, pensioni, ville, condomini, ecc. che, nella stagione balneare, alimentano una vera e propria ''industria'' del turismo.
Prato. − La provincia di Prato riunisce i comuni che si estendevano lungo il bordo occidentale della provincia di Firenze, a partire dalla valle dell'Ombrone sino allo spartiacque appenninico. Il territorio provinciale ospita soltanto sette comuni (è infatti il più piccolo fra le nuove province), è attraversato dal Bisenzio, ed è caratterizzato da un paesaggio ''rude'', soprattutto ove raffrontato con la dolcezza dei colli che circondano Firenze. Da tempo i comuni dell'area pratese rivendicavano l'istituzione di una provincia autonoma, e molti passi erano stati effettuati allo scopo di sottolinearne i caratteri di specificità e di peculiarità (per es. a Prato è stato istituito, unico caso in I. in città non capoluogo, l'ufficio IVA). L'economia della provincia ha il proprio punto di forza nel settore tessile, che nonostante alcune difficoltà rimane uno dei più progrediti comparti industriali italiani. L'istituzione della nuova provincia è stata tenacemente voluta e propugnata dalle forze locali e ha così soddisfatto le istanze autonomistiche dei Pratesi. Quella di separare Prato da Firenze è comunque una decisione non congrua rispetto alla l. 142 del 1990, mediante la quale viene istituita l'area metropolitana e alla cui delimitazione è chiamata a decidere la regione Toscana. Appare difficilmente dubitabile che Prato appartenga all'area metropolitana di Firenze, qualunque sia il criterio adottato per la sua delimitazione. Risulta ora ancor più problematico fondere in un unico organismo metropolitano Firenze e Prato, dal momento che a quest'ultima è stata concessa l'autonomia amministrativa.
Crotone e Vibo Valentia. − Istituite scorporando dalla provincia di Catanzaro rispettivamente 27 comuni per Crotone e 50 comuni per Vibo Valentia, costituiscono le unità amministrative forse più necessarie fra quelle di nuova istituzione. La divisione della Calabria in sole tre province rispondeva con qualche difficoltà alle esigenze di un'amministrazione efficiente su tutto il territorio regionale; infatti le grandi distanze e le caratteristiche morfologiche del territorio calabro, montuoso per il 90%, finivano per separare nettamente le zone periferiche dal rispettivo capoluogo. A favore dell'istituzione delle due nuove province hanno poi giocato comunanze storiche, tradizioni popolari e specificità socio-economiche.
Crotone. Come capoluogo provinciale Crotone ha accentuato le sue funzioni di centro commerciale e di porto industriale, diventando una vera e propria isola produttiva nel contesto rurale del versante ionico della Calabria. I maggiori impianti industriali appartengono al gruppo ENI e da tempo hanno manifestato sintomi di crisi. Accanto a queste attività (chimica ed elettrometallurgia) sono sorte imprese di medie e di piccole dimensioni, mentre stenta a decollare il terziario produttivo. Fra gli altri centri della nuova provincia si ricordano Cirò Marina, Cutro, Isola di Capo Rizzuto, la cui importanza demografica è in costante aumento.
Vibo Valentia. La provincia di Vibo Valentia è posta all'interno dell'altopiano vibonese e confina a ovest con il mare Tirreno. Di tutto l'ambito regionale il distretto vibonese si configura come l'area relativamente più attrezzata, in quanto qui sono confluiti investimenti nei comparti turistico (Tropea, Pizzo, Briatico, Nicotera Marina) e agricolo (ordinamenti policulturali). Vibo Valentia e il porto della vicina Vibo Marina costituiscono un nucleo industriale che, unitamente a quello di Crotone, si pone fra i principali della Calabria. Sono presenti all'interno del nucleo aziende alimentari e chimiche e uno stabilimento metallurgico. Il turismo rimane la maggiore risorsa economica della neo-provincia, soprattutto per i centri situati lungo la cimosa costiera.
Evoluzione della rete urbana. − Dinamiche demografiche. − Fra i mutamenti più importanti che si sono verificati in I. nel corso degli anni Ottanta si segnala l'evoluzione della trama insediativa. Al pari di quanto avvenuto nei sistemi territoriali dei paesi più evoluti, anche la rete urbana italiana ha subito sensibili modificazioni assecondando le trasformazioni verificatesi sia nel mondo della produzione sia nei comportamenti sociali e politici della popolazione. Il fenomeno che si è imposto con maggiore evidenza è l'arresto della crescita demografica nei principali comuni italiani. Questa tendenza, riscontrabile anche in altri paesi a economia matura, è stata oggetto di interpretazioni diverse a causa, da un lato, della scarsa coincidenza fra estensione del comune e dimensioni dell'agglomerato urbano, dall'altro della difficoltà di definire territorialmente i confini della città. Già da tempo, in effetti, molte città avevano travalicato i limiti comunali, ma da alcuni anni questo fenomeno si è accentuato in conseguenza dell'inclusione nella ''città'' di quei centri che, seppur non fisicamente contigui, sono tuttavia a esse funzionalmente collegati.
Senza entrare nel merito delle questioni di compartimentazione va comunque segnalato, e si desume dalla tab. 15, come la popolazione dei principali comuni, o delle principali città italiane, ha subito, tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta, un rallentamento nella crescita, che una parte della dottrina interpreta come una vera e propria inversione della tendenza di fondo. E questo fenomeno ha avuto spiegazioni diverse.
La prima in ordine di tempo è quella proposta da B.J.L. Berry che fin dal 1976 ha coniato il termine di ''controurbanizzazione'' (counterurbanization), per indicare il processo di deconcentrazione demografica in atto nelle principali aree metropolitane americane sin dai primi anni Settanta, a cui si associa il declino, e il riassetto, delle grandi città. La brusca interruzione nei processi di urbanizzazione degli Stati Uniti (ma il fenomeno interessa un po' tutti i paesi a economia matura) sarebbe determinata, secondo l'autore, dal drammatico deterioramento della qualità della vita, direttamente correlato alle abnormi dimensioni raggiunte dalle conurbazioni moderne. L'inquinamento, il degrado dei centri storici o comunque dei quartieri centrali, i conflitti sociali e razziali, la congestione del traffico e altri fenomeni legati alle peculiari condizioni della vita urbana, sarebbero all'origine dei nuovi comportamenti territoriali maturati dalla popolazione, sempre più alla ricerca di una dimensione più umana del vivere, in aree che godano di migliori condizioni ambientali. L'esodo dalla città, incentivato tra gli altri elementi anche dall'innalzamento dei redditi pro capite e dalle nuove domande di residenza urbana, non riguarda tuttavia solo gli aspetti strettamente demografici. Il meccanismo di progressiva agglomerazione di attività economiche, che ha cumulato propri effetti nel corso di decenni, raggiunti alcuni limiti di saturazione, finisce per provocare anche il decentramento di una porzione ragguardevole di strutture produttive.
L'impiego del termine controurbanizzazione, dunque, si riferisce specificatamente al fenomeno secondo cui il declino demografico e occupazionale delle grandi città comporta un parallelo sviluppo accelerato delle aree esterne, sia di quelle periurbane, sia soprattutto di quelle più lontane, anche ove non raggiungibili con brevi spostamenti, ossia nell'ambito del pendolarismo quotidiano. L'arresto della crescita demografica delle grandi conurbazioni va, infine, a vantaggio di tutta la rete urbana intermedia (costituita da città di medie e di medio-piccole dimensioni), anche di quella che organizza gli spazi economici marginali, e quindi situata in posizione periferica rispetto alle tradizionali regioni ''forti''. Si assiste, in ultima analisi, all'interruzione di un meccanismo di crescita basato sulle economie di agglomerazione, sui processi di concentrazione, sulla crescita per contiguità.
Un secondo orientamento interpretativo è espresso dal cosiddetto ''ciclo di vita della città'', secondo il quale la crescita urbana e, in particolare, le relazioni intercorrenti tra lo sviluppo del centro e quello della periferia, non avvengono secondo un processo evolutivo di tipo casuale, ma sono regolate da un ciclo scandito in quattro fasi ben determinate (urbanizzazione, suburbanizzazione, disurbanizzazione e riurbanizzazione). Il tratto caratterizzante del modello teorico è l'individuazione del meccanismo secondo cui avverrebbe il passaggio da una fase all'altra del ciclo, meccanismo governato da fenomeni di saturazione dello spazio fisico e di congestione economica. Dopo una prima fase, nel corso della quale la popolazione tende a concentrarsi nelle principali città su cui è imperniato il sistema regionale, l'evoluzione urbana conosce una seconda fase in cui prevale lo sviluppo delle aree periferiche, in conseguenza dell'espulsione della popolazione, e delle funzioni, dal cosiddetto Inner core. Tra le funzioni che trovano ospitalità nelle periferie delle grandi città, oltre a quelle industriali il cui spostamento è motivato non solo dall'esigenza di disporre di grandi aree da destinare agli impianti ma anche dall'insorgere di diseconomie esterne quali inquinamento e congestione del traffico, vi sono soprattutto quelle residenziali: quote crescenti di abitanti abbandonano il centro cittadino, degradato e poco vivibile, alla ricerca di spazi abitativi più salubri e meno massificanti.
La terza fase, quella della disurbanizzazione o del declino, corrisponde all'affermarsi di fattori che causano il potenziamento delle tendenze decentrative; tra cui in particolare il progresso tecnico, con la sua capacità di abbattere la tradizionale impedenza del territorio e le onerosità connesse alle distanze da percorrere. Altri importanti fattori che contribuiscono ad accentuare l'importanza e la convenienza economica del decentramento localizzativo, e quindi dello sviluppo urbano periferico, sono l'innalzamento dei redditi e il varo di strategie urbanistiche. La quarta fase descritta dal modello del ciclo di vita della città prevede l'inizio di un periodo di riurbanizzazione, fenomeno che tuttavia non risulta comprovato dall'evidenza empirica.
Un'ulteriore ipotesi, infine, è quella riconducibile al pensiero di J. Gottmann che teorizza la crescita e la trasformazione delle grandi regioni urbanizzate del globo nelle cosiddette ''megalopoli''. Prendendo le mosse dalla constatazione dell'esistenza di forme di sviluppo urbano non più monocentriche, l'autore abbandona lo studio del singolo organismo urbano quale unità di riferimento, per affrontare le tendenze demografiche in atto nell'intero sistema regionale e nella megalopoli. Il fenomeno che per Gottmann è necessario indagare riguarda dunque aggregati territoriali di vaste dimensioni, ai quali corrispondono alte concentrazioni di popolazione, non inferiori comunque ai 25 milioni di abitanti; ed è sulla base di questi nuovi confini megalopolitani che occorre interpretare l'incremento o il decremento demografico, la crescita e la diffusione di nuove funzioni, la specializzazione interna o addirittura una gerarchia di località centrali. Fra le megalopoli allo stato potenziale, con particolare riferimento al caso italiano, l'autore segnala la progressiva affermazione della ''megalopoli padana'', ossia di quel sistema di città che, incentrandosi sul tradizionale triangolo industriale (Torino, Milano, Genova), si estende lungo le direttrici orientale (pianura padano-veneta e direttrice romagnola-marchigiana), meridionale (comprendente la riviera di Levante e la rete urbana costiera della Toscana) e centro-occidentale (la Riviera di Ponente e le città costiere della Francia).
I movimenti della popolazione (siano essi di tipo naturale, e quindi natalità e mortalità, o i saldi migratori) rappresentano soltanto una delle componenti della recente evoluzione del sistema insediativo italiano. Nel determinare l'inversione nella tendenza demografica hanno giocato un ruolo centrale anche alcuni moventi di tipo economico. In particolare vanno ricordati i processi di ristrutturazione industriale e quelli di terziarizzazione innescati dalle due grandi crisi petrolifere degli anni 1973-74 e 1979-80 che hanno coinvolto il mondo della produzione nel suo complesso. Con gli anni Ottanta ha preso avvio, nell'economia italiana, un rapido processo di terziarizzazione, legato sia all'emergere di una nuova domanda di attività di servizio per l'apparato produttivo, sia al potenziamento di un terziario per le famiglie, diretta conseguenza delle carenze palesate dai servizi pubblici. Alla vera e propria esplosione delle attività terziarie si è contrapposta la perdita d'importanza del comparto industriale, che pur continuando a mantenere un ruolo essenziale nel processo di crescita del paese, ha mostrato evidenti perdite di produttività e di forza trainante. In tale contesto, molto pronunciata è risultata la crisi delle cosiddette attività energy intensive, o più in generale dei settori di base, mentre maggiore importanza tendono ad assumere attività che si avvalgono di rilevanti quantità di know how e di innovazioni tecnologiche. La sostituzione dei settori manifatturieri avanzati ai settori di base e il connesso passaggio a un'economia matura comportano sostanziali rimodellamenti del territorio, attraverso meccanismi di complessificazione dello spazio geografico, sempre meno inquadrabili e interpretabili alla luce delle teorie geografiche consolidate.
Da un punto di vista strettamente geografico, non tutte le componenti regionali italiane hanno mostrato analoghe tendenze alla deconcentrazione demografica, rendendo con ciò espliciti i divari economici che dividono l'I. centro-settentrionale dal Mezzogiorno. L'evoluzione della rete urbana italiana, infatti, non ha fatto che riflettere gli squilibri esistenti, e ciò è dimostrato dal fatto che, mentre nelle regioni economicamente più mature il processo di deconcentrazione demografica ha avuto modo d'innescarsi e di produrre effetti territoriali, nelle aree del Mezzogiorno non solo tale processo si è realizzato con debolissima intensità, ma nella maggior parte dei casi è proseguita la tendenza alla concentrazione urbana.
Più in particolare, le regioni nelle quali più che in altre si è avvertito il declino demografico sono state la Liguria, che già dai primi anni Settanta ha manifestato un andamento decrescente della concentrazione della popolazione, e la Lombardia, in cui il processo di urbanizzazione e di concentrazione della popolazione si è arrestato immediatamente a ridosso della prima crisi petrolifera. Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio nonché Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta hanno registrato una caduta nella concentrazione demografica in epoca successiva, a riprova, probabilmente, di una struttura produttiva più giovane e meno legata all'industria di base rispetto a quella presente sia nella Liguria che nella Lombardia. Anche in queste regioni, comunque, il sistema territoriale e produttivo sembra avviato − sia pure con intensità e ritmi diversi − verso fasi di maturità industriale.
Umbria e Marche da una parte, Campania e Puglia dall'altra, hanno mostrato andamenti tra loro analoghi a testimonianza di una situazione produttiva non del tutto evoluta e in fase di ulteriore potenziamento. Per quanto riguarda Umbria e Marche, più che di inversione nella tendenza alla concentrazione si può parlare di arresto nella crescita demografica a partire dai primi anni Ottanta. Per Campania e Puglia invece il calo demografico denunciato dai principali centri urbani sembra doversi addebitare, più che a improbabili fenomeni di maturità industriale, all'incidenza di fatti congiunturali, legati cioè alle coeve vicende della crisi economica. Si tratta, in particolare, delle difficoltà incontrate dai settori metallurgico, meccanico e petrolchimico, largamente presenti in entrambe le regioni, in conseguenza delle quali è insorta l'esigenza della ristrutturazione degli impianti e si è avuto un calo dell'occupazione. La Campania, inoltre, sembra pesantemente risentire dei problemi dell'area metropolitana di Napoli, problemi aggravati dal sisma del 1980.
Le rimanenti regioni, Abruzzo, Molise, Calabria, Basilicata, Sicilia e Sardegna, hanno mostrato di mantenere un'inequivocabile tendenza alla concentrazione demografica, sintomo evidente che a guidare i fenomeni di deconcentramento sono le modificazioni intervenute nella struttura produttiva. L'arretratezza di queste aree, l'ancora elevato grado di ruralità, continuano ad alimentare un comportamento territoriale della popolazione tuttora in linea con i fenomeni di urbanesimo che sono stati caratteristici dell'I. nel suo complesso per tutti gli anni del boom economico.
L'apparente contraddizione tra l'arresto della crescita demografica e l'espansione territoriale delle città, che nel corso dell'ultimo ventennio ha interessato dapprima i maggiori comuni italiani per poi estendersi a quelli via via minori, contribuendo a creare un vero e proprio processo di urbanizzazione di tutta la ''campagna'' (delle regioni più evolute), non è priva di conseguenze anche sul piano più propriamente metodologico. Da più autori (G. Dematteis, O. Vitali, B. Cori, A. Celant, e altri) è stato rilevato come fosse fuorviante limitare il campo delle indagini assumendo come unità di riferimento la popolazione del comune capoluogo. In un numero elevato e crescente di casi, infatti, si è assistito a una progressiva perdita di importanza demografica dei centri storici a favore in un primo tempo delle periferie vicine (che non necessariamente sono ricomprese nello stesso comune del capoluogo) mentre, successivamente, il fenomeno ha finito per coinvolgere anche i centri via via più lontani.
Di qui l'esigenza di assumere come unità di base non tanto il comune (troppo piccolo e, nelle città maggiori, meno esteso − tranne rare eccezioni − della superficie occupata dall'abitato), quanto l'area effettivamente urbanizzata. In termini di geografia urbana, ciò che è lentamente, ma inesorabilmente, mutato è stato il tradizionale paradigma centro-periferia che, secondo un'affermata consuetudine di studi geografici e urbanistici, contrapponeva al centro urbano vero e proprio, in una posizione funzionalmente dominante, la campagna circostante situata per l'appunto in una posizione subordinata.
L'evoluzione urbana verificatasi nel corso degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, si è dunque tradotta in un'espansione progressiva della città verso i territori circostanti, coinvolgendo nella sua crescita i comuni un tempo limitrofi e che sono via via venuti a far parte integrante delle nuove strutture metropolitane. Questo fenomeno, un tempo prerogativa delle principali città italiane, Roma, Milano, Torino, Genova, ha gradualmente coinvolto anche i centri demograficamente minori, interessando città di dimensioni medie o addirittura medio-piccole quali, per es., Palermo, Bologna, Firenze, ma anche Bergamo, Verona, Ferrara, Catania, Perugia, ecc. Il processo urbano in atto ha avuto un riscontro normativo nella l. 142 del 1990 "Ordinamento delle autonomie locali" che ha provveduto a istituire nove aree metropolitane (Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari) demandando alle regioni a statuto speciale, Sicilia e Sardegna, l'istituzione di analoghe strutture (Palermo e Catania per la Sicilia, Cagliari per la Sardegna). Si osserva tuttavia come, nonostante fosse stato accordato alle regioni un lasso di tempo di un anno per provvedere alla delimitazione delle aree metropolitane, nella maggior parte dei casi questo termine è stato del tutto disatteso (v. sopra: Istituzione delle nuove province).
Dinamiche funzionali. − L'evoluzione recente della rete urbana italiana, oltre ai mutamenti connessi alle dinamiche demografiche, è legata alle trasformazioni e al potenziamento delle funzioni svolte dalle città. In particolare si tratta delle funzioni terziarie, ossia della gamma di servizi presenti nei centri urbani e predisposti per soddisfare la domanda locale, ovvero quella a carattere regionale, sovraregionale, nazionale o − in numero limitato ma crescente di casi − internazionale.
Per lungo tempo la teoria che meglio di ogni altra ha saputo interpretare la distribuzione delle attività terziarie tra le diverse città di una regione è stata la teoria delle località centrali, dalla quale viene ricavata la nozione stessa di rete urbana. Elaborata nei primi anni Trenta dal geografo tedesco W. Christaller, più volte sottoposta a un aggiornamento delle proprie basi logiche e diversamente adattata alle molteplicità di realtà regionali (con studi di A. Lösch, E.L. Ullman, W. Isard, B.J.L. Berry, ecc.), questa teoria dimostra come la distribuzione delle città sul territorio non sia accidentale, ma esista una certa regolarità sia nella disposizione, sia nella gerarchia dei centri urbani, essendo quest'ultima regolata dalla diversa importanza delle funzioni da essi svolte. Le funzioni urbane, dunque, risultano distribuite tra le diverse città secondo un principio gerarchico, ovvero esiste una certa corrispondenza fra consistenza demografica e complessità della struttura dell'offerta. Ciò significa che nei centri di maggiori dimensioni sono presenti non solo un numero più elevato di servizi ma anche servizi di rango via via superiore, ossia progressivamente meno diffusi sul territorio. Naturalmente, nei centri più importanti, accanto alle attività terziarie superiori, sono compresenti anche i servizi dei ranghi inferiori. Lo schema territoriale che ne risulta prevede un insieme di città ordinatamente distribuite sullo spazio geografico, con funzioni logicamente intervallate, configuranti la cosiddetta rete urbana. Questa costruzione logica ha costituito la principale teoria di riferimento per i modelli di organizzazione dello spazio geografico nei paesi dell'Europa occidentale (I. compresa) e del Nord America, fino a tutti gli anni Cinquanta e parte degli anni Sessanta.
L'affermarsi di un processo di sviluppo avanzato, che dal settore secondario trasferisce sul settore terziario le maggiori forze propulsive, ha però progressivamente eroso alla teoria delle località centrali le proprie capacità interpretative. La crisi della grande industria e la connessa affermazione di modalità produttive basate non più sulle economie di scala bensì sulla multilocalizzazione industriale e sulla segmentazione del ciclo tecnico del prodotto, l'affermazione delle industrie high-tech, l'esplosione dei servizi destinati al consumo intermedio (servizi alle imprese), i grandi progressi raggiunti nel settore dei trasporti e delle comunicazioni, sono tutti fattori che hanno contribuito ad alterare le modalità di costruzione dello spazio geografico, introducendo nuove tendenze nella localizzazione dei servizi. La diffusione, soprattutto nei paesi a economia avanzata che si è soliti definire a economia post-industriale, di crescenti livelli di benessere economico ha portato a una progressiva redistribuzione dei servizi sul territorio originando così un processo di progressiva urbanizzazione delle campagne. Conseguentemente, la localizzazione di servizi di rango anche elevato non costituisce più una prerogativa delle città di dimensioni medie o medio-grandi, ma avviene secondo modalità di diffusa distribuzione sul territorio. Anche i servizi alle imprese, un tempo di esclusiva pertinenza dei centri urbani più evoluti, sono ora caratterizzati da una maggiore dispersione territoriale, che li vede presenti anche in località demograficamente poco rilevanti.
Il venir meno di una correlazione fra rango dei servizi e dimensioni urbane e il conseguente mutamento del principio della compresenza con quello della specializzazione funzionale, sono altrettanti sintomi del progressivo sfaldamento della costruzione logica elaborata da W. Christaller e dai suoi successori. In altri termini, nelle regioni economicamente più evolute del globo, l'organizzazione geografica del territorio basata sul principio gerarchico viene progressivamente sostituita da un assetto urbano di tipo ''reticolare'', costruito quindi non più su un'integrazione verticale (gerarchica, pertanto) bensì su un'integrazione orizzontale (territoriale), per l'appunto denominato ''a rete''.
In I. il fenomeno è particolarmente evidente nella Padania occidentale, ma le regioni nord-occidentali della Toscana e in parte le Marche stanno anch'esse mostrando i prodromi di analoghe ristrutturazioni territoriali. I processi di deconcentrazione demografica, che hanno coinvolto città quali Torino, Milano, Genova, ma anche Roma, Firenze e Bologna, sarebbero dunque interpretabili come la risultanza di due ordini di tendenze: da un canto la caduta nella crescita della popolazione che si giustifica sia con il calo della natalità e con l'arresto delle correnti migratorie interne, sia con una certa redistribuzione della popolazione in un contesto più ampio di quello più propriamente urbano; dall'altro la disponibilità di servizi diversificati, anche ai livelli locali, che rappresenterebbe un importante disincentivo per gli abitanti dei centri di piccola e media dimensione a spostarsi e ad affluire verso le grandi conurbazioni, dove la qualità della vita sta subendo drastici deterioramenti.
Apparentemente contrastante con il principio della diffusione funzionale sul territorio è il fenomeno della ripolarizzazione o ricentralizzazione delle città, fenomeno delineato dagli studiosi italiani tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Si tratta del processo secondo cui nelle aree metropolitane di particolare importanza, quali Milano e Roma (ma subordinatamente anche Torino, Genova, Bologna, e via dicendo), si concentrano servizi alle imprese, connotati da alta specializzazione e per questo definiti di tipo strategico, che fanno di queste due metropoli due nodalità dello spazio economico europeo e non solo italiano.
Nel corso degli anni Ottanta la rete urbana italiana si è dunque evoluta in modo molto diversificato. Da un punto di vista demografico, nelle regioni centro-settentrionali è ormai acquisito il processo di deconcentrazione della popolazione, nel senso sia di un'attenuazione delle correnti migratorie, sia di una redistribuzione della popolazione fra la città vera e propria e le sue aree limitrofe. Simile processo è molto meno avvertito nelle regioni del Mezzogiorno, e in particolare per alcune di esse il fenomeno dell'urbanesimo è ancora oggi vivace, anche se molto meno pronunciato rispetto al passato.
Più complessa è la situazione per quanto riguarda le funzioni urbane. Nelle regioni settentrionali, a parità di concentrazione demografica le città ospitano servizi qualitativamente superiori, oltre che molto diversificati, e ciò vale in particolare per l'area metropolitana milanese e per l'area urbanizzata di Torino. Fenomeno analogo si riscontra nelle aree urbane dell'Emilia, della Toscana, del Veneto e, anche se con caratteri più sfumati, a Napoli. Più specificatamente, la concentrazione territoriale di un'estesa gamma di servizi presenti nell'area metropolitana milanese conferma la grande potenzialità di offerta del triangolo Milano, Como e Varese. Rilevante è anche il ruolo di Torino e del suo hinterland. A fronte di queste due grandi polarità dello spazio economico italiano si contrappone una certa dispersione nella grande regione che comprende il cosiddetto modello NEC (Nord-Est e Centro), ossia il Veneto, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, l'Emilia-Romagna, la zona costiera delle Marche e la Toscana settentrionale. Molto marcate sono le due grandi direttrici nelle quali si innerva lo sviluppo di queste regioni: l'asse alto padano allineato lungo i capoluoghi Milano, Brescia, Verona, Padova, Venezia con prolungamenti verso Udine e Trieste, e la direttrice della Padania meridionale lungo l'asse Milano-Bologna e il suo prolungamento con il ramo marchigiano. Buona è pure la presenza di poli di terziarizzazione nella media e nella bassa valle dell'Arno oltreché nella sezione costiera della Liguria e della Toscana. Accanto ai servizi strategici e a quelli più importanti esiste un set di servizi di rango medio-alto, fortemente dinamico, e destinato a diffondersi dalle aree tradizionalmente più dotate alle regioni in fase di decollo industriale. Oltre che dai tradizionali centri quali Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo, tali attività vengono via via offerte anche dai capoluoghi provinciali e dai grandi comuni.
Il processo di crescita che si è affermato in I. nel corso degli anni Ottanta da un canto determina un incremento dei divari di natura funzionale che esistono tra le maggiori città del paese e il tessuto urbano intermedio, dall'altro sta favorendo il diffondersi di funzioni medie e medio-alte, un tempo prerogativa di pochi centri. Nei sistemi economici più evoluti, nelle regioni a intensa urbanizzazione, le modalità di strutturazione dello spazio geografico tendono sempre più ad abbandonare principi gerarchici a favore di forme di integrazione di tipo funzionale. Fenomeno questo particolarmente evidente nella Padania, ossia nella regione tradizionalmente ''forte'' dell'economia italiana, in cui è progressivamente venuto a mancare il principio christalleriano dell'organizzazione dello spazio geografico e della rete urbana, a favore di un'evoluzione in senso nebulare o reticolare.
Un fenomeno analogo non coinvolge ancora le regioni del Mezzogiorno, per le quali i principi basilari della teoria delle località centrali continuano a rimanere le modalità più verosimili di costruzione dello spazio geografico. Tralasciando le anomalie collegate alla presenza di Roma capitale, le uniche due regioni che sembrano sufficientemente dotate di servizi, sia alle imprese che alle famiglie, sono la Puglia e la Campania. In particolare, la maggiore concentrazione di servizi di medio rango, e pertanto dei centri della rete urbana media e medio-bassa, si osserva intorno a Napoli, la quale è ai vertici di una regione che si conferma come la principale zona industriale e terziaria del Sud del paese. La Puglia è caratterizzata da una tipologia insediativa assai diversa, nella quale si possono riconoscere elevati caratteri diffusivi. Fra queste due regioni e il resto del paese si constata una frattura funzionale che interessa le province di Grosseto, Viterbo, Terni, L'Aquila e Chieti; al disotto di questa fascia emergono due sistemi: il primo focalizzato sul corridoio Roma-Napoli, l'altro sul triangolo pugliese Bari-Brindisi-Taranto. Nel resto del Mezzogiorno si conferma una grande carenza di attività terziarie di tipo intermedio con significative assenze nei settori che si rivolgono alle imprese; unica eccezione è data dalla Sicilia orientale, gerarchizzata nell'asse Catania-Siracusa, con propaggini nella Sicilia meridionale.
Bibl.: J. Gottmann, Megalopolis. The urbanized northeastern seabord of the United States, New York 1961 (trad. it., Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluricittà, Torino 1970); B.J.L. Berry, The human consequences of urbanization, ivi 1973; Urbanization and counterurbanization, a cura di B.J.L. Berry, Beverly Hills-Londra 1976; Megalopoli mediterranea, a cura di C. Muscarà, Milano 1978; Dynamics of urban development, a cura di L.H. Klaassen, W.T.M. Molle, J.H.P. Paelinck, Aldershot 1981; C. Cencini, G. Dematteis, B. Menegatti, L'Italia emergente, Milano 1983; J. Gottmann, La città invincibile. Una confutazione dell'urbanistica negativa, ivi 1983; G. Dematteis, Controurbanizzazione e strutture urbane reticolari, in Sviluppo multiregionale. Teorie, metodi, problemi, a cura di G. Bianchi, I. Magnani, ivi 1985, pp. 121-32; Urban systems in transition, a cura di J.G. Borchert, L.S. Bourne, R. Sinclair, Amsterdam 1986; La rivitalizzazione delle aree metropolitane, a cura di M.C. Gibelli, Milano 1986; Counterurbanization, a cura di R. Perry, K. Dean, B. Brown, Norwich 1986; Nuova città e nuova campagna, a cura di A. Celant, Bologna 1988; Les villes ''européennes'', a cura di R. Brunet, Montpellier 1989; G. Alleva, A. Celant, Una classificazione della rete urbana italiana secondo la dotazione di servizi alle imprese, in Quaderni di Studi e Ricerche, 2 (1990), pp. 9-89; Città e industria verso gli anni Novanta, a cura di F. Borlenghi, Torino 1990; Gerarchia e reti di città, a cura di F. Curti e L. Diappi, Milano 1990; Studi sui sistemi urbani, a cura di D. Martellato e F. Sforzi, ivi 1990; G. Scaramellini, Funzioni centrali, funzioni metropolitane, reti urbane, ivi 1990; C.S. Bertuglia, A. La Bella, I sistemi urbani, ivi 1991; C. Muscarà, Dal decentramento urbano alla ripolarizzazione dello spazio geografico italiano, Roma 1992.
Evoluzione del settore agricolo. - Nel corso degli ultimi decenni l'agricoltura, soprattutto sotto il profilo dell'occupazione, da struttura portante è diventata settore marginale dell'economia nazionale. L'esodo agricolo ha coinvolto tutti gli ambienti agrari e tutti i ceti contadini (braccianti, affittuari, mezzadri, piccoli proprietari, ecc.). Esso, però, ha toccato le punte di massima intensità nell'ambiente montano, sia delle Alpi che dell'Appennino, dove la maggior parte dei comuni ha perduto fino all'80% degli addetti all'agricoltura.
Molti dei contadini che hanno cambiato mestiere, tuttavia, continuano a gestire la propria azienda durante il tempo libero. In tal modo si è largamente diffusa l'agricoltura part-time, che ormai interessa oltre un terzo delle aziende italiane, con particolare diffusione in due ambienti agrari: le aree caratterizzate dalla piccola proprietà, le cui limitate dimensioni richiedono poche giornate di lavoro l'anno, e le aree in cui prevalgono le colture legnose, che hanno bisogno di abbondante lavoro solo in alcune stagioni. Il numero più elevato di aziende gestite a tempo parziale si registra in Puglia, quello più basso nelle Marche e nell'Emilia.
Variazioni nella struttura e nella conduzione delle aziende. − Data la forte contrazione della mano d'opera contadina, tra il 1951 e il 1991 la quota di superficie agraria e forestale disponibile per ogni addetto all'agricoltura si è innalzata da 3 a oltre 10 ha. La dimensione media delle aziende, tuttavia, non ha subito sostanziali cambiamenti perché solo pochi dei terreni resi liberi dall'esodo sono stati immessi sul mercato fondiario o sono confluiti in altre aziende con contratti di affitto.
L'ultimo censimento dell'agricoltura (1990) ha rilevato 3.035.682 aziende, le quali presentano una superficie media di appena 7,5 ha. La sostanziale rigidità della superficie media, tuttavia, non lascia trasparire un certo rimaneggiamento, che si è verificato nelle singole classi dimensionali delle aziende e che, soprattutto nelle regioni meridionali, è dovuto da un lato al ridimensionamento o smembramento delle grandi proprietà latifondistiche e dall'altro a un timido processo di ricomposizione delle aziende più piccole.
Dal punto di vista numerico le grandi aziende, cioè quelle superiori a 50 ha, costituiscono una percentuale esigua (1,4%); sotto il profilo territoriale, però, esse coprono buona parte (42%) della superficie agraria e forestale. Al contrario le piccole aziende, considerando tali quelle inferiori a 10 ha, rappresentano una percentuale molto più elevata (90%), ma abbracciano una superficie assai più ridotta (30%). Ne deriva che le classi aziendali di ampiezza intermedia (19÷20 e 20÷50 ha) hanno una scarsa incidenza nella maglia poderale.
Oltre all'estensione media piuttosto limitata, le imprese presentano una debole unità territoriale. Su scala nazionale, infatti, solo i due quinti si compongono di un unico corpo; il resto, invece, si smembra in varie parcelle situate in zone diverse. La loro frammentazione è spinta ai limiti estremi in alcune aree del Mezzogiorno, dove anzi tende ad accentuarsi. Tra il 1960 e il 1990, infatti, le aziende costituite da oltre 5 parcelle hanno accresciuto la loro incidenza, sia per numero che per superficie, nel Molise, in Campania, in Puglia e in Basilicata. Ciò rappresenta un elemento fortemente patologico nell'evoluzione della struttura fondiaria, perché ostacola la meccanizzazione delle operazioni colturali e innalza i costi di gestione.
La contrazione della mano d'opera agricola, se poco ha contribuito all'evoluzione delle strutture fondiarie, ha avuto un'influenza decisiva nel modificare i rapporti tra proprietà, impresa e mano d'opera. In effetti si è verificato il tracollo dei contratti agrari basati sulla larga disponibilità di braccia, e la stessa mezzadria, che aveva tanta diffusione soprattutto nell'I. centrale, è in via di estinzione perché nel contempo il Parlamento ha vietato la stipula di nuovi contratti colonici, considerandoli iniqui e illegali.
La gestione aziendale, pertanto, si è evoluta lungo due direttrici opposte: l'incremento della conduzione diretta e la rivalutazione dell'impresa capitalistica. Le due forme di gestione, allo stato attuale, interessano una superficie pressoché analoga e indicano una chiara tendenza a eliminare una delle secolari caratteristiche della struttura agraria italiana: la scissione tra proprietà e impresa, cui è in buona parte imputabile l'immobilismo di parecchie zone rurali.
L'incremento della superficie a conduzione diretta si è avuto soprattutto con l'espansione delle aziende superiori a 10 ha, che cercano di assicurare così il pieno impiego alla famiglia contadina e di assumere basi territoriali tali da consentire l'utile introduzione dei mezzi meccanici. Sotto il profilo economico le aziende familiari, comprese quelle gestite a tempo parziale, danno l'85%, e quelle di tipo schiettamente capitalistico solo il 15% di tutta la produzione agricola.
Estensivazione e intensivazione degli ordinamenti colturali. − La diminuita disponibilità di mano d'opera ha provocato profonde modificazioni nelle forme di utilizzazione del suolo e nella distribuzione spaziale delle colture, determinando due tendenze opposte: estensivazione e intensivazione degli ordinamenti produttivi.
Il processo di estensivazione interessa l'ambiente dell'agricoltura asciutta e si realizza in diversi modi: restituzione dei seminativi più scadenti ai pascoli, maggior peso accordato al maggese nelle rotazioni colturali, eliminazione di colture che esigono notevole impiego di lavoro umano (piante legnose, sarchiate), soppressione di piccoli allevamenti che svolgono una funzione integrativa nell'economia aziendale. In tale processo s'inserisce anche il fenomeno dell'abbandono delle terre marginali che, secondo calcoli approssimati, interessa almeno 5÷6 milioni di ha senza considerare che una parte della superficie agraria e forestale censita come pascoli e prati permanenti costituisce, in pratica, terreno abbandonato.
Il processo d'intensivazione, che consiste nell'accrescere la produttività del terreno con l'impiego di lavoro e mezzi qualificati, riguarda soprattutto le zone di pianura e di collina, dove le combinazioni produttive tradizionali vengono gradualmente sostituite con colture specializzate facilmente meccanizzabili. Esso è favorito, tra l'altro, dall'espansione delle infrastrutture irrigue sia nell'I. settentrionale, dove hanno da tempo una consolidata presenza, sia nelle regioni meridionali, dove la costruzione di numerosi invasi artificiali ha consentito di estendere il beneficio delle acque anche ad alcune colture tradizionalmente asciutte (vite, frutteti, cereali, ecc.).
Tra i maggiori laghi artificiali costruiti nell'I. meridionale dalla soppressa Cassa per il Mezzogiorno si ricordano quelli di Campotosto in Abruzzo, di Ampollino e Arvo in Calabria, di San Giuliano e Pertusillo in Basilicata, di Ancipa in Sicilia. L'acqua accumulata complessivamente negli invasi artificiali, pari a 5 miliardi di m3, per il momento consente d'irrigare circa 500.000 ha, mentre le opere in corso di completamento o già approvate prevedono di estendere la rete irrigua a un'area tripla rispetto a quella attuale (1.500.000 ha).
L'irrigazione, nel Mezzogiorno, viene praticata dal 25% delle aziende e interessa l'8% della superficie agricola utilizzata, contro il 15% dell'I. nel suo complesso. La superficie irrigata per azienda, in media, è pari a 1,5 ha contro i 3 ha dell'intero paese. Nelle regioni centrosettentrionali, inoltre, predomina l'irrigazione collettiva gestita dai consorzi, che attingono l'acqua essenzialmente ai fiumi; nell'I. meridionale, se si escludono le aree che rientrano nei comprensori della riforma agraria e che attingono l'acqua agli invasi artificiali, prevale l'irrigazione individuale attraverso i pozzi aziendali che in alcune zone si spingono fino a una profondità di 500 m e spesso, specie nella fascia costiera, provocano la risalita di acque salmastre di origine marina.
L'area irrigata nell'intero territorio nazionale va aumentando anche per la costruzione dei cosiddetti laghetti collinari realizzati sulle dorsali argillose dell'Appennino sbarrando i deflussi dei torrentelli con dighe in terra di modesta altezza, inferiori a 10 m. Essi costituiscono una riserva d'acqua tale da assicurare il fabbisogno irriguo di aziende che vanno da 10 a 100 ha. Finora ne sono stati costruiti circa 8000, in prevalenza nell'Appennino centrale. Nel complesso, però, l'irrigazione interessa una percentuale ancora abbastanza limitata della superficie agraria nazionale. Essa, comunque, procura oltre metà della produzione agricola italiana.
Variazioni del quadro colturale. − Come si è accennato, l'evoluzione che ha caratterizzato l'utilizzazione del suolo può sintetizzarsi in tre punti: forte contrazione dei seminativi, aumento dei pascoli e leggero incremento delle colture legnose.
Nell'ambito dei seminativi si è contratta la superficie destinata ai cereali, in particolare all'orzo e all'avena, mentre è aumentato lo spazio riservato ad alcune colture industriali (barbabietola da zucchero, girasole, mais, ecc.) e soprattutto agli ortaggi, che sono usciti dalle periferie urbane, dove a lungo erano stati circoscritti, per dilatarsi ovunque le condizioni pedoclimatiche e le disponibilità di acque irrigue lo hanno consentito. Il loro sviluppo (verificatosi in massima parte nell'I. meridionale) è dovuto, in misura non trascurabile, alla diffusione delle serre che si estendono su oltre 15.000 ha, interessando in modo particolare la Liguria, la Toscana, il Lazio, la Campania, la Puglia e la Sicilia. Circa un sesto della loro superficie, però, viene destinato anche alla coltura dei fiori e delle piante ornamentali.
Nell'ambito delle colture legnose si è verificato un drastico calo delle colture promiscue a favore di quelle specializzate, la cui superficie si è più che raddoppiata. Nell'I. settentrionale la loro espansione riguarda essenzialmente gli alberi da frutta: meli e peri nel Trentino-Alto Adige, fruttiferi vari (peschi, susini, albicocchi, ciliegi, ecc.) nell'Emilia-Romagna e nelle altre regioni. Nell'I. centro-meridionale, invece, il loro incremento riguarda in misura precipua gli agrumi e la vite. Gli agrumi, dapprima localizzati quasi esclusivamente in Sicilia, Calabria e Campania, si sono espansi anche nel Lazio (piana di Latina), in Puglia e in Basilicata (pianure costiere del golfo di Taranto). La vite, che in virtù di peculiari patti agrari legati alla sovrabbondanza di mano d'opera (quali il contratto di colonia migliorativa e di enfiteusi) si era diffusa nelle terre peggiori, è scomparsa o quasi dalle zone marginali e si è concentrata nelle zone dotate di suoli profondi e fertili, giovandosi talvolta anche dell'irrigazione. Particolare espansione ha avuto la vite per uva da tavola (Lazio meridionale, Abruzzo marittimo, Puglia, Sicilia), allevata con il caratteristico sistema a pergola (tendone).
L'ingresso nella CEE della Grecia, della Spagna e del Portogallo, paesi caratterizzati da produzioni simili a quelle dell'agricoltura meridionale, ha rappresentato una causa di ulteriori cambiamenti. Esso, infatti, ha aggiunto nuovi motivi di crisi alle colture di tipo mediterraneo, per cui per larghe plaghe del Mezzogiorno si sono resi necessari rapidi processi di riconversione produttiva.
Bibl.: C. Barberis, Famiglie senza giovani e agricoltura a mezzo tempo in Italia, Milano 1979; G. Fabiani, L'agricoltura italiana tra sviluppo e crisi (1955-1977), Bologna 1979; C. Formica, Lo spazio rurale nel Mezzogiorno. Esodo, desertificazione, riorganizzazione, Napoli 1979; O. Vitali, L'evoluzione rurale-urbana in Italia, Milano 1983; C. Barberis, V. Siesto, Agricoltura e strati sociali, ivi 1986; C. Cupo, Sviluppo dell'imprenditoria agricola del Mezzogiorno dal dopoguerra ad oggi, Napoli 1987.
Politica economica e finanziaria. - La crisi petrolifera del 1973-74 aveva colto l'I. in un momento di forte espansione produttiva, di tensioni di natura sociale e politica, di difficile evoluzione delle relazioni industriali, dopo il deterioramento iniziato con l'''autunno caldo'' del 1969, cui aveva fatto seguito una crescita rapida e sostenuta delle retribuzioni reali dei lavoratori dell'industria. L'aumento del prezzo del petrolio (quadruplicato tra il 1973 e il 1974) aveva inoltre avuto luogo in concomitanza con il forte deprezzamento della lira nei confronti delle altre principali valute, dopo l'uscita dell'I. dal ''serpente'' monetario costituitosi tra i paesi della CEE successivamente alla decisione (nel 1971) di inconvertibilità e connessa svalutazione del dollaro.
Tra l'inizio del 1973 e la fine del 1974 il valore esterno della lira si era ridotto del 28% nei confronti del marco e del 13% nei confronti del dollaro. La conseguente forte perdita di ragioni di scambio e lo sfasamento ciclico della nostra economia, cresciuta nel biennio di quasi il 6% più che la media dei paesi della CEE, avevano determinato un grave deterioramento dei conti con l'estero: la bilancia delle partite correnti aveva chiuso il 1974 con un passivo superiore ai 5000 miliardi di lire (oltre il 4% del prodotto interno lordo, PIL), che faceva seguito a un disavanzo di 1500 miliardi nel 1973.
Il susseguirsi di misure di contenimento della domanda aggregata, prima sul fronte creditizio − già in occasione del ricorso al Fondo Monetario Internazionale (FMI) nell'aprile del 1974 per un prestito stand-by per l'acquisto di valuta fino a 1 miliardo di diritti speciali di prelievo − e quindi anche di natura fiscale e tariffaria, contribuì a determinare già nel corso del 1974 una considerevole flessione produttiva, soprattutto nel settore industriale segnato anche, sul fronte delle esportazioni, dallo svolgersi della recessione internazionale. Il PIL si ridusse quindi nel 1975, per la prima volta nel dopoguerra, di quasi il 3% in termini reali; più che doppia fu la diminuzione della domanda interna che determinò, insieme a un parziale recupero di ragioni di scambio, un significativo miglioramento della bilancia dei pagamenti correnti, in disavanzo per soli 400 miliardi. Elevata era però rimasta la pressione salariale; con l'accordo interconfederale che aveva definito nel gennaio 1975 il nuovo assetto di scala mobile a punto unificato si erano inoltre poste le premesse per un forte incremento dell'adeguamento automatico delle retribuzioni all'evoluzione dei prezzi (inclusi gli incrementi dovuti a variazioni dei prezzi importati e delle imposte indirette). Particolarmente difficili risultavano le condizioni economiche e finanziarie delle imprese: alla fortissima flessione dei margini di profitto si accompagnavano infatti livelli d'indebitamento eccezionalmente elevati, specialmente nel comparto delle medie e grandi imprese manifatturiere. Il miglioramento dei conti con l'estero e la caduta produttiva spinsero ad allentare nel corso dell'anno la restrizione monetaria. Nel contempo si manifestò un forte incremento del disavanzo pubblico.
Tra il 1974 e il 1975 l'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche raddoppiò, passando dal 6,5 all'11,6% del PIL e raggiungendo un livello di 16.000 miliardi; al calo relativo dell'imposizione indiretta, riflesso anche di un consistente incremento dell'evasione, si accompagnò infatti un considerevole aumento delle prestazioni sociali e dei contributi di sostegno alla produzione. Ne conseguì una rapida ripresa dell'attività produttiva mentre, esauritosi lo shock petrolifero, l'inflazione, che misurata sui prezzi al consumo aveva superato il 19% nel 1974, diminuì solo di 2 punti percentuali, restando ancora quasi 5 punti al di sopra della media comunitaria.
Il 20 gennaio 1976, dopo che le elevate disponibilità, connesse anche al finanziamento monetario del Tesoro (il cui fabbisogno aveva ecceduto del 60% l'obiettivo per il 1975, con una crescita eccezionale negli ultimi mesi dell'anno), avevano reso più agevoli le condizioni per un attacco speculativo contro la lira, e dopo che le esigue riserve di valuta estera del paese si erano rapidamente prosciugate, la crisi valutaria culminò nella chiusura, per sei settimane, del mercato dei cambi e, quindi, nel crollo della lira: in soli due mesi essa si deprezzò di quasi il 20% rispetto alla media delle principali valute.
Evoluzione dei principali indicatori relativi all'economia italiana. - Prima di considerare con un certo dettaglio gli andamenti congiunturali e le principali azioni di politica economica nelle diverse fasi in cui può suddividersi il periodo in esame, conviene soffermarsi sull'evoluzione di alcuni importanti aggregati e indicatori relativi all'economia italiana in tale periodo. Essi mostrano, in estrema sintesi, come l'I. sia riuscita a riprendersi dalle gravi difficoltà in cui versava anche sul fronte economico e finanziario, nella parte centrale degli anni Settanta. Pur permanendo antiche debolezze e nonostante il presentarsi di nuovi problemi, l'economia italiana entrava negli anni Novanta in condizioni più solide di quelle in cui si trovava all'indomani del primo shock petrolifero e della gravissima crisi valutaria del 1976.
Prodotto e domanda interna. Tra il 1975 e il 1991 il reddito prodotto dall'I. è complessivamente aumentato, a prezzi costanti, di quasi il 60% (con un tasso di sviluppo medio annuo vicino al 3%; tab. 16); in termini pro capite l'incremento ha superato il 50%, risentendo di una crescita media annua della popolazione residente inferiore allo 0,3%.
Particolarmente sostenuto, nell'ambito della domanda interna, è stato l'aumento della spesa per consumi di beni e servizi da parte delle famiglie, di oltre due terzi più alta in termini reali nel 1991 di quella del 1975. Al suo interno, significativo è stato il mutamento di composizione, riflesso, soprattutto, oltre che di variazioni nelle preferenze, del maggior livello di benessere: in particolare, alla diminuzione relativa dei consumi alimentari, ridottisi (incluso il tabacco) da quasi un terzo a un quinto della spesa totale in valori correnti, hanno fatto riscontro un lieve incremento degli altri consumi tradizionali (per abbigliamento, abitazione, mobili e arredamento) e un consistente aumento della spesa per trasporti e comunicazioni, servizi sanitari, ricreazione, istruzione e cultura (tab. 17).
Particolarmente variabile è stata nel periodo l'evoluzione degli investimenti lordi, non soltanto nella componente, fortemente ciclica, della variazione delle scorte, ma anche in quella degli investimenti fissi, aumentati, in media, a un tasso annuo del 2,1%.
Tra questi ultimi, notevole è stato lo sviluppo dell'accumulazione in macchine, attrezzature e mezzi di trasporto, mentre in diminuzione, in rapporto al prodotto, è risultata la componente delle costruzioni, specialmente quella in abitazioni ridottasi anche in termini reali fino al 1989 (tab. 18). La crescita degli investimenti in macchine e attrezzature − specialmente elevata sul finire degli anni Settanta nonché a partire dal 1984, dopo la recessione dei primi anni Ottanta − va in buona parte collegata all'ampio processo di ristrutturazione produttiva e di rinnovo dello stock di capitale che ha interessato il sistema delle imprese italiane, in particolare quelle medie e grandi.
Occupazione e produttività del lavoro. Anche l'occupazione ha risentito del processo di ristrutturazione industriale, iniziato negli ultimi anni Settanta. Senza mai ridursi, se non per alcune decine di migliaia di unità nel 1982 e a differenza che in altri paesi europei, il numero complessivo degli occupati è aumentato tra il 1975 e il 1991 di circa il 9,5% (tab. 19), quasi due terzi dell'incremento registrato dalle forze di lavoro e dovuto, principalmente, all'innalzamento del tasso di attività femminile, ancora inferiore a quello dei maggiori paesi industrializzati. Ne è conseguito un progressivo e forte aumento della disoccupazione, comune fino al 1984-85 a tutte le regioni del paese e poi specialmente concentrato in quelle meridionali.
Mentre nella media dell'intera economia la disoccupazione si è attestata, a partire dal 1987, intorno al 12% della forza lavoro complessiva, nel Sud e nelle isole essa ha continuato a salire, superando nel 1989 il 21% e interessando sempre più la componente femminile (priva d'impiego per circa un terzo, contro il 10% delle regioni centro-settentrionali) e quella dei giovani in cerca di occupazione (pari, nell'I. meridionale e insulare, al 45% della forza di lavoro). Va anche osservato che l'aumento della disoccupazione è stato contenuto, soprattutto nella prima metà degli anni Ottanta, dalla forte espansione del ricorso alla Cassa integrazione guadagni: le ore integrate, più che raddoppiate tra il 1974 e il 1975 (da 160 a 350 milioni) e oscillate intorno a un valore medio di circa 300 milioni nel successivo quinquennio, hanno quasi raggiunto i 600 milioni nel 1981 e superato gli 800 nel 1984, per poi discendere gradualmente fino a poco meno di 350 milioni nel 1989-90 e riportarsi sopra i 400 milioni nel 1991 (equivalenti a quasi 250.000 occupati).
Alla prosecuzione dell'esodo agricolo (ininterrotto nel corso del secondo dopoguerra), che ha portato da oltre 3 a meno di 2 milioni gli occupati dell'agricoltura (pari ormai a meno del 10% del totale), si sono aggiunti, come si è detto, gli effetti della ristrutturazione produttiva che ha interessato il settore industriale. Tra il 1980 e il 1987 il numero degli occupati di questo settore è sceso da 7,7 a 6,7 milioni.
In termini di unità di lavoro standard (''occupati equivalenti'') − che tengono conto sia dell'impiego di lavoratori stranieri non residenti, sia dell'ammontare del doppio lavoro, e sono al netto dei dipendenti in Cassa integrazione − la riduzione è stata pari, in questo periodo, a 1.110.000 unità, concentrate nelle medie e grandi imprese dell'industria di trasformazione. Eccezionale è quindi stato, soprattutto nel corso degli anni Ottanta, l'assorbimento di manodopera da parte del settore terziario: tra il 1980 e il 1991 la crescita dell'occupazione nei servizi di mercato ha determinato un incremento complessivo di circa 2.650.000 unità di lavoro; pur se in misura minore che negli anni Settanta, è notevolmente aumentata (per quasi 650.000 unità) anche la domanda di lavoro nei servizi non destinabili alla vendita, in massima parte amministrazioni pubbliche.
La riduzione dell'input di lavoro nell'industria manifatturiera si è accompagnata a un elevato recupero di produttività, pressocché raddoppiata nel periodo in esame. L'incremento è stato particolarmente vivace a partire dal 1983, in coincidenza con la ripresa dell'accumulazione di capitale e il completamento del processo di modernizzazione delle imprese industriali. Rilevante è stato anche l'aumento del prodotto per unità di lavoro nel settore agricolo, mentre solamente negli ultimi anni si è assistito a una ripresa, peraltro modesta, nell'edilizia.
Nel settore terziario, invece, al grande aumento dell'occupazione ha fatto riscontro una sostanziale stagnazione del prodotto unitario, superiore solo per pochi punti percentuali, nel 1990-91, al livello toccato nel 1980: non solo nel settore pubblico, ma anche nella media di quello privato, la relativa inefficienza dei servizi costituisce uno dei principali elementi di freno per uno sviluppo equilibrato e competitivo dell'economia italiana. Va ancora ricordato, tuttavia, l'importante ruolo di stabilizzazione svolto da questo settore, che ha più che bilanciato negli anni Ottanta la contrazione dell'occupazione agricola e industriale, consentendo di mantenere un moderato tasso di espansione dell'occupazione complessiva.
Prezzi, costi e distribuzione del reddito. Solo nella seconda metà degli anni Ottanta l'inflazione è tornata in I. sui livelli medi precedenti lo shock petrolifero del 1973-74. Lo scorcio degli anni Settanta fu infatti segnato dal persistere di un'inflazione a due cifre (vicina, nel 1979, al 15%), nonostante l'esaurirsi delle spinte provenienti dal rincaro del petrolio e dalla svalutazione della lira connessa con la crisi valutaria del gennaio 1976. Alla forte crescita dei costi in lire delle materie prime importate si accompagnò in quegli anni un'espansione assai rilevante dei costi del lavoro (tab. 20). L'inerzia inflazionistica trovò sostegno nell'elevata indicizzazione delle retribuzioni, prossima all'unità nell'industria tra il 1976 e il 1977, e nell'ampio e continuo recupero delle perdite subite dai margini di profitto delle imprese in connessione con l'autunno caldo, prima, e lo shock petrolifero, poi.
La quota del lavoro sul reddito prodotto, che dal 68% nell'industria di trasformazione e dal 70% nell'intero settore privato nel 1970 era salita a circa il 75% nel 1975, ritornò nel 1980 su livelli inferiori a quelli raggiunti dieci anni prima. A mitigare in parte non piccola i costi delle imprese furono una consistente riduzione nel settore manifatturiero dei contributi sociali a loro carico e l'eliminazione dell'indicizzazione (alla variazione del costo della vita) dei fondi accantonati per il pagamento dell'indennità di anzianità (tale indicizzazione fu reintrodotta nel 1982, dopo una sostanziale decurtazione in termini reali). Tra il 1976 e il 1978, in particolare, il costo del lavoro aumentò nella trasformazione industriale di oltre 10 punti percentuali meno che le retribuzioni lorde; in termini di unità di prodotto l'incremento del costo del lavoro scese sotto il 9% nel 1978.
Anche i prezzi di produzione iniziarono a mostrare riduzioni di un certo rilievo nei tassi di crescita quando il sopraggiungere, nel 1979, della seconda crisi petrolifera determinò una nuova fiammata inflazionistica, perdurando l'incapacità del sistema di evitare il riaccendersi di rincorse tra prezzi e salari.
Nel 1980 l'inflazione superò il 21%. Perché si dimezzasse occorse quasi un quinquennio: solo nel 1985 la variazione dei prezzi al consumo tornò sotto il 10%. In questo periodo, il continuo, pur se graduale, rientro dell'inflazione derivò principalmente, oltre che da un sostanziale mutamento delle relazioni industriali, dall'intonazione restrittiva della politica monetaria e del cambio, dopo l'adesione della lira al Sistema Monetario Europeo (SME) nel marzo 1979. La discesa dell'inflazione ebbe luogo nonostante un ininterrotto apprezzamento del dollaro (compensato solo in parte dalla flessione delle quotazioni internazionali delle materie prime, in particolare dei prodotti agro-alimentari ed energetici).
Nel 1984-85 la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto scese sotto il 6% nel settore manifatturiero e intorno all'8% nell'intero settore privato; la distribuzione del reddito continuò a spostarsi a favore dei profitti, con una riduzione della quota del lavoro, dopo un breve recupero ciclico, al di sotto, rispettivamente, del 67% e del 70% nel 1985.
Nel 1985 s'interruppe il processo di rivalutazione del dollaro; dopo essersi apprezzata dalle 856 lire nella media del 1980 alle 1909 del 1985, per la valuta statunitense iniziò un periodo di progressivo deprezzamento, che la portò sotto le 1300 lire nel 1987. All'indebolimento del dollaro si aggiunse nel 1986 l'eccezionale caduta delle quotazioni del petrolio, pari nell'anno al 49% in dollari e al 60% in lire. L'economia italiana ne ha beneficiato sotto molteplici aspetti; nonostante un progressivo recupero dei prezzi internazionali delle altre materie di base, tra il 1986 e il 1988 l'inflazione si è collocata al di sotto del 6%. Nello stesso periodo le retribuzioni sono cresciute nel settore privato di circa 2 punti percentuali l'anno più che i prezzi al consumo; nella trasformazione industriale l'aumento delle retribuzioni ha in media superato di 3 punti percentuali quello del deflatore del valore aggiunto. L'aumento, minore di quello della produttività, ha riflesso un ulteriore spostamento della distribuzione del reddito a favore dei profitti: la quota del lavoro è scesa nel 1988 a circa il 62% nel settore manifatturiero e a quasi il 67,5% nell'intero settore privato. Sotto la spinta di fattori di origine interna, nel triennio 1989-91 l'inflazione è tornata a superare il 6%, il costo del lavoro per dipendente è cresciuto a tassi medi intorno al 9%, e la distribuzione del reddito si è rapidamente riportata sui livelli prevalenti nei primi anni Ottanta. Gli scambi con l'estero. Nonostante il forte incremento delle esportazioni conseguente al guadagno competitivo della svalutazione (tab. 16), il peggioramento delle ragioni di scambio provocò nel 1976 un elevato passivo nella bilancia commerciale che il pur ampio avanzo dei servizi, in particolare del turismo, non riuscì a compensare: il deficit della bilancia di parte corrente superò i 2000 miliardi di lire (l'1,2% del PIL). Gli ultimi anni del decennio beneficiarono, però, da un lato del notevole contenimento della domanda interna seguito alla crisi valutaria, dall'altro del buon andamento della domanda mondiale. Il saldo commerciale risultò mediamente in equilibrio e l'attivo del complesso delle partite correnti consentì di azzerare il debito estero. La rete di controlli amministrativi, definita dopo lo shock petrolifero e la crisi valutaria, permise di accomodare con il deprezzamento del tasso di cambio della lira il differenziale inflazionistico con i principali partners commerciali senza che si determinassero, al contempo, conseguenze negative sul fronte dei deflussi di capitali.
L'adesione della lira allo SME fu preceduta nel corso del 1978, e nelle prime settimane del 1979, da un'ultima consistente svalutazione tale da migliorare la competitività di prezzo dei settori produttivi; negli anni seguenti il cambio nominale si deprezzò scivolando all'interno dei margini di fluttuazione consentiti alla lira, senza colmare, tuttavia, il differenziale d'inflazione: in particolare, fra il primo trimestre del 1979 e la fine del 1982 il cambio reale si apprezzò del 7% come risposta, insieme alla restrizione monetaria e creditizia, allo shock inflazionistico seguito nel 1979-80 alla seconda crisi petrolifera. La caduta delle esportazioni in quantità e la forte perdita di ragioni di scambio fecero sì che il disavanzo di parte corrente superasse nel 1980 gli 8500 miliardi di lire, pari al 2,2% del PIL. Il disavanzo seguitò a essere assai ampio nei successivi due anni, nonostante il freno alle importazioni conseguente alla flessione della domanda interna; solo nel 1983 si ebbe un lievissimo avanzo. Il deficit delle partite correnti fu prevalentemente determinato in quegli anni − oltre che dal saldo strutturalmente negativo della bilancia agro-alimentare − dal pesante passivo della bilancia energetica, conseguente al fortissimo incremento del prezzo del petrolio, più che raddoppiato tra il 1978 e il 1980. Nonostante il considerevole miglioramento del saldo dei prodotti non energetici e il buon andamento dei servizi, nel biennio 1984-85 si ebbero ancora disavanzi di parte corrente di poco inferiori all'1% del prodotto. Il controshock petrolifero del 1986 determinò un drastico mutamento della situazione, con un ampio miglioramento, pari a oltre 18.000 miliardi (il 2% del PIL), della bilancia commerciale, cui fece riscontro, però, un netto peggioramento di altre poste delle partite correnti (tra cui il saldo del turismo, da allora con un avanzo in costante riduzione, e, soprattutto, quello dei trasferimenti unilaterali).
A un saldo totale positivo, nel 1986, dell'ordine dello 0,5% del PIL hanno fatto seguito negli ultimi anni del decennio disavanzi modesti ma crescenti nella bilancia delle partite correnti. Nel 1991, in particolare, il disavanzo, pari all'1,8% del prodotto, è risultato da un lieve deficit nella bilancia commerciale e un consistente saldo passivo per il complesso dei trasferimenti e dei servizi, tra i quali, oltre a un ormai modesto attivo della bilancia turistica, va segnalato un passivo di quasi 20.000 miliardi nei redditi da capitale (1,4% del PIL). Questo riflette l'onere per interessi su un debito estero che, escluse le riserve auree per oltre 29.000 miliardi di lire, è salito nel decennio, a seguito dei disavanzi di parte corrente, fino a quasi 150.000 miliardi nel 1991 (il 10,5% del prodotto lordo).
Gli andamenti congiunturali e le politiche economiche. - Dalla stabilizzazione del 1976 alla ristrutturazione produttiva (1978-83). Alla crisi valutaria del gennaio 1976 seguirono immediate misure restrittive sul fronte monetario (con un aumento di 4 punti del tasso ufficiale di sconto) e su quello valutario (con l'obbligo di un deposito infruttifero sugli acquisti di valuta per le transazioni con l'estero). Nell'autunno, all'inasprimento della politica monetaria (con l'ulteriore innalzamento di 3 punti, fino al 15%, del tasso di sconto, l'aumento della riserva obbligatoria sui depositi bancari e la reintroduzione di massimali sull'espansione degli impieghi bancari) si accompagnò una forte stretta fiscale. L'effetto reale di queste misure fu notevole: tra il 1976 e il 1978 la domanda interna ridusse il suo tasso di espansione a poco più del 2%; in particolare, insieme a una flessione della crescita dei consumi si ebbe una diminuzione del livello degli investimenti lordi, a causa di un ampio e diffuso ridimensionamento delle scorte e di un notevole contenimento dell'accumulazione di capitale fisso. La crescita del prodotto si dimezzò, quella delle importazioni si ridusse di oltre tre quarti; sospinte dal guadagno di competitività e favorite dal buon andamento del commercio mondiale, le esportazioni mantennero invece uno sviluppo medio, in volume, dell'ordine del 10% (tab. 16). Il beneficio fu particolarmente evidente sul fronte della bilancia dei pagamenti, favorita anche dal deprezzamento del dollaro: non altrettanto può dirsi per l'inflazione, che solo nel 1978-79 si portò sotto il 15%, riflettendo, oltre alla riduzione della crescita dei prezzi dei prodotti importati, un notevole calo dell'espansione dei costi del lavoro delle imprese manifatturiere.
Questi ultimi risentirono, infatti, a partire dai primi mesi del 1977, da un lato dei provvedimenti di fiscalizzazione degli oneri sociali e, dall'altro, di un mutamento delle relazioni industriali. Particolarmente importante fu l'accordo tra Confindustria e sindacati del gennaio 1977, con il quale si eliminò l'indicizzazione dell'indennità di anzianità al costo della vita e si definirono impegni per il controllo delle assenze e la maggiore flessibilità interna del lavoro. Sui conti delle imprese influì anche, sul piano patrimoniale, l'allentamento della stretta creditizia, che si risolse in una discesa, fino a valori ampiamente negativi, dei tassi reali d'interesse, favorendo così una progressiva riduzione dell'effettivo indebitamento delle imprese.
Ai recuperi di profittabilità e alle mutate condizioni di bilancio le imprese risposero con una grande espansione degli investimenti: quelli in impianti e macchinari aumentarono, in particolare, tra il 1978 e il 1980, di oltre il 30%.
Iniziò così una fase ampia e prolungata di ristrutturazione e ammodernamento produttivo, che interessò soprattutto le imprese medio-grandi, specialmente colpite dalle rigidità e difficoltà produttive successive agli shock salariali del 1969 e del 1973 e a quello petrolifero del 1973-74. Gli investimenti furono infatti diretti non tanto all'ampliamento della capacità produttiva quanto alla razionalizzazione e al risparmio di lavoro. Da un lato ne conseguì un considerevole svecchiamento del capitale installato, dall'altro iniziarono a manifestarsi nell'industria, favoriti dalla riduzione della manodopera impiegata, considerevoli miglioramenti di produttività. Questi miglioramenti proseguirono negli anni di rilevante rallentamento dell'attività economica successivi al nuovo shock petrolifero del 1979-80: dal decentramento produttivo e dall'aumento dell'intensità di capitale, che avevano costituito la risposta del sistema delle imprese ai mutamenti strutturali e agli shock della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, si passò quindi, con un decennio di ritardo, a una fase di sostanziale ammodernamento degli impianti, diffusione delle innovazioni tecnologiche e riorganizzazione del lavoro, che avrebbe portato verso la metà degli anni Ottanta a un sostanziale risanamento delle condizioni dell'industria italiana (perdurando lo sviluppo delle piccole imprese connesso con il decentramento produttivo).
Elementi di sostegno al processo di risanamento industriale e di ''ritorno al profitto'' del sistema delle imprese sono venuti, con l'inizio del nuovo decennio, dall'ulteriore mutamento del clima delle relazioni industriali, dalle politiche accomodanti del bilancio pubblico e dal mantenimento, dopo l'ingresso della lira nello SME, di una ferma disciplina del cambio, tale da spingere sempre più le imprese a ricercare la difesa delle loro posizioni competitive nei miglioramenti di produttività. Il mutamento delle relazioni industriali fu particolarmente traumatico. All'accordo del 1977 non era seguita infatti una revisione del sistema di contrattazione in grado di dare maggiore spazio alle istanze aziendali ed eliminare le distorsioni connesse con l'operare del meccanismo della scala mobile a punto unificato (che, oltre a garantire un adeguamento automatico delle retribuzioni pressoché completo, in media, rispetto alle variazioni del costo della vita, conduceva a un progressivo restringimento dei differenziali salariali). Il livello di conflittualità, rimasto particolarmente elevato, impediva l'attuazione dei mutamenti organizzativi necessari per il recupero dell'efficienza produttiva. Lo scontro finì per essere specialmente vivo nel 1980, dopo il secondo shock petrolifero, e si risolse con una pesante sconfitta sindacale nella vertenza FIAT nell'ottobre dello stesso anno, quando le posizioni dell'azienda ricevettero l'appoggio di un elevatissimo numero di quadri intermedi (la cosiddetta ''marcia dei 40.000''). Seguì, con il consenso del governo, un massiccio ricorso da parte delle imprese alla Cassa integrazione a zero ore e a schemi di pensionamento anticipato. Questi si aggiunsero alla fiscalizzazione degli oneri sociali e a una posizione particolarmente permissiva, tra il 1978 e il 1980, in materia di pensioni e retribuzioni pubbliche, determinando così una forte dilatazione del fabbisogno finanziario del Tesoro, premessa, in assenza di correzioni strutturali, per la continua espansione del debito pubblico negli anni Ottanta.
La disinflazione e il consolidamento dell'economia (1981-89). Il rialzo dei prezzi del petrolio del 1979-80 aveva colto l'economia italiana all'indomani dell'adesione della lira agli accordi di cambio dello SME e della svalutazione che li avevano preceduti, mentre si consolidava lo sforzo di risanamento produttivo, specie nel settore delle medie e grandi imprese industriali. L'inflazione era rapidamente tornata a salire, superando il 20% nel corso del 1980; la diffusione dei meccanismi d'indicizzazione e il forte rallentamento del tasso di sviluppo dei principali paesi industriali (e quindi delle nostre esportazioni) conseguente al nuovo shock petrolifero rischiavano di determinare una spirale perversa tra ristagno produttivo e processo inflazionistico. L'apprezzamento del dollaro, che sarebbe durato fino ai primi mesi del 1985, ne costituiva un ulteriore fattore propulsivo. La risposta della politica economica fu però rapida, specialmente nella componente monetaria e del cambio, ed efficace ancorché graduale nei suoi effetti. Senza che l'economia sperimentasse tassi negativi di sviluppo, l'inflazione discese dal 21,7% (in termini di prezzi al consumo) del febbraio 1980 all'8,6% del novembre 1984. Dopo una stasi nel 1985, con il sopraggiungere del controshock petrolifero e del calo del dollaro essa continuò a ridursi, fino a scendere sotto il 5% nella media del 1987.
La tenuta della lira nello SME, condotta adeguando con ritardo e non pienamente il cambio nominale al più rapido aumento dei prezzi interni rispetto agli altri paesi della CEE, ha costituito il punto fermo della lotta all'inflazione. Ad esso si è accompagnata una politica monetaria e creditizia attenta a non assecondare una dinamica della domanda interna, in presenza di una politica di bilancio sostanzialmente espansiva, incompatibile con il riequilibrio dei conti con l'estero e la stabilità del cambio. Inizialmente tale politica, oltre che con un progressivo aumento dei tassi d'interesse (il tasso di sconto passò dal 15% al 19% tra la fine del 1980 e il primo trimestre del 1981), si espresse anche attraverso l'inasprimento del massimale sugli impieghi bancari; il maggior grado di restrizione monetaria si riflesse in un rapido incremento dei tassi reali, divenuti ampiamente positivi nel corso del 1980. L'indirizzo non accomodante della politica monetaria si risolse anche in una modifica di natura istituzionale, il cosiddetto ''divorzio'', l'abbandono, cioè, da parte della Banca d'Italia del ruolo di acquirente residuale dei titoli emessi per la copertura del fabbisogno del Tesoro. Questa decisione aumentò il grado di indipendenza della Banca centrale nella regolazione della base monetaria e la credibilità della politica di non accomodamento del cambio. Dall'aprile del 1983, con il superamento della fase più acuta della tensione inflazionistica, i tassi nominali d'interesse iniziarono a ridursi in linea con il rallentamento dell'inflazione, consolidando una regola tendente a mantenere su livelli sostanzialmente invariati i tassi reali.
Al rallentamento dell'inflazione contribuì anche la moderazione salariale indotta dagli elevati livelli raggiunti dal tasso di disoccupazione e dal mutamento del clima di relazioni industriali verificatosi nel 1980. Ad esso concorse altresì la politica dei redditi e degli accordi sociali attuata prima con un'intesa complessiva fra le parti sociali ("Protocollo d'intesa" del gennaio 1983), che ebbe tra l'altro l'effetto di ridurre del 15% il grado d'indicizzazione salariale, e poi con la politica di predeterminazione da parte del governo, rispetto a un obiettivo d'inflazione annunciato, degli scatti della scala mobile nel primo semestre del 1984.
Quest'ultimo provvedimento diede luogo a un notevole conflitto, non solo a livello politico ma anche all'interno dello schieramento sindacale; il ripristino dei punti di contingenza non erogati nel 1984 fu sottoposto a referendum popolare. Esso fu respinto nel giugno del 1985. All'inizio del 1986, il meccanismo della scala mobile fu quindi sostanzialmente riformato, rendendo semestrale l'adeguamento delle retribuzioni al costo della vita e garantendo piena indicizzazione solo a un livello di salario minimo: ne conseguì una riduzione del grado medio d'indicizzazione fino a circa il 50%.
Con il controshock petrolifero del 1986 il processo di rientro dell'inflazione, cominciato all'inizio del decennio, ha ricevuto un impulso decisivo. Il guadagno di ragioni di scambio, comune a tutti i paesi industrializzati, ha inoltre determinato una forte crescita della domanda, dando ulteriore vigore alla fase espansiva iniziata nel corso del 1983. Ne ha soprattutto beneficiato l'accumulazione di capitale, che si è gradualmente rivolta, dopo il processo intensivo della ristrutturazione produttiva, all'ampliamento della capacità. La crescita del reddito ha mediamente superato il 3%; l'occupazione ha ripreso a crescere a tassi soddisfacenti, così da fermare, nonostante la continua espansione dell'offerta di lavoro, la tendenza all'innalzamento del tasso di disoccupazione che aveva prevalso nella prima parte del decennio.
Il miglioramento delle condizioni generali dell'economia italiana ha consentito di guardare con maggiore fiducia alla sua piena integrazione nella Comunità europea; nell'autunno del 1988 si è pressoché completato, senza tensioni, il processo di liberalizzazione valutaria che aveva gradualmente accompagnato, insieme all'abbandono dei controlli amministrativi del credito, il rientro dall'inflazione.
Il rallentamento congiunturale (1990-92) e i problemi irrisolti dell'economia italiana. Nel biennio 1990-91, la fase recessiva dell'economia internazionale ha interessato anche il nostro paese; la crescita del reddito − sostenuta soprattutto dal considerevole sviluppo della domanda interna, in particolare dei consumi delle famiglie − si è attestata al di sotto del 2%. Nonostante la pressione competitiva conseguente, per le imprese industriali, alla sostanziale stabilità del cambio della lira, che dal gennaio 1990 al settembre 1992 è stata inscritta nella banda stretta di fluttuazione dello SME, l'inflazione è rimasta al di sopra del 6%; intorno ai 3 punti percentuali al di sopra del livello medio dei paesi aderenti agli accordi europei di cambio. Alla perdita di competitività e alla modesta crescita della domanda mondiale ha fatto riscontro un andamento assai deludente delle esportazioni nette; ne è conseguita una riduzione di oltre il 2%, nel 1991, della produzione industriale e un deterioramento del saldo commerciale che si è aggiunto a quello, grave, dei redditi da capitale (conseguente, oltre che all'elevata posizione debitoria netta, alla sfavorevole composizione degli interessi sulle attività e sulle passività con l'estero); il disavanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente ha superato nel 1991 l'1,8% del PIL.
Oltre al mancato verificarsi di un definitivo rientro della dinamica dei redditi nominali e dell'inflazione sui valori prevalenti a livello comunitario, è emersa con evidenza la gravità delle due questioni centrali che da lungo tempo attendono soluzione: il riequilibrio territoriale e quello della finanza pubblica. Nonostante il forte impegno di risorse pubbliche, sotto forma di sussidi, trasferimenti e agevolazioni al lavoro e al capitale, la posizione relativa del Mezzogiorno è peggiorata dall'inizio degli anni Ottanta in termini sia di prodotto per abitante, sia, soprattutto, di occupazione. D'altra parte non sono state attuate le pur necessarie misure strutturali di contenimento della spesa pubblica, specialmente nella componente, apparentemente fuori controllo, della spesa previdenziale. Il deficit pubblico ha così superato, dal 1981, il 10% del PIL; la mancata copertura monetaria dei disavanzi, essenziale per il rientro dall'inflazione, ha quindi determinato, in presenza di un eccesso delle uscite sulle entrate, un continuo e crescente ricorso dello stato all'emissione di titoli del debito pubblico, preoccupante sia per la dimensione (pari a oltre il 100% del PIL nel 1991, contro meno del 60% nel 1980), sia per la brevità delle scadenze (con una vita media residua dei titoli in essere inferiore ai tre anni).
Nel 1992, perdurando la fase recessiva dell'economia internazionale, in I. si sono aggravati i fattori negativi già presenti nel precedente biennio. La crescita del PIL si è ridotta allo 0,9%, gli investimenti fissi sono diminuiti dell'1,35%, l'occupazione dello 0,9%; nonostante il considerevole rallentamento della domanda interna, favorito ancora dal negativo andamento dei redditi da capitale, il disavanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ha toccato il 2,1% circa del PIL. L'economia italiana ha risentito in particolare della grave crisi valutaria che ha portato a metà settembre a sospendere gli interventi in difesa della parità della lira nello SME, investito nell'estate da acute tensioni dopo l'esito negativo in giugno del referendum danese sul trattato di Maastricht per l'Unione europea e nell'assai incerta prospettiva circa l'esito di quello francese previsto per la seconda metà di settembre. L'incertezza politica e la sfiducia dei mercati nei confronti della capacità dell'I. di far fronte ai problemi strutturali della finanza pubblica hanno finito per rendere vana la difesa del cambio della lira, nonostante i successivi rialzi del tasso ufficiale di sconto, gli elevati livelli ai quali sono stati portati i tassi d'interesse a breve e brevissimo termine e gli ingenti interventi di sostegno attuati dalle autorità monetarie.
La pressione sulla lira si era rivelata particolarmente forte in luglio; dopo una pausa in agosto − connessa anche con il positivo accordo di fine luglio sul costo del lavoro, che aveva comportato l'abolizione definitiva della scala mobile e il blocco della contrattazione salariale per tutto il 1993 − essa riprendeva con vigore nell'ultima settimana del mese, in coincidenza con l'acuirsi delle tensioni fra le monete dello SME, aggravate in settembre dall'approssimarsi del referendum in Francia. Il riallineamento della lira deciso il 13 settembre, con una svalutazione del 7% nei confronti delle altre valute dello SME, e la contemporanea decisione tedesca di ridurre i tassi d'interesse ufficiali non si rivelavano sufficienti a ripristinare l'ordine nei mercati valutari. Seguivano quindi, dopo pochi giorni, le decisioni di abbandonare la difesa della parità della sterlina e della lira, la svalutazione della peseta e, nei mesi successivi, quelle di altre valute.
La fluttuazione libera della lira ha rapidamente portato a un suo consistente deprezzamento nei confronti di tutte le principali divise, al di là anche di quanto necessario per recuperare le perdite di competitività di prezzo accumulate dalle imprese manifatturiere; nonostante la più decisa azione di risanamento dei conti pubblici e un notevole rallentamento dell'inflazione, scesa al di sotto del 5% in conseguenza anche dell'accordo sul costo del lavoro, essa ha notevolmente risentito delle forti incertezze che hanno investito il quadro politico-istituzionale del paese. Accanto all'opportunità che dal deprezzamento della lira possa conseguire un rilevante incremento delle esportazioni nette e per tale via un recupero dell'attività produttiva e dell'occupazione, vi è il rischio che l'entità della svalutazione possa essere tale da innescare una nuova accelerazione dell'inflazione: un rischio tanto inferiore quanto più alla stabilità monetaria e al mantenimento degli obiettivi di contenimento del disavanzo pubblico si continuerà ad accompagnare una dinamica moderata dei redditi nominali, quale quella che si è andata affermando nel corso del 1992 ed è proseguita nella prima metà del 1993.
Bibl.: oltre alle Relazioni generali sulla situazione economica del paese dei ministri del Bilancio e del Tesoro e alle Relazioni del Governatore della Banca d'Italia all'Assemblea dei partecipanti, v.: ISTAT, Annuario di contabilità nazionale, vari anni; Banca d'Italia, Bollettino economico e Bollettino statistico, vari anni; I difficili anni '70, a cura di G. Nardozzi, Milano 1980; C. Caranza, A. Fazio, L'evoluzione dei metodi di controllo monetario in Italia: 1974-1983, in Bancaria, settembre 1983; M. Salvati, Economia e politica italiana dal dopoguerra a oggi, Milano 1984; B. Andreatta, C. D'Adda, Effetti reali o nominali della svalutazione? Una riflessione sull'esperienza italiana dopo il primo shock petrolifero, in Politica economica, aprile 1985 (e commenti di M. Salvati e L. Spaventa, ibid., agosto); D. Gressani, L. Guiso, I. Visco, Il rientro dell'inflazione: un'analisi con il modello econometrico della Banca d'Italia, in Contributi all'analisi economica, Banca d'Italia, 3 (1987); F. Barca, M. Magnani, L'industria fra capitale e lavoro, Bologna 1989; La politica monetaria in Italia, a cura di F. Cotula, 2 voll., ivi 1989; F. Giavazzi, L. Spaventa, Italia: gli effetti reali dell'inflazione e della disinflazione, in Rivista di Politica Economica, luglio-agosto 1989; B. Andreatta, Risanamento finanziario e crisi congiunturale, ibid., febbraio 1993.
Ignazio Visco
Comportamenti socio-politici (1979-92). - Nel corso degli ultimi quindici anni, sono andati affermandosi in I. fenomeni di radicale novità e di decisa discontinuità rispetto al passato, soprattutto per quanto attiene al mutamento degli atteggiamenti socio-politici. Basti, per es., pensare all'emergere sulla scena politica e sociale di innumerevoli localismi e regionalismi; al crescente peso assunto dall'internazionalizzazione e dal confronto europeo; all'onda lunga recata da comportamenti sempre più soggettivi e ''personalistici'': tutti elementi che contribuiscono a mettere in ombra la dimensione nazionale nel suo complesso e a ridimensionare l'interesse per la scala intermedia tra il ''locale'' e il ''globale''. Il profilo dell'I. degli ultimi quindici anni appare dunque identificabile soprattutto a partire da tre ambitiguida fondamentali: l'affermazione nel corpo sociale di intensi e diffusi atteggiamenti di soggettività, con tutto il bagaglio di conseguenze in termini socio-politici che questi comportano; la crescita del richiamo internazionale e sovranazionale; la ricerca di nuovi equilibri e nuove fisionomie di tipo politico, vista come inevitabile ricaduta di un passaggio di ciclo di ampie dimensioni.
Soggettività e crisi dei soggetti intermedi. − La soggettività ha costituito, in I., uno straordinario motore di sviluppo lungo tutti gli anni Settanta e Ottanta. Nel corso di questo periodo si è infatti manifestata la forza vitale, immediata, proliferante di una soggettività che ha assunto i connotati di una pronunciata spinta soprattutto all'interno di due filoni centrali della dinamica socio-economica: l'imprenditorialità e la difesa dei diritti individuali. In particolare, gli anni Ottanta hanno visto il manifestarsi di una fase di ulteriore crescita che da un lato ha portato l'imprenditorialità a emergere e a farsi via via sempre più sofisticata e, dall'altro, la soggettività individuale ad assumere atteggiamenti e opzioni mai sperimentati in precedenza: dai consumi agli stili di vita; dai comportamenti individuali alla conseguente percezione di nuovi diritti e nuove forme di rappresentanza.
Anche la manifestazione del voto e la concezione della partecipazione politica hanno incorporato gradatamente, soprattutto nell'ultimo scorcio degli anni Ottanta e nel corso dell'avvio del decennio successivo, questa grande spinta soggettuale, che ha, per es., permesso a molti nuovi partiti o movimenti di conquistarsi una base elettorale secondo una logica di forte frammentazione dell'elettorato e del ''fare politica''. Ne è derivato un equilibrio sempre più difficile fra spinte alla continuità, tipiche di una società che è molto cresciuta sulla base di una progressiva maturazione del già acquisito, e contemporanee spinte verso l'innovazione, tipiche di una situazione da fine ciclo, in cui a prevalere sono state le istanze di discontinuità. E ciò pur a fronte di una realtà quotidiana che sottopone in continuazione una serie pressoché ininterrotta di compresenze, fatte a un tempo di tensioni ''fredde'' (il professionismo, il contemporaneismo, l'internazionalizzazione, la ricerca di nuovi traguardi) e tendenze ''calde'' (l'irrazionalità, la fuga, la socialità, l'etica).
Una situazione tipicamente di transizione, quindi, a seguito della quale sembra essersi determinata, in I., una frattura (latente in alcuni segmenti, quotidianamente evidente in altri) fra le sedi delegate all'elaborazione e alla rappresentanza collettiva degli interessi (dei lavoratori, delle imprese, dei sottosistemi territoriali, ecc.) e l'insieme frammentato e a forte valenza individuale di questi stessi interessi.
A partire dalla fine degli anni Settanta, si è molto parlato e discusso attorno alle crescenti difficoltà dei grandi soggetti nel governare questa frattura, che probabilmente può essere fatta risalire alla rottura dell'antica unità fra una funzione di rappresentanza degli interessi reali e un modo di rappresentanza di interessi politici. Tale unità ha infatti costantemente operato attraverso interi decenni in I., sia per il sindacato, sia per i partiti, sia per le organizzazioni imprenditoriali.
Con la fine degli anni Settanta e ancor più nel corso degli anni Ottanta, l'intreccio tra interesse reale e rappresentanza politica è andato progressivamente deteriorandosi fino a scomparire, lasciando spazio alla richiesta ''forte'' del singolo gruppo o frammento (dai Cobas dei lavoratori alle lobbies delle imprese), oppure alla fuga oligarchica verso l'alto rivelatasi negli accordi di vertice. In precedenza, invece, l'antica unità aveva sempre funzionato da meccanismo equilibrante, o, ancor meglio, auto-equilibrante, in grado di saldare sfera politica e sfera degli interessi e di compensarne le eventuali frizioni reciproche.
Alla luce di ciò, la crisi dei soggetti intermedi di rappresentanza collettiva appare come un fenomeno di grande portata sociale e culturale, in cui sembra di poter identificare quasi un fisiologico riassestamento degli equilibri di potere, dopo una stagione caratterizzata da un marcato ruolo, giocato all'insegna della soggettualità, delle varie parti sociali. Probabilmente, però, una pura e semplice ''logica di pendolo'' appare insufficiente a spiegare ciò che è accaduto in tale ambito nel nostro paese a partire dalla fine degli anni Settanta, mentre una lettura più articolata può suggerire spunti di analisi più approfonditi. Il fenomeno, infatti, non può essere sbrigativamente ascritto, se non in via del tutto marginale, a insuccessi di tipo politico, a generiche crisi di leadership, ad appesantimenti burocratici e ''degenerativi'' interni alle organizzazioni preposte a ruoli di intermediazione.
Una frattura di così ampia portata, invece, va ricondotta a un ciclo segnato innanzitutto da profondi mutamenti strutturali del nostro sistema produttivo, quali, per es.: la crisi della grande fabbrica e quindi del punto di riferimento obbligato delle relazioni industriali; la fine della rigidità come strumento di controllo e di governo della forza-lavoro; la generalizzazione dei processi di innovazione tecnologica, con effetti pressoché incontrollabili sulla struttura della forza-lavoro stessa e sulle gerarchie professionali; la sempre più marcata autoreferenza della politica, apparsa inadeguata a pilotare processi di cambiamento ormai privi di unidirezionalità.
A queste cause di tipo strutturale vanno aggiunti i già ricordati fenomeni di natura culturale e sociale che hanno spinto il clima complessivo verso una forte affermazione di stili e modelli di natura soggettuale. Infatti, mano a mano che i grandi soggetti collettivi vedevano appannarsi la loro egemonia nella rappresentanza del sociale, cresceva specularmente il peso di categorie e aggregazioni che per lunghi anni erano rimaste ancorate a una gestione silenziosa, prudente e guardinga del loro ''particolare''.
Una sorta di ''crescita dal basso'', quindi, che solo schemi di lettura troppo tradizionali possono sommariamente dipingere come fenomeno corporativo. In realtà, negli anni Ottanta, la logica e il modello di rappresentanza semplificata, omologante, vagamente classista si sono progressivamente sgretolati dal di dentro, attraverso l'affermazione di movimenti spontanei di nuova aggregazione professionale, la nuova voglia di ''diversità'', e di specificità nelle scelte e nei comportamenti, la cura meticolosa e anche aggressiva nel darsi un'immagine propria, con una prepotente tendenza all'autocertificazione continuata. Ne è derivato il rifiuto di riconoscersi in obiettivi troppo vasti e ambiziosi e il disagio di essere dentro schieramenti troppo eterogenei, motivato, da parte dei soggetti di rappresentanza, dall'esigenza di conferire dignità e rilevanza alla propria (ed esclusiva) specificità.
Con un simile retroterra, è stata inevitabile l'affermazione di luoghi di coagulo e di riconoscibilità in qualche modo simili alle antiche corporazioni, alle antiche guilde, il cui ruolo è via via divenuto sempre più centrale (si pensi, per es., al peso crescente assunto dagli ordini professionali o dai sindacati autonomi) all'interno dell'organizzazione sociale ed economica del paese. E se è vero che la crisi dei grandi soggetti intermedi è stata anche crisi da eccesso di politica, è anche vero che le nuove forme di aggregazione particolare hanno gradatamente riscoperto il gusto di fare politica, di validare cioè l'azione di partecipazione e di tutela in un quadro di riferimento più generale.
È evidente, allora, che l'''onda lunga'' della soggettività che è stata alla base, a partire dalla fine degli anni Settanta, di questo radicale mutamento, ha comportato anche effetti tutt'altro che marginali sul piano più strettamente politico; il che ha reso necessario, come dimostra la cronaca dei primi anni Novanta, un processo di revisione totale degli stessi criteri di mediazione e di partecipazione politica.
Un'internazionalizzazione ''dal basso''. − Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta si è assistito, in I., a un crescente fenomeno di internazionalizzazione che ha via via interessato tutti gli ambiti della vita economica, culturale e sociale. Si è trattato di un graduale processo di apertura che si è principalmente declinato:
a) nel campo imprenditoriale, attraverso la ricerca e il perseguimento di nuovi mercati e nuove alleanze che non ha riguardato soltanto le imprese di grandi dimensioni, ma si è significativamente manifestato anche in quelle, più minute, che trovano nella realtà del localismo italiano il loro humus principale;
b) nel campo manageriale, attraverso un'intensa circolazione di esperienze e qualificazioni che hanno posto il sistema dirigenziale nazionale in continuo e costante contatto con realtà estere;
c) nel campo della formazione, attraverso l'attivazione di un circuito di mobilità, prevalentemente spontanea e ''dal basso'', fatto di tanti microcomportamenti e propensioni, che hanno contribuito a dar vita a un contesto fortemente internazionalizzato;
d) nel campo degli atteggiamenti e delle opzioni di consumo, attraverso, per es., un massiccio interesse per i viaggi all'estero, soprattutto di tipo turistico e culturale.
In particolare, per quanto riguarda questi ambiti, va rilevato come gli atteggiamenti andatisi recentemente affermando abbiano contribuito notevolmente, a livello socio-culturale, a rovesciare la tradizionale concezione del processo di internazionalizzazione. Si è infatti abituati a pensare all'attivazione di un circuito di interscambio transnazionale come a un processo ritmato essenzialmente da decisioni economiche o politiche che, dalle dimensioni istituzionali, ''scendono'' verso le società civili dei vari paesi interessati. È il caso, per es., della costruzione dell'unità europea, che ha innegabilmente avuto origine lungo una linea di sviluppo di tipo top-down (da Bruxelles verso le diverse realtà nazionali dell'area comunitaria), ma che poi ha trovato il suo decisivo iter di affermazione grazie a un insieme di atteggiamenti di tipo dichiaratamente bottom-up, vale a dire dalle società nazionali verso la politica e le istituzioni europee.
Basti pensare, appunto, alla mole di accordi commerciali, viaggi di vacanza, visite di studio e di aggiornamento, riunioni politiche, congressi di esperti, incontri scientifici di vario tipo in forte crescita nel corso degli ultimi quindici anni, che ha dato vita a una sorta di ''popolo di formiche'' in continua mobilità e che realizza di fatto l'internazionalizzazione.
Le polarizzazioni elettorali. − Il periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e gli inizi del decennio Novanta può essere considerato, alla luce di un ciclo che è andato progressivamente mutando, soprattutto sulla base di due elementi fondamentali:
a) il raggiungimento di una fase di potenza accumulata (nei risultati di impresa come nei consumi; nei comportamenti di welfare, come nell'informazione) che, per la sua complessità, ha reso ardua l'identificazione di strategie di governo e di ulteriore espansione, anche per l'emergere di concomitanti difficoltà di ordine congiunturale interne e internazionali;
b) la fine dei grandi miti collettivi e mobilitanti del passato, in favore di tante opzioni frammentate che hanno consentito la nascita di nuovi miti, meno totalizzanti e più centrati sul soggetto individuale e sulla sua affermazione in un contesto di tipo dichiaratamente neo-borghese.
A fronte di ciò, mentre la società civile ha continuato la sua mediazione tra vecchio e nuovo attraverso meccanismi di autoregolazione più o meno spontanei, la classe politica che la rappresenta si è trovata a fare i conti con un clima in cui gli antichi parametri di riferimento hanno ben presto finito per perdere senso e validità. Per la contemporanea e interagente manifestazione di avvenimenti interni ed esterni all'I., si è così giunti a una situazione che possiamo definire di ''perdita del centro'', manifestatasi anzitutto come spinta a una nuova identificazione nel territorio e come affermazione di istanze e comportamenti non più assimilabili alle passate logiche di schieramento.
Essendo svanito l'asse principale rispetto al quale si erano costruite le tradizionali appartenenze (quello fra comunismo e anti-comunismo), la dimensione del ''centro'' ha gradatamente perso la propria peculiarità di elemento ordinante. Dal dopoguerra agli anni Ottanta, infatti, la logica dello sviluppo italiano è stata sempre contraddistinta dall'allargamento del ''centro'' e gestita dai tradizionali partiti politici consolidatisi nel periodo di passaggio dalla dittatura alla democrazia. L'allargamento del ''centro'', con il graduale venir meno di distanze ideologiche e l'ampliamento delle maggioranze di governo, è stato innanzitutto perseguito per estendere il consenso intorno al sistema; ma quanto più tale allargamento è riuscito, tanto più, sulla scena politica nazionale, sono venuti a trovarsi in competizione segmenti di rappresentanza e di appartenenza sempre più uguali o assimilabili.
L'allargamento del ''centro'', quindi, ha portato sul lungo termine a una dinamica autodistruttiva che ha progressivamente mutato i connotati della politica nazionale. Il ''puntare al centro'' era inizialmente efficace poiché si convergeva al suo interno a partire da identità forti, chiaramente distinguibili, ma che, una volta sottoposte alla cooptazione al ''centro'', hanno perso le loro differenze ideologiche. La necessaria conseguenza è stata che i vari spezzoni del sistema politico, per giustificare le persistenti posizioni concorrenziali sul mercato elettorale, esauritesi le motivazioni ideologiche di partenza, sono stati costretti a una competizione sempre più marcata per forzare le differenze, per ricreare artificialmente elementi di distinzione.
Dopo anni di crisi più o meno annunciata dei partiti, il referendum del 9 giugno 1991 ha in tal senso rappresentato un forte campanello d'allarme per il sistema politico tradizionale: basti pensare che in nessuna delle 19 province in cui l'affluenza alle urne per il referendum ha superato di un decimo la media nazionale, il quadripartito DC, PSI, PLI, PSDI ha ottenuto, alle politiche 1992, più di un quinto della sua media nazionale.
Viceversa tra le 19 province ''roccaforti referendarie'', ben 13 hanno assegnato alle nuove formazioni politiche (quali per es. la Lega Nord) risultati superiori di un quinto alla media nazionale e in 8 casi vi è stata anche una sovrapposizione con le roccaforti del PDS e di Rifondazione Comunista.
Giunto al termine di un processo di radicale trasformazione, il sistema politico italiano ha così finito per rivelare connotati di assoluta novità, quali:
a) la contestazione del centro geo-politico dello stato nazionale, messo in discussione dalle spinte localistiche e federalistiche;
b) la perdita di esclusività dell'asse destra-sinistra, affiancato e incrociato da quello tra partiti del sistema e nuove opposizioni, alcune di tipo post-materialista;
c) il ridimensionamento del centro politico-parlamentare del sistema (ossia della Democrazia Cristiana);
d) la ricollocazione in chiave territoriale delle opposizioni a partire dal PDS che, svanite le residuali potenzialità aggreganti dell'ex PCI, nasce elettoralmente come il partito di rappresentanza delle regioni del ''centro''; ricollocazione territoriale anche per altre due nuove opposizioni di tipo post-materialista: per la Lega Nord, che tende a sostituire la DC come partito egemone del Nord Italia, e per la Rete, partito territoriale della Sicilia, di Torino e di Trento;
e) l'abbandono delle tradizionali realtà di partito, con una ricomposizione della fiducia politica da un lato verso il leader e dall'altro verso il rappresentante territoriale, che costituiscono le due figure risultate vincenti dalle recenti consultazioni elettorali.
Il fatto nuovo non è comunque la funzione del leader, connaturata a qualunque storia politica, quanto l'assorbimento da parte di questa funzione di una complessità di relazioni che nel passato erano svolte dai partiti in quanto tali. La concomitante crescita del territorio come variabile fondamentale del comportamento politico e della figura del leader come riflesso delle identità, ha determinato un effetto del tutto inedito nel panorama politico nazionale: da un lato, sotto la spinta della territorializzazione, ci si richiama sempre di più al candidato maggiormente vicino, attraverso una vera e propria ''personalizzazione''; oppure ci si rispecchia nel leader nazionale (è il caso, per es., delle ''liste firmate'' − come quella di M. Pannella − o del ruolo rivestito da L. Orlando per la Rete o da M.S. Giannini per la Lista Referendaria). Da tutto ciò deriva che la figura del leader è oggi differente da quella del passato. Fino alla fine degli anni Settanta il suo ruolo era di tipo generale, rappresentante di valori e interessi tendenzialmente onnicomprensivi: il leader interpretava i bisogni complessivi della società. Oggi al leader non si chiede più questo ma, al contrario, di essere parziale, di rappresentare istanze che non si vuole, nemmeno programmaticamente, far diventare universali; i vari movimenti continuano certo a lavorare per avere un consenso sempre maggiore, ma il dato profondo è quello dell'indifferenza rispetto al diventare maggiormente universali.
Accanto a ciò, vanno valutati gli effetti di una nuova polarizzazione politica cui le tendenze degli ultimi anni hanno contribuito a dare vita nel nostro paese.
La perdita del ''centro'' ha finito con il distruggere il tradizionale sistema politico nazionale su cui si modellavano con poche varianti gli scenari locali, dando vita a un'iperterritorializzazione con diversi sistemi politici subnazionali. Essa appare così irreversibile: i grandi partiti nazionali sembrano aver esaurito la loro spinta propulsiva. Inoltre, il divario fra i vari sistemi politici territoriali tende ad auto-incentivarsi: la rivolta del Nord contro la meridionalizzazione dei partiti di governo provoca un ulteriore sbilanciamento del baricentro elettorale di questi ultimi verso il Sud e quindi un ulteriore distacco del Nord.
In contrapposizione a questo processo, nasce all'interno e all'esterno del sistema politico l'esigenza di fattori ripolarizzanti che non pretendano di ricostruire il quadro precedente, ma che partano proprio dal ''federalismo politico''che si è affermato con le ultime elezioni, di modo che esso ottenga un riconoscimento istituzionale e che, decongestionati i poteri che il ''centro'' si è dimostrato incapace di governare in modo ottimale, possa fondare nuovi patti tra le diverse aree, tra le forze prevalenti nei vari contesti, per costruire un nuovo ''centro'' come somma territoriale che abbia possibilità reali di governo.
Un nuovo blocco sociale sembra in via di formazione nelle regioni del Nord, raccolto intorno a opzioni politiche di rafforzamento delle autonomie locali, se non di distacco dal resto del paese, poiché il ''ritorno al territorio'' è diffuso in tutte le aree del paese, sebbene in forme differenti. Il primo elemento è perciò dettato dalla presenza di forze centrifughe che agiscono a vari livelli e con un ventaglio di modalità.
Il caso italiano sembra pertanto assestarsi su un processo che mette insieme territorio e politica. La via appare quella del federalismo politico. Forze che sono egemoni in aree differenti del paese stabiliscono un accordo sotto il mantello istituzionale di un più accentuato decentramento di alcune funzioni e il mantenimento (anzi, un'ulteriore centralizzazione) di altre.
Il federalismo politico nasce dalla percezione che le società complesse si fondano proprio sulla frammentazione delle identità e i partiti altro non sono che la confluenza contemporanea di interessi e di identità. D'altro canto, anche sul piano socio-economico, la moltiplicazione della varietà delle professioni, la compresenza nello stesso individuo di lavori a differente identità sociale, il moltiplicarsi delle attività non lavorative (dal tempo libero al volontariato), contribuiscono ulteriormente a frammentare la rappresentanza. Rispetto al passato la novità è che tutti questi frammenti di attività divengono immediatamente politici: non chiedono di essere interpretati dai partiti presenti, ma si autorappresentano anche nella società politica.
Evoluzione socio-territoriale e ambientale (1979-92). − Negli anni Ottanta i comportamenti sociali nei confronti del territorio mutano sia per il volume di domande e usi gravanti sull'ambiente, sia per l'evoluzione degli orientamenti maturati dall'opinione pubblica nei riguardi della natura e del paesaggio, come pure di quelli riguardanti la sfera più personale come l'alimentazione, il tempo libero, le scelte di consumo. Il rapporto fra società italiana e territorio si è realizzato a ogni livello attraverso gli effetti di una continuata ''appropriazione'' di porzioni sempre più ampie di suolo, in funzione di una crescente domanda familiare per abitazioni primarie e a uso turistico, come pure di una diffusione delle localizzazioni produttive in sintonia con il progredire dello sviluppo economico.
Le famiglie hanno manifestato una costante tensione verso la proprietà immobiliare; in venti anni, a partire dal 1971, i proprietari passano dal 56,2% al 74,7% delle famiglie italiane. L'effetto più evidente è la rilevante espansione edilizia che ha contraddistinto grandi aree urbane, come insediamenti diffusi di piccole dimensioni. Questo processo di urbanizzazione, sostenuto da politiche sociali incentivanti (promosse a partire dal 1978 attraverso il Piano decennale per l'edilizia residenziale pubblica previsto dalla l. 457), si è realizzato senza un reale governo delle attività edificatorie.
Rilevante è stata la componente spontanea dell'edificazione che proprio nei primi anni Ottanta si è concretizzata nel fenomeno dell'abusivismo edilizio e cioè della realizzazione di immobili al di fuori dei piani e dei controlli urbanistici. A differenza dell'edificazione spontanea e precaria − tipica delle periferie urbane più povere e marginali − conseguente alle emigrazioni interne degli anni Sessanta, il moltiplicarsi di quartieri e insediamenti abusivi nei primi anni Ottanta corrisponde al soddisfacimento di crescenti esigenze abitative, per nuclei familiari a reddito medio-basso ma con una certa capacità di risparmio. Un modello di edificazione che ha alla base l'investimento economico e il lavoro dei componenti familiari direttamente impegnati nelle attività costruttive. La sanatoria degli abusi commessi (l. 47 del 1985), seguita da un inasprimento delle norme contro l'edificazione abusiva, ha fortemente ridimensionato il fenomeno che negli anni precedenti aveva nei fatti goduto di una certa tolleranza perché considerato una modalità, seppur anomala, per soddisfare il fabbisogno di alloggi.
La stessa impresa, quale fondamentale agente sociale, ha trovato proprio nel territorio il catalizzatore nei suoi processi di moltiplicazione e sviluppo. La grande industria ha accentuato le tendenze alla riconversione e al decentramento in grande scala con la chiusura e il trasferimento di alcune significative polarizzazioni. Il principale effetto ha riguardato il formarsi, all'interno delle aree centrali delle maggiori città, di grandi patrimoni di aree dismesse dagli usi industriali e potenzialmente restituibili a nuove funzioni urbane. Per la piccola e media impresa industriale dei distretti produttivi, il modello insediativo spontaneo ha finito per generare effetti simili a quelli della periferia residenziale senza forma e senza funzionalità. Il terziario, il cui boom di crescita si colloca nei primi anni Ottanta, non trovandosi assecondato nella sua inarrestabile espansione da un'adeguata offerta di complessi edilizi specializzati nelle città, ha continuato a generare una dispersione localizzativa cui sono da attribuire gran parte delle cause di un traffico veicolare ingestibile nella maggior parte delle città italiane.
Infine, le aziende agricole, cui in passato era demandato l'implicito compito di salvaguardia e presidio territoriali, vedono progressivamente affermarsi un modello produttivo che finisce per ridurre l'impatto territoriale, poiché contrae l'utilizzo della ''terra'' a favore di altri fattori produttivi come le tecnologie di coltivazioni e soprattutto il terziario agricolo in quanto catena integrata del produrre e del vendere (marketing, logistica, presenza sui mercati).
Il risultato sintetico di una tale continuata appropriazione del territorio può essere rappresentato dalla dimensione raggiunta dall'urbanizzazione. Nel corso degli ultimi quarant'anni le superfici occupate da residenze, impianti e infrastrutture sono aumentate di 1,6 volte passando dai 672.000 ha del 1951 al 1.516.000 ha del 1981 e al 1.769.000 ha del 1990 con un'incidenza pari al 5,6% del territorio nazionale (dal 2,2% degli anni Cinquanta). La residenza (primaria o turistica) incide nel 1990 per il 43,3% sul totale, gli usi produttivi o di servizio per il 28,1%, le reti infrastrutturali per il restante 28,6%.
Nel trentennio 1951-81 si stima venissero edificati ogni anno 28.100 ha, nel decennio 1981-91 ci si è attestati attorno a una media di 27.600 ha. È invece radicalmente mutata la composizione d'utilizzo del territorio, fortemente centrato in passato sull'edilizia abitativa (che passa da una media annua di 15.800 ha agli 8.600 ha nell'ultimo decennio), mentre negli anni Ottanta risulta più sviluppata l'edilizia non residenziale (industriale, terziaria, di servizi anche pubblici), e resta stabile con tendenza a decrescere nelle opere infrastrutturali (tab. 32).
Anche come conseguenza di una così rapida e disorganica urbanizzazione, gli anni Ottanta vedono il formarsi, anche in I., di una cultura ambientalista. La sua diffusione viene incentivata dal verificarsi di eventi a forte impatto sull'opinione pubblica − disastri idrogeologici, incidenti industriali, gravi inquinamenti di risorse primarie come l'acqua − ma è da porsi in relazione soprattutto con l'accresciuto livello di benessere materiale che porta la società italiana a orientare i suoi bisogni verso la ricerca di maggiore qualità.
La possibilità di scelta nei comportamenti per quanto attiene ai consumi, alle forme di innalzamento del reddito, all'uso del tempo, fa emergere un atteggiamento sociale dai contorni contraddittori; al desiderio di tutelare e migliorare il proprio standard di vita, si aggiungono nuovi bisogni ambientali per i quali, però, non si intende pagare alcun costo aggiuntivo. Resta fortemente radicata nelle relazioni sociali una soggettività senza vincoli che porta a un atteggiamento di rifiuto − a volte irrazionale, a volte pienamente egoistico − a sopportare i disagi necessari per ripristinare o salvaguardare le qualità insediative attuali e future. L'enfasi posta proprio negli anni Settanta sulla sfera dei diritti soggettivi ha, d'altra parte, contribuito a promuovere l'idea delle risorse ambientali quale patrimonio inalienabile del singolo e della collettività. La maggior parte del corpo sociale percepisce il degrado ecologico cogliendo gli svantaggi che esso comporta senza comprendere le profonde revisioni necessarie, sul piano delle abitudini quotidiane, per realizzare un nuovo ''ordine'' ambientale. Questo processo evolutivo del sociale coincide con un crescente consenso alla ristrutturazione e al rilancio industriale attraverso le regole del mercato di cui si rifiutano, però, le conseguenze ambientali e non si intende interagire con le politiche localizzative riguardanti lo smaltimento dei rifiuti e delle scorie.
Gli eccessi consumistici non vengono mitigati dalla consapevolezza, troppe volte superficiale, per le cause di tanti dissesti ecologici; il corpo sociale è sensibile ai macro problemi planetari (ozono, effetto serra, piogge acide) ma meno alla relazione fra eccessi nell'uso della propria autovettura o dei sistemi di climatizzazione domestica e l'inquinamento atmosferico. L'emozionalità dei problemi spesso ha il sopravvento sulla razionalizzazione oggettiva delle possibili soluzioni e degli strumenti da attivare a livello centrale e soprattutto locale, in termini di programmi di prevenzione e di ripristino.
I meccanismi specifici che operano nella relazione tripolare fra comportamenti sociali, rifiuto di pagare il costo dello sviluppo ed emozionalità di fronte alle emergenze più appariscenti, hanno prodotto radicali mutamenti nell'approccio culturale e politico ai temi ambientali. Di fronte alle situazioni critiche, ai disastri ambientali che a ritmo serrato si impongono all'attenzione dell'opinione pubblica, la questione ambiente diviene proprio negli anni Ottanta tema politico a elevato coinvolgimento collettivo.
L'insofferenza diffusa verso i rifiuti, la ricerca di spazi e condizioni di vita non degradate (in città, nel tempo libero, in vacanza, ecc.) concorrono a esaltare gli aspetti preventivi e i risvolti sociali della difesa ambientale, attivando i necessari meccanismi di compatibilità tra sviluppo delle attività umane e natura, e richiedendo in parallelo un'attenzione specifica agli aspetti informativi e di comunicazione. In questo contesto tende a modificarsi anche il ruolo che possono assumere le associazioni ambientaliste.
Il decennio degli anni Ottanta rappresenta per le associazioni ambientaliste un momento vitale e di grandi cambiamenti. Possiamo distinguere, infatti, una linea di evoluzione che vede compiersi alcune fasi d'avanzamento:
il ciclo eroico-elitario (fine anni Sessanta-metà anni Settanta) è il momento di fondazione delle maggiori associazioni e riflette lo stato nascente dei movimenti ecologici per iniziativa di gruppi ristretti, impegnati essenzialmente nella difesa e conservazione della natura e delle specie animali maggiormente esposte a rischio di estinzione;
il ciclo della denuncia (metà anni Settanta-primi anni Ottanta) vede un aumento della partecipazione ai movimenti e una forte presa sull'opinione pubblica anche attraverso la denuncia degli interventi più distruttivi e l'informazione sugli incidenti a più forte rischio per la salute pubblica;
il ciclo della maturità politica (metà anni Ottanta) caratterizzato da un forte consenso dell'opinione pubblica alle tematiche ecologiche e dalla trasformazione dell'associazionismo ambientalista in movimento politico con una significativa rappresentanza istituzionale;
il ciclo del ripensamento strategico (fine anni Ottanta-inizio anni Novanta), che vede il lento passaggio, anche per l'associazionismo ecologico, verso l'assunzione di maggiori responsabilità di tipo istituzionale − a livello nazionale e locale − e di tipo gestionale.
L'influenza e l'espansione anche quantitativa dei movimenti ''verdi'' (v. anche ecologisti, movimenti, in questa Appendice) i cui iscritti aumentano linearmente fino al consolidamento e alla stasi del 1992, ha esiti significativi sui comportamenti sociali tesi a migliorare le condizioni di vita del singolo, ma hanno un minor impatto sui comportamenti collettivi (tab. 33).
L'evoluzione dei comportamenti ambientali produce un volume significativo di domande in diversi settori della vita collettiva:
nell'ambito della tutela sanitaria, dell'alimentazione e della cura del corpo, appare marcatamente visibile il passaggio da fabbisogni legati a un ''sé corporeo'', limitato ai meccanismi tradizionali della malattia, a un ''sé globale'', unità psicofisica fortemente influenzata dalle sollecitudini e dalle caratteristiche del contesto ecologico;
nel sottosistema educativo e della formazione, seppur in assenza di una formalizzazione d'indirizzo ambientalista, tale domanda finisce per orientare le attività concrete della didattica e pone le basi per un'autonoma strutturazione dei nuovi profili professionali per la salvaguardia ambientale;
nei modelli di consumo, i prodotti ''verdi'' registrano un crescente successo fra i consumatori, influenzando notevolmente anche i processi produttivi, per quanto riguarda l'innovazione sia strettamente di prodotto, sia di confezione e imballo;
nei servizi urbani legati al quotidiano la domanda sociale in campo ambientale si declina in maniera sempre più vistosa lungo i settori della gestione dei rifiuti, della tutela della qualità dell'ambiente urbano, dell'utilizzo delle aree libere, della risposta ai fabbisogni domestici, della regolamentazione del traffico, della difesa del verde, dei beni culturali e dei centri storici;
nei comportamenti turistici e di gestione del tempo ''liberato'', si manifesta una grande attenzione alle qualità ambientali e una forte modificazione delle attività e delle scelte connesse al ''fare vacanza''.
L'attenzione dell'opinione pubblica per le problematiche ambientali ha avuto, nel corso degli anni Ottanta, una specifica influenza sul sistema economico e nella strategia delle imprese, e in particolare:
nella produzione di beni di largo consumo − come quelli alimentari, i prodotti per l'igiene domestica e personale, i farmaci − l'effetto di normative comunitarie di tipo restrittivo sia per le componenti chimiche (fosforo nei detersivi, fitofarmaci in agricoltura, piombo nei prodotti petroliferi, clorofluorocarburi nella confezione di spray) sia per quanto attiene le confezioni e il loro smaltimento (materiali plastici), ha indotto una profonda trasformazione nei processi produttivi e una modifica di alcune caratteristiche fondamentali dei prodotti (dai detersivi a basso contenuto di fosforo, alle auto catalizzate);
si è sviluppato un vero e proprio comparto di ''industria verde'', specializzata nelle attività di prevenzione e ripristino ambientale;
sono cresciuti i servizi direttamente legati ad una maggiore sensibilità verso i valori culturali dell'ambiente (turismo ecologico) o anche per una più elevata cura personale di tipo salutistico;
si è manifestata un'accentuata resistenza alle attività di trasformazione territoriale per tutti quegli insediamenti ritenuti a rischio ovvero per le infrastrutture giudicate a impatto negativo sull'ambiente. Tale esasperato atteggiamento di rifiuto − in particolare nell'area di residenza di impianti energetici, di industrie e finanche di attrezzature per lo smaltimento dei rifiuti − ha registrato nel 1988 un'adesione stimata dell'82% degli Italiani, costituendo un vincolo alla stessa realizzazione dei programmi per il disinquinamento.
Particolarmente significativo è il ruolo che il comparto delle aziende ecologiche possono ricoprire per la realizzazione dei progetti di ripristino ambientale. Questo comparto produttivo comprende le imprese per la realizzazione e gestione di impianti depuratori delle acque e dell'atmosfera, degli scarichi civili e industriali; le aziende per lo smaltimento e trattamento dei rifiuti, per i recuperi industriali e la bonifica delle aree industriali, per la produzione di energia solare o eolica. Nel periodo compreso fra 1986 e 1992 le imprese ecologiche sono più che raddoppiate portando la loro consistenza a 4723 unità produttive con un'occupazione stimata di 46.950 addetti (tab. 34).
Il rafforzamento di tendenze strutturali che riguardano significativi segmenti del mercato per beni e servizi, come pure il consolidamento imprenditoriale di nuove aree tecnologiche, dipende in misura assai significativa dall'evoluzione dei comportamenti sociali in presenza di un corpo normativo nazionale e comunitario ormai formato e completo, dai programmi pubblici formalizzati soprattutto nel Piano triennale per l'ambiente (1989-91), dai soggetti privati e istituzionali la cui principale missione professionale è legata all'ampliarsi dell'intervento di salvaguardia ambientale.
Agli inizi degli anni Novanta, nel quadro di forti tensioni sociali dominate anche in Italia da eventi politici di ampia risonanza, l'ambiente non costituisce più il problema di maggiore urgente soluzione; nel 1992 viene, infatti, preceduto dalla lotta contro la criminalità organizzata ritenuta la più importante questione nazionale per il 67,7% degli Italiani, seguita dalla crisi economica con i conseguenti rischi occupazionali, dai fenomeni di disgregazione sociale e di diffusione degli stupefacenti. Al quarto posto, condiviso dal 29,4% degli Italiani, viene collocato il degrado ambientale. Il disagio, non più esaltato dai grandi eventi catastrofici, ritorna a considerare preminenti i problemi della vivibilità quotidiana, soprattutto quelli del traffico veicolare nelle città e dell'inquinamento atmosferico (tab. 35). Negli anni Novanta si potranno rafforzare le linee di evoluzione socio-ambientali, per la crescente influenza sui comportamenti sociali dei valori ecologici, anche in sintonia con un processo di sviluppo non più linearmente crescente, ma selettivo e basato sul prevalere dei fattori di qualità.
Censis, Mercato e prospettiva dell'industria verde, Milano 1989.
Storia. − La metà degli anni Settanta segnava il culmine di un lungo periodo di trasformazione sociale, di crescita delle aspettative e di mobilitazione della società civile. Questi fenomeni, avviati dal miracolo economico della fine degli anni Cinquanta e sollecitati dal diffondersi del benessere, avevano trovato solo parziale risposta nelle prime riforme del centro-sinistra. Si era anzi accentuata la diffusa richiesta di ridurre i persistenti divari e disagi sociali. Gli interlocutori principali in questo processo, al tempo stesso politico e sociale, e i destinatari di queste richieste, esplicitamente invocati o implicitamente coinvolti, erano sempre i grandi partiti di massa e le organizzazioni sindacali. I risultati di un percorso quasi ventennale, dopo l'accelerazione impressagli dalla rivolta studentesca del 1968 e dalle lotte operaie del 1969, erano apparsi improvvisamente misurabili nei risultati del referendum sul divorzio che, nel maggio 1974, aveva visto il 59,3% dei votanti schierarsi contro l'abrogazione della legge. La vittoria dei divorzisti fu avvertita come il segnale di una profonda secolarizzazione della società e, insieme, dell'irrevocabilità delle riforme.
In quegli anni i successi elettorali del PCI indicavano che una parte consistente dell'elettorato aveva affidato ai comunisti un ruolo decisivo in un progetto radicale di trasformazione. Un'altra componente fondamentale della situazione erano le nuove forme di mobilitazione e di partecipazione. Si venivano affermando modelli di azione e comportamenti politici che accomunavano − con molti intrecci e diversità − sinistre tradizionali, nuova sinistra e movimenti cattolici. Erano tutti segnali − anche quelli più anomali, come gli esordi del terrorismo − che indicavano un'accentuata politicizzazione della società.
Agli inizi degli anni Ottanta questo processo cominciò a esaurirsi e il decennio successivo dimostrerà la progressiva perdita di efficacia degli strumenti politici come fattori di trasformazione e d'intervento nella società. Nello stesso torno di tempo si venne appannando la tensione ideale che aveva caratterizzato il periodo precedente. Si realizzò in quegli anni uno svuotamento del bagaglio ideologico tradizionale e la presa di coscienza di una certa sua inanità e improduttività. A ciò contribuirono vuoi lo spettacolo angoscioso della devastante radicalizzazione terroristica, vuoi la reazione, contro ogni tipo di avanguardia, delle componenti ''inerti'' presenti in ogni schieramento politico. Il termine ''riflusso'', con cui i mass-media e i commentatori battezzarono − già alla fine degli anni Settanta − questa tendenza, sembra appropriato a designare la crisi delle ideologie, soprattutto quelle di sinistra, e la reazione moderata. Potenzialmente benefico, questo orientamento si scontrò invece con un'accentuazione dell'inefficienza del governo e con l'irrigidimento corporativo dei gruppi sociali. Lo scarto sempre più marcato fra la consapevolezza delle cose da fare e le concrete realizzazioni si è accompagnato alla vischiosità del sistema dei partiti sempre più compromesso nelle dinamiche e relazioni clientelari. Il risveglio del tessuto sociale e la vigorosa ripresa del dibattito intorno ai temi della riforma elettorale e più in generale della riforma delle istituzioni (fra la fine del decennio e i primi anni Novanta) lungi dal produrre cambiamenti sono sembrati avere un effetto paralizzante sul sistema politico. Ma il crollo o il ridimensionamento di alcune forze tradizionali, nelle elezioni del 1992 e del 1993, insieme alla nascita o al rafforzamento di altre e alla messa sotto accusa di un'intera classe politica sembravano prefigurare nuove realtà e nuovi protagonisti.
Solidarietà nazionale e terrorismo. − Dopo le elezioni politiche del 20 giugno 1976, la costituzione, nell'estate, del nuovo governo presieduto da G. Andreotti e sostenuto in Parlamento dal voto favorevole dei soli democristiani con l'astensione di tutti gli altri partiti dell'''arco costituzionale'', PCI, PSI, PSDI, PRI e PLI (contrari invece radicali, demoproletari e missini) aveva dato avvio a una fase nuova, breve e drammatica, della vita politica italiana, quella della ''solidarietà nazionale''. Nuova per la presenza nella maggioranza parlamentare, seppure inizialmente solo nella forma dell'astensione, del PCI rimasto o confinato all'opposizione per quasi trent'anni. Breve perché già alla fine del 1978 poteva considerarsi conclusa. Drammatica perché coincise con il periodo di maggiore sviluppo del terrorismo culminato con l'uccisione dell'esponente politico più rappresentativo di quegli anni, il presidente della DC A. Moro.
Per il partito comunista, rafforzato dai risultati elettorali, si trattava di una prima applicazione della politica del compromesso storico. Teorizzata dal segretario del PCI E. Berlinguer nel 1973, sull'onda della crisi cilena di quell'anno, per evitare che un programma di profonde riforme sociali venisse spazzato via dalla reazione della destra eversiva e fascista, prevedeva un'inedita alleanza delle forze cattoliche e socialiste. Nel 1976 appariva piuttosto dettata dalle condizioni di emergenza imposte dalla grave crisi economica e dal terrorismo − e così la intesero fin dall'inizio gli altri partiti.
Gli aspetti politicamente più rilevanti della crisi economica erano rappresentati dall'elevatissimo tasso d'inflazione (16,9% nel 1975, 16,7% in quell'anno, 17% nel 1977), dalla crescente disoccupazione, dalle difficoltà di controllo della spesa e dal costo del debito pubblico. Se l'inflazione poteva essere ricondotta in parte alla congiuntura internazionale seguita alla crisi petrolifera del 1973, gli altri fattori di crisi si presentavano ormai come aspetti permanenti del sistema italiano e quindi più difficilmente modificabili.
A metà del 1976 il terrorismo aveva intensificato le sue azioni e la sua pericolosità. L'assassinio di due magistrati − il procuratore generale di Genova F. Coco con i due uomini della scorta da parte delle Brigate rosse (BR) nel mese di giugno alla vigilia delle elezioni, e il giudice V. Occorsio procuratore nel processo contro il movimento neofascista Ordine nuovo per mano di un terrorista di destra nel luglio successivo − dimostrava che il fenomeno aveva raggiunto un nuovo livello, quello dell'uccisione mirata di singole personalità pubbliche. A esso si veniva accompagnando, prevalentemente a opera delle formazioni terroristiche di sinistra, uno stillicidio di attentati volti a intimidire, a ferire e a menomare gravemente con la pratica della ''gambizzazione''. Sotto il fuoco dei terroristi cadranno politici, avvocati, magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, giornalisti.
Di fronte al terrorismo le forze politiche scontavano atteggiamenti di leggerezza e incomprensione. Nella politica dell'ordine pubblico gli uomini di governo avevano a lungo sminuito i disordini degli anni precedenti avallando la teoria degli ''opposti estremismi'', una teoria che sembrava giustificare e di fatto tollerava lo scontro diretto fra gruppi di estrema destra e di estrema sinistra in quanto destinato a indebolire entrambi i contendenti. All'insufficiente contenimento operato nei confronti delle manifestazioni pubbliche di violenza, premessa di un clima propenso a tollerare ogni forma di radicalizzazione, si aggiungeva il mancato controllo sull'operato di settori dei servizi segreti, responsabili di aver spregiudicatamente favorito o coperto le azioni più gravi del terrorismo di destra. Nei partiti politici di sinistra, e in particolare nel PCI − che pur disponeva di adeguati strumenti conoscitivi −, si continuava a trattare il terrorismo di sinistra come ''obiettivamente fascista'' senza impegnarsi a individuare matrici ideologiche comuni o a lungo condivise. Da tutto ciò derivava una diffusa impotenza politica e culturale a comprendere e ad affrontare un fenomeno in rapidissima espansione (v. terrorismo, in questa Appendice).
Rilevanti per la pretesa incisività (e perché toccavano, con l'abolizione di alcune festività infrasettimanali, sia civili che religiose, consuetudini inveterate), ma nella sostanza inadeguati si rivelarono i primi provvedimenti del governo cosiddetto della ''non sfiducia'' volti a contenere i consumi e la spesa pubblica, e ad avviare una politica di austerità. Venivano ottemperate tuttavia una serie di richieste di politica finanziaria, passo indispensabile per ottenere prestiti dalla CEE e dal Fondo monetario internazionale, poi concessi nella primavera del 1977. Contemporaneamente i partiti che sostenevano il governo mettevano faticosamente a punto un programma comune che venne approvato nel luglio successivo. Al di là di una serie di indicazioni generali − costantemente reiterate negli anni successivi − come quelle concernenti la riduzione della spesa pubblica, i problemi della criminalità organizzata, ecc., contarono di più, allora, gli accordi raggiunti su aspetti specifici, come quelli sull'inasprimento del fermo di polizia per combattere il terrorismo, il potenziamento delle forze di pubblica sicurezza, gli accordi sulla Rai-TV, mentre qualche problema riservava il complesso passaggio delle competenze statali alle regioni. Nel frattempo il governo delle astensioni realizzava la riforma dei servizi segreti e la legge sulla disoccupazione giovanile, che si rivelò tuttavia largamente inadeguata. Poco più di un palliativo apparve tale legge se rapportata all'esplosione di malessere giovanile del 1977.
Nei primi mesi di quell'anno un ampio movimento di contestazione di studenti universitari e medi prese l'avvio con occupazioni di alcune università. Sfociò poi, a Roma, Bologna, Milano, in violenti scontri di piazza e in veri e propri episodi di guerriglia urbana, nei quali per la prima volta alcuni dimostranti fecero uso di armi da fuoco. Convergevano a determinare questa mobilitazione sia la crisi sociale e culturale delle aree urbane (in cui largo peso avevano le prospettive di disoccupazione per giovani sempre più scolarizzati) sia la radicalizzazione estrema e la vocazione conflittuale di alcuni settori della nuova sinistra, in dura polemica con il PCI. Protagonisti degli scontri ed egemoni nel movimento furono i gruppi della cosiddetta Autonomia operaia: con numerosi altri furono all'origine di innumerevoli attentati a sedi politiche, uffici pubblici, industrie, di ''espropri proletari'', di violenze contro cose e persone, tanto che il 1977 segnò la nascita del ''terrorismo diffuso''. Diversa per origini e motivazioni, ma contigua nei momenti cruciali era l'altra, più numerosa, componente del movimento, quella chiamata ''creativa'', che radicalizzava una serie di comportamenti alternativi in cui largo peso, culturale e simbolico, giocavano la musica rock e le droghe.
Alla fine di un anno segnato dal montare delle inquietudini e delle tensioni, il 2 dicembre, una grande concentrazione a Roma di operai metalmeccanici fu avvertita dai partiti di sinistra come il segnale per cercare d'imporre una politica più incisiva, soprattutto sul terreno economico, dove la crisi colpiva larghi settori industriali con gravi indebitamenti e perdita di produttività. L'obiettivo delle sinistre era ormai la formazione di un governo di emergenza. Ma al fondo rimaneva il problema del ruolo del PCI nella nuova maggioranza.
Con le dimissioni di Andreotti, il 16 gennaio 1978, ebbe inizio una lunga fase di trattative dominate dal tentativo di Moro di realizzare, in sintonia con Berlinguer, un compiuto inserimento del PCI nella vita politica nazionale. Abbandonata l'ipotesi di una partecipazione diretta dei comunisti al governo, come era nelle richieste iniziali delle sinistre, Moro riuscì a superare le resistenze democristiane a una collaborazione più ampia con il PCI. Avevano contribuito a consolidare le ipotesi di accordo sia l'apprezzamento per la difesa del pluralismo e della democrazia compiuta da Berlinguer in un discorso a Mosca durante le celebrazioni del 60° anniversario della Rivoluzione di Ottobre sia il nuovo orientamento dei sindacati. Un'assemblea dei consigli generali e dei quadri di CGIL, CISL, UIL, tenuta a Roma all'EUR nel febbraio 1978, si era pronunciata infatti a favore di una politica di austerità e di sacrifici anche salariali per rilanciare il sistema economico e l'occupazione. Ed era stato proprio il segretario generale della CGIL, il comunista L. Lama, a preannunciare la svolta in un'intervista del 24 gennaio.
L'8 marzo una riunione dei partiti che componevano lo schieramento precedente − DC, PCI, PSI, PSDI, PRI ma escluso il PLI − varava l'accordo programmatico e la composizione del nuovo governo: si trattava di nuovo di un monocolore democristiano ancora presieduto da Andreotti per il quale questa volta avrebbero votato a favore tutti i partiti della nuova maggioranza. La mattina del 16 marzo, poche ore prima della votazione per sancire la formazione del governo, un commando delle BR rapì Moro in una strada di Roma massacrando i cinque uomini della sua scorta. Il governo ottenne la fiducia quello stesso giorno in un momento di alta drammaticità, mentre il paese rimaneva annichilito e sgomento di fronte alla gravità dell'accaduto. L'immediata reazione collettiva − uno sciopero generale e grandi manifestazioni − non attenuava la fragilità dello stato di fronte al terrorismo.
Il governo decise immediatamente di non trattare per il rilascio di Moro. Una scelta diversa avrebbe comportato inevitabilmente il riconoscimento politico delle Brigate rosse.
La sofferta adozione di questa linea fu sostenuta soprattutto dalla DC, dal PCI e dal PRI convinti che lo stato dovesse dare una prova di grande fermezza. Il segretario del PSI B. Craxi propose invece insistentemente un'iniziativa unilaterale da parte dello stato volta, attraverso la scarcerazione per motivi umanitari di alcuni terroristi, a indurre le Brigate rosse a liberare il presidente della DC. I cinquantacinque giorni del sequestro furono contrassegnati da accesi dibattiti fra sostenitori della ''fermezza'' e sostenitori della ''trattativa'', da indagini confuse e inconcludenti, da appelli ai terroristi ai quali si aggiunse vanamente anche quello del pontefice Paolo vi. Dalla prigionia le BR facevano intanto filtrare lettere di Moro che criticavano la DC e argomentavano a favore della trattativa. La tensione si sciolse drammaticamente il 9 maggio con il rinvenimento del cadavere di Moro in un'auto parcheggiata provocatoriamente nel centro di Roma, a due passi dalle segreterie nazionali della DC e del PCI. Il giorno successivo il ministro degli Interni F. Cossiga si dimetteva.
L'uccisione di Moro rappresentò un punto cruciale per il terrorismo di sinistra in Italia: ne dimostrò tutta la forza, ma segnò anche l'inizio del suo declino. Se nell'immediato il numero delle azioni terroristiche rimase elevato, si avviò allora una presa di distanza dall'area eversiva da parte di quanti − ed erano numerosi − avevano coltivato ambigue solidarietà in nome di confuse prospettive rivoluzionarie.
Il caso Moro aveva messo in luce divergenze profonde fra i due partiti di sinistra, PCI e PSI. Nell'estate del 1978 Craxi spostò il conflitto sul piano ideologico aprendo il dibattito sui presupposti del socialismo, contestando le radici teoriche del comunismo e rivendicando il primato del riformismo socialista. Le ragioni di questa aperta concorrenzialità, destinata a durare e ad accentuarsi negli anni, derivavano dal timore del PSI di vedersi emarginato dal bipolarismo DC-PCI e dalla necessità di riconquistare un ampio margine di manovra soprattutto nei confronti della DC.
Nonostante le tensioni fra i partiti della coalizione, il governo di ''solidarietà nazionale'' riuscì a ottenere una serie di risultati. La politica di austerità promossa soprattutto dai comunisti e la moderazione delle richieste sindacali contribuirono alla riduzione del costo del lavoro e del tasso di inflazione che nel 1978 scese al 12,1%, il più basso del periodo 1973-84. La situazione finanziaria dello stato trasse qualche beneficio da una serie di nuove imposte indirette e dagli effetti della riforma fiscale entrata in vigore nel 1974. Fra le leggi a contenuto sociale approvate nel 1978 vanno ricordate quelle sull'interruzione volontaria della gravidanza, sull'abolizione dei manicomi, sull'''equo canone'', sulla riforma sanitaria. Quest'ultima, che istituiva il sistema sanitario nazionale, prevedeva la gratuità delle cure per tutti e riordinava la medicina pubblica affidandone la gestione alle Unità Sanitarie Locali (USL) dipendenti dalle regioni: negli anni successivi la sua applicazione, affidata a un sistema di controllo legato ai partiti, darà origine − in molte parti d'Italia − a fenomeni di spreco, inefficienza e anche di corruzione. Le altre due leggi legate alla sanità pubblica suscitarono, per motivi radicalmente opposti, diverse perplessità, pur essendo provvedimenti nella sostanza aperti ed equilibrati nonché risultato di lunghissimi dibattiti. Quella sull'aborto fu osteggiata dai movimenti cattolici in difesa della vita e ostacolata, nella sua applicazione, dall'obiezione di coscienza di molti medici: queste opposizioni si tradussero nella richiesta di un referendum abrogativo che, tenuto nel 1981 insieme a un altro promosso dai radicali per liberalizzare alcune norme della legge, ne confermerà tuttavia la validità. Le disposizioni sui manicomi, mentre sanavano sistemi antiquati e vessatori di terapia, apparvero troppo permissive e in qualche misura utopistiche in quanto tendevano a scaricare sulla società e sulle famiglie il difficile problema dei malati mentali senza realizzare quell'insieme di presidi curativi che pure la legge prevedeva. L'entrata in vigore di queste ''leggi sociali'' mise in luce un insufficiente quadro amministrativo e finanziario di sostegno, il mancato completamento degli interventi paralleli e insieme un eccesso d'interventismo statale-burocratico che ne hanno in parte snaturato gli obiettivi e vanificato i risultati.
Analoghe considerazioni si possono fare per l'altra importante legge, quella sull'''equo canone''. Fortemente voluta dalle sinistre, pensata per regolare il costo degli affitti, per ridurre la speculazione e per rilanciare l'edilizia ha prodotto fin dagli inizi effetti opposti soprattutto nelle grandi città. Prima ancora che la legge entrasse in vigore si ridusse drasticamente il numero delle case da affittare. Si creò poi un mercato nero degli alloggi (regolato dalla domanda e dall'offerta e di gran lunga più remunerativo dell'equo canone) inizialmente denunciato alla magistratura, di fatto impostosi come l'unico canale di accesso alla casa per chi non rientrasse nelle categorie socialmente più depresse o non ottenesse per vie clientelari gli alloggi delle grandi proprietà o degli enti con beni immobiliari. Contemporaneamente si dilatava a dismisura il mercato delle case di villeggiatura e in seguito esplodeva la richiesta di appartamenti da acquistare come prima casa nelle grandi città con incrementi elevatissimi dei prezzi. L'intreccio di approssimazione e populismo alle origini di questa legge (ma anche di molti altri provvedimenti soprattutto in materia di salvataggi delle aziende in crisi) contribuì a creare elementi di rigidità e fasce di privilegio tali da rendere immodificabili norme considerate universalmente ''inique'' e velleitario ogni tentativo di ripristinare i meccanismi del mercato. Se difficile, lungo e complesso era stato l'itinerario per giungere alle riforme, ancora più lunga se non impossibile si rivelerà l'adozione di correttivi.
Tutto ciò era anche il risultato di una prassi politica che mescolava principi incompatibili (il ritorno al mercato e la protezione di determinati settori), nella quale si perdevano di vista i confini tra maggioranza e opposizione, e insieme di un metodo in cui ogni partito e sindacato − con il sostanziale assenso degli altri protagonisti − si ritagliava un proprio gruppo sociale protetto facendo di fatto prevalere modalità e appartenenze di tipo corporativo. Ma era anche paradossalmente la sola via che in quegli anni consentisse di creare le condizioni di consenso alla realizzazione delle riforme. I governi di ''solidarietà nazionale'' sanzionarono questo sistema e legittimarono il consociativismo, termine impiegato in seguito per indicare soprattutto quella gestione spartitoria e di lottizzazione del potere (per es. nella Rai-TV) fra i partiti della tradizionale maggioranza di centro-sinistra e il PCI.
L'ingresso dei comunisti nella maggioranza non riuscì dunque a mettere in moto quel processo di trasformazione della società e della vita politica che l'opinione pubblica, e non solo quella di sinistra, auspicava. Che il deterioramento della vita pubblica e il logoramento del rapporto fra cittadini e partiti fosse già piuttosto avanzato fu confermato da due avvenimenti del giugno 1978. L'11-12 si tenne il referendum, promosso dai radicali, per l'abrogazione della legge (del 1974) sul finanziamento pubblico dei partiti: l'abrogazione non passò, ma una percentuale assai elevata di votanti, il 43,7%, si pronunciò a suo favore (mentre pochi consensi ottenne l'altro referendum, quello per la cancellazione della legge Reale sull'ordine pubblico). Il 15 si dimise il presidente della Repubblica G. Leone, travolto dai sospetti e dalle insinuazioni di un'insistente campagna di stampa che lo collegava allo scandalo Lockheed − la potente industria aeronautica statunitense che aveva versato tangenti a politici di tutto il mondo occidentale −, scandalo per il quale venivano processati di fronte alla Corte costituzionale gli ex ministri L. Gui (democristiano, poi assolto) e M. Tanassi (socialdemocratico, condannato).
Con i voti di tutti i partiti dell'arco costituzionale l'8 luglio venne eletto presidente della Repubblica il socialista S. Pertini, antifascista, esponente di spicco della Resistenza ed ex presidente della Camera. Figura di alto profilo morale, si presentò al Parlamento e al paese come espressione e garante dell'unità nazionale. Negli anni successivi la sua interpretazione dinamica del ruolo di presidente, le sue critiche al sistema politico, il suo stile schietto e immediato gli conquistarono una grande popolarità, tale da farlo apparire come il simbolo di un'I. non intaccata dalla degenerazione politica e morale.
Le condizioni di consenso fra i partiti che avevano portato (seppure al sedicesimo scrutinio) all'elezione di Pertini non si riprodussero nei mesi successivi, quando invece vennero prevalendo gli elementi di dissenso. I socialisti, che si proponevano alla guida di un'alternativa di sinistra in contrapposizione al compromesso storico, erano ormai chiaramente impegnati a riavviare una collaborazione privilegiata con la DC infastidendo contemporaneamente il PCI con attacchi da ''sinistra''. I comunisti avevano d'altro canto sempre più difficoltà a giustificare scelte che li facevano apparire il puntello del sistema; e mentre erano tentati di rialzare il prezzo della loro collaborazione e di chiedere la partecipazione diretta al governo, erano portati inevitabilmente a porre fine a quell'esperienza. Alla fine dell'anno il voto contrario dei comunisti all'adesione dell'I. al sistema monetario europeo pose le premesse della crisi. E la crisi si aprì inevitabilmente alla fine del gennaio 1979 quando da un lato le richieste del PCI di partecipare direttamente al governo, dall'altro le perplessità della DC sulla continuazione della collaborazione con i comunisti chiarirono che non vi erano più quei margini di manovra che Moro aveva garantito fino a qualche mese prima e che quindi una verifica elettorale dei rapporti di forza sarebbe stata un passaggio obbligato.
Durante la crisi non ebbe fortuna, per i veti incrociati di DC e PCI, la designazione del leader repubblicano U. La Malfa, la prima di un ''laico'' alla presidenza del Consiglio dopo oltre trent'anni: un'indicazione precisa di come Pertini intendesse modificare una tradizione tutta democristiana. Alla fine l'incarico tornò ad Andreotti, ma le divergenze fra i partiti rendevano inevitabili le elezioni anticipate, soprattutto dopo che il nuovo governo formato il 20 marzo da DC, PSDI e PRI non ottenne la fiducia al Senato. Il presidente della Repubblica sciolse le Camere il 2 aprile e le elezioni si tennero il 3 e 4 giugno 1979. Il dato più significativo della consultazione elettorale fu il ridimensionamento del PCI che perse alla Camera il 4% dei voti e al Senato il 2,3% dando l'avvio a un inarrestabile declino dei suffragi. Di rilievo fu invece il successo del partito radicale (forse anche a spese del PCI) che vedeva così premiata la politica dei referendum. Gli altri partiti, con modeste variazioni, mostrarono una sostanziale tenuta. Nelle elezioni per il primo Parlamento europeo, il successivo 10 giugno, si ebbero alcune variazioni, con un incremento del PSI e del PLI e una flessione della DC, che anche in seguito dimostrerà maggiori difficoltà nelle consultazioni europee, in cui sembrava prevalere un confronto su idee e programmi ancora lontani e inattuali.
Il ritorno alle alleanze di centro-sinistra. − Le elezioni del 1979 segnarono, dopo l'abbandono della politica di solidarietà nazionale, la sostanziale ripresa delle alleanze di centro-sinistra ruotanti intorno all'asse DC-PSI, ma con la decisiva novità rappresentata dal nuovo potere contrattuale che Craxi riuscì a ottenere per il suo partito indipendentemente dagli stentati successi elettorali. Il PCI, passato stabilmente all'opposizione, avviò da allora una riflessione radicalmente autocritica, e in certa misura anche autolesionista: abbandonati i compromessi promossi e subiti nel triennio precedente, sembrò più produttivo ribadire la tradizionale diversità comunista.
A un nuovo governo si giunse solo ad agosto con il ministero presieduto da F. Cossiga dopo l'insuccesso dei tentativi di Andreotti, Craxi e F.M. Pandolfi. Anche in quest'occasione Pertini aveva cercato di proporre una svolta. Ma la candidatura di un socialista non era ancora matura e fu osteggiata nettamente dalla DC.
Il gabinetto Cossiga si reggeva sul voto di DC, PSDI, PLI e poteva contare sull'astensione del PSI e del PRI. Si avvaleva inoltre dell'apporto di due ''tecnici'' di area socialista, F. Reviglio alle Finanze e M.S. Giannini alla Funzione pubblica. In dicembre il governo promosse l'adesione italiana al nuovo sistema di difesa della NATO che, in risposta al rafforzamento degli armamenti nucleari sovietici, prevedeva l'istallazione anche in I. degli ''euromissili''. Nello stesso mese fu emesso un decreto antiterrorismo che disponeva un prolungamento del fermo di polizia, l'inasprimento delle pene e − qui stava la maggiore e più contestata novità − una serie di provvedimenti a favore dei ''pentiti'', cioè dei terroristi disposti a collaborare alle indagini. Superato l'ostruzionismo dei radicali, la nuova normativa fu approvata nel febbraio 1980. Integrata da un'altra legge del maggio 1982 sui ''dissociati'', essa consentirà, fin dalla sua prima applicazione, di ottenere rilevanti successi nonostante l'accentuarsi del fenomeno terroristico. I positivi risultati non cancellarono la considerazione che il trattamento di favore concesso ai pentiti insieme a rilevanti sconti di pena, oltre a suscitare problemi etici e giuridici, fosse in contraddizione con una linea politica che non aveva voluto scendere a compromessi con il terrorismo e configurasse, secondo taluni, un sistema di ''leggi speciali'' che si era detto di non voler adottare in alcun caso. Molto contestata, soprattutto nella sinistra non comunista, fu l'iniziativa giudiziaria che portò in carcere, nell'aprile 1979, gli esponenti di maggiore spicco di Autonomia operaia come organizzatori e ispiratori del terrorismo. L'insieme delle accuse e le principali imputazioni non trovarono conferma, ma l'operazione contribuì a dare un colpo decisivo al terrorismo diffuso.
Gli incerti rapporti tra i partiti pesavano sulla compattezza della maggioranza di governo, divisa fra quanti sostenevano il ministero Cossiga e quanti fornivano con l'astensione un appoggio dall'esterno. Un contributo alla chiarezza venne dal congresso della DC (15-20 febbraio 1980) in cui prevalse, seppure di poco, la linea − espressione del centro e del gruppo di C. Donat Cattin − favorevole al definitivo abbandono delle ipotesi di collaborazione con il PCI, posizione sostenuta invece dalle altre sinistre e dagli andreottiani: un ''preambolo'' al documento finale confermava l'indicazione di rapporti privilegiati con il PSI. Così quando il 19 marzo Cossiga si dimetterà, potrà in breve tempo formare un nuovo governo, questa volta con socialisti e repubblicani, mentre socialdemocratici e liberali passavano all'opposizione. I socialisti, che dal novembre 1974 non avevano più fatto parte del governo, ottenevano una serie di importanti ministeri, ma soprattutto vedevano riconosciuta e applicata la linea di Craxi che aveva rivendicato al PSI il ruolo di perno delle alleanze e di garante della ''governabilità'' del paese.
Le elezioni regionali tenute l'8-9 giugno 1980 (insieme alle comunali e provinciali) premiarono il rilancio del PSI con un piccolo incremento che lo portò al 12,7% dei voti, mentre la DC, pur ricuperando l'1,5% rispetto al 1975, con il 36,8% rimaneva al di sotto dei risultati delle politiche. Il PCI, con il 31,5%, perdeva complessivamente nei confronti delle precedenti regionali, quando aveva riportato il 33,4%, ma manteneva o accresceva i consensi nelle grandi città amministrate da giunte di sinistra. Al confronto con le politiche del 1979 venivano premiati il PSDI e il PLI con il 5% e il 2,7% rispettivamente. Ma forse il dato più significativo era la diminuzione dei votanti e l'alta percentuale (6,1%) delle schede bianche e nulle.
Il sostanziale equilibrio politico e prima ancora sociale di un paese sottoposto a difficili prove dal terrorismo di sinistra venne nuovamente sfidato da un gravissimo attentato dinamitardo alla stazione di Bologna che, il 2 agosto, provocò 85 morti. Un gesto criminale senza precedenti, attribuito al terrorismo di destra, ma tuttora insufficientemente chiarito. Ancora una volta infatti, come negli altri casi di stragi, da quello di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 in poi, questi gravissimi delitti rimanevano impuniti; e ogni volta venivano chiamati in causa settori dei servizi di sicurezza per aver deviato le indagini o nascosto responsabilità. A distanza di molti anni si deve constatare che tutte le volte che venivano chiamati in causa apparati dello stato la soluzione giudiziaria tendeva sistematicamente ad allontanarsi. Allo stesso ordine di problemi appartiene il misterioso abbattimento di un aereo civile nel cielo di Ustica avvenuto il 27 maggio 1980: interpretato allora come effetto di un cedimento strutturale del velivolo, si è ritenuto in seguito che l'aereo fosse stato colpito da un missile, forse lanciato da forze della NATO, mentre tutta la vicenda continuava a essere occultata per motivi di politica internazionale, nonostante in reiterate assicurazioni le massime autorità dello stato si fossero impegnate a fare chiarezza.
La strage di Bologna e il malcontento pubblicamente espresso contro gli uomini di governo intervenuti ai funerali delle vittime addensarono altre nubi sul ministero Cossiga, già logorato dalla vicenda Donat Cattin, allorché il presidente del Consiglio fu accusato di aver informato il vice segretario della DC che il figlio Marco era ricercato come terrorista di Prima linea. La Commissione inquirente prosciolse Cossiga dall'accusa di favoreggiamento, ma l'opposizione riaprì la questione portando il caso di fronte alle Camere riunite che il 27 luglio scagionarono definitivamente il presidente del Consiglio. Due mesi dopo il governo, battuto alla Camera sulla conversione in legge di importanti misure finanziarie, rassegnava le dimissioni.
Durante le trattative per la formazione del nuovo ministero, condotte dal presidente della DC A. Forlani, si concluse inaspettatamente un lungo e duro conflitto sindacale alla FIAT, nato dall'annuncio di drastici tagli di manodopera. Il sindacato aveva reagito con il blocco degli stabilimenti e il PCI, con un discorso pronunciato da Berlinguer a Torino il 26 settembre, aveva espresso il proprio appoggio a un inasprimento della lotta che giungesse fino all'occupazione delle fabbriche. Alcune mosse tattiche della FIAT e soprattutto il grande corteo di quarantamila quadri intermedi che il 14 ottobre attraversò le vie di Torino chiedendo la cessazione degli scioperi e la riapertura delle fabbriche, costrinsero il sindacato alla resa. La vertenza era assurta a prova esemplare del ruolo e dei poteri del sindacato in fabbrica, e la sua conclusione ridimensionava radicalmente un tipo di sindacalismo nato dalle lotte operaie dell'''autunno caldo'' del 1969.
A poco più di un mese dalla sua costituzione il nuovo governo quadripartito presieduto da Forlani e composto da DC, PSI, PSDI e PRI, dovette affrontare le drammatiche conseguenze di un'immane catastrofe naturale. Il 23 novembre 1980 un terremoto colpì la Campania e la Basilicata facendo migliaia di vittime e provocando estesissime distruzioni soprattutto in Irpinia. La lentezza dei soccorsi e la complessiva inefficienza dello stato colpirono l'opinione pubblica e suscitarono diffuse proteste di cui si fece interprete il presidente della Repubblica in un messaggio alla nazione. Pochi giorni dopo, il 27 novembre, sollecitato anche dallo sdegno popolare per l'immagine dello sfascio mostrata dai poteri pubblici in occasione del terremoto, Berlinguer annunciò a Salerno il definitivo abbandono della politica del compromesso storico e pose la ''questione morale'' alla base del rinnovamento della vita politica, un rinnovamento affidato all'alternativa democratica imperniata sul PCI.
Al di là della questione, discussa e controversa, se le parole d'ordine del PCI di allora e degli anni successivi − austerità e questione morale − potessero essere politicamente produttive per chi le agitava, era un dato di fatto che gli scandali continuavano a toccare i vertici politici e gli apparati statali. Proprio in quell'autunno 1980 era venuta in luce una gigantesca truffa perpetrata ai danni dello Stato con l'evasione dell'imposta sul gasolio e le indagini avevano coinvolto, fra molti altri, un ex comandante e un ex capo di stato maggiore della guardia di finanza, ossia della polizia tributaria.
Ad accrescere le difficoltà dell'esecutivo, il sequestro (12 dicembre) del magistrato G. D'Urso, direttore degli Istituti di prevenzione e pena del ministero di Grazia e Giustizia, a opera delle Brigate rosse accese di nuovo i contrasti fra la linea della fermezza e posizioni più possibiliste. Di fronte alle richieste dei terroristi che reclamavano l'abolizione delle carceri speciali il PSI si mostrò più disponibile mentre i radicali offrirono la loro mediazione. Seguirono a catena una serie di avvenimenti legati al sequestro D'Urso: il 24 dicembre venne chiuso il carcere speciale dell'Asinara, il 28 scoppiò una rivolta in quello di Trani dove i terroristi catturarono diciotto ostaggi, il 29 la rivolta fu domata dai reparti speciali, il 31 le BR uccisero a Roma il generale dei carabinieri E. Galvaligi responsabile dei servizi di sorveglianza delle carceri. Ai primi di gennaio 1981 si aprì sulla stampa e fra le forze politiche un dibattito sulla richiesta delle BR di ottenere la diffusione dei propri comunicati in cambio del rilascio del magistrato rapito. Socialisti e radicali, favorevoli ad accogliere la proposta delle BR, si scontrarono con l'opposizione di gran parte della stampa indipendente, dei repubblicani e dei comunisti. Il 15 gennaio D'Urso venne liberato dopo che alcuni quotidiani avevano pubblicato i documenti dei terroristi detenuti e dopo che, in uno spazio televisivo riservato al partito radicale, la figlia del magistrato aveva dato lettura di un manifestino delle BR. La conclusione della vicenda non spense le polemiche fra le forze politiche e il governo dovette porre la fiducia sul proprio operato. Era divenuto ormai evidente che la politica della fermezza dei giorni del sequestro Moro non era più percorribile nel gioco delle contrapposizioni tra le parti politiche e dopo che erano state introdotte una serie di misure speciali, fra cui quelle sui terroristi pentiti.
Gli scandali, le divisioni fra i partiti e le continue dimostrazioni d'inefficienza dell'esecutivo alimentarono, nei primi mesi del 1981, un dibattito su ipotesi di riforma istituzionale come la modifica delle leggi elettorali, il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, ecc. Era soprattutto il PSI di Craxi a mettere sul tappeto questi temi, così come sarà sempre il segretario socialista a porre in seguito la questione del passaggio a una repubblica presidenziale, fino allora caldeggiata solo dalle destre. Anche i ricorrenti referendum abrogativi, segno di una mobilitazione esterna agli equilibri politici, aggiungevano perplessità sull'efficienza del Parlamento e favorivano riflessioni sui correttivi da introdurre nel sistema.
Il 17-18 maggio, dopo una campagna propagandistica ricca di contrasti e divenuta anche più tesa per l'attentato al pontefice Giovanni Paolo ii compiuto il 13 maggio da un terrorista turco, si tennero cinque referendum. Due sull'aborto, proposti uno dal Movimento per la vita, l'altro dai radicali (v. sopra), e gli altri tre, ancora d'iniziativa radicale, per l'abolizione della legge Cossiga sull'ordine pubblico, dell'ergastolo e del porto d'armi. I referendum dei radicali furono bocciati con percentuali molto elevate, quello dei cattolici sull'aborto con una percentuale inferiore di ''no'', ma sempre piuttosto alta (68%) a conferma di una diffusa secolarizzazione della società italiana.
Nello stesso mese di maggio, il 26, il ministero Forlani rassegnò le dimissioni travolto dall'esplosione di un nuovo gravissimo scandalo. Durante le indagini promosse dalla commissione parlamentare sul caso del finanziere M. Sindona, responsabile di bancarotta e di illeciti finanziamenti ai partiti, emerse l'esistenza di una loggia massonica coperta, ''Propaganda 2'' nota come ''P2'', e di un lungo elenco di oltre novecento iscritti o aspiranti tali fra i quali si annoveravano ministri e uomini politici, alti vertici militari soprattutto dei servizi segreti, finanzieri, giornalisti, ecc. A capo della loggia era L. Gelli, personaggio dai contorni non chiari, legato ai servizi segreti, portatore di progetti a sfondo autoritario, considerato influentissimo in certi ambienti politici, militari e burocratici. A molti l'iscrizione alla loggia era apparsa come la via per un'accelerazione di carriera o per ottenere protezione. Di fatto ai suoi vertici operava un nucleo che mescolava disinvoltamente affarismo, eversione di destra, obiettivi di controllo dei settori più riservati del potere pubblico.
Dopo un inutile tentativo di rimpasto, Forlani ottenne il reincarico il 28 maggio, ma il 10 giugno dovette rinunciare. Il compito di formare il governo fu affidato allora a G. Spadolini, storico e giornalista, divenuto, dopo la morte di U. La Malfa, leader del PRI. Spadolini riuscì nell'intento e il 28 giugno varò un governo ''pentapartito'', composto da DC, PSI, PSDI, PRI, PLI, il primo ministero guidato da un laico dopo trentasei anni, ossia dai tempi di F. Parri. Uno dei primi provvedimenti del governo Spadolini fu quello di sciogliere la loggia P2, sul cui operato verrà nominata una commissione d'inchiesta parlamentare. Interamente rinnovati saranno i vertici militari e dei servizi segreti compromessi con la P2.
Importanti successi nella lotta contro il terrorismo di sinistra furono conseguiti nei mesi successivi, soprattutto dopo la liberazione, il 28 gennaio 1982, del generale americano J.L. Dozier, vicecomandante delle forze alleate di terra del Sud Europa, rapito dalle BR a Verona il 17 dicembre 1981. Il dilagare delle confessioni seguito a questo episodio portò allo sgretolamento di alcune colonne brigatiste; ma di sconfitta delle BR si potrà parlare a partire dal 1983 quando diverrà generale il fenomeno dei dissociati, di quanti cioè ripudiavano pubblicamente la lotta armata pur senza collaborare.
Se nel 1982 si cominciò a intravvedere il declino del terrorismo di sinistra, quello stesso anno vide accentuarsi il pericolo della mafia per le istituzioni: già alla fine di aprile era stato ucciso a Palermo il deputato P. La Torre segretario regionale del PCI e due anni prima era stato assassinato P. Mattarella democristiano, presidente della regione, entrambi esponenti del rinnovamento politico siciliano. Ma fu l'assassinio del generale C.A. Dalla Chiesa, della giovane moglie e dell'agente di scorta, il 3 settembre, a chiarire quanto in alto volesse colpire la mafia. Dalla Chiesa era stato da poco nominato prefetto di Palermo dopo esser stato, come alto ufficiale dei carabinieri, il principale artefice dei successi contro il terrorismo di sinistra. Il timore che potesse conseguire gli stessi risultati nella lotta alla mafia e l'insufficiente consenso politico per i suoi nuovi compiti gli costarono la vita. Da allora tuttavia presero avvio nuove forme di mobilitazione contro la mafia e contro i suoi perversi intrecci col potere politico.
Anche il ministero Spadolini, come i governi precedenti e quelli successivi, si scontrerà con gravi difficoltà finanziarie legate essenzialmente all'inarrestabile dilatazione della spesa pubblica. Proprio su un problema di questo tipo il governo entrerà in crisi nell'agosto 1982: il 7 Spadolini si dimise, ma, nuovamente designato, il 23 riformò un governo identico nella formula e negli uomini. In quello stesso mese venne decisa la partecipazione dell'I. alla forza multinazionale che doveva garantire la pace in Libano: si trattava del primo significativo impegno del dopoguerra da parte delle forze armate italiane in una zona politicamente e militarmente molto rischiosa. Il successo dell'operazione va ascritto anche alla politica di equidistanza dell'I. nei confronti del conflitto arabo-israeliano e ai buoni rapporti intrattenuti da molti partiti con l'Organizzazione per la liberazione della Palestina. In tale contesto s'inserì la visita in I. (15 settembre) del capo dell'OLP, Y. ῾Arafāt, che fu ricevuto da Pertini, dal ministro degli Esteri, dai segretari della DC, del PCI e del PSI, ma non da Spadolini, mentre PSDI, PRI e PLI protestavano per l'accoglienza tributatagli. Che il problema dei rapporti con la resistenza palestinese non fosse sempre un percorso agevole e lineare fu confermato dall'attentato alla sinagoga di Roma che, qualche giorno dopo la visita di ῾Arafāt, causò la morte di un bambino di due anni e il ferimento di oltre trenta persone.
Intanto maturava la crisi definitiva del governo presieduto da Spadolini, che non riusciva a sanare i contrasti interni al suo ministero. Il 1° dicembre 1982 gli succedeva A. Fanfani alla guida di una coalizione DC, PSI, PSDI, PLI. Ma si trattava chiaramente di una soluzione transitoria in vista di nuove elezioni politiche. Ad anticipare la scadenza elettorale puntavano innanzitutto i socialisti fiduciosi di migliorare i rapporti di forza tanto con la DC che con il PCI. I due maggiori partiti apparivano, infatti, in crisi, entrambi alla ricerca di una nuova strategia politica. In particolare la DC aveva dato avvio a una fase di ricambio interno sotto la guida della nuova segreteria di C. De Mita, esponente della sinistra del partito. Ma il processo di moralizzazione e di rinnovamento, appena iniziato, non riuscì a rivitalizzare un partito logorato dagli scandali che ne avevano appannato l'immagine negli anni precedenti. Nelle elezioni politiche che si tennero il 26-27 giugno 1983 la DC perse infatti il 5,4% dei voti scendendo al 32,9%, risultato che non intaccava la sua posizione di maggiore partito italiano anche se si riduceva il divario con il PCI. I comunisti, ancora penalizzati − nonostante l'apporto di candidati provenienti da una formazione della nuova sinistra, il PdUP per il comunismo −, si attestavano al 29,9%. Il Partito comunista appariva isolato nella sua scelta di un'alternativa democratica che non poteva né scavalcare il PSI, né prescinderne, mentre l'obiettivo socialista era apertamente quello di avvantaggiarsi elettoralmente anche a spese dei comunisti.
Le elezioni premiarono il PRI con il 5,1% e il raddoppio dei seggi alla Camera, segno che Spadolini aveva suscitato molti consensi e messo in luce un ruolo non subalterno dei repubblicani. Il risultato del PSI, che passava dal 9,8 all'11,4%, era il primo successo elettorale della segreteria Craxi. Tanto più significativo in rapporto al cedimento democristiano e comunista. Il PSI riuscì così a rafforzare la sua immagine di partito cardine del sistema politico. E il 21 luglio Pertini conferì a Craxi l'incarico di formare il nuovo governo.
Gli anni di Craxi. − Varato il 4 agosto, nella collaudata forma del pentapartito DC-PSI-PSDI-PRI-PLI, il 12-13 agosto il governo Craxi ottenne la fiducia del Parlamento. Facevano parte del gabinetto uomini di spicco della DC come Forlani alla vicepresidenza e Andreotti agli Esteri e, oltre a Craxi, erano presenti altri due segretari di partito, Spadolini del PRI alla Difesa e P. Longo del PSDI al Bilancio. Oltre che per l'assoluta novità di un socialista alla presidenza del consiglio, il governo Craxi si ricorderà per la durata e la tenuta politica. Dopo una breve crisi risoltasi rapidamente nell'estate del 1986, sarà seguito da un secondo governo identico nella formula e con piccole varianti nella composizione che si dimetterà nel marzo 1987. Già come primo governo rimasto in carica per quasi tre anni − un primato nella storia del dopoguerra − smentiva la tradizione d'instabilità degli esecutivi italiani, mentre la durata complessiva della presidenza socialista veniva a coincidere sostanzialmente con l'intera legislatura.
Garantita la governabilità, Craxi diede della sua presidenza un'interpretazione che voleva essere per incisività, capacità di decisione, rafforzamento dell'esecutivo radicalmente diversa dalle appannate presidenze democristiane. Per ottenere questo risultato non si sottrasse a un clima di strisciante tensione con la segreteria democristiana tenuta da De Mita, impose al PCI un duro scontro sulla questione della scala mobile, mostrò in qualche caso un'inusuale indipendenza in politica estera. Quest'interpretazione del ruolo dell'esecutivo e i modi di gestione della cosa pubblica, insieme agli effetti positivi di una favorevole congiuntura internazionale, potevano configurare condizioni ideali per soddisfare le molte aspettative di cambiamento tradizionalmente legate al riformismo socialista. In realtà il disegno di Craxi puntava innanzitutto a realizzare un riequilibrio delle forze di centro e di estrema sinistra a vantaggio del PSI come premessa di cambiamenti durevoli: di qui una serie di iniziative miranti, con efficace tatticismo, a creare consensi nelle aree di confine di sinistra o di centro, lì dove sembrava possibile scalzare o incrinare l'egemonia del PCI e della DC. Anche i reiterati propositi di riforma istituzionale, ruotanti inizialmente intorno alla proposta di una repubblica presidenziale, furono utilizzati in modo prevalentemente strumentale come fattore atto a spiazzare le altre forze politiche. Forse perché toccava schieramenti consolidati e forse perché era sostenuto da uno stile pubblico fatto d'incisiva spregiudicatezza − subito connotato come autoritario −, il progetto di Craxi incontrò non poche resistenze in una parte della stampa e dell'opinione pubblica. Anche l'elettorato fu piuttosto tiepido, non concedendo consensi adeguati alla sua realizzazione. La conflittualità a sinistra consolidò una prassi di reciproco antagonismo con il PCI rendendo sempre più remota l'ipotesi della formazione di un'unica grande forza riformista. Del resto la pervasiva occupazione socialista delle posizioni di potere, in aperta concorrenza con la DC, creava una rete di complicità e di solidarietà − anche con parte della società civile − destinata a mutare le forme d'insediamento sociale del PSI, trasformandolo progressivamente in veicolo di gruppi sociali in ascesa. Riuscito il proposito d'impedire nuove aperture e incontri fra DC e PCI − in virtù dell'azione insieme di partito e di governo −, si arenò invece il progetto di far divenire il PSI il polo propulsivo della sinistra riformista. Le novità degli anni di Craxi riguardarono quindi soprattutto il tentativo di modificare gli equilibri fra i tre maggiori partiti (DC, PCI, PSI) e di rovesciare alcune convenzioni dell'agire politico, utilizzando al massimo i poteri dell'esecutivo, senza tuttavia trasformare il sistema nel suo insieme.
L'avvio, a partire dal 1983, di una fase espansiva dell'economia accompagnata da una significativa ristrutturazione produttiva dei settori industriali, consentì al governo di proporre una revisione della scala mobile. Il costo del lavoro era un problema dibattuto da anni e con maggiore intensità dopo l'introduzione, nel 1977, del punto unico di contingenza che determinava l'aumento automatico e il tendenziale appiattimento delle retribuzioni. Il 14 febbraio 1984 un decreto tagliò tre dei dodici punti di contingenza previsti per quell'anno. Questa decisione aveva il consenso di larga parte del mondo sindacale (la CISL, l'UIL e la minoranza socialista della CGIL), ma non quello della maggioranza comunista della CGIL. Si aprì un nuovo fronte di scontro con il PCI, che ricorse prima all'ostruzionismo in Parlamento e, dopo che il decreto riuscì a essere approvato definitivamente (il 7 giugno), diede inizio alla raccolta di firme per il referendum abrogativo. L'isolamento politico del PCI, il mancato sostegno del mondo sindacale, le divisioni nella CGIL, infine un atteggiamento diffuso nell'opinione pubblica favorevole a ridurre i vincoli posti al mercato − e dunque anche a quello del lavoro − portarono alla sconfitta della proposta abrogazionista nella consultazione popolare tenuta il 9-10 giugno 1985 (45,7% si, 54,3% no). Il mese precedente, le elezioni regionali svoltesi il 12-13 maggio avevano confermato a grandi linee gli schieramenti presenti in Parlamento (con qualche recupero della DC e del PSI, prevalentemente nel Mezzogiorno) e smentito la nuova graduatoria uscita dalle elezioni europee dell'anno precedente. Il successo del PCI − che aveva raggiunto in quella circostanza il 33,3% dei voti superando, per la prima e unica volta a livello nazionale, la DC (33%) − era stato in gran parte dovuto alla reazione emotiva diffusasi nel paese per l'improvvisa scomparsa di Berlinguer (11 giugno 1984).
Contemporaneamente all'avvio della battaglia sulla scala mobile giunse a termine la lunga trattativa, iniziata nel 1976, sulla revisione del concordato lateranense del 1929 fra lo stato italiano e la Chiesa cattolica. Il 18 febbraio 1984 fu firmato a Villa Madama a Roma da Craxi e dal segretario di Stato vaticano A. Casaroli l'accordo di modificazione del concordato; a esso seguì, il 15 novembre, l'accordo sugli enti e sul patrimonio ecclesiastico. Lo scambio degli strumenti di ratifica fra Craxi e Giovanni Paolo ii avvenne in Vaticano il 3 giugno 1985. Gli accordi, noti come ''nuovo concordato'' (v. stato e chiesa, in questa Appendice), consideravano "non più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano": ciò avveniva in omaggio a un'antica richiesta del mondo laico, ma rispecchiava anche il proposito di definire i rapporti con le altre confessioni e religioni presenti in Italia. L'accordo di Villa Madama era largamente innovativo anche su altri aspetti relativi alla riduzione e ridefinizione dei privilegi degli enti ecclesiastici, all'adeguamento dei matrimoni canonici alla legge civile e alla modifica dei criteri di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità, infine all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole, dalla materna alle superiori.
Su quest'ultimo aspetto si svilupparono accesi dibattiti e controversie. Le nuove disposizioni, infatti, che prevedono da un lato l'obbligo per lo stato di assicurare l'insegnamento religioso e dall'altro la facoltatività di avvalersene da dichiararsi all'atto dell'iscrizione degli studenti ("senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione", art. 9), entrarono presto in contrasto con il dettato ambiguo del protocollo addizionale al concordato lì dove si parla di "collocazione nel quadro degli orari delle lezioni" per l'insegnamento della religione cattolica: tale dizione venne esplicitata nel 1985, nell'intesa − prevista dal concordato − fra il ministro della Pubblica istruzione e il presidente della Conferenza episcopale italiana, con l'inserimento delle ore di religione nel normale quadro orario delle materie. Ne conseguì in moltissimi casi, per la minoranza dei non avvalentisi dell'insegnamento della religione cattolica, un'interruzione difficilmente reintegrabile dell'orario scolastico. Si realizzava così, nei confronti di questi studenti e dei loro genitori, una pressione ambientale e psicologica della maggioranza tale da far smarrire il carattere eminentemente facoltativo dell'insegnamento religioso. Le lunghe dispute e le decisioni giurisprudenziali che ne seguirono si sono in gran parte concluse con le sentenze della Corte costituzionale (n. 203 del 1989 e n. 13 del 1991) che hanno ribadito il carattere facoltativo e demandato alle autorità scolastiche la soluzione dei problemi organizzativi.
Alla fine del 1984 il terrorismo delle stragi colpì ancora. Il 23 dicembre a S. Benedetto Val di Sambro, all'uscita della galleria appenninica della linea ferroviaria Firenze-Bologna, un ordigno esplose in un vagone del rapido Napoli-Milano provocando 15 morti e oltre cento feriti. L'attentato, in tutto simile a quello compiuto nello stesso luogo sul treno Italicus nell'agosto di dieci anni prima e attribuito all'estremismo di destra, fu opera della criminalità organizzata e i responsabili − a differenza del precedente − furono individuati e condannati. Il terrorismo di sinistra (Brigate rosse e altre formazioni a esse contigue), sconfitto politicamente e organizzativamente debellato, diede in quegli anni alcuni ''colpi di coda'' con l'uccisione dell'economista E. Tarantelli nel marzo 1985, dell'ex sindaco repubblicano di Firenze L. Conti nel febbraio 1986, del generale L. Giorgeri nel marzo 1987, del giurista R. Ruffilli nell'aprile 1988: omicidi che dimostravano la difficoltà di estirpare tutte le radici del terrorismo di sinistra, ma di cui era difficile rintracciare una qualche giustificazione politica che andasse oltre la necessità di testimoniare una sopravvivenza.
Accanto agli episodi del terrorismo endogeno l'I. fu ancora una volta teatro di un grave attentato del terrorismo palestinese. Il 27 dicembre 1985, all'aeroporto di Fiumicino (dove, nel dicembre 1973, l'assalto a un aereo della PAN AM aveva fatto trenta morti), un attacco armato contro i banchi della compagnia israeliana El AL e della statunitense TWA provocò tredici vittime, settanta feriti e l'uccisione di tre terroristi. L'I. non riusciva a essere interamente al riparo dai disegni del terrorismo benché la tradizionale politica di equidistanza nei confronti della questione palestinese si fosse ulteriormente accentuata proprio nei mesi immediatamente precedenti. Il 7 ottobre un commando palestinese aveva sequestrato la nave italiana Achille Lauro in crociera nel Mediterraneo orientale e assassinato un ebreo statunitense. Il 10 ottobre, dopo la restituzione della nave, risultato di una trattativa con i vertici dell'OLP, si aprì un momento di grave tensione con gli Stati Uniti. Quando la caccia statunitense costrinse l'aereo egiziano, che trasportava i sequestratori e i mediatori dell'OLP, ad atterrare nella base NATO di Sigonella in Sicilia, il governo italiano intervenne con fermezza opponendosi alla richiesta americana di estradizione dei Palestinesi. L'atteggiamento dell'esecutivo trovò consensi a sinistra, ma suscitò l'irritata opposizione dei repubblicani che minacciarono il ritiro della loro delegazione dal governo. Craxi presentò le dimissioni, ma il presidente della Repubblica, il democristiano Cossiga − che era subentrato a Pertini, il 24 giugno 1985, risultando eletto con larghissimo suffragio al primo scrutinio −, rinviò il ministero alle camere che concessero la fiducia. Anche in seguito il governo italiano volle distinguersi dalla politica statunitense quando gli Americani bombardarono, nel marzo 1986, postazioni radar e missilistiche libiche e nel maggio successivo Tripoli e Bengasi in risposta ad attentati terroristici. In quest'ultima occasione il lancio di due missili libici che non raggiunsero l'obiettivo − una stazione radio statunitense sull'isola di Lampedusa in territorio italiano − determinò la forte protesta dell'I. nei confronti di Gheddafi. Sembrava tuttavia che le iniziative di prudente ''sganciamento'' dagli USA della nostra politica estera, guidata in questi anni da Andreotti, fossero più produttive a fini interni, per ottenere moderati consensi nel mondo cattolico e nelle sinistre, che non sul piano internazionale.
La riedizione del governo Craxi era avvenuta, il 1° agosto 1986, dopo che fra DC e PSI era stato trovato un accordo sul successivo passaggio di un esponente democristiano (era inteso che fosse il segretario De Mita rieletto in maggio dal 17° Congresso) alla guida dell'esecutivo. La lunga presidenza socialista cominciava ormai a essere considerata inquietante per il partito di maggioranza relativa. Questa ''staffetta'' si sarebbe dovuta effettuare nel marzo 1987 e i primi mesi di quell'anno furono contrassegnati da innumerevoli polemiche fra i due partiti sulla validità dell'accordo. L'impossibilità di trovare un punto d'incontro e l'esigenza, soprattutto del PSI, di procedere a una verifica elettorale dei rapporti di forza, verifica che appariva ormai fisiologica dopo quattro anni − l'intervallo usuale fra le elezioni nelle maggiori democrazie occidentali −, portarono rapidamente alla fine della legislatura. Dal 1972 la scadenza ''naturale'' di cinque anni fissata dalla Costituzione non veniva più rispettata.
Con le dimissioni di Craxi (3 marzo 1987), si aprì una crisi caratterizzata da un ripetuto gioco delle parti in cui nessuno dei protagonisti intendeva dichiarare apertamente i propri obiettivi. Cossiga affidò l'incarico prima ad Andreotti, poi un mandato esplorativo al presidente della Camera, la comunista N. Iotti. Accertata, o così si riteneva, la disponibilità delle forze politiche di dar vita a una nuova coalizione pentapartita, il governo Craxi fu rinviato alle camere alla ricerca di una soluzione parlamentare della crisi. Ma allora i ministri democristiani si dimisero in blocco. Un nuovo incarico fu affidato all'ex ministro degli Interni, il democristiano O.L. Scalfaro che non riuscì nell'intento. Infine il presidente del Senato A. Fanfani formò un governo in previsione di nuove elezioni. Si trattò di un monocolore democristiano composto dai ministri democristiani del precedente governo con l'inserimento di numerosi ''tecnici''. Fanfani non ottenne la fiducia per l'astensione della DC e del PRI. Si andava così alle elezioni con un governo democristiano e non socialista. Contemporaneamente venivano rinviati i referendum sull'energia nucleare, sulla responsabilità civile dei giudici e sulla commissione parlamentare inquirente, temi sui quali non vi era consenso nella vecchia maggioranza.
Il quadriennio che si chiudeva sembrava segnare una stagione felice. In un incontro fra i rappresentanti delle maggiori potenze industriali a Londra, Craxi potè dichiarare (10 febbraio 1987) che in termini di prodotto interno lordo l'I. aveva superato il Regno Unito. In realtà la positiva congiuntura economica, il rilancio produttivo, un diffuso nuovo benessere e le sue ostentazioni nascondevano, fra gli altri, due problemi di fondo che tendevano ad aggravarsi: la continua dilatazione del debito pubblico e il sistema della corruzione politica.
La crisi del sistema politico. − Le maggiori novità delle elezioni politiche del 14-15 giugno 1987 furono il successo del PSI, che guadagnava quasi tre punti percentuali, e l'ingresso in Parlamento degli ambientalisti, i Verdi, con tredici deputati. La DC registrava un certo recupero, mentre il PCI perdeva quasi il 3%. In calo anche i partiti laici minori che cedevano voti sia alla DC che al PSI.
Gli schieramenti in Parlamento lasciavano prefigurare una legislatura relativamente tranquilla nel solco della precedente. La crisi del PCI e l'ascesa del PSI non erano tali da realizzare quel riequilibrio di forze che avrebbe dovuto garantire l'egemonia socialista, ma erano sufficienti per non spegnere la conflittualità fra i due partiti e bloccare nei fatti ogni proposito di alleanza a sinistra. Inevitabile quindi la riproposizione dell'asse DC-PSI all'interno del quale i socialisti privilegiavano una parte della DC, quella moderata di Forlani e Andreotti che risulterà vincente al 18° Congresso del febbraio 1989, mantenendo tutti i motivi di scontro con De Mita.
Questo sistema di relazioni darà vita a una serie di governi deboli, immobilizzati dalla difficoltà di realizzare i cambiamenti di rotta da tempo richiesti e dal timore di affrontare i nuovi scenari che a partire dal 1989 si stavano configurando. Se le elezioni europee del giugno 1989 manterranno sostanzialmente i rapporti di forza esistenti fra i maggiori partiti e confermeranno l'ascesa delle liste verdi, già nel maggio 1988 le amministrative avevano registrato il significativo successo della Lega lombarda; ma la conferma che qualcosa di decisivo stava avanzando nel Nord si avrà alle regionali del maggio 1990 quando le liste con un programma anticentralista, antifiscale, federalista dimostrarono una notevole capacità di aggregazione in virtù anche di una propaganda contrassegnata da slogan antimeridionalisti e xenofobi. In particolare la Lega lombarda, guidata da U. Bossi, con il 18,9% supererà in Lombardia di stretto margine il PCI (in netto calo in tutta Italia), ma di oltre cinque punti il PSI collocandosi al secondo posto dietro alla DC. Contemporaneamente la crisi del sistema comunista in Europa orientale e la repressione contro gli studenti in Cina determinavano in gran parte del PCI un grave disorientamento e un'accelerazione del distacco dalla tradizione comunista: un'operazione mai affrontata con determinazione sia per le resistenze del partito e dei militanti, sia per l'illusione di poter creare un modello politico diverso che evitasse in primo luogo ogni confusione con i partiti socialisti e socialdemocratici italiani.
Proprio questi due elementi di novità sembreranno suggerire già nel 1991 di anticipare la tornata elettorale per dare una misura ai cambiamenti in atto. L'aspettativa di un crollo comunista che spingeva i partiti della maggioranza verso nuove elezioni politiche era bilanciata dal timore di un dilatarsi del fenomeno delle leghe che consigliava di rinviare la prova impiegando lo scorcio finale della legislatura per procedere a quelle riforme istituzionali di cui si parlava da tempo, ma sulle quali il dissenso fra le forze politiche era altissimo. Dietro il rispetto formale della scadenza quinquennale si celò così una stasi sostanziale dell'iniziativa politica del governo e del Parlamento.
Nell'estate del 1987, all'indomani delle elezioni politiche, riapparvero tutti gli elementi di attrito fra DC e PSI. I socialisti posero infatti il veto alla candidatura di De Mita alla presidenza del Consiglio, che infatti fu da Cossiga affidata a un democristiano di minor spicco, G. Goria, ex ministro del Tesoro dei governi Craxi. Il 29 luglio il nuovo governo pentapartito entrerà in carica. Come i precedenti anche il governo Goria si porrà l'obiettivo della riduzione del deficit (ossia del fabbisogno di cassa del settore statale), ma come i precedenti − e i successivi − governi anche quello Goria dovrà piegarsi di fronte all'inarrestabile crescita dell'indebitamento. Dal 1987 al 1992 il deficit passerà così da 113.680 miliardi a oltre 163.000.
In autunno si svolsero i referendum, che erano stati rinviati dalla primavera a causa delle divisioni fra i partiti della maggioranza e in particolare per i contrasti fra la DC, favorevole all'energia nucleare e allo sviluppo delle ricerche in questo campo, e il PSI che aveva deciso di spostarsi su posizioni antinucleari. Ormai la sensibilità ambientalista aveva creato nel paese una maggioranza contro il nucleare e i tre quesiti abrogazionisti in questa materia ottennero una larghissima maggioranza. Altrettanto ampia quella a favore della responsabilità civile dei giudici e ancora superiore quella espressa per l'abolizione della commissione inquirente parlamentare per i procedimenti contro il capo dello stato e i ministri. Un segnale fortissimo − quest'ultimo − di diffidenza nei confronti del Parlamento e del ceto politico.
Il tema del nucleare lascerà ulteriori strascichi nel marzo 1988 quando il dissenso sulla destinazione della progettata centrale nucleare di Montalto di Castro costringerà alle dimissioni il governo Goria che era appena riuscito a varare, fra innumerevoli difficoltà, la legge finanziaria. La nomina di De Mita a capo del nuovo governo era a questo punto una scelta obbligata. Il segretario democristiano, dopo una faticosa trattativa sul programma, riuscirà a far decollare, il 13 aprile, il suo governo. Si trattava anche in questo caso di una maggioranza a cinque DC-PSI-PRI-PSDI-PLI. De Mita era da tempo uno dei più tenaci assertori delle riforme istituzionali, ma non sull'ipotesi presidenzialista ventilata ripetutamente da Craxi (più recentemente nella forma dell'elezione diretta del capo dello stato), bensì su quella dell'alternanza di governo che restituiva un ruolo decisivo al PCI. Questi temi, oltre a un certo tasso d'incompatibilità personale fra i due leaders, rendevano difficili i rapporti con il PSI. Su un punto tuttavia i due partiti trovarono l'accordo: la riduzione del ricorso al voto segreto in Parlamento, una riforma non più procrastinabile dopo le innumerevoli imboscate dei ''franchi tiratori'' in cui era caduto il governo Goria. Le modifiche al regolamento della Camera e del Senato furono approvate con una stretta maggioranza nell'autunno 1988. Un altro provvedimento di grande importanza fu quello che impose, in materia di bilancio e di contabilità dello Stato, procedure e analisi tecniche più rigorose per le variazioni della spesa (l. 23 agosto 1988 n. 362).
Il 45° Congresso del PSI, tenuto a Milano dal 13 al 19 maggio 1989, non risparmiò gli attacchi a De Mita. Il 19 il presidente del Consiglio presentò le sue dimissioni; il 13 giugno ottenne il reincarico, ma il 6 luglio dovette rinunciare. Il 9 luglio Cossiga affidò l'incarico ad Andreotti che il 23 formerà il nuovo governo pentapartito. I due mesi di crisi dimostravano l'immutabilità della formula di governo e sembravano confermare il funzionamento dell'alleanza fra Craxi, Andreotti e Forlani che i cronisti politici avevano riassunto nella sigla CAF.
Durante il governo Andreotti furono varate due importanti leggi a contenuto sociale. La prima, promossa per decreto dal vicepresidente del consiglio, il socialista C. Martelli, nel dicembre 1989, mirava a regolarizzare la posizione dei numerosi immigrati dall'Africa, dall'Asia e dall'Europa dell'Est (i cosiddetti extracomunitari) residenti clandestinamente nel nostro paese e a definire i flussi d'immigrazione successiva. Il provvedimento era sollecitato dalla presenza stimata di circa 800-900.000 persone di cui poco più di 100.000 in regola. I numerosi episodi d'intolleranza razzista, talora accompagnati da violenze anche gravi, rendevano indispensabile una tutela programmata da parte dello stato. Il decreto Martelli non trovò tuttavia il consenso unanime della coalizione di governo e al momento della trasformazione in legge i repubblicani votarono contro, mentre i comunisti si pronunciarono a favore. Se la legge Martelli fu apprezzata a sinistra, una forte opposizione suscitò invece la nuova legge sulla droga (sollecitata in primo luogo da Craxi, promossa dai ministri R. Jervolino Russo e G. Vassalli e approvata nel giugno 1990) che mentre estendeva il ruolo delle comunità per il recupero dei tossicodipendenti introduceva sanzioni, amministrative prima e poi penali, anche per i soli consumatori.
Nei programmi, rilevante doveva essere l'impegno del governo Andreotti per il risanamento della finanza pubblica, un impegno affidato alla presenza al ministero del Tesoro di G. Carli, ex governatore della Banca d'Italia ed ex presidente della Confindustria. In questo contesto si collocò l'ingresso della lira nella banda stretta di oscillazione del sistema monetario europeo deciso nel gennaio 1990 anche per rendere ineludibile, sia all'interno che nei confronti dei partners internazionali, una politica di rigore. Ma i propositi, garantiti dal prestigio dei nostri più noti uomini politici, vennero smentiti dai fatti e il deficit continuò a salire.
Particolarmente vivace continuava a essere la discussione sulla regolamentazione dell'emittenza televisiva e sugli equilibri da stabilire fra la Rai e il settore delle televisioni private, dominato dalle tre reti dell'imprenditore milanese S. Berlusconi. Il 27 luglio 1990 i cinque ministri della sinistra democristiana, che si erano dimessi il giorno prima per le divergenze con il PSI − sostenitore delle posizioni di Berlusconi − e per la decisione del governo di porre la fiducia sui provvedimenti televisivi, furono prontamente sostituiti con un rapidissimo rimpasto. La legge verrà definitivamente approvata nel mese di agosto, confermando il sostanziale duopolio fra la RAI e Berlusconi.
La politica estera era dominata in quel periodo dalle questioni mediorientali e dalla risposta dell'ONU all'aggressione irachena al Kuwait (v. guerra del golfo, in questa Appendice). Il governo ritenne, dopo qualche esitazione derivante dalle posizioni pacifiste di taluni ambienti cattolici, d'impiegare le unità aeree e navali − presenti nel golfo Arabico dal settembre 1990 − nelle operazioni di guerra contro l'῾Irāq avviate, sotto l'egida dell'ONU, dagli Stati Uniti e dagli alleati nella notte del 16-17 gennaio 1991. Il Parlamento approvò a larga maggioranza il 17, e il 18 aerei italiani cominciarono a partecipare ai bombardamenti sull'῾Irāq. Durante una delle prime missioni un Tornado italiano fu abbattuto. Era la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, che il paese si trovava coinvolto, seppur molto limitatamente, in una vicenda bellica: e la sorte dei due piloti, prigionieri degli Iracheni e liberati alla fine del conflitto, tenne in ansia, sotto la pressione dei mass media, l'intera nazione.
Non erano solo i problemi internazionali a tener vivo il dibattito politico in Italia. Dalla fine del 1989 si era aperta la questione della trasformazione del PCI e dall'autunno del 1990 gli interventi del presidente della Repubblica Cossiga cominciarono a dominare la scena.
Il 12 novembre 1989 A. Occhetto, segretario del PCI dal giugno 1988, annunciò l'intenzione di cambiare nome al partito e di dare inizio alla costruzione di una nuova forza politica. Intorno a questa iniziativa, approvata dalla maggioranza, si apriranno nel PCI e nella sinistra italiana laceranti spaccature. Quando, dopo un lungo e faticoso dibattito, emergerà il nuovo partito (3 febbraio 1991), denominato Partito democratico della sinistra (PDS), esso sarà privo delle ampie nuove aggregazioni a cui aveva mirato, sarà indebolito sia dall'opposizione di quanti, ostili alla nuova linea, volevano continuare all'interno la lotta in difesa del vecchio nome, dei vecchi simboli e della tradizione del comunismo italiano, sia dalla scissione di una parte dei militanti che daranno vita al Movimento di Rifondazione comunista.
Il presidente Cossiga aveva improntato i primi anni del suo settennato a un criterio di rigoroso non intervento nelle questioni politiche, uno stile radicalmente diverso da quello del suo predecessore Pertini. A partire dal 1990 ruppe il riserbo osservato fino allora per dare una nuova impronta al suo ufficio di Presidente, avvalendosi non solo dello strumento del messaggio al Parlamento, ma esponendo con sempre maggiore frequenza il suo punto di vista in interviste, dichiarazioni, conferenze stampa, apparizioni televisive. Uno dei temi ricorrenti fu quello del ruolo della magistratura. Non solo intervenne per sollecitare la soluzione di alcune delle vicende più oscure della recente storia italiana (per es. la ''strage di Ustica''), ma richiamò ripetutamente il Consiglio superiore della magistratura al rispetto dei suoi compiti istituzionali, distorti da un'eccessiva politicizzazione e da una prassi d'intervento in ambiti che non sarebbero stati suoi propri. Si aprirono con il CSM (che è presieduto dal presidente della Repubblica) fasi di conflitto istituzionale anche assai aspre. Quando, nell'ottobre 1990, emerse l'esistenza di una rete militare segreta − denominata Gladio- legata alla NATO e destinata a guidare forme di lotta armata in caso d'invasione di una potenza comunista, Cossiga rivendicò a sé il merito di aver contribuito, come sottosegretario alla Difesa negli anni Sessanta, alla definizione dei compiti e della struttura dell'organizzazione. Esplosero allora polemiche molto accese fra chi difendeva la legittimità di Gladio (confermata da Andreotti in Parlamento) e chi ne sospettava l'utilizzo a fini anticomunisti in politica interna o addirittura l'implicazione in episodi criminali e terroristici. Cossiga respinse la richiesta di essere ascoltato come testimone inviata dal magistrato veneziano che indagava sulla strage di Peteano (in cui erano morti, il 31 maggio 1972, tre carabinieri): uno dei responsabili aveva rivelato infatti di essere stato in collegamento con una struttura militare segreta. Il presidente polemizzò poi duramente con i comunisti e con il segretario del PCI Occhetto. Una denuncia per attentato alla Costituzione presentata da Democrazia proletaria fu archiviata alla fine di dicembre. I contrasti fra il presidente e alcune forze politiche − non solo il PCI, e poi il PDS, ma anche il PRI e, in seguito, soprattutto il suo partito d'origine, la DC − e con singole personalità pubbliche divennero sempre più accesi e frequenti. Nel dicembre 1991 il PDS chiese di nuovo al Parlamento la messa in stato d'accusa del capo dello Stato (poi prosciolto nel 1993). Altri partiti come il PSI e il PLI si schierarono invece costantemente con il presidente mentre il governo, che cercava una mediazione in un conflitto che rischiava in ogni momento di divenire istituzionale, fu più volte messo in difficoltà. Le ''esternazioni'', le cosiddette ''picconate'' del presidente divennero materia quotidiana di attesa e di commento sulla stampa e nella pubblica opinione, mentre tutta la vicenda, che si prolungò fino ai primi mesi del 1992, mantenne un carattere insolito e paradossale. Un ulteriore paradosso stava nel fatto che il supremo garante della Costituzione ne era divenuto uno dei più accesi critici. Oggetto degli interventi più significativi e argomentati, e tema di un lungo messaggio inviato alle camere alla fine di giugno 1991, era infatti il problema delle riforme istituzionali. Cossiga sollecitava le forze politiche ad avviare un processo non più dilazionabile e attaccava quanti si ergevano in difesa del sistema politico vigente. Insistendo sui danni della partitocrazia prese posizione contro l'immutabilità della Costituzione e a favore di una serie di modifiche da sottoporre sempre, nella forma dei referendum, al giudizio diretto del popolo.
L'irrisolto problema delle riforme istituzionali, i dissensi e le diffuse resistenze ad affrontare un tema così complesso furono alle origini, nel marzo 1991, della crisi del governo Andreotti. Il presidente del consiglio mirava a una soluzione il più possibile rapida e indolore, ossia a un rimpasto, ma i socialisti e Cossiga imposero le dimissioni che furono presentate il 29 marzo. Nel giro di qualche giorno Andreotti riottenne l'incarico e ripresentò un governo a cinque, poi ridotto a quattro (DC, PSI, PSDI, PLI) per l'uscita dalla maggioranza dei repubblicani − insoddisfatti per i ministeri loro assegnati − poco prima del giuramento, quando era ormai pronta la lista dei ministri.
Nulla tuttavia sarebbe cambiato anche con il nuovo governo e il capo dello Stato decise di sciogliere il Parlamento con qualche mese di anticipo, il 2 febbraio 1992.
Le elezioni furono fissate per il 5 e 6 aprile: questa volta però si sarebbe votato assegnando un'unica preferenza sulle schede per la Camera dei deputati. Così aveva deciso la stragrande maggioranza (95,6%) al referendum tenuto il 9 giugno 1991. Non era forse la misura decisiva per combattere gli aspetti più deteriori della partitocrazia ma era stata avvertita come un primo passo in quella direzione e premiava i gruppi referendari, in primo luogo il democristiano M. Segni che ne era la personalità di maggiore spicco. Duramente sconfitto fu l'invito al boicottaggio del referendum rivolto agli elettori dal PSI e dalla Lega Nord (formazione che univa la Lega lombarda ad altre analoghe formazioni), che contavano sul ripetersi del risultato dell'anno precedente quando nei referendum contro la caccia e l'impiego dei pesticidi in agricoltura era prevalso l'astensionismo. In questa occasione, invece, i votanti furono oltre il 60%. L'esito del referendum sembrava indicare, di fronte alle esitazioni delle forze politiche, una via alternativa più efficace per imporre riforme istituzionali, creava a questo fine alleanze ''trasversali'' fra singoli esponenti dei partiti della maggioranza e dell'opposizione, poneva infine sul tappeto come prioritario il problema della legge elettorale.
Due erano i principali interrogativi che andavano tradotti in cifre dalla prova elettorale: la tenuta del PDS e le dimensioni dell'atteso successo della Lega Nord. I risultati furono inequivocabili. Il PDS perdeva rispetto al PCI più del 10%, ma molti voti venivano raccolti dal Partito di rifondazione comunista nato nel dicembre 1991 e nel quale era confluita Democrazia proletaria: la somma dei risultati delle due formazioni faceva comunque segnare una perdita fra il 6 e il 7%. La Lega Nord portava in parlamento 55 deputati e 25 senatori (la Lega lombarda aveva due soli rappresentanti, uno alla Camera e uno al Senato, nella precedente legislatura) e si attestava come quarto partito pur raccogliendo voti quasi esclusivamente in Italia settentrionale: a Sud dell'Umbria ottenne percentuali inferiori all'1%. Sconfitta appariva la DC che scendeva sotto il 30% perdendo il 4,6% alla Camera e il 6,3% al Senato. Deludente era anche il risultato del PSI che interrompeva la graduale ascesa delle consultazioni precedenti e non si avvantaggiava del crollo comunista dimostrando un'ormai consolidata distanza fra i due elettorati. In recupero i liberali e in leggera flessione i socialdemocratici: la maggioranza quadripartita si veniva a trovare così con un ridotto margine in Parlamento (15 seggi alla Camera e 5 al Senato). I repubblicani che avevano scelto l'opposizione guadagnarono rispetto alle elezioni del 1987, ma non riuscirono a ripetere il positivo risultato del 1983. I Verdi migliorarono leggermente le loro posizioni. Una discreta affermazione ottenne un nuovo movimento denominato La Rete che faceva capo all'ex sindaco democristiano di Palermo L. Orlando, che aveva guidato una giunta estesa ai comunisti e ai Verdi fra la primavera del 1989 e gli inizi del 1990. Da una diffusione prevalentemente siciliana La Rete si era allargata a livello nazionale raccogliendo politici e intellettuali (fra i quali molti cattolici ed ex comunisti) combattivamente impegnati contro i partiti tradizionali, la mafia e la corruzione. Nell'insieme i risultati elettorali registravano una forte divaricazione fra il Nord più ricco e più produttivo, dove DC e PSI erano in crisi di fronte alla Lega, e il Sud dove invece questi partiti mantenevano le posizioni e in qualche caso le rafforzavano. Questa tendenza veniva confermata dalle consultazioni amministrative tenute nel corso del 1992.
La riapertura del Parlamento avvenne in una fase di grave disorientamento delle forze politiche. Con qualche difficoltà, mentre appariva imminente la successione a Cossiga, vennero eletti i presidenti delle due assemblee: G. Spadolini fu confermato al Senato, mentre per la presidenza della Camera si volle interrompere la tradizione che dal 1976 la vedeva attribuita a una personalità del maggior partito d'opposizione. La scelta cadde su O.L. Scalfaro, democristiano, che nei mesi precedenti aveva rivendicato le prerogative del Parlamento di fronte alle ipotesi di riforma istituzionale del capo dello stato.
Il 24 aprile Andreotti presentò le dimissioni del suo governo, dimissioni dovute, come a ogni inizio di legislatura. Il giorno successivo Cossiga, in un messaggio televisivo, annunciò l'intenzione di dimettersi motivando la sua decisione con la prossimità della scadenza della sua carica e con la necessità che fosse un nuovo presidente della Repubblica, forte di un mandato appena ricevuto, ad affrontare la difficile crisi politica. Il 28 aprile Cossiga si dimise e il 13 maggio ebbero inizio le votazioni per l'elezione del capo dello stato.
I vertici della DC e del PSI avevano scelto la candidatura del socialista G. Vassalli, ex ministro della giustizia, ma i ''grandi elettori'' democristiani si rivelarono tutt'altro che propensi a votarla. Si determinò una situazione di stallo, e forti tensioni nella DC suggerirono a Forlani di presentare le dimissioni da segretario del partito (poi ritirate). Dopo alcuni giorni emerse la candidatura di Scalfaro, che voleva avere un carattere ''istituzionale'' ma era anche l'indicazione per una presidenza diversa da quella di Cossiga. Il presidente della Camera ottenne i voti di DC, PDS, PSI, PSDI, PLI, Rete, Verdi e Lista Pannella e risultò eletto il 25 maggio al 16° scrutinio.
L'elezione alla suprema carica dello stato di una figura nota per il suo rigore morale voleva essere anche una risposta della classe politica al dilagante discredito che l'aveva colpita (e l'avrebbe ancor di più colpita in seguito) dopo l'avvio da parte della magistratura milanese di un'inchiesta sulle tangenti versate ai partiti per ottenere appalti pubblici. Nell'indagine giudiziaria (nota come ''mani pulite'') vennnero via via coinvolti da una parte società e imprenditori, soprattutto del settore delle costruzioni, dall'altra tutti i partiti della maggioranza, ma soprattutto il PSI e la DC, e anche − in assai minor misura − l'ex PCI a conferma in alcuni casi di una vera e propria prassi spartitoria. Esponenti locali e nazionali hanno dovuto rispondere delle accuse per finanziamento illegale dei partiti, nonché per corruzione e concussione volte a favorire forme di autofinanziamento e arricchimento personale. Una finanza parallela e segreta che manteneva in vita i costosi apparati dei partiti, la propaganda elettorale e contribuiva, in molti casi, a sostenere l'alto livello di vita dei politici.
Il meccanismo delle tangenti era un sistema ben conosciuto e in sostanza tollerato, con cui la maggioranza degli Italiani era abituata a convivere con pochissimo scandalo pubblico e molti compromessi individuali. Le inchieste legate a questa materia erano state numerose anche in passato, ma il sistema aveva continuato a funzionare e a estendersi capillarmente. Innumerevoli momenti del rapporto con l'autorità pubblica e con le amministrazioni − dagli appalti alle minute autorizzazioni burocratiche − erano segnati dal pagamento di tangenti. Le complicità in questo settore vedevano accomunati politici e burocrazia, amministratori pubblici, imprenditori grandi e piccoli, singoli cittadini. La maggior forza di opposizione, il PCI, non aveva del resto esercitato tutte le sue possibilità di controllo attingendo per parte sua a finanziamenti illeciti provenienti dai paesi comunisti e consentendo − lì dove i comunisti gestivano, in virtù dei meccanismi consociativi, posizioni di potere − il diffondersi del sistema: ottenendo come contropartita ampie garanzie a vantaggio delle imprese legate alle cooperative ''rosse''. La novità dell'indagine ''mani pulite'' stava nella dimensione del fenomeno che veniva alla luce, nelle numerose conferme, ammissioni e confessioni di politici e imprenditori, nella determinazione della magistratura e soprattutto nel diverso clima politico e morale che il successo di una forza ''antisistema'' come le Leghe aveva contribuito a creare.
Una parte del paese non solo si ribellava al sistema delle tangenti, ma iniziava a respingere anche un altro dei pilastri delle relazioni sociali in I., quello fondato sulle relazioni clientelari. Il clientelismo nella sua accezione più ampia − e nelle varie versioni della tutela corporativa − era divenuto nel tempo la forma specificamente italiana della rappresentanza e della mediazione politica, nonché uno dei principali canali di ascesa sociale. Ceti e gruppi che non si sentivano rappresentati o che avvertivano come troppo costoso l'attuale meccanismo − in termini di prelievo fiscale o d'inefficienza dei pubblici servizi − cominciarono da un certo momento in poi a rifiutarlo, cercando altre forme di rappresentanza politica. Poco importa se queste, come le Leghe, si affidavano a un certo tasso di demagogia per cui lo stato appariva come una corporazione di percettori abusivi di reddito garantiti dal sistema politico. L'anticentralismo era largamente compensato dal recupero di valori come l'identità e l'appartenenza regionale.
Le cronache della crisi del sistema politico e dello ''sfascio'' delle strutture pubbliche (dalla sanità alle industrie statali) trovavano nuovo alimento nello scandalo delle tangenti estesosi da Milano ad altre realtà della penisola. Gli strali dell'opinione pubblica puntavano quasi esclusivamente sulla classe politica trascurando le responsabilità di quei larghissimi settori della società civile che continuavano a riconoscersi nei comportamenti di uomini e di partiti a cui avevano affidato la tutela dei propri interessi e la difesa delle proprie idee.
Di fronte a un Nord più reattivo nei confronti del sistema politico, il Sud si manteneva sostanzialmente fedele ai partiti di governo nella diffusa convinzione di una permanente efficacia del voto di scambio proprio nelle zone del paese in cui le difficoltà economiche e sociali erano più accentuate. Tuttavia di un risveglio della società civile si poteva parlare anche nelle regioni meridionali, e in primo luogo in Sicilia, dove la criminalità organizzata aveva esteso il suo controllo − grazie ai proventi delle attività illegali − a interi settori dell'economia e accentuato i legami con politici e amministratori. La mafia in Sicilia, la 'ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania avevano in alcune parti di queste regioni − dove si commetteva la percentuale più elevata di crimini di sangue − un pieno controllo del territorio. In Sicilia era in corso una guerra aperta contro i rappresentanti dello stato che aveva già fatto molte vittime negli anni precedenti, ma che si veniva intensificando dopo la decisione di coordinare la lotta alla mafia con una superprocura, la Direzione nazionale antimafia, e con un organismo centrale di indagine, la Direzione investigativa antimafia. Il 23 maggio 1992 un attentato dinamitardo sull'autostrada fra l'aeroporto di Palermo e la città uccideva il magistrato G. Falcone, la moglie e i tre uomini della scorta. Falcone era stato, con P. Borsellino e altri magistrati, uno dei giudici di punta di quel pool antimafia di Palermo che aveva portato a termine il grande processo del 1986 (v. mafia, in questa Appendice). Di recente era stato chiamato, dal socialista C. Martelli, a dirigere gli Affari penali al ministero di Grazia e giustizia ed era candidato alla superprocura. Fortissima fu la reazione emotiva in tutta I. per la stima e la popolarità di cui godeva Falcone; anche il Parlamento riunito da alcuni giorni per eleggere il presidente della Repubblica, sembrò sollecitato a trovare rapidamente una soluzione. Ma la mafia non si fermò e il 19 luglio un'autobomba, esplosa in piena Palermo, uccise Borsellino e i cinque agenti che lo scortavano.
Eccezionali erano dunque i problemi che si prospettavano al nuovo governo e il presidente Scalfaro era di fronte a una designazione non facile. Il PSI rivendicava la presidenza del Consiglio dopo che al Quirinale era salito un esponente democristiano. Ma un ritorno di Craxi a palazzo Chigi appariva difficile. Lo scandalo delle tangenti aveva colpito in modo particolare il PSI milanese e molti uomini che facevano capo al leader socialista (in seguito − alla fine dell'anno e nel corso del 1993 − raggiunto egli stesso da numerosi avvisi di garanzia della magistratura). Il 16 giugno Scalfaro designò un altro esponente socialista, G. Amato, che il 28 riuscì a varare un governo quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI alleggerito, rispetto ai precedenti governi, di molti ministri e sottosegretari.
Il primo problema affrontato dal governo fu quello del risanamento della finanza pubblica. Un decreto stabilì un ampio prelievo sulla ricchezza mobiliare e immobiliare dei cittadini, una sorta di patrimoniale; contemporaneamente veniva raggiunto con i sindacati un importante accordo sul contenimento del costo del lavoro e sul blocco della contrattazione articolata. Una seconda più ampia manovra tagliava 93.000 miliardi dalle previsioni di spesa pubblica riducendo, fra l'altro, drasticamente la gratuità delle prestazioni sanitarie e colpendo aspetti privilegiati del pubblico impiego. Veniva avviata anche la privatizzazione di significativi settori delle partecipazioni statali nei comparti industriale e bancario. Le decisioni del governo, soprattutto in materia fiscale e sanitaria, suscitarono la reazione − anche contro i sindacati − di ampi settori del mondo del lavoro. L'incertezza della situazione politica interna e il non più eludibile problema del debito pubblico contribuirono ad avviare, alla fine di agosto 1992, una violenta speculazione al ribasso contro la lira, che era artificiosamente sopravvalutata e costretta, nello SME, entro margini di oscillazione molto ristretti. Il 13 settembre il governo decise un riallineamento nei confronti delle altre monete europee − di fatto una svalutazione del 7%, e successivamente l'uscita dallo SME. La libera contrattazione della lira porterà in seguito a un deprezzamento della nostra moneta superiore al 20%.
Come era negli impegni presi prima delle elezioni, il Parlamento diede vita a una Commissione bicamerale di 60 membri per affrontare i problemi delle riforme istituzionali. L'avvio dei lavori della Commissione bicamerale − inizialmente presieduta da De Mita e dal marzo 1993 da N. Iotti − confermava che l'arco dei dissensi fra i partiti si era tutt'altro che ridotto. In particolare sul nodo centrale della legge elettorale si confrontavano i difensori di un sistema proporzionale corretto − che tutelasse il sistema dei partiti − e i sostenitori del sistema uninominale maggioritario. Questi erano tuttavia divisi fra l'adozione del modello inglese a un turno e il modello francese a due turni con la possibilità di alleanza delle diverse forze politiche nel secondo. La prima ipotesi aveva il pregio di puntare a blocchi o aggregazioni nettamente alternativi, la seconda di rispettare maggiormente la frammentazione degli schieramenti partitici italiani.
La decisione della Corte costituzionale, del gennaio 1993, di riconoscere la legittimità di nuovi referendum abrogativi sembrava tuttavia spianare la strada all'introduzione del sistema maggioritario per via referendaria.
E in effetti le consultazioni tenute il 18-19 aprile confermarono che questo era ormai l'orientamento della maggioranza degli Italiani. In quell'occasione furono votati otto referendum, il più importante dei quali era quello che, attraverso l'abrogazione di alcune formulazioni della legge elettorale, mirava a introdurre il sistema uninominale maggioritario al Senato. Votò a favore di questa proposta l'82,7%, con una punta dell'87,4% al Nord. Il trionfo dei Sì testimoniava la crisi di fiducia nel sistema dei partiti, crisi divenuta inarrestabile dopo lo scandalo di ''tangentopoli'' (termine usato in origine per indicare la metropoli lombarda al centro degli intrecci fra affari e politica, e quindi esteso al fenomeno delle tangenti e dei finanziamenti illeciti in generale). La decisione popolare veniva largamente celebrata dalla stampa che con i suoi organi principali si era battuta con energia a favore del Sì, la cui vittoria veniva ora interpretata come l'inizio di una nuova epoca e il segno della fine della prima repubblica. Tuttavia alle dimensioni del successo avevano contribuito non poco i partiti stessi, timorosi di essere esclusi dai processi di rinnovamento del paese e schieratisi in grande maggioranza (con una certa dose di trasformismo) a favore del maggioritario, con l'eccezione del MSI, di Rifondazione, della Rete e della minoranza del PDS. Percentuale elevatissima di consensi (90,3%) ottenne anche la proposta di abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, appoggiata da tutte le formazioni politiche.
Altri risultati favorevoli (dal 70 al 90%) registrarono i referendum per l'abolizione del ministero dell'Agricoltura, delle Partecipazioni statali, del Turismo e spettacolo, delle norme che affidavano al governo la nomina del presidente delle Casse di Risparmio, e di quelle che attribuivano alle USL il controllo sull'ambiente. Il paese rimaneva invece profondamente diviso sul problema della droga: se infatti l'abolizione del carcere per i tossicodipendenti che non si siano macchiati di altri reati e non siano spacciatori passava solo con il 55,4 % dei voti, venivano confermati i limiti della controversa legge che aveva cercato di regolare la materia nel 1990.
All'indomani dei referendum, il 22 aprile, al termine di un dibattito alla Camera, Amato annunciò le dimissioni del suo governo, già fortemente indebolito. Nel discorso che aveva dato l'avvio alla discussione, Amato aveva parlato della necessità di "un chiaro segno di discontinuità"; e aveva spiegato come l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti testimoniasse "il ripudio del partito parificato agli organi pubblici e collocato fra essi". E rappresentasse "un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant'anni quel modello di partito-stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito di ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale".
Le affermazioni del presidente del consiglio dimissionario erano in sintonia con le diffuse considerazioni sulla svolta epocale culminata nei referendum. In realtà il cambiamento era appena avviato e fortissime le resistenze messe in atto per ostacolarlo. Fortissima era tuttavia l'aspirazione dell'opinione pubblica di veder crollare un assetto politico-partitico capillarmente presente ovunque nel paese e da troppo tempo al potere. Rivoluzione è un termine certamente sproporzionato agli avvenimenti di quei mesi, ma ricorreva con singolare frequenza in molti commenti a segnalare più la sorpresa degli osservatori di fronte al rapido e progressivo sfaldarsi di un regime che la profondità delle trasformazioni in atto. In realtà le dimissioni a cui erano stati costretti, a partire da febbraio, moltissimi esponenti di primissimo piano dello schieramento pentapartito − raggiunti da avvisi di garanzia (ossia la notifica dell'avvio di indagini emessa dal magistrato inquirente a tutela dell'inquisito) o indagati o, in qualche caso, semplicemente sfiorati da tangentopoli − avevano rivoluzionato gerarchie politiche consolidate.
Il 10 febbraio si era dimesso dalla carica di ministro della Giustizia C. Martelli, socialista, destinatario di un avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano: sarà sostituito da G. Conso, giurista, già presidente della Corte costituzionale. L'11 febbraio Craxi abbandonò la carica di segretario, tenuta ininterrottamente dal 1976, di fronte a un'Assemblea socialista smarrita e divisa che il giorno dopo eleggeva G. Benvenuto al vertice del PSI. Il 19 si dimettevano il ministro delle Finanze G. Goria e il ministro della Sanità, il liberale F. De Lorenzo. Due giorni dopo Amato era costretto a un rimpasto del suo governo: F. Reviglio passava dal Bilancio alle Finanze, R. Costa dalle Politiche comunitarie alla Sanità, mentre entravano P. Baratta con la delega alle Privatizzazioni, B. Andreatta al Bilancio, G. Ciaurro alle Politiche comunitarie. Lo stillicidio delle dimissioni continuava, il 25, con quelle di G. La Malfa, segretario del PRI, raggiunto da un avviso di garanzia per un finanziamento illecito, peraltro di dimensioni contenute, al suo partito. Il 2 marzo C. De Mita lasciò la presidenza della Bicamerale dopo l'arresto del fratello per reati concernenti la ricostruzione in Irpinia, e dopo che la commissione non si era pronunciata unanimemente contro le dimissioni.
Il 5 marzo il governo approvava il cosiddetto ''pacchetto Conso'' per una soluzione ''politica'' di tangentopoli: conteneva fra l'altro un decreto-legge, teso anche al recupero di quanto versato per tangenti, che depenalizzava i finanziamenti illeciti ai partiti, introduceva sanzioni solo amministrative, sottraeva i processi in corso al giudice penale, abrogava la legge del 1974 che aveva istituito il finanziamento pubblico. Quando il testo dei provvedimenti cominciò ad essere conosciuto si registrarono reazioni indignate di fronte a quello che appariva come un'autoassoluzione della classe politica. Le opposizioni invitarono Scalfaro a non firmare il decreto: e il presidente della Repubblica, il 7, annunciò questa sua decisione spiegando che il decreto interferiva con uno dei referendum previsti per il 18 aprile e difficilmente sarebbe stato approvato dal Parlamento nei 60 giorni consentiti.
Va ricordato tuttavia che per una soluzione politica di tangentopoli si erano pronunciati esplicitamente alcuni degli stessi magistrati inquirenti milanesi (fra cui G. Colombo e il più noto di essi, A. Di Pietro). Consapevoli delle enormi dimensioni del problema e del numero sempre più ampio dei possibili imputati, suggerivano sconti di pena per chi confessasse e un'estensione delle norme del patteggiamento, unita alla sospensione dai pubblici uffici, al fine di snellire i procedimenti e chiudere in tempi ragionevolmente rapidi la vicenda. Non sembrava tuttavia possibile che fosse un Parlamento con un numero elevatissimo di inquisiti (se ne conteranno un centinaio per tangenti alla Camera) la sede più idonea ad affrontare la delicatissima materia. Nel mese precedente il referendum altri avvisi di garanzia determinarono nuove dimissioni e accentuarono lo sconcerto nell'opinione pubblica. Alla metà di marzo toccò dimettersi al segretario del PLI, R. Altissimo: dimissioni respinte dal suo partito, ma rese definitive a maggio. Il 21 marzo si dimise il ministro dell'Agricoltura, il democristiano G. Fontana, accusato di ricettazione. Il 27 marzo un avviso di garanzia per associazione mafiosa raggiunse G. Andreotti, chiamato in causa da alcuni pentiti. Il giorno successivo si apprese che gli ex-ministri democristiani A. Gava, P.C. Pomicino e V. Scotti erano inquisiti, insieme a numerosi altri parlamentari campani di tutti i partiti. Il 30 si dimise il ministro Reviglio, accusato per i ''fondi neri'' dell'ENI, di cui era stato presidente. Il 5 aprile un'ennesima vicenda di tangenti coinvolse l'ex segretario della DC A. Forlani.
Con questi precedenti era difficile immaginare un esito diverso del referendum sul sistema elettorale. E il capo dello Stato accolse le richieste di cambiamento incaricando il governatore della Banca d'Italia, C.A. Ciampi, di formare il nuovo governo (26 aprile). Ciampi era a capo di un'istituzione pubblica di grande prestigio e indiscussa serietà (seppure non immune da qualche rigidità nella condotta della politica monetaria). La sua designazione appariva quindi come una risposta alla crisi dei partiti e come una garanzia credibile, sul piano internazionale, alle difficoltà economiche.
Scalfaro era giunto alla scelta di Ciampi dopo che erano cadute le candidature del leader referendario Segni (uscito dalla DC e in rotta con il nuovo segretario democristiano M. Martinazzoli) e di R. Prodi. Ciampi manifestò la sua intenzione di non aprire consultazioni formali, ma di volersi attenere − per l'indicazione dei ministri − allo spirito e alla lettera dell'art. 92 della Costituzione e di orientarsi verso ''un governo del Presidente''. Il 28 aprile venne annunciato il nuovo ministero. Rimanevano alcuni ministri ''politici'' del precedente governo vuoi nei precedenti incarichi, come Mancino agli Interni e la Russo Jervolino alla Pubblica Istruzione, vuoi in nuovi incarichi, come Andreatta agli Esteri; e rimanevano alcuni ''tecnici'', come Conso alla Giustizia, Barucci al Tesoro, Ronchey ai Beni culturali. Entravano tre ministri del PDS, V. Visco alle Finanze, L. Berlinguer all'Università, A. Barbera ai Rapporti con il Parlamento. A L. Spaventa, della stessa area, veniva affidato il Bilancio. A F. Rutelli, uno dei leaders dei Verdi, l'Ambiente. L'intento riformatore in campo elettorale e istituzionale era testimoniato dalla presenza di L. Elia (DC), come ministro senza portafoglio per le riforme istituzionali accanto a Barbera, vicepresidente del comitato di Segni per i referendum. La mattina del 29 aprile il nuovo governo giurò e si insediò. Nel pomeriggio la Camera affrontò la discussione sulle autorizzazioni a procedere contro Craxi. L'ex-segretario socialista pronunciò un discorso in cui riconosceva il sistema illegale del finanziamento ai partiti, ma lo estendeva a tutti. Attaccava la magistratura milanese e la stampa colpevoli di aver emesso sentenze in anticipo: "... tante verità negate e sottaciute sono venute una dopo l'altra a galla e tante altre ne verranno, ne possono e ne dovranno venire ancora. E mentre molti si considerano tuttora al riparo, dietro una regola di reticenza e di menzogna, non si è posto mano ad alcun rimedio umano, ragionevole e costruttivo. Si è invece fatto strada, con la forza di una valanga, un processo di criminalizzazione dei partiti e della classe politica, un processo generalizzato e indiscriminato, che ha investito in particolare la classe politica e i partiti di governo, anche se, per la parte che ha cominciato a emergere, non ha risparmiato altri, com'era e come sarà prima o poi inevitabile". La chiamata di correo, lo spettro di un'ulteriore pioggia di avvisi di garanzia, la diffusa consapevolezza di essere in moltissimi i potenziali inquisiti, l'irritazione nei confronti del governo appena costituito che vuole prescindere dalle logiche partitiche, la minaccia di nuove elezioni fuori dalla protezione del sistema proporzionale, la volontà di limitare il rischio alle imputazioni per finanziamento illecito, tutto converge per un voto a sorpresa. L'autorizzazione a procedere a carico di Craxi viene concessa per le imputazioni minori, negata per quelle più gravi. A spiegazione dell'accaduto i commenti sottolineavano che alla maggioranza pentapartita si dovevano essere aggiunti molti altri voti con lo scopo di deligittimare il Parlamento, colpire il nuovo governo, e sollecitare immediate elezioni con il vecchio sistema. Nella stessa serata dopo il voto a favore di Craxi si dimettevano i ministri PDS − Visco, Berlinguer, Barbera − e il verde Rutelli. Ma il tentativo di Ciampi continuava, sostenuto dal capo dello Stato: e dopo qualche giorno i ministri dimissionari venivano sostituiti da ''tecnici'' di grande competenza.
Il 1° maggio Scalfaro in una dichiarazione pubblica e in una lettera a Ciampi segnalava tre priorità fra i compiti del nuovo governo: la riforma elettorale in sintonia con le indicazioni del referendum, la questione occupazionale, la riforma dell'immunità parlamentare. L'istituto dell'immunità, sorto a tutela delle convinzioni politiche dei parlamentari, sembrava utilizzato ormai come argine alle inchieste della magistratura su reati comuni. Le polemiche sul caso Craxi e lo sconcerto dell'opinione pubblica per il suo esito costrinsero i partiti ad accelerare la revisione dell'immunità e a chiedere l'immediata abolizione del voto segreto sulle autorizzazioni a procedere. Per parte sua Andreotti annunciava di rinunciare all'immunità e chiedeva ai giudici di procedere rapidamente: i magistrati di Palermo intendevano indagare sulle dichiarazioni dei pentiti che avevano denunciato presunti legami con capi mafiosi e indicato Andreotti come l'ispiratore degli omicidi del giornalista M. Pecorelli (direttore del settimanale scandalistico OP, ucciso nel 1979) e del prefetto di Palermo Dalla Chiesa. Il 12 maggio il Senato concesse l'autorizzazione a procedere nei confronti di Andreotti votando per alzata di mano (il voto segreto era stato abolito dal Parlamento salvo per i casi di richiesta di arresto).
Il 6 maggio Ciampi presentò il suo governo con un programma caratterizzato dall'intento di favorire al massimo la nuova legge elettorale per Camera e Senato, di proseguire nelle privatizzazioni, di risanare il debito riducendo e controllando la spesa, continuando la battaglia fiscale con obiettivi di equità. Le novità non stavano nelle intenzioni: erano affidate piuttosto alla competenza e alle capacità operative di un ministero reso paradossalmente più forte dall'assenza di una grande maggioranza precostituita e dunque vincolante, nonché dall'ampiezza di un consenso che gli derivava dalla situazione di emergenza e dalla mancanza di alternative. Votarono a favore del governo i partiti della vecchia maggioranza (DC-PSI-PSDI-PLI) mentre si astennero PDS, Lega Nord, PRI e Verdi.
Intanto la lotta politica si riaccendeva, grazie anche al linguaggio aggressivo della Lega, intorno alla prima verifica dei nuovi sistemi elettorali rappresentati dall'elezione diretta dei sindaci nelle consultazioni amministrative previste per il 6 giugno.
Si votò in alcune importanti città del Nord come Torino e Milano, e del Sud come Catania; si trattava di un campione limitato ma significativo. Quasi ovunque si dovette ricorrere al ballottaggio del 20 giugno. Le elezioni registrarono − nel riepilogo nazionale − una grave sconfitta della DC, scesa al 18,7% rispetto al 29,4 delle comunali e al 25,2 delle politiche precedenti; una certa tenuta del PDS con l'11,7%; il crollo del PSI (3,7%) e dei partiti laici; il successo di Rifondazione al Nord dove superava il PDS e, sempre al Nord, il trionfo della Lega che con il 32% diveniva il primo partito (10,4 DC; 10,7 PDS; 1,0 PSI; 11,3 Rifondazione). Al Centro 20,1 DC; 22,0 PDS; 1,6 Lega; 4,4 PSI. Al Sud 28,3 DC (partiva da oltre il 40%); 9,1 PDS; 7,5 PSI. In generale risultarono sconfitti i candidati DC, premiato invece il sistema di alleanze del PDS. I ballottaggi confermarono al Nord i successi della Lega (che vinse a Milano, Varese, Novara, Vercelli, Pavia, ecc.), dei candidati del PDS soprattutto al centro e in Campania (Ravenna, Ancona, Siena, Grosseto e poi Torre del Greco, Pozzuoli, ecc.), in piccola misura anche del MSI in alcuni comuni del centro e del meridione. La Dc ottenne solo 9 sindaci su 145. Particolarmente significativa fu a Milano la vittoria del leghista M. Formentini (57,1%) su N. Dalla Chiesa della Rete sostenuto da PDS e Rifondazione. Nella patria di tangentopoli, fino allora roccaforte socialista, il PSI raccolse solo l'1,6% dei voti.
Il governo Ciampi intraprese la sua opera di risanamento agevolato da un nuovo accordo sul costo del lavoro (diminuivano gli automatismi di adeguamento delle retribuzioni, veniva definitivamente abolita la scala mobile), ma ostacolato dalla difficoltà di conciliare − in un sistema di diffuso sostegno pubblico all'economia di cui si giovavano tutti dalle imprese ai lavoratori − la riduzione della spesa e il rilancio delle attività produttive con la crescente disoccupazione. In armonia con gli indirizzi del governo la Banca d'Italia procedeva ad una graduale riduzione del costo del danaro. L'introduzione di nuovi criteri di gestione (per es. l'adozione della mobilità negli impieghi statali) e il ricorso a nuovi amministratori − scelti al di fuori delle logiche spartitorie dei vecchi partiti − avviavano la riforma di importanti settori pubblici (IRI, RAI ecc.).
Nel frattempo il governo doveva affrontare un grave dissidio con l'ONU sulla conduzione dell'intervento di pacificazione in Somalia, dove operava anche un contingente militare italiano cui veniva imputato di non sottostare alle direttive del comando unificato. Ma il dissenso riguardava la linea italiana volta più alla ricerca di una soluzione politica che alla repressione armata delle fazioni somale.
Anche il governo Ciampi dovette affrontare i problemi derivati da nuovi gravissimi episodi di terrorismo mafioso (ritenuti tali anche se non rivendicati) compiuti impiegando autobombe e verificatisi questa volta fuori dalla Sicilia. Il primo attentato avvenne il 14 maggio, in una strada del quartiere Parioli a Roma, pochi secondi dopo il passaggio dell'auto del popolare giornalista M. Costanzo (segnalatosi per molte trasmissioni televisive contro la mafia) e della sua scorta, provocando una ventina di feriti e gravissimi danni. Nella notte del 27 maggio un'altra autobomba esplose a Firenze sul retro degli Uffizi causando cinque morti oltre la distruzione di una parte del museo e dell'accademia dei Georgofili. Due mesi dopo, a cavallo della mezzanotte del 27-28 luglio esplosero tre bombe, la prima a Milano in Via Palestro (cinque morti), le altre due quasi contemporaneamente a Roma, davanti alla chiesa di S. Giorgio in Velabro e di fianco al palazzo del Laterano. Di nuovo in Sicilia, il 18 settembre, nei pressi di Catania, un'autobomba posta di fronte a una caserma dei carabinieri causò alcuni feriti. Gli attentati vennero interpretati come una reazione della mafia, messa alle strette dalle rivelazioni dei pentiti e da molti arresti di personaggi di spicco dell'organizzazione criminale (fra cui S. Riina in gennaio e B. Santapaola a maggio), di fronte alla più efficace azione investigativa e alla più energica repressione da parte dello Stato. Inoltre, era tornato prepotentemente alla ribalta, soprattutto dopo l'omicidio dell'eurodeputato democristiano S. Lima (12 marzo 1992), già sindaco di Palermo ed esponente della corrente andreottiana, il problema, mai interamente risolto, dei legami fra mafia e politica.
Nell'opinione pubblica si era ormai fatta strada la convinzione che solo una nuova legge elettorale e un rapido ricorso ad elezioni anticipate avrebbero potuto rinnovare una politica inquinata da innumerevoli comportamenti illeciti e da frequenti, documentati rapporti con la criminalità organizzata. Ma la nuova legge elettorale, condizione preliminare per chiamare il paese alle urne, stentava a vedere la luce, mentre esplodeva un nuovo gravissimo scandalo sul fronte di tangentopoli.
Si trattava dell'intricata vicenda dell'Enimont − il tentativo fallito di creare un unico grande polo chimico, metà pubblico e metà privato (ENI-Montedison) nel periodo 1989-90. Il gruppo Ferruzzi, guidato da R. Gardini, aveva cercato di appropriarsene interamente, ma alla fine era prevalsa la mano pubblica con una vendita, giudicata vantagiosissima per i Ferruzzi, della quota Montedison all'ENI. I magistrati ricostruivano, sulla base di numerose confessioni, un enorme giro di tangenti corrisposte ai politici da entrambe le parti. La dirigenza dell'ENI era peraltro già accusata di finanziamenti illeciti, un comportamento che aveva caratterizzato fin dalle origini, dai tempi del suo fondatore E. Mattei, i rapporti dell'ente petrolifero con i partiti di governo, e talora di opposizione. Il caso ebbe sviluppi drammatici e imprevedibili con i suicidi del presidente dell'ENI G. Cagliari, detenuto da oltre quattro mesi nel carcere di S. Vittore a Milano, e di R. Gardini avvenuti a pochi giorni di distanza il 20 e il 23 luglio. Il successivo arresto a settembre del presidente vicario del tribunale civile di Milano, D. Curtò, per aver ricevuto una cospicua tangente dal custode giudiziario delle azioni Enimont da lui stesso designato in uno dei momenti di più aspro conflitto fra ENI e Montedison, testimoniava le dimensioni e la gravità dello scandalo.
Dopo un faticoso iter parlamentare, prima alla Bicamerale, poi in aula, il 3 e 4 agosto furono approvate definitivamente le nuove leggi elettorali: rispettavano l'indicazione popolare a favore del sistema maggioritario uninominale, ma accoglievano anche le indicazioni dei partiti per una quota da assegnare proporzionalmente. Si riuscì ad evitare l'ostruzionismo del MSI con l'impegno a procedere rapidamente all'approvazione della legge costituzionale che introduce il voto (e venti seggi alla Camera e dieci al Senato) per gli Italiani all'estero.
Per la Camera si voterà con due schede. Con la prima verranno eletti col sistema uninominale in un solo turno senza ballottaggio 475 deputati (75%); gli altri 155 saranno eletti con un'altra scheda col sistema proporzionale a lista bloccata, senza possibilità di dare preferenze; potranno accedere al riparto dei voti solo i partiti che riporteranno almeno il 4% dei voti; per accentuare il proporzionalismo e non favorire i partiti maggiori, ai partiti che hanno vinto nei collegi uninominali vengono scorporati − dai voti ottenuti con la scheda proporzionale − tanti voti quanti ne sono stati ottenuti dai candidati giunti secondi in quei collegi (più uno).
Per il Senato, il 75% dei seggi, ossia 232 senatori, verranno eletti con il sistema uninominale, l'altro 25% con il recupero proporzionale che escluderà di fatto i partiti che non avranno ottenuto almeno il 10% dei voti. Sulla scheda ogni nome sarà affiancato dall'indicazione del partito che lo appoggia. Anche al Senato veniva introdotto lo scorporo, in base al quale si sottraggono dalla quota proporzionale i voti ottenuti dai candidati eletti. Scalfaro promulgò immediatamente le due leggi, mentre veniva concessa una delega di quattro mesi al governo per definire i nuovi collegi elettorali.
Nuove elezioni politiche divenivano così possibili a partire dalla fine di dicembre. Alcuni partiti, fra cui Lega e PDS, cominciarono a parlare di elezioni da tenere al più presto, entro la primavera 1994. Altri, come la DC, puntavano a dilazionarle. La prospettiva elettorale aveva comunque già cominciato a condizionare i comportamenti di tutte le forze politiche.
L'Assemblea costituente democristiana riunita a Roma, alla fine di luglio, aveva concesso pieni poteri per il rinnovamento al segretario Martinazzoli, sulla base dello slogan ''rinnovare senza rinnegare''. Martinazzoli proponeva di cambiare nome al partito tornando alla denominazione delle origini, ''Partito popolare''; accentuava l'antagonismo nei confronti della Lega; non escludeva aperture al PDS purché rinunciasse alle sue tendenze egemoniche. Venne discussa anche la forma partito, ipotizzando un organismo aperto senza tessere, fondato su circoli, regionalizzato.
La Lega sollecitava rumorosamente elezioni immediate, agitando la bandiera del federalismo, ma ricorrendo sovente alla minaccia del separatismo fiscale e politico. Il PDS continuava a tessere alleanze alla sua destra e alla sua sinistra anche in vista delle elezioni comunali fissate per il novembre 1993 in alcune importanti città fra cui Roma, Napoli e Palermo. Contemporaneamente era impegnato a difendersi dalla minaccia di venire coinvolto in tangentopoli. Senza affrontare con chiarezza il tema dei finanziamenti illeciti, non negava singoli episodi, ma insisteva tenacemente nell'escludere un coinvolgimento del partito nel sistema delle tangenti.
Il nuovo sistema elettorale minacciava i partiti laici e socialisti di estinzione. In particolare il PSI appariva sbandato e diviso, e già alla fine di maggio Benvenuto si era dimesso cedendo la segreteria a O. Del Turco. In difficoltà appariva anche la nuova formazione di Alleanza democratica, che raccoglieva esponenti politici e intellettuali di varia provenienza, dal PLI al PDS al gruppo di Segni. Nonostante alcuni successi nelle comunali di giugno, appariva incerta di fronte agli ostacoli frapposti dagli altri partiti, e in particolare dal PDS, alla creazione di un unico schieramento riformatore. Il rinvio delle elezioni politiche che molti avevano previsto entro il 1993 sembrava togliere spazio ai gruppi meno radicati nel tessuto sociale.
Senza una verifica politica elettorale e in attesa della celebrazione dei processi penali, all'inizio dell'autunno la situazione appariva sospesa, con il limite di affidare alla sola magistratura inquirente il compito di tenere viva l'attesa del nuovo.
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Elenco dei ministeri dall'11 marzo 1978
1. − (36°: 11 marzo 1978 - 20 marzo 1979); Presidente, Giulio Andreotti; Senza portafoglio, Luigi Ciriaco De Mita (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Esteri, Arnaldo Forlani; Interni, Francesco Cossiga (dal 13 giugno 1978, Virginio Rognoni); Grazia e Giustizia, Francesco Paolo Bonifacio; Bilancio e Programmazione Economica (e Regioni), Tommaso Morlino; Finanze, Franco Maria Malfatti; Tesoro, Filippo Maria Pandolfi; Difesa, Attilio Ruffini; Pubblica Istruzione, Mario Pedini; Lavori Pubblici, Gaetano Stammati; Agricoltura e Foreste, Giovanni Marcora; Trasporti e (ad interim) Marina Mercantile, Vittorino Colombo; Poste e Telecomunicazioni, Antonino Gullotti; Industria, Commercio e Artigianato, Carlo Donat Cattin (dal 25 nov. 1978, Romano Prodi); Lavoro e Previdenza Sociale, Vincenzo Scotti; Commercio Estero, Rinaldo Ossola; Partecipazioni Statali, Antonio Bisaglia; Sanità, Tina Anselmi; Turismo e Spettacolo, Carlo Pastorino; Beni Culturali e Ambientali (e Ricerca Scientifica e Tecnologica), Dario Antoniozzi.
2. − (37°: 20 marzo 1979 - 4 agosto 1979); Presidente, Giulio Andreotti; Vicepresidente, Ugo La Malfa; Senza portafoglio, Michele Di Giesi (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Esteri, Arnaldo Forlani; Interni, Virginio Rognoni; Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino; Bilancio e Programmazione Economica, Ugo La Malfa (dal 29 marzo, Bruno Visentini); Finanze, Franco Maria Malfatti; Tesoro, Filippo Maria Pandolfi; Difesa, Attilio Ruffini; Pubblica Istruzione, Giovanni Spadolini; Lavori Pubblici, Francesco Compagna; Agricoltura e Foreste, Giovanni Marcora; Trasporti e (ad interim) Marina Mercantile, Luigi Preti; Poste e Telecomunicazioni, Vittorino Colombo; Industria, Commercio e Artigianato, Franco Nicolazzi; Lavoro e Previdenza Sociale, Vincenzo Scotti; Commercio Estero, Gaetano Stammati; Partecipazioni Statali, Antonio Bisaglia; Sanità, Tina Anselmi; Turismo e Spettacolo, Egidio Ariosto; Beni Culturali e Ambientali (e Ricerca Scientifica e Tecnologica), Dario Antoniozzi.
3. − (38°: 4 agosto 1979 - 4 aprile 1980); Presidente, Francesco Cossiga; Senza portafoglio, Michele Di Giesi (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Adolfo Sarti (Rapporti con il Parlamento; dal 18 genn. 1980, Clelio Darida); Vito Scalia (Ricerca scientifica e tecnologica); Massimo Severo Giannini (Funzione pubblica); Esteri, Franco Maria Malfatti (dal 18 genn. 1980, Attilio Ruffini); Interni, Virginio Rognoni; Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino; Bilancio e Programmazione Economica (e Regioni), Beniamino Andreatta; Finanze, Francesco Reviglio; Tesoro, Filippo Maria Pandolfi; Difesa, Attilio Ruffini (dal 18 genn. 1980, Adolfo Sarti); Pubblica Istruzione, Salvatore Valitutti; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Giovanni Marcora; Trasporti, Luigi Preti; Poste e Telecomunicazioni, Vittorino Colombo; Industria, Commercio e Artigianato, Antonio Bisaglia; Lavoro e Previdenza Sociale, Vincenzo Scotti; Commercio Estero, Gaetano Stammati; Marina Mercantile, Franco Evangelisti; Partecipazioni Statali, Siro Lombardini; Sanità, Renato Altissimo; Turismo e Spettacolo, Bernardo D'Arezzo; Beni Culturali e Ambientali, Egidio Ariosto.
4. − (39°: 4 aprile 1980 - 18 ottobre 1980); Presidente, Francesco Cossiga; Senza portafoglio, Remo Gaspari (Rapporti con il Parlamento); Vincenzo Scotti (Coordinatore interno delle politiche comunitarie); Beniamino Andreatta (Incarichi speciali); Massimo Severo Giannini (Funzione pubblica); Vincenzo Russo (Affari regionali); Vincenzo Balzamo (Ricerca scientifica e tecnologica); Nicola Capria (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Esteri, Emilio Colombo; Interni, Virginio Rognoni; Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino; Bilancio e Programmazione Economica, Giorgio La Malfa; Finanze, Francesco Reviglio; Tesoro, Filippo Maria Pandolfi; Difesa, Lelio Lagorio; Pubblica Istruzione, Adolfo Sarti; Lavori Pubblici, Francesco Compagna; Agricoltura e Foreste, Giovanni Marcora; Trasporti, Salvatore Formica; Poste e Telecomunicazioni, Clelio Darida; Industria, Commercio e Artigianato, Antonio Bisaglia; Lavoro e Previdenza Sociale, Franco Foschi; Commercio Estero, Enrico Manca; Marina Mercantile, Nicola Signorello; Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis; Sanità, Aldo Aniasi; Turismo e Spettacolo, Bernardo D'Arezzo; Beni Culturali e Ambientali, Oddo Biasini.
5. − (40°: 18 ottobre 1980 - 28 giugno 1981); Presidente, Arnaldo Forlani; Senza portafoglio, Vincenzo Scotti (Politiche comunitarie); Clelio Darida (Funzione pubblica); Pier Luigi Romita (Ricerca scientifica e tecnologica); Nicola Capria (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Roberto Mazzotta (Affari regionali); Antonio Gava (Rapporti con il Parlamento); Esteri, Emilio Colombo; Interni, Virginio Rognoni; Grazia e Giustizia, Adolfo Sarti (dal 23 maggio 1981, Clelio Darida); Bilancio e Programmazione Economica, Giorgio La Malfa; Finanze, Francesco Reviglio; Tesoro, Beniamino Andreatta; Difesa, Lelio Lagorio; Pubblica Istruzione, Guido Bodrato; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Giuseppe Bartolomei; Trasporti, Salvatore Formica; Poste e Telecomunicazioni, Michele Di Giesi; Industria, Commercio e Artigianato, Antonio Bisaglia (dal 20 dic. 1980, Filippo Maria Pandolfi); Lavoro e Previdenza Sociale, Franco Foschi; Commercio Estero, Enrico Manca; Marina Mercantile, Francesco Compagna; Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis; Sanità, Aldo Aniasi; Turismo e Spettacolo, Nicola Signorello; Beni Culturali e Ambientali, Oddo Biasini.
6. − (41°: 28 giugno 1981 - 23 agosto 1982); Presidente, Giovanni Spadolini; Senza portafoglio, Aldo Aniasi (Affari regionali); Dante Schietroma (Funzione pubblica); Luciano Radi (Rapporti con il Parlamento); Giuseppe Zamberletti (Protezione civile); Lucio Gustavo Abis (Politiche comunitarie); Claudio Signorile (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Giancarlo Tesini (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Emilio Colombo; Interni, Virginio Rognoni; Grazia e Giustizia, Clelio Darida; Bilancio e Programmazione Economica, Giorgio La Malfa; Finanze, Salvatore Formica; Tesoro, Beniamino Andreatta; Difesa, Lelio Lagorio; Pubblica Istruzione, Guido Bodrato; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Giuseppe Bartolomei; Trasporti, Vincenzo Balzamo; Poste e Telecomunicazioni, Remo Gaspari; Industria, Commercio e Artigianato; Giovanni Marcora; Lavoro e Previdenza Sociale, Michele Di Giesi; Commercio Estero, Nicola Capria; Marina Mercantile, Calogero Mannino; Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis; Sanità, Renato Altissimo; Turismo e Spettacolo, Nicola Signorello; Beni Culturali e Ambientali, Vincenzo Scotti.
7. − (42°: 23 agosto 1982 - 1 dicembre 1982); Presidente, Giovanni Spadolini; Senza portafoglio, Aldo Aniasi (Affari regionali); Dante Schietroma (Funzione pubblica); Luciano Radi (Rapporti con il Parlamento); Giuseppe Zamberletti (Protezione civile); Lucio Gustavo Abis (Politiche comunitarie); Claudio Signorile (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Giancarlo Tesini (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Emilio Colombo; Interni, Virginio Rognoni; Grazia e Giustizia, Clelio Darida; Bilancio e Programmazione Economica, Giorgio La Malfa; Finanze, Salvatore Formica; Tesoro, Beniamino Andreatta; Difesa, Lelio Lagorio; Pubblica Istruzione, Guido Bodrato; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Giuseppe Bartolomei; Trasporti, Vincenzo Balzamo; Poste e Telecomunicazioni, Remo Gaspari; Industria, Commercio e Artigianato, Giovanni Marcora; Lavoro e Previdenza Sociale, Michele Di Giesi; Commercio Estero, Nicola Capria; Marina Mercantile, Calogero Mannino; Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis; Sanità, Renato Altissimo; Turismo e Spettacolo, Nicola Signorello; Beni Culturali e Ambientali, Vincenzo Scotti.
8. − (43°: 1 dicembre 1982 - 4 agosto 1983); Presidente, Amintore Fanfani; Senza portafoglio, Fabio Fabbri (Affari regionali; dal 13 luglio 1983, ad interim Loris Fortuna); Dante Schietroma (Funzione pubblica); Lucio Gustavo Abis (Rapporti con il Parlamento); Loris Fortuna (Protezione civile); Alfredo Biondi (Politiche comunitarie); Claudio Signorile (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Pier Luigi Romita (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Emilio Colombo; Interni, Virginio Rognoni (dal 13 luglio 1983, ad interim Amintore Fanfani); Grazia e Giustizia, Clelio Darida; Bilancio e Programmazione Economica, Guido Bodrato; Finanze, Francesco Forte; Tesoro, Giovanni Goria; Difesa, Lelio Lagorio; Pubblica Istruzione, Franca Falcucci; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Calogero Mannino; Trasporti, Mario Bruzio Casalinuovo; Poste e Telecomunicazioni, Remo Gaspari; Industria, Commercio e Artigianato, Filippo Maria Pandolfi; Lavoro e Previdenza Sociale, Vincenzo Scotti; Commercio Estero, Nicola Capria; Marina Mercantile, Michele Di Giesi; Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis; Sanità, Renato Altissimo; Turismo e Spettacolo, Nicola Signorello; Beni Culturali e Ambientali, Nicola Vernola.
9. − (44°: 4 agosto 1983 - 1 agosto 1986); Presidente, Benedetto (detto Bettino) Craxi; Vicepresidente, Arnaldo Forlani; Senza portafoglio, Pier Luigi Romita (Affari regionali; dal 31 luglio 1984, Carlo Vizzini); Remo Gaspari (Funzione pubblica); Oscar Mammì (Rapporti con il Parlamento); Vincenzo Scotti (Protezione civile; dal 26 marzo 1984, Giuseppe Zamberletti); Francesco Forte (Politiche comunitarie; dal 9 maggio 1985, ad interim Bettino Craxi; dal 31 luglio 1985, Loris Fortuna; dopo la morte di questo, 5 dic. 1985, Bettino Craxi); Salverino De Vito (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Luigi Granelli (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Giulio Andreotti; Interni, Oscar Luigi Scalfaro; Grazia e Giustizia, Fermo (detto Mino) Martinazzoli; Bilancio e Programmazione Economica, Pietro Longo (dal 31 luglio 1984, Pier Luigi Romita); Finanze, Bruno Visentini; Tesoro, Giovanni Goria; Difesa, Giovanni Spadolini; Pubblica Istruzione, Franca Falcucci; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Filippo Maria Pandolfi; Trasporti, Claudio Signorile; Poste e Telecomunicazioni, Antonio Gava; Industria, Commercio e Artigianato, Renato Altissimo; Lavoro e Previdenza Sociale, Gianni De Michelis; Commercio Estero, Nicola Capria; Marina Mercantile, Gianuario Carta; Partecipazioni Statali, Clelio Darida; Sanità, Costante Degan; Turismo e Spettacolo, Lelio Lagorio; Beni Culturali e Ambientali, Antonino Gullotti.
10. − (45°: 1 agosto 1986 - 17 aprile 1987); Presidente, Bettino Craxi; Vicepresidente, Arnaldo Forlani; Senza portafoglio, Carlo Vizzini (Affari regionali); Remo Gaspari (Funzione pubblica); Oscar Mammì (Rapporti con il Parlamento); Giuseppe Zamberletti (Protezione civile); Fabio Fabbri (Politiche comunitarie); Salverino De Vito (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Luigi Granelli (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Giulio Andreotti; Interni, Oscar Luigi Scalfaro; Grazia e Giustizia, Virginio Rognoni; Bilancio e Programmazione Economica, Pier Luigi Romita; Finanze, Bruno Visentini; Tesoro, Giovanni Goria; Difesa, Giovanni Spadolini; Pubblica Istruzione, Franca Falcucci; Lavori Pubblici, Franco Nicolazzi; Agricoltura e Foreste, Filippo Maria Pandolfi; Trasporti, Claudio Signorile; Poste e Telecomunicazioni, Antonio Gava; Industria, Commercio e Artigianato, Valerio Zanone; Lavoro e Previdenza Sociale, Gianni De Michelis; Commercio Estero, Salvatore Formica; Marina Mercantile, Costante Degan; Partecipazioni Statali, Clelio Darida; Sanità, Carlo Donat Cattin; Turismo e Spettacolo, Nicola Capria; Beni Culturali e Ambientali, Antonino Gullotti; Ambiente: Francesco De Lorenzo.
11. − (46°: 17 aprile 1987 - 28 luglio 1987); Presidente, Amintore Fanfani; Senza portafoglio, Gaetano Gifuni (Rapporti con il Parlamento); Livio Paladin (Affari regionali e Funzione pubblica); Luigi Granelli (Ricerca scientifica e tecnologica); Salverino De Vito (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Esteri (e Politiche Comunitarie), Giulio Andreotti; Interni, Oscar Luigi Scalfaro; Grazia e Giustizia, Virginio Rognoni; Finanze, Giuseppe Guarino; Tesoro (e ad interim Bilancio e Programmazione economica), Giovanni Goria; Difesa, Remo Gaspari; Pubblica Istruzione, Franca Falcucci; Lavori Pubblici e Protezione Civile, Giuseppe Zamberletti; Agricoltura e Foreste, Filippo Maria Pandolfi; Trasporti, Giovanni Travaglini; Poste e Telecomunicazioni, Antonio Gava; Industria, Commercio e Artigianato, Franco Piga; Lavoro e Previdenza Sociale, Ermanno Gorrieri; Commercio Estero, Mario Sarcinelli; Marina Mercantile, Costante Degan; Partecipazioni Statali, Clelio Darida; Sanità, Carlo Donat Cattin; Turismo e Spettacolo, Mario Di Lazzaro; Beni Culturali e Ambientali, Antonino Gullotti; Ambiente, Mario Pavan.
12. − (47°: 28 luglio 1987 - 13 aprile 1988); Presidente, Giovanni Goria; Vicepresidente e ministro del Tesoro, Giuliano Amato; Senza portafoglio, Giovanni Goria (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Remo Gaspari (Protezione civile); Giorgio Santuz (Funzione pubblica); Aristide Gunnella (Affari regionali); Rosa Jervolino Russo (Affari speciali); Sergio Mattarella (Rapporti con il Parlamento); Carlo Tognoli (Problemi delle aree urbane); Antonio La Pergola (Politiche comunitarie); Antonio Ruberti (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Giulio Andreotti; Interni, Amintore Fanfani; Grazia e Giustizia, Giuliano Vassalli; Bilancio e Programmazione Economica, Emilio Colombo; Finanze, Antonio Gava; Difesa, Valerio Zanone; Pubblica Istruzione, Giovanni Galloni; Lavori Pubblici, Emilio De Rose; Agricoltura e Foreste, Filippo Maria Pandolfi; Trasporti, Calogero Mannino; Poste e Telecomunicazioni, Oscar Mammì; Industria, Commercio e Artigianato, Adolfo Battaglia; Lavoro e Previdenza Sociale, Salvatore Formica; Commercio Estero, Renato Ruggiero; Marina Mercantile, Giovanni Prandini; Partecipazioni Statali, Luigi Granelli; Sanità, Carlo Donat Cattin; Turismo e Spettacolo, Franco Carraro; Beni Culturali e Ambientali, Carlo Vizzini; Ambiente, Giorgio Ruffolo.
13. − (48°: 13 aprile 1988 - 22 luglio 1989); Presidente, Luigi Ciriaco De Mita; Vicepresidente, Gianni De Michelis; Senza portafoglio, Remo Gaspari (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Vito Lattanzio (Protezione civile); Paolo Cirino Pomicino (Funzione pubblica); Antonio Maccanico (Affari regionali e Problemi istituzionali); Rosa Jervolino Russo (Affari sociali); Sergio Mattarella (Rapporti con il Parlamento); Carlo Tognoli (Problemi delle aree urbane); Antonio La Pergola (Politiche comunitarie); Antonio Ruberti (Ricerca scientifica e tecnologica); Esteri, Giulio Andreotti; Interni, Antonio Gava; Grazia e Giustizia, Giuliano Vassalli; Bilancio e Programmazione Economica, Amintore Fanfani; Finanze, Emilio Colombo; Tesoro, Giuliano Amato; Difesa, Valerio Zanone; Pubblica Istruzione, Giovanni Galloni; Lavori Pubblici, Enrico Ferri; Agricoltura e Foreste, Calogero Mannino; Trasporti, Giorgio Santuz; Poste e Telecomunicazioni, Oscar Mammì; Industria, Commercio e Artigianato, Adolfo Battaglia; Lavoro e Previdenza Sociale, Salvatore Formica; Commercio Estero, Renato Ruggiero; Marina Mercantile, Giovanni Prandini; Partecipazioni Statali, Carlo Fracanzani; Sanità, Carlo Donat Cattin; Turismo e Spettacolo, Franco Carraro; Beni Culturali e Ambientali, Vincenza Bono Parrino; Ambiente, Giorgio Ruffolo.
14. − (49°: 22 luglio 1989-12 aprile 1991); Presidente, Giulio Andreotti; Vicepresidente, Claudio Martelli; Senza portafoglio, Riccardo Misasi (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Vito Lattanzio (Protezione civile); Remo Gaspari (Funzione pubblica); Antonio Maccanico (Affari regionali e Problemi istituzionali); Rosa Jervolino Russo (Affari sociali); Egidio Sterpa (Rapporti con il Parlamento); Carmelo Conte (Problemi delle aree urbane); Pier Luigi Romita (Politiche comunitarie); Esteri, Gianni De Michelis; Interni, Antonio Gava; Grazia e Giustizia, Giuliano Vassalli; Bilancio e Programmazione Economica, Paolo Cirino Pomicino; Finanze, Salvatore Formica; Tesoro, Guido Carli; Difesa, Mino Martinazzoli; Pubblica Istruzione, Sergio Mattarella; Lavori Pubblici, Giovanni Prandini; Agricoltura e Foreste, Calogero Mannino; Trasporti, Carlo Bernini; Poste e Telecomunicazioni, Oscar Mammì; Industria, Commercio e Artigianato, Adolfo Battaglia; Lavoro e Previdenza Sociale, Carlo Donat Cattin; Commercio Estero, Renato Ruggiero; Marina Mercantile, Carlo Vizzini; Partecipazioni Statali, Carlo Fracanzani; Sanità, Francesco De Lorenzo; Turismo e Spettacolo, Franco Carraro; Beni Culturali e Ambientali, Ferdinando Facchiano; Ambiente, Giorgio Ruffolo; Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica, Antonio Ruberti.
15. − (50°: 12 aprile 1991-28 giugno 1992); Presidente, Giulio Andreotti (ad interim, dal 13 aprile 1991, ministro delle Partecipazioni Statali e dei Beni Culturali e Ambientali); Vicepresidente, Claudio Martelli; Senza portafoglio, Egidio Sterpa (Rapporti con il Parlamento); Pier Luigi Romita (Politiche comunitarie); Remo Gaspari (Funzione pubblica); Calogero Mannino (Interventi straordinari nel Mezzogiorno); Mino Martinazzoli (Riforme istituzionali e Affari regionali); Nicola Capria (Protezione civile); Rosa Jervolino Russo (Affari sociali); Carmelo Conte (Aree urbane); Margherita Boniver (Italiani all'estero e Immigrazione); Esteri, Gianni De Michelis; Interni, Vincenzo Scotti; Grazia e Giustizia, Claudio Martelli; Bilancio e Programmazione Economica, Paolo Cirino Pomicino; Finanze, Salvatore Formica; Tesoro, Guido Carli; Difesa, Virginio Rognoni; Pubblica Istruzione, Riccardo Misasi; Lavori Pubblici, Giovanni Prandini; Agricoltura e Foreste, Giovanni Goria; Trasporti, Carlo Bernini; Poste e Telecomunicazioni, Carlo Vizzini; Industria, Commercio e Artigianato, Guido Bodrato; Lavoro e Previdenza Sociale, Franco Marini; Commercio Estero, Vito Lattanzio; Marina Mercantile, Ferdinando Facchiano; Sanità, Francesco De Lorenzo; Turismo e Spettacolo, Carlo Tognoli; Ambiente, Giorgio Ruffolo; Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica, Antonio Ruberti.
16. − (51°: 28 giugno 1992-29 aprile 1993); Presidente, Giuliano Amato; Senza portafoglio, Adriano Bompiani (Affari sociali); Carmelo Conte (Aree urbane); Raffaele Costa (Politiche comunitarie e Affari regionali; dal 21 febbr. 1993, Gianfranco Ciaurro); Paolo Baratta (Privatizzazioni, dal 21 febbr. 1993); Esteri, Vincenzo Scotti (dal 1° agosto 1992, Emilio Colombo); Interni, Nicola Mancino; Grazia e Giustizia, Claudio Martelli (dall'11 febbr. 1993, Giovanni Conso); Bilancio e Programmazione Economica (e Interventi straordinari nel Mezzogiorno), Franco Reviglio (dal 21 febbr. 1993, Beniamino Andreatta); Finanze, Giovanni Goria (dal 21 febbr. 1993, Franco Reviglio; dal 31 marzo 1993, ad interim Giuliano Amato); Tesoro (e Funzione pubblica), Piero Barucci; Difesa, Salvatore Andò; Pubblica Istruzione, Rosa Jervolino Russo; Lavori Pubblici, Francesco Merloni; Agricoltura e Foreste, Giovanni Angelo Fontana (dal 23 marzo 1993, Alfredo Diana); Trasporti (e Marina Mercantile), Giancarlo Tesini; Poste e Telecomunicazioni, Maurizio Pagani; Industria, Commercio e Artigianato (e ad interim Partecipazioni Statali), Giuseppe Guarino; Lavoro e Previdenza Sociale, Adolfo (detto Nino) Cristofori; Commercio Estero, Claudio Vitalone; Sanità, Francesco De Lorenzo (dal 21 febbr. 1993, Raffaele Costa); Turismo e Spettacolo, Margherita Boniver; Beni Culturali e Ambientali, Alberto Ronchey; Ambiente, Carlo Ripa di Meana (dal 9 marzo 1993, Valdo Spini); Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica, Alessandro Fontana.
17. − (52°: 29 aprile 1993); Presidente (e ad interim ministro del Turismo e dello Spettacolo), Carlo Azeglio Ciampi; Senza portafoglio, Augusto Barbera (Rapporti con il Parlamento; dal 5 maggio 1993, Paolo Barile); Leopoldo Elia (Riforme elettorali e istituzionali); Sabino Cassese (Funzione pubblica); Valdo Spini (Politiche comunitarie e Affari regionali; dal 5 maggio 1993, Livio Paladin); Fernanda Contri (Affari sociali); Esteri, Beniamino Andreatta; Interni, Nicola Mancino; Grazia e Giustizia, Giovanni Conso; Bilancio, Luigi Spaventa; Finanze, Vincenzo Visco (dal 5 maggio 1993, Franco Gallo); Tesoro, Piero Barucci; Difesa, Fabio Fabbri; Pubblica Istruzione, Rosa Jervolino Russo; Lavori Pubblici, Francesco Merloni; Agricoltura e Foreste, Alfredo Diana; Trasporti (e ad interim Marina Mercantile), Raffaele Costa; Poste e Telecomunicazioni, Maurizio Pagani; Industria, Commercio e Artigianato (e Riordino Partecipazioni Statali), Paolo Savona; Lavoro e Previdenza Sociale, Gino Giugni; Commercio Estero, Paolo Baratta; Sanità, Maria Pia Garavaglia; Beni Culturali e Ambientali, Alberto Ronchey; Ambiente, Francesco Rutelli (dal 5 maggio 1993, Valdo Spini); Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica, Luigi Berlinguer (dal 5 maggio 1993, Umberto Colombo).
Istruzione. − Profilo della scuola italiana negli ultimi quarant'anni. − La Costituzione del 1948 ha fissato alcuni principi fondamentali in materia di educazione, d'istruzione e di formazione professionale, che hanno influito, almeno in parte, sugli sviluppi successivi dell'ordinamento scolastico italiano. Affermato il diritto-dovere dei genitori di "mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio" (art. 30), la Costituzione attribuisce allo stato il compito di dettare le norme generali sull'istruzione e d'istituire scuole per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati possono istituire scuole, ma senza oneri per lo stato. Alle scuole private che chiedono la parità, la legge deve assicurare piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali. Le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello stato (art. 33).
La stessa Costituzione sancisce che "la scuola è aperta a tutti"; che l'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita; che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi; che la Repubblica rende effettivo tale diritto con borse di studio, assegni e altre provvidenze, attribuibili per concorso (art. 34). Prescrive, inoltre, un esame di stato "per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi" (art. 33, comma 5). La Repubblica, infine, secondo il dettato costituzionale, cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori (art. 35, comma 2) e assicura agli inabili e minorati il diritto all'educazione e all'avviamento professionale (art. 38, comma 3). L'ente Regione, nei limiti dei principi stabiliti dalle leggi dello stato, ha competenza legislativa in materia d'istruzione artigiana e professionale e di assistenza scolastica (art. 117). Altri principi costituzionali hanno valenza educativa, quali la pari dignità sociale e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3), la tutela delle minoranze linguistiche (art. 6), l'uguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge (art. 8), la promozione della cultura e della ricerca scientifica e la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (art. 9), la libertà dell'arte e della scienza e del loro insegnamento (art. 33).
In parte in applicazione dei suddetti principi costituzionali, che s'inseriscono nella svolta democratica operata dalla società italiana subito dopo la caduta del fascismo, e ancor più sotto la spinta delle crescenti esigenze provocate dallo sviluppo economico, culturale e politico del paese e da un migliorato tenore di vita anche delle classi sociali meno favorite, il sistema scolastico italiano è venuto via via sviluppandosi nelle sue dimensioni quantitative e altresì modificandosi nelle strutture e negli ordinamenti, nelle forme organizzative e di gestione. Per la verità, a parte la crescita della popolazione scolastica di cui si dirà appresso, il processo di adeguamento degli ordinamenti è stato più lento di quanto si potesse prevedere all'inizio. La dirigenza politica, negli anni del dopoguerra che hanno visto la ricostruzione e la ripresa economica del paese, non ha saputo trovare l'unità necessaria per varare un riordinamento generale e organico delle istituzioni formative. Molte erano allora le differenze di orientamento ideologico e politico della società italiana, mentre la realtà economica e produttiva era tutt'altro che omogenea nelle diverse aree del paese. E certo tutto ciò non favoriva il formarsi di larghe intese per operare scelte e stabilire indirizzi definiti in materia di politica scolastica, una materia come sempre delicata e complessa. Tuttavia, alcuni passi di non poco rilievo sono stati compiuti a partire dai primi anni Sessanta, sia pure dopo faticosi compromessi in sede legislativa e con i limiti che inevitabilmente i compromessi comportano in questo campo.
Novità di non poco rilievo si sono avute nel settore della pre-scuola. Con la l. 18 marzo 1968 n. 444, è stata istituita per la prima volta in I. la scuola materna statale per i bambini dai 3 ai 5 anni compiuti, articolata per sezioni di età. In precedenza, la scuola per l'infanzia era affidata esclusivamente all'iniziativa di privati o di enti non statali. Pur confermando il principio dell'integrazione dell'opera familiare, la scuola materna statale viene investita di compiti compensatori rispetto a eventuali carenze ambientali. Modifiche all'ordinamento di detta scuola sono state apportate dalla l. 9 agosto 1978 n. 463, la quale fra l'altro ha abolito le figure dell'assistente e dell'insegnante aggiunta previste dalla legge istitutiva. La diffusione di tale scuola sul territorio nazionale, dove è ormai presente in condizioni di parità numerica con quella non statale, ha richiesto un rilevante sforzo finanziario allo stato, che oggi gestisce circa 13.000 unità scolastiche, con oltre 60.000 docenti e 800.000 alunni. Si è provveduto anche per i bambini da 0 a 3 anni, che vengono accolti con scopi di custodia negli asili nido, istituiti con l. 6 dicembre 1971 n. 1044. La conduzione degli asili spetta ai Comuni; la programmazione è regionale e il finanziamento parzialmente statale.
La scuola elementare non ha subito radicali innovazioni, se non per quanto riguarda i programmi d'insegnamento. Dopo quelli varati nel 1945 (R.D. Luogotenenziale 24 maggio 1945 n. 459) sotto il ministro A. Omodeo, ispirati alla rinascita democratica e con chiaro carattere laico, rimasero a lungo in vigore i programmi sottoscritti dal ministro G. Ermini (d.P.R. 14 giugno 1955 n. 503), d'impronta conservatrice e contrassegnati dalla preminenza accordata all'insegnamento cattolico, posto a fondamento e coronamento dell'istruzione. Anche i criteri psico-pedagogici e didattici accolti apparivano inadeguati o generici (espressioni come "il fanciullo tutto intuizione, fantasia, sentimento", o la "globale intuizione del mondo circostante", sono indicative dello stile di tali programmi), soprattutto sotto il profilo dei processi cognitivi e dell'organizzazione delle conoscenze. La suddivisione del corso elementare in due cicli, introdotta nel 1957 in sostituzione della precedente suddivisione in due gradi, non rivelava particolare consistenza sul piano scientifico e pedagogico. Dal 1972, sulla base della l. 24 settembre 1971 n. 820, è stata avviata una larga sperimentazione di scuola elementare a tempo pieno, con l'adozione di attività integrative e di insegnamenti speciali in aggiunta agli insegnamenti curricolari. Altre innovazioni nell'ordinamento della scuola elementare sono state introdotte dalla l. 4 agosto 1977 n. 517, che contiene analoghe disposizioni per la scuola media. In particolare: sono stati aboliti gli esami di riparazione e di seconda sessione, nonché l'esame di passaggio dal primo al secondo ciclo; è stato introdotto un nuovo sistema di valutazione del profitto, tramite l'utilizzazione di una ''scheda personale'' dell'alunno per la raccolta di osservazioni sistematiche sul processo di apprendimento; sono stati enunciati criteri per la programmazione educativa di competenza del collegio dei docenti; è stata prevista la possibilità di attuare forme d'integrazione nelle classi normali degli alunni handicappati. Una commissione ministeriale, istituita nel 1981-82, ha individuato i punti necessari di riforma dell'ordinamento (che hanno portato alla legge deliberata dal Parlamento nel 1990) e ha elaborato le linee dei programmi d'insegnamento attualmente in vigore (v. oltre).
Il passo più rilevante, destinato a dare decisivo impulso all'attuazione del precetto costituzionale di un'istruzione inferiore estesa a tutti nei primi otto anni di scuola, fu compiuto con l'istituzione nel 1963 della scuola media unica (l. 31 dicembre 1962 n. 1859), che ha eliminato il doppio canale fino allora esistente, la scuola media della riforma Bottai da un lato (che fungeva da grado inferiore dei corsi d'istruzione secondaria liceali, magistrali e tecnici) e la scuola di avviamento professionale dall'altro (che aveva semplicemente il compito di preparare i ragazzi ai mestieri, all'esercizio di attività agricole, a mansioni di carattere esecutivo nell'impiego pubblico e privato). Tale doppio canale appariva ai più socialmente discriminante e pedagogicamente inopportuno in quanto imponeva una scelta prematura degli studi a tale livello di età. Col suo progetto educativo unitario − molto più avanzato di quello della scuola di avviamento, meno però rispetto al piano di studi della precedente ''media'', che comprendeva l'insegnamento obbligatorio del latino − la nuova scuola media riusciva, nel giro di pochi anni, a centrare l'obiettivo della scolarizzazione completa dei ragazzi della corrispondente fascia di età. Modifiche all'ordinamento di questa scuola sono state introdotte dalla l. 16 giugno 1977 n. 348, la più rilevante delle quali consiste nell'eliminazione dell'opzionalità di alcuni insegnamenti previsti dalle norme del 1962: in particolare, l'educazione musicale e l'educazione tecnica sono diventate obbligatorie in tutte le classi del triennio, mentre il latino − prima facoltativo nella terza classe − cessa del tutto come insegnamento autonomo. La sopra citata l. 4 agosto 1977 n. 517 ha introdotto altre misure di organizzazione dell'attività didattica, in comune con la scuola elementare; con ciò i due primi gradi dell'istruzione si sono ulteriormente avvicinati nel quadro della scuola dell'obbligo, ma questo ha portato a un indebolimento del ruolo culturale di tale livello d'istruzione.
Nel contempo, un largo impegno delle strutture pubbliche, tramite iniziative differenziate di educazione popolare, provvedeva a ridurre sensibilmente l'area residua dell'analfabetismo nella popolazione adulta. La scuola popolare venne istituita con Decreto Legislativo del capo provvisorio dello Stato 17 dicembre 1947, ratificato con modifiche dalla l. 16 aprile 1953 n. 326. Si trattava di una scuola gratuita, diurna o serale, i cui corsi, autorizzati dai provveditori agli studi e funzionanti presso scuole elementari, fabbriche, aziende agricole, caserme, carceri, ecc., erano destinati, oltre che ad analfabeti in senso proprio, anche a cittadini che intendevano completare l'istruzione inferiore o ricevere un primo orientamento professionale. Più tardi, a seguito di accordi contrattuali fra datori di lavoro e sindacati, si è sviluppata l'iniziativa dei corsi sperimentali di scuola media per lavoratori (i cosiddetti corsi delle "150 ore", quale tempo annualmente pagato dalle aziende ai dipendenti che intendono seguire attività di studio). L'organizzazione di tali corsi è stata affidata al ministro della Pubblica Istruzione d'intesa con le organizzazioni sindacali. Per tale via, centinaia di migliaia di lavoratori hanno completato l'istruzione inferiore e conseguito la licenza di scuola media.
Nella fascia dell'istruzione secondaria superiore non sono intervenute leggi generali di riordinamento, benché il problema della riforma di questo settore sia stato al centro del dibattito sulla politica scolastica, specialmente negli ultimi vent'anni. Nel 1970, un gruppo di esperti riunito a Frascati, per iniziativa del governo italiano in collaborazione con l'OCSE, avanzò l'ipotesi di una scuola secondaria superiore fortemente unitaria, caratterizzata da un piano di studi comprendente materie comuni, opzionali ed elettive, "tali da permettere un progressivo orientamento culturale in direzioni specifiche". Sulla base di questa ipotesi, la cosiddetta ''Commissione Biasini'' ebbe l'incarico di elaborare un concreto progetto di riforma. Dal 1972 le diverse parti politiche rappresentate in Parlamento presentarono a varie riprese loro progetti di riforma. Una bozza di testo unificato giunse nel 1978 fino all'approvazione della commissione Pubblica Istruzione della Camera dei Deputati. Essa prevedeva, nell'ambito unitario della scuola secondaria superiore, 4 aree di professionalità (artistica, linguistico-letteraria, delle scienze sociali, naturalistico-matematico-tecnologica), comprendente complessivamente 17 indirizzi. Il problema più intricato da risolvere restava quello del rapporto fra formazione culturale generale e indirizzo specifico o professionalizzante degli studi. Un nuovo e più elaborato progetto di riforma riusciva a ottenere l'approvazione del Senato nel 1983, ma, per le molte perplessità e riserve che il compromesso in esso escogitato suscitava, non trovò l'approvazione finale del Parlamento. L'unica innovazione comune all'intero settore della scuola secondaria superiore ha riguardato la disciplina dell'esame di maturità (conclusivo di detti studi); tale disciplina, introdotta in via sperimentale e per la durata di due anni (l. 5 aprile 1969 n. 119), e poi prorogata (l. 15 aprile 1971 n. 146), è rimasta in vigore nonostante i limiti evidenti di essa (obiettivi generici, criteri incerti, prove ridotte al minimo, ecc.) e i risultati dequalificanti da tutti denunciati.
Tuttavia nei singoli indirizzi d'istruzione secondaria si sono registrati per altra via progressi e innovazioni, certo limitati e parziali, e non di meno indicativi di una situazione in movimento, sotto la spinta dell'innovazione didattica e della sperimentazione. Anzitutto, una felice iniziativa dell'amministrazione scolastica ha portato alla nascita e alla progressiva affermazione (a partire dalla metà degli anni Cinquanta) degli istituti professionali di stato attraverso i quali si è potuto via via corrispondere alle crescenti esigenze di tecnici di primo livello nel campo agricolo, industriale e dei servizi. I corsi di qualifica professionale organizzati da detti istituti rappresentano il primo e unico caso di studi di ciclo breve (di solito triennale) esistente in I. nell'ambito della scuola secondaria superiore. A essi possono essere assimilati i corsi superiori degli istituti d'arte, pure di durata triennale, che rilasciano diplomi di qualifica di capo d'arte o maestro d'arte. Agli uni e agli altri, a seguito della l. 14 settembre 1970 n. 692, si possono aggiungere corsi biennali, che estendono la durata degli studi a cinque anni, consentendo così ai frequentanti di sostenere l'esame di stato di maturità professionale o di maestro d'arte. Un progetto innovativo elaborato dal ministro della Pubblica Istruzione, il cosiddetto ''Progetto '92'', è in corso di sperimentazione presso molti istituti professionali e ha l'obiettivo d'irrobustire la formazione culturale degli allievi e nel contempo di accorpare per grandi aree il folto gruppo di indirizzi professionali oggi esistenti. Con l'estensione sul territorio nazionale degli istituti professionali, la vecchia scuola tecnica, di durata biennale, è stata progressivamente riassorbita fino alla sua scomparsa. Nel frattempo ha preso corpo l'iniziativa delle Regioni nel campo della formazione professionale, soprattutto dopo il varo della legge quadro in materia del 1978 (v. professionale, formazione, in questa Appendice). Gli istituti tecnici statali, pur privati dei corsi inferiori trasformati nell'attuale scuola media, continuano a essere disciplinati dalla l. 15 giugno 1931 n. 889. Nuovi orari e programmi d'insegnamento, tuttavia, sono stati adottati nel 1961 e ancora, relativamente ad alcuni indirizzi, nel 1972 e nel 1981. Il nuovo tipo di esame di maturità e la cosiddetta liberalizzazione degli accessi universitari, entrambi disposti nel 1969, hanno suscitato non poche preoccupazioni negli ambienti professionali per la paventata perdita di professionalità dei vari indirizzi dell'istruzione tecnica, che pur rappresentano larga parte dell'istruzione secondaria superiore. Dalla metà degli anni Sessanta si sono venute istituendo numerose sezioni serali per studenti-lavoratori, che nel 1972-73 sono state allineate ai corsi diurni quinquennali degli istituti tecnici.
Nessun intervento normativo di rilievo ha riguardato direttamente il settore dei licei, sebbene l'istituzione della scuola media unica nel 1962 e la riforma dell'esame di maturità nel 1969, modificando alcune condizioni formative ai momenti d'ingresso e terminale dei corsi di studio, avrebbero consigliato una ristrutturazione dei piani di studio dei licei e l'aggiornamento dei programmi d'insegnamento. Si è invece preferito rinviare tale adeguamento in attesa della riforma globale della scuola secondaria superiore, col risultato di lasciare fermo all'anteguerra l'ordinamento di tale settore. Sono sorti invece, per iniziativa privata, i licei linguistici, il cui piano di studi, previsto da un decreto ministeriale, è articolato in un biennio e in un triennio, al termine del quale si consegue la licenza linguistica.
Tutti gli ordini di studi dell'istruzione secondaria superiore, in attesa della riforma generale del settore finora non varata dal Parlamento, sono stati notevolmente interessati da processi di sperimentazione, sia di tipo metodologico-didattico (cosiddetta minisperimentazione) sia relativa alle strutture e agli ordinamenti (cosiddetta maxisperimentazione), la cui possibilità è stata prevista e disciplinata dal d.P.R. 31 maggio 1974 n. 419. Utilizzando questa via, le scuole hanno avviato numerosi progetti di modifica dei piani di studi e di aggiornamento dei programmi d'insegnamento sulla base di una semplice autorizzazione del ministero della Pubblica Istruzione, che ha anche assicurato alle iniziative in corso l'assistenza tecnica del corpo ispettivo. Progetti speciali, elaborati sul piano nazionale dal ministero predetto, soprattutto nel settore dell'istruzione tecnica, hanno portato all'adozione di nuovi curricoli in funzione di profili tecnico-professionali in gran parte nuovi, richiesti dalle trasformazioni intervenute nei processi produttivi e dei servizi. Da ricordare, infine, un vasto progetto di revisione dei piani di studio e dei programmi d'insegnamento, relativi all'intera fascia dell'istruzione secondaria superiore, messo a punto da una commissione ministeriale di esperti alla fine degli anni Ottanta. Dal 1991-92, un certo numero di licei e istituti tecnici è stato autorizzato ad adottare tali programmi in via sperimentale.
Nel campo degli studi universitari e post-secondari, dopo il ripristino, nell'immediato dopoguerra, delle autonomie universitarie (potestà degli organi accademici di eleggere il rettore e i presidi di facoltà; restituzione alle facoltà del potere di decidere sulla destinazione delle cattedre, sulle nomine e i trasferimenti dei professori, ecc.), il primo intervento normativo di rilievo, più che altro di segno negativo, ha riguardato la cosiddetta ''liberalizzazione degli accessi'' universitari e dei piani di studi, disposta dalla l. 11 dicembre 1969 n. 910. Con ciò si è consentita l'iscrizione a qualunque facoltà universitaria agli studenti in possesso di qualsiasi diploma di maturità relativo a corsi di studio d'istruzione secondaria superiore di durata quinquennale, ignorando l'esigenza della congruità tra gli studi medio-secondari e quelli universitari, e non prevedendo forme adeguate di orientamento per la scelta degli indirizzi. L'abolizione della libera docenza nel 1970 e la soppressione del ruolo degli assistenti lasciavano aperto il problema dei canali di reclutamento esterno del corpo docente, proprio nel momento in cui aumentava sensibilmente il numero degli studenti e si allargavano le strutture esistenti con la creazione di nuove facoltà e sedi universitarie (grazie anche a notevoli interventi finanziari dello stato, soprattutto in campo edilizio). Solo nel 1980 si è varato un provvedimento legislativo con cui si sono affrontati alcuni nodi della situazione universitaria, fattasi nel frattempo tormentata per le difficoltà del potere politico di dare risposta sia alle istanze del mondo studentesco sia alle tensioni interne fra il personale degli atenei. Benché non da tutti accolta favorevolmente, la legge delega 21 febbraio 1980 n. 28 (e le conseguenti norme delegate del d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382) ha, da un lato, disposto un sensibile ampliamento degli organici (introducendo, peraltro, assai discusse forme di reclutamento) e dato un nuovo assetto alla docenza universitaria (con l'istituzione di quattro distinte figure di docente: professore straordinario e ordinario, professore associato, ricercatore, professore a contratto) e, dall'altro lato, ha consentito la sperimentazione di nuove forme organizzative e didattiche, queste ultime intese "come individuazione e verifica di nuove modalità di espletamento dell'attività di ricerca e di insegnamento". Fra le innovazioni previste figurano: la possibilità d'istituire dipartimenti per discipline affini, senza peraltro abolire istituti e facoltà previste dal precedente ordinamento; l'istituzione del dottorato di ricerca, come titolo accademico post-laurea; la possibilità di sperimentare modalità didattiche per rendere più proficuo l'insegnamento, anche in connessione con altri enti scientifici ed economici pubblici e privati. Anche il settore delle scuole dirette a fini speciali, delle scuole di specializzazione e dei corsi di perfezionamento sono stati riordinati con d.P.R. 10 marzo 1982 n. 162. Con l'istituzione del nuovo ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica (v. oltre) si è messo mano al rilancio e all'ammodernamento dell'intero settore degli studi superiori, anche nella prospettiva di un migliore collegamento con la ricerca extrauniversitaria e con le esigenze del mondo produttivo. Norme sul piano di sviluppo delle università e sull'istituzione di nuove università e di nuove facoltà sono contenute nella l. 7 agosto 1990 n. 245. La l. 19 novembre 1990 n. 341, sulla riforma degli ordinamenti didattici, introduce novità di rilievo, quali il diploma universitario, che le università possono rilasciare dopo due o tre anni di corso, e il tutorato per l'orientamento e l'assistenza agli studenti.
Ordinamento degli studi. − L'ordinamento delle scuole e degli istituti d'istruzione, attualmente in vigore, può essere schematizzato in base ai tre gradi o livelli successivi d'istruzione: inferiore, secondaria, superiore o universitaria. La scuola materna, destinata ai bambini in età pre-scolastica (dai 3 ai 6 anni), non costituisce propriamente un grado d'istruzione. L'iscrizione è facoltativa e la frequenza è gratuita. Essa si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile e di preparazione alla frequenza della scuola dell'obbligo, a integrazione dell'opera svolta dalla famiglia. Gli "orientamenti dell'attività educativa" (approvati con d.P.R. 10 settembre 1969 n. 647) sono stati ridisegnati e aggiornati con D.M. 3 giugno 1991. Essi si propongono l'obiettivo di una "equilibrata maturazione e organizzazione delle componenti cognitive, affettive, sociali e morali della personalità" del bambino. In ogni unità scolastica funzionano di norma tre sezioni, in corrispondenza delle classi di età dei bambini. L'orario della scuola è fissato in 8 ore, suddiviso in due turni (antimeridiano e pomeridiano). Le insegnanti, organizzate in apposito ruolo, prestano servizio per 30 ore settimanali destinate alle attività educative e per 20 ore mensili relative ad attività di funzionamento della scuola. Accanto alle statali sono presenti in larga misura scuole materne private.
a) Istruzione inferiore. − Questa prima fascia dell'istruzione coincide, in sostanza, con l'istruzione obbligatoria, fissata dalla Costituzione nella durata minima di 8 anni. Essa comprende la scuola elementare e la scuola media. Formalmente quest'ultima costituisce il primo grado della scuola secondaria. Tuttavia, l'obbligatorietà della frequenza, l'unicità del percorso degli studi (ovvero l'esclusione di corsi differenziati per l'adempimento dell'obbligo), una certa similarità delle finalità generali e dell'organizzazione didattica configurano di fatto la scuola elementare e quella media come due fasi del primo livello d'istruzione, che è comune a tutti.
La scuola elementare, destinata ai fanciulli di età compresa fra 6 e 11 anni, si propone di sviluppare la personalità e di promuovere la prima alfabetizzazione culturale del fanciullo. Il corso ha durata quinquennale ed è suddiviso in due cicli, il primo dei quali comprende la prima e la seconda classe, il secondo le altre tre classi. Il passaggio da una classe all'altra avviene per scrutinio, come pure il passaggio dal primo al secondo ciclo. Non esistono più esami di riparazione e di seconda sessione, mentre l'esame di licenza elementare si svolge in unica sessione. Gli attuali programmi d'insegnamento sono stati approvati con d.P.R. 12 febbraio 1985 n. 104, e riguardano gli insegnamenti di lingua italiana, lingua straniera, matematica, scienze, storia, geografia, studi sociali, religione, educazione all'immagine, al suono e alla musica, ed educazione motoria. La valutazione del profitto si avvale di una scheda personale dell'alunno per la raccolta di osservazioni sul processo di apprendimento, da cui viene desunta trimestralmente e illustrata ai genitori una valutazione informativa sul livello globale di maturazione degli alunni. In base alla riforma introdotta dalla l. 5 giugno 1990 n. 148, gli insegnanti sono utilizzati secondo moduli organizzativi costituiti da tre docenti su due classi ovvero da quattro docenti su tre classi, tenuto conto dell'orario delle attività didattiche, stabilito in 27 ore settimanali, elevabili fino a 30 in caso di attivazione dell'insegnamento della lingua straniera. Speciali interventi sono previsti in favore degli alunni portatori di handicap.
La scuola media, a cui si accede con la licenza di scuola elementare, ha durata triennale e accoglie di norma i ragazzi dagli 11 ai 14 anni di età. È scuola d'istruzione obbligatoria e gratuita; ha il fine di promuovere la formazione dell'uomo e del cittadino e di favorire l'orientamento dei giovani sulla scelta dell'attività successiva. Il suo piano di studi comprende i seguenti insegnamenti: italiano (con riferimenti alla sua origine latina); storia ed educazione civica; geografia; lingua straniera; scienze matematiche, chimiche, fisiche e naturali; educazione artistica; educazione musicale; educazione tecnica; educazione fisica; religione. I programmi aggiornati, emanati nel 1979, prevedono 30 ore settimanali d'insegnamento per classe. La programmazione didattica, elaborata dal collegio dei docenti, può prevedere attività scolastiche integrative a carattere interdisciplinare, interventi individualizzati di sostegno, nonché particolari misure a favore degli alunni portatori di handicap. Non sono ammessi esami di riparazione e di seconda sessione; il passaggio da una classe all'altra è disposto per scrutinio. La scuola media si conclude con un esame di licenza, che è esame di stato, si svolge in unica sessione e consiste nelle prove scritte d'italiano, matematica, lingua straniera e in un colloquio pluridisciplinare su tutte le materie; il relativo diploma dà accesso a tutte le scuole e istituti d'istruzione secondaria superiore.
b) Istruzione secondaria. − L'istruzione secondaria superiore o di secondo grado (poiché successiva alla media, che è scuola secondaria di primo grado) non rientra per ora nell'obbligo scolastico (attualmente è in discussione al Parlamento un progetto di legge per l'estensione dell'obbligo fino al sedicesimo anno di età). Ha durata in massima parte quinquennale (liceo classico, liceo scientifico, istituti tecnici), ma esistono corsi di durata quadriennale (istituto magistrale, liceo artistico, alcuni tipi d'istituto professionale) e triennale (istituto d'arte, gli altri tipi d'istituto professionale). Per questi ultimi, la legge prevede la possibilità d'istituire corsi successivi ai corsi normali triennali, che consentono di conseguire una formazione di livello di scuola secondaria superiore quinquennale. La scelta fra i suddetti indirizzi d'istruzione è libera, essendo non vincolanti i consigli dati a titolo di orientamento a conclusione del corso di scuola media. Al termine degli studi secondari superiori si sostiene, in unica sessione, l'esame di stato di maturità, che varia per i diversi indirizzi. In base alla l. 11 dicembre 1969 n. 910, il conseguimento della maturità dà diritto a iscriversi a qualsiasi facoltà universitaria: immediatamente, per i maturati dei corsi di durata quinquennale; dopo un altro anno di corso integrativo per chi ha seguito corsi d'istruzione secondaria superiore quadriennale. Il diploma di maturità tecnica, magistrale o professionale quinquennale abilita anche all'esercizio della professione corrispondente.
Nell'ambito della scuola secondaria superiore, l'istruzione liceale è rappresentata dai ginnasi-licei classici, dai licei scientifici, dai licei artistici e dai licei linguistici. Il liceo classico conserva la spiccata impronta umanistica datagli dalla tradizione e ha tuttora, in sostanza, l'ordinamento assunto con la riforma di G. Gentile. Le prime due classi del corso mantengono la denominazione (residuale del precedente ordinamento) di quarta e quinta ginnasio, le successive tre classi costituiscono il liceo; il passaggio dal ginnasio al liceo vero e proprio avviene per scrutinio. Il liceo scientifico, che unisce alla preparazione umanistica, comprensiva del latino, una preparazione scientifica più marcata rispetto al classico, rispecchia pur esso l'ordinamento conferitogli dal ministro Gentile. Al termine dei due corsi liceali si consegue il diploma di maturità classica ovvero di maturità scientifica. Il liceo artistico conserva l'originaria struttura di corso quadriennale, diviso, dopo il primo biennio comune, in due distinte sezioni; con l'esame di stato conclusivo si consegue il diploma di maturità artistica. Il liceo linguistico è istituzione relativamente recente, nata per iniziativa privata e diffusasi in Italia dalla metà degli anni Sessanta. Per assicurare unità d'indirizzo in materia, il decreto ministeriale 31 luglio 1973 ha definito un piano di studi organizzato in un biennio (con gli insegnamenti d'italiano, latino, storia, storia dell'arte, matematica, fisica, prima e seconda lingua straniera) e in un triennio (con gli insegnamenti suddetti, eccetto il latino, e in più con gli insegnamenti di filosofia, psicologia e sociologia, scienze naturali e geografia generale ed economica, nonché una materia opzionale che può essere anche la terza lingua straniera). Al termine si consegue la licenza linguistica. L'istituto magistrale, nonostante i ripetuti tentativi di riforma, presenta ancora la struttura di un corso quadriennale, al termine del quale viene rilasciato il diploma di abilitazione all'insegnamento elementare (a tal fine, recenti disposizioni di legge prevedono la frequenza di apposito corso di laurea). Il suo piano di studi prevede le seguenti materie: filosofia, pedagogia e psicologia; italiano; latino; storia; lingua straniera; matematica e fisica; scienze naturali, chimica, geografia; disegno e storia dell'arte; canto corale; educazione fisica. Esiste, peraltro, una larga sperimentazione di indirizzi pedagogici di durata quinquennale.
L'istruzione tecnica, che interessa oltre il 40% della popolazione scolastica di questa fascia di età, si realizza nell'istituto tecnico, a struttura quinquennale, con molteplici indirizzi, caratterizzati da un biennio sostanzialmente omogeneo e da un triennio di specializzazione. Gli istituti tecnici si suddividono nei seguenti tipi: aeronautico, agrario, commerciale, femminile, per geometri, industriale, nautico, per periti aziendali, per il turismo. Alcuni di questi, e soprattutto l'istituto tecnico industriale e quello commerciale, presentano al loro interno molti indirizzi specialistici. Di vari indirizzi sono stati via via aggiornati gli orari e i programmi d'insegnamento. Inoltre, nell'ultimo quindicennio, sono stati definiti dal ministero della Pubblica Istruzione una serie di "progetti speciali" al fine di accorpare le specializzazioni similari e aggiornare i piani di studi, anche in relazione alle esigenze tecnologiche espresse dall'organizzazione della produzione e dei servizi.
L'istruzione professionale in senso proprio si svolge ora esclusivamente negli istituti professionali di stato, che sono dei seguenti tipi: per l'agricoltura, per l'industria e l'artigianato, per il commercio, femminile (in via di assorbimento), alberghiero, per le attività marinare. All'interno di ciascun tipo sono previste varie specializzazioni. I corsi hanno durata di regola triennale (alcuni, però, sono biennali e altri quadriennali). Ai corsi, denominati sezioni di qualifica, si accede con la licenza di scuola media. Al termine del corso, superato apposito esame, si consegue un titolo di studio denominato qualifica. L'istruzione professionale manca di una legge quadro che ne fissi la disciplina generale; ciò ha permesso una certa flessibilità organizzativa e didattica in relazione alle esigenze locali delle attività produttive. Non di meno, quadri orari e programmi orientativi sono definiti dal ministero della Pubblica Istruzione. Per i giovani che intendono proseguire gli studi fino alla maturità professionale, la l. 27 ottobre 1969 n. 754 ha previsto l'istituzione di corsi post-qualifica (di durata, secondo i casi, biennale, triennale o annuale), ai quali sono ammessi i licenziati della sezione di qualifica dell'indirizzo corrispondente. Dall'istruzione professionale va distinta, benché a essa per lo più parallela, la formazione professionale, di competenza regionale, disciplinata da un'apposita legge quadro del 1978 (v. professionale, formazione, in questa Appendice): essa comporta il rilascio non di titoli di studio, bensì solo di attestati sulla cui base gli uffici di collocamento assegnano le qualifiche valide per l'avviamento al lavoro e per l'inquadramento aziendale. Per alcuni aspetti assimilabile all'istituto professionale statale è invece l'istituto d'arte (ve ne sono per la decorazione, per l'intarsio, per la ceramica, per l'ebanisteria, per l'incisione del corallo, ecc.). I corsi dell'istituto d'arte hanno durata triennale e si concludono con un esame di licenza. Anche in questo caso, sono previsti corsi biennali che estendono la durata degli studi a cinque anni, consentendo ai frequentanti l'ammissione agli esami di maturità d'arte applicata.
c) Istruzione superiore. − Si attua nell'università, negli istituti universitari e negli istituti d'istruzione postsecondaria. Titolo di ammissione alle università e istituti superiori è il diploma di maturità rilasciato dalle scuole d'istruzione secondaria di durata quinquennale. Tenuto conto del riordinamento didattico, che è stato deliberato dal Parlamento nel 1990, le università organizzano corsi di vario livello per il rilascio dei seguenti titoli:
Diploma Universitario (DU): il corso è organizzato dalle facoltà, ha durata di 2 o 3 anni e ha il fine di fornire agli studenti adeguata conoscenza di metodi e contenuti scientifici orientata verso specifiche aree professionali; gli studi compiuti nei corsi di diploma sono riconosciuti ai fini del proseguimento degli studi universitari;
Diploma di Laurea (DL): il corso si svolge nelle facoltà, ha una durata non inferiore a 4 anni e non superiore a 6 e si propone di fornire agli studenti adeguate conoscenze culturali, scientifiche e professionali di livello superiore (uno specifico corso di laurea, in due indirizzi, sarà preordinato alla formazione culturale e professionale degli insegnanti, rispettivamente, della scuola materna e della scuola elementare);
Diploma di Specializzazione (DS): il corso, cui si accede dopo il conseguimento della laurea, ha durata non inferiore a 2 anni, si attua presso le scuole di specializzazione di cui al d.P.R. 10 marzo 1982 n. 162, ed è finalizzato alla formazione di specialisti in settori professionali determinati (una specifica scuola di specializzazione, articolata in indirizzi, sarà destinata alla formazione degli insegnanti di scuola secondaria);
Dottorato di Ricerca (DR): il relativo corso, a cui possono accedere per concorso i laureati, è organizzato dai dipartimenti o facoltà all'uopo abilitati e prevede lo svolgimento di studi o ricerche con esiti originali in settori mono o interdisciplinari unicamente nell'ambito della ricerca scientifica.
Nel quadro dei principi dell'autonomia universitaria (riconosciuti dall'art. 33 della Costituzione e specificati dalla legge 9 maggio 1989, n. 168), gli statuti delle università determinano i corsi di diploma, di laurea e di specializzazione; definiscono, altresì, i criteri per l'attivazione dei corsi di perfezionamento, di dottorato di ricerca e dei servizi didattici integrativi.
Fra le altre forme d'istruzione superiore sono da considerare i corsi triennali degli ISEF (Istituti Superiori di Educazione Fisica), che hanno lo scopo di promuovere le scienze applicate all'educazione fisica e di fornire la preparazione scientifica e tecnica necessaria a quanti intendono dedicarsi all'insegnamento di tale disciplina nelle scuole e agli impieghi in campo sportivo. Al primo anno di corso si è iscritti dopo superato un concorso per esame; al termine del corso, gli allievi che hanno superato tutti gli esami di profitto sostengono un esame per il conseguimento del diploma di educazione fisica. Durata quadriennale hanno invece i corsi degli ISIA (Istituti Superiori per le Industrie Artistiche), che provvedono alla formazione di progettisti industriali (designers). Possono accedere ai corsi degli ISIA gli studenti in possesso di un diploma di maturità quinquennale e che abbiano superato un apposito esame di ammissione. Al termine del corso, gli studenti sostengono un esame di tesi finale concernente un progetto operativo e conseguono il diploma d'istituto superiore per le industrie artistiche. Nel settore artistico, sono istituti d'istruzione superiore: le Accademie di Belle Arti (comprendenti corsi quadriennali di pittura, scultura, decorazione e scenografia); l'Accademia nazionale d'Arte drammatica (corso di tre anni, più uno di perfezionamento) per la formazione di attori e registi per il teatro drammatico; l'Accademia nazionale di Danza (relativamente ai corsi superiori di perfezionamento) per la formazione di solisti, insegnanti, coreografi e compositori di danza.
I grandi "aggregati" e l'amministrazione scolastica. − L'aspetto più appariscente dell'evoluzione del sistema d'istruzione è lo sviluppo quantitativo dei grandi "aggregati" (studenti, docenti, strutture scolastiche), segnatamente nelle due fasce dell'istruzione secondaria e universitaria (v. tab. 38). Il numero dei bambini iscritti alla scuola materna è lentamente cresciuto fino a raddoppiarsi nel 1978-79 (1.916.674 iscritti), per poi decrescere negli anni seguenti, soprattutto per il decremento del tasso di natalità; circa la metà di questa popolazione frequenta ormai la scuola materna statale, che ha iniziato a funzionare nel 1969-70. Il personale è oggi più che quadruplicato rispetto alle circa 25.000 unità impiegate all'inizio degli anni Cinquanta. Analogo andamento contrassegna la scuola elementare (che ha raggiunto il massimo di 4.973.881 iscritti nel 1972-73) e la scuola media (con la punta massima di 2.938.791 iscritti nel 1977-78); la diminuzione degli iscritti negli anni successivi è anche qui dovuta al fenomeno del calo delle nascite che ha interessato il paese dalla metà degli anni Sessanta. Più sensibile e in costante progressione è stato lo sviluppo della popolazione scolastica della scuola secondaria superiore, passata da 460.000 unità nel 1952-53 a circa 2.700.000 nel 1987-88. I licenziati di questa scuola si aggirano ormai ogni anno intorno alle 500.000 unità. Completano il quadro di detta scuola il sensibile incremento delle unità scolastiche (risultato di una politica di distribuzione più capillare degli istituti d'istruzione sul territorio nazionale, specie nei settori dell'istruzione tecnica e professionale) e del personale docente in servizio (ormai attestato intorno alle 250.000 unità). Le università hanno registrato un notevole aumento degli studenti iscritti dopo la liberalizzazione degli accessi universitari, disposta nel 1969. Nonostante che, a partire dai primi anni Ottanta, il numero degli iscritti superi il milione di unità (circa un terzo è costituito da studenti fuori corso), il numero dei laureati appare tutt'ora modesto in relazione alle esigenze dello sviluppo economico-sociale del paese; in effetti, degli studenti che annualmente si iscrivono all'università, ancora oggi meno di un terzo riesce a completare gli studi. Lenta è stata altresì la crescita delle sedi universitarie. Di conseguenza, l'aumento della popolazione studentesca è venuto a gravare in gran parte sulle precedenti strutture; di ciò, in particolare, hanno sofferto le sedi delle maggiori città (il cosiddetto ''gigantismo'' di alcune sedi universitarie).
Significativo lo sforzo finanziario sostenuto dallo stato per corrispondere allo sviluppo quantitativo del sistema scolastico e alle esigenze di ammodernamento. Nel 1952-53 la spesa complessiva per l'istruzione e la cultura (di quasi 256 miliardi in lire correnti) ha avuto un'incidenza del 9,7% sul totale della spesa statale. La stessa spesa per l'istruzione e la cultura è andata poi crescendo fino al 1970, quando la sua incidenza sul totale della spesa è stata del 20% (in lire correnti, 2745 miliardi). Negli anni seguenti, la spesa per l'istruzione, mentre è continuata a crescere in termini monetari (raggiungendo nel 1986 i 35.000 miliardi), è progressivamente diminuita in rapporto alla spesa statale, fino a tornare a valori al di sotto del 9%.
Al governo non facile delle diverse componenti del mondo scolastico e della loro evoluzione quantitativa e qualitativa ha continuato a provvedere il ministero della Pubblica Istruzione, che ha ripreso tale denominazione dopo la caduta del regime fascista. Le università, che fino al 1989 rientravano nella competenza del suddetto ministero, fanno ora capo al ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica (v. oltre). L'amministrazione centrale della Pubblica Istruzione è articolata, al suo interno, in direzioni generali (8), ispettorati (2) e servizi (1). Essa ha compiti prevalentemente d'indirizzo, coordinamento e controllo. Per la vigilanza delle scuole dei vari ordini e gradi, l'amministrazione si avvale di un corpo tecnico di ispettori ministeriali. Organo di consulenza generale è il Consiglio nazionale della pubblica istruzione (v. consiglio: Consigli scolastici, in questa Appendice). L'amministrazione periferica è attribuita alle Sovrintendenze scolastiche regionali (a cui compete, fra l'altro, l'espletamento dei concorsi per l'abilitazione all'insegnamento e per l'immissione in ruolo degli insegnanti) e, in modo più consistente, ai Provveditorati agli studi, che hanno sede in ciascuna provincia e provvedono all'amministrazione del personale e dei servizi scolastici. Presso il Provveditorato opera il Consiglio scolastico provinciale, con competenze consultive, disciplinari e di programmazione. Il distretto scolastico, introdotto in I. nel 1973-74, opera come comprensorio subprovinciale, in cui di regola sono presenti le istituzioni educative dei vari ordini di scuola, con l'eccezione delle università; esso ha competenza in materia di programmazione e funzionamento dei servizi, di orientamento scolastico e professionale, di diritto allo studio, di educazione permanente. Le singole scuole e istituti scolastici hanno autonomia amministrativa e sono retti dal preside o direttore didattico, nonché da diversi organi collegiali: consiglio di circolo o di istituto, collegio dei docenti, consigli di classe o di interclasse (v. consiglio: Consigli scolastici, in questa Appendice).
Alle università e agli istituti d'istruzione universitaria sovrintende, nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall'art. 3 della Costituzione, il ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, istituito con l. 9 maggio 1989 n. 168. Il ministero elabora i piani di sviluppo delle università e la programmazione annuale e pluriennale della ricerca scientifica e tecnologica; provvede al coordinamento delle università e degli enti di ricerca anche con riguardo alla partecipazione italiana a programmi comunitari o internazionali; provvede alla ripartizione degli stanziamenti previsti in bilancio. Sono previste forme d'intesa e collaborazione fra questo ministero e quello della Pubblica Istruzione nelle materie di reciproco interesse. Il ministero dell'Università è organizzato in 4 dipartimenti (uno dei quali specifico dell'istruzione universitaria) e in 6 servizi con funzioni di supporto ai dipartimenti. Organo consultivo centrale è il Consiglio universitario nazionale (v. consiglio: Consigli universitari, in questa Appendice). È prevista anche la Conferenza permanente dei rettori delle università. Ciascuna università è dotata di personalità giuridica e di autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile. Le università disciplinano la propria attività didattica e di ricerca nel rispetto della libertà dei docenti; esse si danno ordinamenti interni con propri statuti e regolamenti. Sono organi universitari generali: il rettore (eletto fra i professori ordinari da tutti i docenti in servizio e da rappresentanti dei ricercatori), il senato accademico (composto dal rettore e dai presidi di facoltà) e il consiglio di amministrazione. Le articolazioni didattico-organizzative delle università sono costituite, per lo più, da facoltà (rette da presidi), dipartimenti e istituti (retti da direttori). Per gli organi collegiali di queste ripartizioni didattico-organizzative v. consiglio: Consigli universitari, in questa Appendice.
Bibl.: Per l'evoluzione del sistema scolastico italiano nel suo complesso e nei suoi ''aggregati'' e per le trasformazioni intervenute nell'organizzazione dell'istruzione, si può vedere il capitolo "Istruzione" o "Formazione" nell'annuale Rapporto sulla situazione sociale del paese elaborato dal CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) dalla fine degli anni Sessanta a tutt'oggi (1992), nonché le annate degli Annali della Pubblica Istruzione (dal 1955 al 1992), rivista a cura del ministero della Pubblica Istruzione. Utili, soprattutto per gli aspetti normativi organizzativi e statistici, i volumi monografici della serie "Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione", fra cui in particolare: La scuola secondaria italiana negli anni Settanta, Roma 1978; Situazione dell'università italiana, ivi 1978; L'istruzione tecnica sulla soglia degli anni Ottanta, ivi 1979; Istruzione artistica, ivi 1979; La scuola elementare a tempo pieno, ivi 1980; La scuola media integrata, ivi 1981; La scuola materna in Italia, ivi 1982; Una nuova metodologia nella formazione tecnica, ivi 1984; L'istruzione classica, scientifica e magistrale in Italia, ivi 1984; Dalla scuola al lavoro (Conferenza nazionale dei progetti-pilota italiani), ivi 1987; Nuovi modelli nella formazione post-diploma, ivi 1989; Il nuovo ordinamento della scuola elementare, ivi 1990; Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi dei trienni, ivi 1992.
Si possono consultare, inoltre: D. Bertoni-Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai nostri giorni, Roma 1958, 19872; G. Barillà, Un futuro per l'università, Bari 1961; AA.VV., L'università in trasformazione, Milano 1964; A. Mazzeo, Scuola materna statale e orientamenti educativi, Roma 1969; P. Piovani, Morte (e trasfigurazione?) dell'università, Napoli 1969; Centro Europeo dell'Educazione, Nuovi indirizzi dell'istruzione secondaria, Frascati 1970; G.M. Bertin, S. Valitutti, A. Visalberghi, La scuola secondaria superiore in Italia, Roma 1971; Il distretto scolastico, a cura di A. Visalberghi, ivi 1974; A. La Mendola, Gli organi collegiali della scuola, ivi 1975; G. Canestri, G. Recuperati, La scuola in Italia. Dalla legge Casati a oggi, Torino 1976; La questione universitaria, a cura di M. Felici, Camerino 1977; Il finanziamento dell'istruzione universitaria, a cura di G. C. Mazzocchi e O. Scarpat, Milano 1977; S. Valitutti, G. Gozzer, La riforma assurda, Roma 1978; A. L. Fadiga Zanatta, Il sistema scolastico italiano, Bologna 19783; AA.VV., Scuola media e nuovi programmi, Firenze 1979; M. T. Barbagallo, P. Montesarti, L'università in Italia, ivi 1979; M. Pagella, Storia della scuola, Bologna 1980, pp. 215-62; A. Zuliani, Le spese per l'istruzione, Roma 1980; G. Canestri, Centovent'anni di storia della scuola, Torino 1983; F. De Vivo, Linee di storia della scuola italiana, Brescia 1983; T. Mameli, L'ordinamento didattico-amministrativo della scuola italiana, Firenze 1983; G. D'Addona, R. Di Lisio, F. Matarazzo, Il dottorato di ricerca, Roma 1983; V. Sarracino, La scuola dell'infanzia, Napoli 1983; F. Scrimitore, La scuola secondaria italiana dal 1963, Lecce 1984; La scuola italiana dal 1945 al 1983, a cura di M. Gattullo e A. Visalberghi, Firenze 1986; B. M. Padolecchia Goodrich, La scuola secondaria superiore: origini, ordinamento, prospettive, ivi 1988; A. Lo Schiavo, Progetto per la nuova istruzione professionale, in Annali della Pubblica Istruzione, 1988, pp. 617-31; Id., La scuola dei saperi nel sistema dell'istruzione, ibid., 1989, pp. 133-42; La scuola italiana dall'unità ai nostri giorni, a cura di G. Cives, Firenze 1990; Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, Le discipline umanistiche. Analisi e progetto, Roma 1991.
Letteratura. - Il fenomeno letterario di maggior rilievo nella prima metà degli anni Sessanta è stato quello delle neoavanguardie riunite nel Gruppo 63, che prendeva nome dal convegno tenuto a Palermo nell'ottobre di quell'anno e i cui interventi vennero raccolti in un omonimo volume.
In realtà, fin dal 1961 l'antologia I Novissimi, comprendente testi poetici di A. Giuliani, che ne era il curatore, E. Pagliarani, E. Sanguineti, N. Balestrini e A. Porta, aveva esemplificato in modo persino clamoroso la novità delle soluzioni testuali che uscivano dalle proposte teoriche del Verri, la rivista di L. Anceschi, e dal principio dell'autonomia dell'arte. Il successivo volume Il romanzo sperimentale completava il panorama risultante infine più mosso da interne contraddizioni che fedele a una comune poetica; sarà sufficiente ricordare, per es., gli accenti quasi neocrepuscolari della poesia di Pagliarani e gli sconvolgimenti linguistici delle pagine di Sanguineti, la violenza ideologica di Balestrini e il primato della teoresi sulla prassi affermato da B. Barilli, ecc. A dare un senso unitario al gruppo restava però il rifiuto delle ormai stanche soluzioni stilistiche di stampo neorealistico, lo scarto dalla linea filosofica tutta domestica De Sanctis-Croce-Gramsci per una più ampia considerazione del pensiero moderno (psicanalisi, strutturalismo, semiologia), e un'aperta polemica contro il potere e il suo linguaggio mistificato e mercificato e perciò ritenuto in grado di trasmettere solo valori falsi destinati a perpetuare il processo d'integrazione dell'opinione pubblica, e delle stesse forze intellettuali, alla cultura borghese dominante. Ed era da questa lacerazione che nasceva una "visione 'schizomorfa'" (Giuliani) con cui la poesia contemporanea prendeva possesso di sé e della vita presente.
Le opere poetiche più rappresentative delle neoavanguardie sono Triperuno (1964), che raccoglieva precedenti titoli risalenti fino ai primi anni Cinquanta, di Sanguineti; Come si agisce (1963) di Balestrini; La ragazza Carla (1960), Lezione di fisica e Fecaloro (1968), Rosso Corpo Lingua (1977) di Pagliarani; Quanto ho da dirvi (1977, che riguarda le raccolte degli anni Sessanta e Settanta) di Porta; Conoscenza per errore (1962) di F. Leonetti. A queste sono da aggiungere le raccolte di poesia visiva e poesia concreta, nelle quali si è soprattutto impegnato, anche come teorico, L. Pignotti (Istruzioni per l'uso degli ultimi modelli di poesia, 1968).
Più complesso e sfaccettato è il problema della narrativa sperimentale che, oltre ai tre volumi sanguinetiani Capriccio italiano (1963), Il giuoco dell'oca (1967) e Il giuoco del Satyricon (1970), annovera importanti titoli di G. Manganelli (Hilarotragoedia, 1964; Nuovo commento, 1969), di L. Malerba (La scoperta dell'alfabeto, 1963; Il serpente, 1968) e di A. Arbasino, da Le piccole vacanze (1957) a L'anonimo lombardo (1959), a Fratelli d'Italia (1963), a Super-Eliogabalo (1978) che compendia i modi di una produzione protratta fino agli anni Novanta in cui si contaminano la forma romanzo e il saggio. Fuori dal clima delle neoavanguardie e spesso in atteggiamento di chiara polemica nei loro confronti è un buon numero di scrittori di notevole importanza etica oltre che letteraria: F. Fortini, al centro di molti nodi culturali sin dagli anni Quaranta (Verifica dei poteri, 1965; L'ospite ingrato, 1966; I cani del Sinai, 1967); R. Roversi, spirito solitario e polemico, direttore della rivista Rendiconti, poeta (Dopo Campoformio, 1962; Descrizioni in atto, ciclostilato nel 1970 con una soluzione editoriale allora largamente diffusa e recentemente replicata con la raccolta completa dei ciclostilati, 1990) e narratore (Registrazione di eventi, 1964; I diecimila cavalli, 1976); P. Volponi (Memoriale, 1962; La macchina mondiale, 1965). Ma sono questi anche gli anni che vedono l'ultima produzione di P.P. Pasolini, in parte uscita postuma, che dalle poesie Le ceneri di Gramsci (1957) e delle raccolte successive (La religione del mio tempo, 1963; Poesia in forma di rosa, 1964) e dai romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) giungeva ora alle prose di Alì dagli occhi azzurri (1965), ai versi di Trasumanar e Organizzar (1971), alle opere teatrali (Calderón, Affabulazione, Porcile, ecc.), alle violente pagine polemiche degli Scritti corsari (1975) e delle Lettere luterane (1976), infine di Petrolio (1992) accompagnando però sempre più spesso il suo impegno nella letteratura con un intenso lavoro di regista cinematografico.
Nel corso degli anni Sessanta la società italiana ha conosciuto forti scosse sociali e intellettuali riassunte nel termine della ''contestazione'' legata soprattutto al movimento studentesco e anche a profonde rivendicazioni sindacali e operaie. Il loro rapporto con le ''rivoluzioni'' linguistiche e stilistiche delle neoavanguardie non appare chiaro se non per una generica presa di posizione contraria alle istituzioni; è certo invece che la crisi delle neoavanguardie si verifica proprio sul terreno della scelta del rapporto che deve istituirsi tra impegno letterario e impegno politico.
Il tema venne ampiamente dibattuto sulla rivista Quindici (1967-69, diretta da A. Giuliani e per gli ultimi tre numeri da N. Balestrini) fra i sostenitori dell'assoluta autonomia dell'arte e della letteratura e i sostenitori di un'arte rivoluzionaria, con le conseguenze di una spaccatura esiziale per la vita della rivista, la cui morte segna anche la fine delle neoavanguardie.
Ma quella interna alle neoavanguardie non è la sola polemica che scuote il mondo intellettuale italiano. All'interno dello schieramento di sinistra, A. Asor Rosa (Scrittori e popolo, 1965; Intellettuali e classe operaia, 1973) proponeva una revisione totale della letteratura postrisorgimentale e novecentesca giudicata sotto l'angolo visuale del populismo, e poneva il problema della presenza dell'intellettuale nella società borghese riconoscendogli la funzione specifica di ''tecnico della conoscenza''. F. Fortini, a sua volta, negava ormai allo scrittore la figura di coscienza della società, mentre G. C. Ferretti (La letteratura del rifiuto, 1968) invitava gli intellettuali a una radicale autocritica, e A. Leone de Castris (L'anima e la classe, 1972) riproponeva una sostanziale fedeltà marxiana secondo la linea del PCI. Su versanti diversi il campo della letteratura era movimentato dal 1966 dalla rivista Strumenti critici, con il suo impegno prevalentemente linguistico-strutturale, diretta da M. Corti e C. Segre (I segni e la critica, 1969; Le strutture e il tempo, 1974).
Con l'inizio degli anni Settanta e l'esaurimento delle neoavanguardie si apre una situazione nuova che viene generalmente denominata di ''riflusso'', per indicare un rovesciamento delle condizioni generali − nel paese prima ancora che nella letteratura − dalle contestazioni legate al 1968 alla ripresa delle forze dello stato ormai in dura lotta contro il terrorismo.
Si trattò di una condizione che parve a molti scrittori di ''vuoto'' letterario, forse per la mancanza di grandi figure emergenti o di chiari segni qualificanti, ma non certo per mancanza di scrittori o di opere, la cui presenza rimane sempre intensa e vivissima. Vero è che la situazione appare non ben definita nelle sue linee dominanti né segnata da giovani protagonisti, ma caratterizzata piuttosto da appassionate ricerche, da tentativi in direzioni diverse, da proposte fra loro contrastanti. Si assiste così alla compresenza o all'accavallarsi di segni che coprono una vasta area di possibilità, dal neoimpegno degli scrittori delle riviste fiorentine Salvo Imprevisti e Collettivo r e dei siciliani dell'Antigruppo, all'assunzione della contraddizione come sola prospettiva reale nella rivista napoletana Altri Termini, ai suggerimenti eclettici di Anterem, alla rivendicazione dell'autonomia della poesia in Tam Tam avallata dalla presenza di L. Anceschi, fino alle proposte misticheggianti di Niebo confermate dall'antologia poetica La parola innamorata (1978).
Ma se non può dirsi che siano le nuove generazioni a produrre opere di particolare rilievo, resta vero che negli anni Settanta sono ancora attivi alcuni dei grandi protagonisti, i quali pubblicano lungo il decennio titoli di alto valore letterario. Sarà sufficiente ricordare che escono allora tre raccolte di E. Montale (Satura, 1971; Diario del '71 e del '72, 1973; Quaderno di quattro anni, 1977) in cui il poeta dava vita a quello che potrebbe definirsi un suo quarto tempo, segnato da un andamento più domestico e colloquiale, dietro il quale era però facile scorgere il permanere di una più alta tematica e di un furore etico e polemico che approdavano a un sempre più duro pessimismo. E negli stessi anni Montale raccoglieva, dopo Auto da fé del 1966, i suoi scritti critici nell'ampio volume Sulla poesia (1976). E ancora presente è l'opera di C. Betocchi, di G. Caproni con la sua lucida malinconia e la sua stringata versificazione (Congedo del viaggiatore cerimonioso, 1965; Il muro della terra, 1975; Il franco cacciatore, 1982); e continuava la lunga recherche autobiografica di A. Bertolucci (Viaggio d'inverno, 1971; La camera da letto, 1984); mentre Stranezze (1976) e Confuso sogno (1980) segnano il passaggio di S. Penna da poeta alessandrino a poeta del mistero, come lui stesso si volle definire; e di G. Vigolo esce nel 1973 Spettro solare e nel 1977 I fantasmi di pietra. Ma il poeta più presente e più attivo è stato M. Luzi con la sua incessante ''controversia'' sulla sorte dell'individuo, sul dolore del mondo con una ricca messe di opere poetiche (Su fondamenti invisibili, 1971; Al fuoco della controversia, 1978; Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985; Frasi e incisi di un canto salutare, 1990) e con un impegno sempre più intenso anche nei testi teatrali (Ipazia, Rosales, ecc.). E anche altri poeti partiti dalla stagione dell'ermetismo hanno continuato ad operare con grande dignità, V. Sereni (Stella variabile, 1981), A. Gatto (Poesie d'amore, 1973), L. de Libero (Di brace in brace, 1971; Circostanze, 1976), L. Sinisgalli (Il passero e il lebbroso, 1970; Mosche in bottiglia, 1975; Dimenticatoio, 1978), P. Bigongiari (Antimateria, 1971; Moses, 1978). E altri poeti ancora contribuivano ad arricchire un panorama folto di nobili presenze se non di inedite proposte, B. Cattafi, A. Rosselli, G. Raboni e M.L. Spaziani e S. Ramat, eredi della tradizione ermetica, E. Cacciatore autore di un personale sperimentalismo, e E. Clementelli, E.F. Accrocca, M. Socrate vicini alle esperienze degli anni Cinquanta; e poi gli autori che provenivano dalle polivalenti proposte teoriche cui si è accennato, M. Bettarini, F. Cavallo da una parte, A. Spatola, M. De Angelis, G. Conte, M. Cucchi dall'altra. Ma al di fuori delle linee affidate in prevalenza alle riviste, hanno operato o continuano ancor oggi a operare i lombardi G. Testori e L. Erba, i romani D. Bellezza e M. Lunetta, attivi anche come narratori, e V. Magrelli, i veneti C. Ruffato, F. Doplicher, V. Zeichen, il lucano V. Riviello, che segnano in diversa misura l'avvento di una nuova generazione.
Ma i poeti più rappresentativi sono G. Giudici, che dopo La vita in versi (1965) e Il male dei creditori (1971) ha continuato la sua ''autobiologia'', tra sgomento dell'esistere e anelito della vigilia come è stato detto, in Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1985) una sapiente contaminazione provenzaleggiante, e Prove del teatro (1989); e A. Zanzotto, che ha realizzato in un linguaggio che risale fino alle radici della vita e dell'espressione i testi più drammatici sulla condizione storica ed esistenziale dell'uomo (La beltà, 1968; Pasque, 1973; Il Galateo in bosco, 1978; Fosfeni, 1983; Idioma, 1986; Gli sguardi, i fatti e senhal, 1990). Un posto particolare ha la poesia dialettale, che ha recuperato un suo peso letterario con personalità quali il ligure E. Firpo, il veneto B. Marin, il lombardo F. Loi, il romagnolo T. Guerra, il romano M. Dell'Arco, il lucano A. Pierro, il siciliano I. Buttitta.
Anche il romanzo degli anni Settanta annovera autori e titoli di grande importanza. A cominciare da C.E. Gadda, di cui venivano riprese anche opere di anni lontani, Novella seconda (1971) e l'abbozzo di sistema filosofico Meditazione milanese (1974, un anno dopo la morte dello scrittore); nel 1981 uscivano Le bizze del capitano in congedo e altri racconti, nel 1983 il Racconto italiano di ignoto del Novecento, nel 1992 I Luigi di Francia; nel 1988 erano uscite le Lettere a Gianfranco Contini 1934-1967, a cura dello stesso destinatario. Nel 1971 con Io e lui A. Moravia accentuava ulteriormente una tematica sul sesso che avrebbe poi trovato larga sede in numerosi altri romanzi (La vita interiore, 1978; 1934, 1982; L'uomo che guarda, 1985; Il viaggio a Roma, 1988) e racconti (Il Paradiso, 1970; Boh, 1976; La villa del venerdì, 1990, ecc.), e allargava i suoi interessi con ampi saggi dall'URSS, dalla Cina, dall'Africa. Né di minor rilievo è stata in quegli anni la produzione di E. Morante, che nel 1974 ha pubblicato un romanzo, La Storia, che ha avuto una vasta eco ed ha costituito una notevole novità nell'impegno non solo letterario dell'autrice, della quale nel 1982 è uscito l'ultimo romanzo, Aracoeli. Ancora più intensa è stata negli anni Settanta la produzione di T. Landolfi (Le labrene, 1974; A caso, 1975; Del meno, 1978); di N. Ginzburg (Mai devi domandarmi, 1970; Vita immaginaria, 1974; Famiglia, 1977), molto presente anche con testi teatrali; di C. Bernari (Un foro nel parabrezza, 1971; Tanto la rivoluzione non scoppierà, 1976; Il giorno degli assassinii, 1980); di P. Levi con opere legate ora al mondo della tecnica (Il sistema periodico, 1975; La chiave a stella, 1978) ora ancora al trauma della guerra e della prigionia (Se non ora quando?, 1982; I sommersi e i salvati, 1986). Era intanto continuato con generosa abbondanza l'arduo e provocatorio manierismo di G. Manganelli (Agli dei ulteriori, 1972; A e B, 1975; Centuria, 1979; Angosce di stile, 1981; Laboriose inezie, 1986; Improvvisi per macchina da scrivere, 1989; Encomio del tiranno, 1990; La palude definitiva, 1991; Il presepio, 1992; Esperimento con l'India, 1992), mentre la narrativa di L. Malerba approdava o a interessi sul nostro tempo (Il pianeta azzurro, 1987; Le pietre volanti, 1992) o a romanzi di impianto storico (Il fuoco greco, 1990).
Una rassegna degli autori in piena attività di servizio in quel decennio non può tralasciare i nomi dei più anziani M. Soldati, A. Banti, L. Bigiaretti, A.M. Ortese, C. Levi, L. Romano, G. Petroni, D. Buzzati, G. Manzini, V. Pratolini, L. Compagnone, M. Tobino e l'originalissimo A. Pizzuto o dei poco meno anziani C. Cassola, G. Bassani, G. Berto, M. Prisco, R. La Capria, A. Bevilacqua, G. Parise, G. Arpino, D. Troisi, F. Camon, S. Strati, F. Sanvitale, F. Tomizza, G. Gramigna, O. Ottieri e i cattolici M. Pomilio, R. Doni, G. Montesanto, F. Ulivi, né un narratore, e poeta, a sé stante come G. Bonaviri con la sua ricca invenzione fantastica che si alimenta a culture classiche e medievali. Né sono mancati negli anni Settanta alcuni casi letterari, come l'emergere dopo la loro scomparsa di autori rimasti sconosciuti, G. Morselli (Roma senza papa, 1974; Contropassato prossimo, 1975; Dissipatio H. G., 1977, ecc.) o S. Satta (Il giorno del giudizio, 1977) o come la pubblicazione, accompagnata da un certo clamore, del vasto romanzo di S. D'Arrigo Horcynus Orca (1975) scritto in un italiano largamente arricchito dal siciliano.
Ma a segnare i caratteri e gli alti livelli della narrativa degli anni Settanta, perduranti fino agli Ottanta e Novanta, sono state ancor più le opere di I. Calvino e L. Sciascia. Calvino, superati i residui di una stagione che era nata col neorealismo, ha dato vita a una serie di opere il cui fondamento comune potrebbe rintracciarsi nella capacità di tradurre schemi e modelli narratologici in racconti vivi e, insieme, tecnicamente ineccepibili (Le città invisibili, 1972; Il castello dei destini incrociati, 1973; Se una notte d'inverno un viaggiatore, 1979; Palomar, 1983; Cosmicomiche vecchie e nuove, 1984; Sotto il sole giaguaro, 1986; La strada di San Giovanni, 1990), né meno originali sono i suoi libri di saggistica varia e letteraria (Una pietra sopra, 1980; Collezione di sabbia, 1984; Lezioni americane, 1988; I libri degli altri e Perché leggere i classici, 1991). L. Sciascia, dopo i romanzi degli anni Sessanta ambientati in una Sicilia inquinata dalla mafia (Il giorno della civetta, 1961; A ciascuno il suo, 1966) ha continuato ad alternare una produzione narrativa tra racconto poliziesco e intervento politico (Il contesto, 1971; Todo modo, 1974; Candido, 1977, ecc.) con una saggistica fortemente impegnata nell'attualità (L'affaire Moro, 1978; Nero su nero, 1979) e interessata anche a problemi letterari (La corda pazza, 1970) e sempre incrementando con una fertile alacrità la sua presenza nel campo della letteratura e della cultura (Il teatro della memoria, 1981; Cronachette, 1985; Una storia semplice, 1989; A futura memoria, 1990).
Altrettanto intensa è stata, nel campo del teatro, l'attività di D. Fo autore di testi teatrali fortemente legati alla sua stessa recitazione e sempre contraddistinti da una corrosiva e violenta critica nei confronti del potere (Legami pure che tanto spacco tutto lo stesso, 1969; Morte accidentale di un anarchico, 1970; Pum! Pum! Chi è? La polizia!, 1972; Guerra di popolo in Cile, 1973), e di G. Rodari come autore di una letteratura per l'infanzia portata a livello scientifico (Grammatica della fantasia, 1973) ma senza che ne andasse dispersa la vena fantastica (Filastrocche in cielo e in terra, 1960; Favole per telefono, 1962; Gli affari del signor Gatto, 1972; Novelle fatte a macchina, 1973).
L'arrivo degli anni Ottanta non muta visibilmente le linee del panorama letterario, ma piuttosto le perpetua in una prolungata serie di proposte e di polemiche e, insieme, in ripetuti tentativi di fare ordine selezionando e catalogando testi e autori in numerose antologie compilate da scrittori personalmente impegnati nelle dispute letterarie (A. Berardinelli, F. Cordelli, Il pubblico della poesia, 1975; A. Porta, Poesia degli anni Settanta, 1979) o con intenti meno militanti e più accademici (G. Contini, Letteratura dell'Italia unita, 1861-1968, 1968; P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, 1981) e continuate negli anni più vicini. In una situazione così movimentata, la rivista Alfabeta, che riprendeva in parte le posizioni della neoavanguardia, avviò nel 1983 un dibattito su Il senso della letteratura, cui sarebbe seguito l'anno dopo un convegno palermitano con la medesima intitolazione, in cui si dibatterono i rapporti fra letterario ed extraletterario e si individuarono le due tendenze degli ''espressionisti'' e dei ''neoromantici''.
Ma ciò che ne è sortito è stata piuttosto la denuncia del disorientamento e del senso del precario che non indicazioni ottimistiche per il presente e il futuro, con esplicite punte critiche verso l'invadenza delle comunicazioni di massa e i condizionamenti editoriali, ma rimettendo anche in discussione la figura dello scrittore e il rapporto autore-lettore che passa ormai attraverso una non più facile distinzione tra letteratura di ricerca e letteratura di consumo. Le discussioni o le diatribe hanno trovato i loro luoghi più adatti in una lunga serie di riviste specializzate (In forma di parole, Il piccolo Hans, Marka, Quaderni di critica, Per approssimazione, L'immaginazione, ecc.).
Per quanto riguarda la produzione di testi, si registra la permanenza di autori già sicuramente collaudati, da E. Sanguineti, che ha raccolto in Segnalibro (1982) trent'anni di attività poetica, a F. Fortini, che nelle poesie di Passaggio con serpente (1984) riprende la dialettica già svolta in Questo muro (1973) fra ordine e disordine, sconfitta e riscatto, enigma e ragione, vita e morte; a P. Volponi, che nelle segmentazioni tematiche di Corporale (1974) aveva dato la rappresentazione angosciata dell'uomo contemporaneo dominato dall'incubo di una catastrofe di cui si danno gli esiti in Il pianeta irritabile (1978); Il lanciatore di giavellotto (1981) spostava invece i tempi agli anni del fascismo e, dopo l'intermezzo poetico di Con testo a fronte (1986), Le mosche del capitale (1989) affrontava il mondo dell'industria negli anni del neocapitalismo, e La strada per Roma (1991) riprendeva il tema della giovinezza in un romanzo la cui stesura risaliva agli anni Sessanta.
Si può comunque dire che in genere gli anni Ottanta hanno fornito indicazioni interessanti nel campo della narrativa piuttosto che in quello della poesia. Il decennio si apre infatti con il successo mondiale del romanzo di U. Eco Il nome della rosa (1980), dove un'abile architettura da romanzo poliziesco e una sapiente ricostruzione storica del secolo 14° unite a uno stile di ottima lega assicurano un'alta resa letteraria; ed è sempre Eco a concluderlo con Il pendolo di Foucault (1988), complesso romanzo in cui epoche e idee s'intersecano e si confrontano, nel crogiolo di tragici eventi contemporanei, riferimenti magico-cabalistici e humour esorcizzante. Gli anni che seguono vedono comparire per la prima volta altri nomi, anche se non giovani, come G. Rugarli (La Troga, 1988); G. Bufalino (Diceria dell'untore, 1981; Argo il cieco, 1984; L'uomo invaso, 1986; Le menzogne della notte, 1988; La luce e il lutto, 1988; L'isola nuda, 1989; Qui pro quo, 1991) e C. Samonà (Fratelli, 1978; Il custode, 1983); V. Consolo, che dopo Il sorriso dell'ignoto marinaio del 1976, ha pubblicato Retablo (1981), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo, casa per casa (1992).
Accanto a essi è comparsa una nuova generazione di narratori, in alcuni dei quali prevale una vena autobiografica tradotta in una scrittura libera da freni sia morali che stilistici che lasciano ancora aperto il giudizio (P. V. Tondelli, A. Busi) mentre altri (D. Maraini, F. Cordelli, A. Tabucchi, V. Cerami, G. Montefoschi, D. Del Giudice, A. De Carlo, ecc.) sembrano fondarsi, ciascuno a suo modo, su moduli meno estemporanei e probabilmente più solidi. La molteplicità dei modi o delle mode e il numero di autori forniti di ottimi mezzi ma non ancora in grado di dominare il panorama letterario e di segnarne il carattere con la loro opera, si registra, e forse in maggiore misura e con minore resa, nel campo della poesia, ricco forse più di dibattiti che di testi probanti, impegnato in un'indefessa ricerca di una via nuova al di là di sperimentalismi ormai datati o di rischiosi neoimpegni.
La sensazione generale di fronte alla produzione letteraria degli anni Novanta è perciò quella di una condizione assai movimentata ed eclettica, in cui è più facile registrare le singole opere valide che non le comuni coordinate di cultura e di gusto, come pure altre volte era accaduto nel corso del secolo 20° seguendo i vari ''ismi'' che si erano succeduti e che ora sembrano lasciare spazio a più disordinate, o forse più libere, scelte.
Bibl.: Opere generali: AA.VV., 900, 10 vol., Milano 1979-80; R. Luperini, Il Novecento, 2 vol., Torino 1981; G. Spagnoletti, La letteratura italiana del nostro secolo, Milano 1985; G. Manacorda, Letteratura italiana d'oggi 1965-1985, Roma, 1987. Cfr. inoltre: W. Pedullà, L'estrema funzione, Padova 1975; F. Cordelli, Il poeta postumo, Cosenza 1978; G. Finzi, Poesia in Italia. Montale, novissimi, postnovissimi, Milano 1979; P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Torino 1979; T. Kemeny, C. Viviani, I percorsi della nuova poesia, Napoli 1980; M. D'Ambrosio, Perverso controverso, ivi 1981; F. Piemontese, Dopo l'avanguardia, ivi 1981; G. Borghello, Linea rossa, Venezia 1982; R. Carifi, Il gesto di Callicle, Milano 1982; F. Muzzioli, Teoria e critica della letteratura delle neoavanguardie italiane degli anni sessanta, Roma 1982; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983, Milano 1983; A. Barbuto, Le fedeltà precarie, Roma 1983; A. Berardinelli, Il critico senza mestiere, Milano 1983; G. Ferretti, Il bestseller all'italiana, Bari 1983; W. Pedullà, Miti, funzioni e buone maniere di fine millennio, Milano 1983; G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, ivi 1983; C. Ferrucci, La letteratura dell'utopia, ivi 1984; M. Forti, Prosatori e narratori del Novecento italiano, ivi 1984; A. Giuliani, Autunno del Novecento, ivi 1984; M. Lunetta, Da Lemberg a Cracovia, Siena 1984; D. Marianacci, La cultura degli anni '80, Foggia 1984; E. Mondello, Gli anni delle riviste, Lecce 1985; R. Rinaldi, Il romanzo come deformazione, Milano 1985; G. Borghello, Il simbolo e la passione, ivi 1986; N. Merola, Il poeta e la poesia, Napoli 1986; G. Pullini, Tra esistenza e coscienza. Narrativa e teatro del '900, Milano 1986; S. Lanuzza, Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, ivi 1987; G. Savarese, I colori di Carmen, Roma 1988; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; G. Manacorda, Letteratura nella storia, 2 voll., Caltanissetta-Roma 1989; V. Spinazzola, Dopo l'avanguardia, Bologna 1989; G. Vigorelli, Carte d'identità, Milano 1989; S. Giovanardi, La favola interrotta, Bologna 1990; V. Stella, L'intelligenza della poesia, Roma 1990; W. Pedullà, Lo schiaffo di Svevo, Milano 1990; G. Finzi, Crepuscolo della scrittura, ivi 1991; R. Pagnanelli, Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, ivi 1991; S. Pautasso, Gli anni Ottanta e la letteratura, ivi 1991; S. Ramat, Particolari. Undici letture novecentesche, ivi 1992; L. Vetri, Letteratura e caos. Poetiche della ''neo-avanguardia'' italiana degli anni Sessanta, ivi 1992; G. De Marco, Fictio. Esperienze di lettura sulla poesia italiana del Novecento, Udine 1993; W. Pedullà, Le caramelle di Musil, Milano 1993.
Archeologia classica − L'attività archeologica svolta in I. nell'ultimo quindicennio è trattata in questa Appendice regione per regione. Si rimanda quindi alla sezione ''archeologia'' delle singole voci.
Archeologia medievale. - Il secondo dopoguerra, e in particolare l'ultimo trentennio, hanno rappresentato per l'archeologia medievale italiana il vero e proprio periodo formativo; è infatti solo a partire dagli anni Sessanta che nel nostro paese si è andata sviluppando un'autonoma disciplina scientifica indirizzata all'analisi archeologica del mondo medievale.
A una ripresa generale d'interesse storico per il Medioevo nel suo complesso, testimoniata per es. già all'inizio degli anni Cinquanta dalla fondazione del Centro italiano di studi sull'Alto Medioevo di Spoleto, non aveva infatti corrisposto un'analoga attenzione alle problematiche medievali da parte della cultura archeologica italiana, ancora fortemente legata a una concezione classicistica e storico-artistica, maturata nel periodo prebellico (Manacorda 1982; Delogu 1986). Testimonia questa circostanza il fatto che le prime ricerche archeologiche su siti medievali del nostro paese, seppure incoraggiate e indirizzate da storici italiani quali G.P. Bognetti e C.G. Mor, vennero realizzate da ricercatori stranieri, come nel caso degli scavi di Castelseprio (Varese) e Torcello (Venezia), condotti dall'Istituto di storia della cultura materiale di Varsavia (Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski 1977; Dabrowska, Leciejewicz, Tabaczynska, Tabaczynski 1978-79), o quello dell'insediamento altomedievale di Invillino (Udine), condotto dall'Istituto di preistoria di Monaco (Bierbrauer 1987-88).
Nonostante questo iniziale ritardo rispetto alle esperienze che già nei decenni precedenti si erano andate sviluppando nell'Europa occidentale, l'archeologia medievale italiana si è affermata quale autonoma disciplina scientifica con grande rapidità proprio nel decennio 1965-75, sia sotto il profilo istituzionale sia sotto quello più strettamente scientifico. Nel 1966 fu attivato il primo insegnamento di Archeologia medievale presso l'Università Cattolica di Milano; contemporaneamente prendeva vita il Museo dell'Alto Medio Evo di Roma, mentre negli anni successivi venivano assunti i primi ispettori medievisti presso le Soprintendenze archeologiche. Si sviluppava intanto l'iniziativa del Corpus della Scultura Altomedievale Italiana, a cura del Centro di Spoleto, sorgeva in Liguria quello che sarebbe poi divenuto (1981) l'Istituto per la storia della cultura materiale, nascevano occasioni di dibattito (Tavola rotonda, 1976) e riviste specializzate − in particolare dapprima il Notiziario di Archeologia Medievale e in seguito Archeologia Medievale -, attorno alle quali andava coagulandosi il dibattito teorico sullo sviluppo della disciplina e il confronto tra le esperienze di ricerca condotte in I. e in Europa. Proprio il sottotitolo della rivista Archeologia Medievale - Cultura Materiale, Insediamenti, Territorio - può indicare quelle che sono state le grandi direttrici di ricerca dell'archeologia medievale italiana nell'ultimo ventennio.
La grande rivalutazione teorica in ambito storico dello studio della cultura materiale, cioè dell'insieme delle conoscenze circa l'organizzazione produttiva, della distribuzione e del consumo dei beni (Kula 1972, pp. 61-69; Carandini 1975, pp. 95-102), inteso quale strumento fondamentale per la ricostruzione di processi storici di lungo periodo, ha condotto ad approfondire lo studio di alcuni dei materiali più diffusi nel mondo medievale − in particolare la ceramica, ma anche i vetri e i metalli − che costituiscono la maggior parte dei reperti provenienti dalle stratificazioni di epoca medievale.
In questo senso lo studio tipologico dei manufatti ceramici provenienti da scavi stratigrafici ha condotto alla costruzione di seriazioni precise, suddivise per epoche e luoghi di produzione, che permettono oggi di avere un repertorio sufficientemente completo delle produzioni ceramiche italiane di età pieno e basso medievale (Francovich 1982), fino a giungere all'età rinascimentale e post-rinascimentale (Ricci 1985; Gelichi 1988), mentre molto lavoro rimane ancora da fare nello studio dei materiali ceramici di epoca altomedievale. Per altri versi, l'analisi dei corredi tombali rinvenuti nelle necropoli di epoca gota e longobarda ha consentito di ricostruire le linee fondamentali della cultura e dell'organizzazione sociale dei popoli che migrarono in I. dopo la caduta dell'Impero romano (von Hessen, Peroni, 1979; Melucco Vaccaro, 1982).
Per quanto riguarda lo studio delle tipologie insediative, gli ultimi decenni hanno visto l'affermarsi dell'archeologia urbana come disciplina volta all'applicazione del metodo archeologico stratigrafico allo studio della città nel costituirsi e nel divenire del suo tessuto urbanistico, dei suoi nuclei abitativi, monumentali e non, dei suoi edifici pubblici, civili e religiosi. Le iniziative di restauro di edifici monumentali − è il caso, per es., della torre civica di Pavia (Hudson 1981), o del palazzo dei Vescovi a Pistoia (L'antico palazzo, 1985), o ancora dell'Ospedale di S. Maria della Scala a Siena (Santa Maria della Scala, 1991) −, di recupero e risanamento di interi settori di centri storici − si citeranno i casi di Roma (Manacorda 1981) e Napoli (Arthur 1985) −, o anche di creazione di nuovi servizi pubblici − è il caso per es. della nuova metropolitana di Milano (Brogiolo 1987; Scavi MM3, 1991) − si sono trasformate in altrettante occasioni per compiere importanti indagini archeologiche che gettano nuova luce sui processi di trasformazione dei grandi centri urbani della nostra penisola in epoca medievale. Nello sviluppo dell'indagine archeologica dei centri abitati, accanto allo scavo vero e proprio − la cui conduzione si rivela spesso problematica all'interno di grandi agglomerati urbani (Carver 1983) − un ruolo di grande importanza viene assumendo l'applicazione del metodo archeologico-stratigrafico allo studio degli elevati, una pratica di analisi non distruttiva che, applicata in occasione di interventi di restauro di edifici pubblici e privati attraverso una proficua collaborazione tra architetti, storici dell'arte e archeologi, può fornire un contributo di eccezionale importanza in termini di conoscenza storica (Archeologia e restauro, 1988).
Accanto all'indagine archeologica in ambiente urbano, un fondamentale contributo alla conoscenza delle tipologie insediative medievali nel nostro paese è stato fornito negli ultimi decenni dallo studio dei siti medievali abbandonati, in particolare di quegli insediamenti castrali sorti per particolari necessità difensive o economiche e successivamente abbandonati allorché vennero meno tali esigenze. In questi casi è possibile condurre un'indagine estensiva su tutto l'insediamento, raccogliendo così una messe di informazioni non solo circa i modelli insediativi, le tipologie abitative, i sistemi difensivi, ecc., ma arrivando − anche attraverso una consapevole applicazione di moderne tecniche di analisi scientifica a campioni di materiali organici e inorganici − a cogliere, per es., aspetti importanti dell'organizzazione sociale e produttiva di un villaggio di minatori e fonditori in Toscana (Francovich 1985) o a ricostruire i sistemi di approvvigionamento e le modalità dei consumi di un insediamento fortificato della Sicilia medievale (Pesez 1984).
Per quanto riguarda infine le indagini su scala territoriale, gli ultimi decenni sono stati segnati dal progressivo affermarsi − anche e soprattutto sulla scia dell'esperienza britannica − di una nuova concezione della ricerca archeologica in ambiente extraurbano, che vede un intero territorio (insediamenti, strade, terreni coltivati, boschi, aree incolte, corsi d'acqua) come un grande contesto unitario da studiare attraverso l'impiego di metodi d'indagine diversificati, dalla ricognizione generale alla topografia archeologica intensiva, all'uso di tecniche scientifiche di prospezione archeologica, fino all'esecuzione di scavi mirati su siti di particolare interesse (Fowler 1990; Finzi 1990). L'utilizzo coordinato di questo tipo di indagini ha fornito risultati di grande interesse, permettendo di ricostruire intere aree del paesaggio italiano nel Medioevo, cogliendone in particolare le fasi di mutamento, per es. nel passaggio tra Tarda Antichità e Alto Medioevo (Potter 1975) o nel periodo delle migrazioni barbariche (Hudson, La Rocca Hudson 1985), fino ad arrivare a una lettura diacronica integrale di un territorio dalle prime fasi del suo popolamento all'età contemporanea (Ferrando Cabona, Gardini, Mannoni 1978). Vedi tav. f.t.
Bibl.: W. Kula, Problemi e metodi di storia economica, Milano 1972; A. Carandini, Archeologia e cultura materiale, Bari 1975; T.W. Potter, Recenti ricerche in Etruria meridionale: problemi della transizione dal tardo antico all'alto medioevo, in Archeologia Medievale, 2 (1975), pp. 215-36; Tavola rotonda sull'archeologia medievale. Roma 1975, Roma 1976; L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Torcello. Scavi 1961-62 (Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte, monografie, 3), ivi 1977; I. Ferrando Cabona, A. Gardini, T. Mannoni, Zignago 1: gli insediamenti e il territorio, in Archeologia Medievale, 5 (1978), pp. 273-374; T. Mannoni, Medieval archaeology in Italy: a survey, in Papers in Italian Archaeology I: the Lancaster Seminar, a cura di H. Mck. Blake, T.W. Potter, D.B. Whitehouse (British Archaeol. Reports, Suppl. Ser., 41), Oxford 1978, ii, pp. 303-11; M. Dabrowska, L. Leciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczynski, Castelseprio: scavi diagnostici 1962-63, in Sibrium, 14 (1978-79), pp. 1-138 (con bibl.); O. von Hessen, A. Peroni, Die Langobarden in Pannonien und in Italien, in Propyläen Kunstgeschichte, Suppl. iv, Berlino 1979, pp. 164-79; D. Manacorda, Archeologia urbana a Roma: il progetto della Crypta Balbi, Firenze 1981; P. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, ivi 1981; R. Francovich, La ceramica medievale a Siena e nella Toscana meridionale (sec. XIV-XV), ivi 1982; D. Manacorda, Per una storia dell'archeologia italiana durante il ventennio fascista, in Archeologia Medievale, 9 (1982), pp. 443-70; A. Melucco Vaccaro, I Longobardi in Italia. Materiali e problemi, Milano 1982; M.O.H. Carver, Valutazione strategia ed analisi nei siti pluristratificati, in Archeologia Medievale, 10 (1983), pp. 49-73; A. Melucco Vaccaro, Matrici culturali e struttura del Museo dell'Alto Medioevo in Roma, ibid., pp. 7-18; L. Paroli, Prospettive per un museo archeologico medievale di Roma, ibid., pp. 19-42; Brucato, Histoire et archéologie d'un habitat médiéval en Sicilie, a cura di J.-M. Pesez (Collection de l'Ecole Française de Rome, 78), Roma 1984; P. Arthur, Naples: Notes on the economy of a dark age city, in Papers in Italian Archaeology IV: the Cambridge Conference (British Archaeol. Reports, Int. Ser., 246), Oxford 1985, iv, pp. 247-60. P.J. Hudson, M.C. La Rocca Hudson, Lombard immigration and its effects on North Italian and urban settlements, ibid., pp. 225-46; L'antico palazzo dei vescovi a Pistoia, ii, Indagini archeologiche, a cura di G. Vannini, Firenze 1985; R. Francovich, Per la storia della metallurgia e dell'insediamento medievale sulla costa toscana: lo scavo nel villaggio minerario di San Silvestro, ivi 1985; M. Ricci, La maiolica, in Archeologia urbana a Roma: il progetto della Crypta Balbi. 3. Il Giardino del Conservatorio di S. Caterina della Rosa, a cura di D. Manacorda, ivi 1985; P. Delogu, Archeologia medievale, un bilancio di vent'anni, in Archeologia Medievale, 13 (1986), pp. 493-506; Archeologia e storia del medioevo italiano, a cura di R. Francovich, Roma 1987; G.P. Brogiolo, Milano e il suo territorio alla luce dell'archeologia medievale, in Milano, una capitale da Ambrogio ai Carolingi, a cura di C. Bertelli, Milano 1987, pp. 32-47; V. Bierbrauer, Invillino-Ibligo in Friaul, 2 voll., Monaco 1987-88; Archeologia e restauro dei monumenti, a cura di R. Francovich, R. Parenti, Firenze 1988; S. Gelichi, La maiolica italiana della prima metà del XV secolo. La produzione in Emilia Romagna e i problemi della cronologia, in Archeologia Medievale, 15 (1988), pp. 65-104; P.J. Fowler, Site landscape and context, in Lo scavo archeologico dalla diagnosi all'edizione, a cura di R. Francovich, D. Manacorda, Firenze 1990, pp. 121-32; E. Finzi, L'impiego delle tecniche geofisiche per l'individuazione di preesistenze antropiche, ibid., pp. 169-202; Scavi MM3. Ricerche d'archeologia urbana a Milano durante la costruzione della linea 3 della metropolitana, 1982-1990, a cura di D. Caporusso, Milano 1991; S. Tabaczynski, D. Whitehouse, s.v. Archeologia Medievale, in Enciclopedia dell'Arte Medievale, ii, Roma 1991, pp. 268-76; Santa Maria della Scala. Archeologia e edilizia sulla piana dello Spedale, a cura di E. Boldrini e R. Parenti, Firenze 1991.
Arte. - Uno sguardo sull'attività artistica in I. alla metà degli anni Settanta restituisce un ampio panorama: accanto a significative ricerche di personalità singole, con poetiche non schematicamente classificabili ma comunque fondate sulla coscienza critica di un proprio statuto formale e su una ben precisa identità della ragion d'essere dell'arte come realtà autonoma e disciplina che ha in sé il proprio valore, si rileva una linea pittorica analitica che riflette con metodicità razionale ed empirica sulla processualità percettiva e sulla tecnica del proprio fare (quale mezzo che oggettiva la conoscenza e quale pratica significante nella verifica organizzativa delle sue componenti primarie: superficie-supporto, colore, segno) e un'area di perentorie presentazioni minimaliste. Altri aspetti si colgono nelle inesauribili proposte dell'arte povera, nelle rarefazioni metaoperative del concettuale, nelle polivalenti esibizioni comportamentali, nelle indagini fenomeniche sullo spazio e sull'ambiente, nelle articolazioni logoiconiche e visuali della scrittura, nelle fotografiche serialità narrative, ecc.
Nel quadro complessivo appare prepotente, pur tra alterne sollecitazioni, l'orientamento alla fredda analiticità, all'asetticità dell'enunciato concettuale, alla dematerializzazione dell'opera o a una sua assimilazione alla fisicità naturale dei materiali poveri, a una dimensione, in generale, più mentale che visiva, o meglio a una dimensione visiva intellettualisticamente allusa piuttosto che costruita ''canonicamente'' e manualmente: dissacrazioni, provocazioni e motivi eterogenei, politici, sociali, culturali, diffusamente volgarizzati, privando l'arte di una sua individua entità, portano al di là della concezione dell'artista faber ed espressivo, detentore di una tecnica organizzata. Nel declinare del decennio si evidenzia, però, l'esigenza di una rimeditazione sulla specificità degli strumenti e dei linguaggi delle categorie codificate di pittura e scultura, a cui si accompagna una più diretta efficacia comunicativa in senso figurativo. Incondizionato era, infatti, lo sconfinamento del territorio e delle modalità dell'arte al fine di annullare o rendere onnicomprensiva la nozione stessa di arte: la ''s-definizione'' dell'arte era stata infatti dilatata nelle direzioni più diverse del progetto, dell'oggetto ready-made (estrapolato dal suo contesto e investito di nuove intenzionalità in una sorta di normalizzazione alla Duchamp), del concetto, della scrittura e dell'azione nei più inusitati campi della cosiddetta ricerca estetica spesso multimediale, aperta alle più avanzate tecnologie e a una coinvolgente spettacolarizzazione dell'evento. Emergono così, talora perfino all'interno di tale situazione, aspirazioni a ritrovare connotati e valori originari dell'arte, attingendo da fonti diverse e con ragioni diverse, nell'ambito della tradizione. Questa riconsiderazione dello specifico storico-artistico è un dato più volte indicato quale necessità primaria, ma con argomentazioni e finalità di ben altra natura, per es. da C. Brandi e da G.C. Argan e, per altri versi, diagnosticato da M. Calvesi quale "ritorno all'ordine", quale possibile reazione alla sterile valanga ''mentale'', alla sua rielaborazione consumistica e alla fortuna di massa delle neoavanguardie che ne sancisce l'esautoramento. La tendenza a destabilizzare il concettualismo (sia esso linguistico-tautologico, numerico-cerebrale, ideale-noetico o comportamentale) adopera, con insistenza e con differenziate varianti, la ''citazione'' dell'''immagine storica'', in un ripiegamento non certo drammatico nel passato, e riassume la pratica manuale esercitandola su una materia cui dare forma, quale insostituibile tramite all'esserci dell'opera per una ricostituenda unità tra opera d'arte e operazione artistica nell'attesa o nella presunzione di un'arte superiore. S'impone così oltre alla fine dell'anatema contro la storia e il museo, contro le consolidate tecniche di pittura e scultura, la fine dell'imperativo imprescindibile della ''modernità'' a ogni costo, e ciò nella scia del polivalente termine di ''postmoderno'' − per usare una formula riassuntiva ma approssimativa come sempre le formule −, dichiaratamente regressivo.
In un processo non certo nuovo e presente anche nelle esperienze prossime degli anni Sessanta, soprattutto di declinazione pop tramite la citazione-infrazione, la traduzione ''mediale'', talora ''contaminata'' da interventi manuali, di stereotipi iconografici assunti pure dalla cultura ''alta'' dell'arte con prensilità diffusa − prensilità di cui C. Pozzati (n. 1935) costituisce un lucido esempio, si viene affermando, con modalità e intenti anche divergenti, una attrazione a rifrequentare la storia, attrazione già avvertita peraltro nello stesso ambito concettuale-comportamentale, quasi anelito a un'anima concreta, intrisa di immagini simboliche. Tale attrazione è espressa, per es., da G. Paolini (n. 1940) con implicazioni varie, da J. Kounellis (n. 1936) con rivisitazioni mitico-antropologiche, da V. Pisani (n. 1935) con variazioni ''critiche'' su Duchamp e con altre incursioni storiche alchemicamente elaborate, da L. Ontani (n. 1943) con narcisistici Tableaux vivants e con gigantografie, o ancora da Salvo (S. Mangione, n. 1947) con effrattive copie ''omaggi'' ai maestri con tecniche ''antiche'' e con interventi di sostituzione, e da L. Fabro (n. 1936) con recupero di materiali di opulenta tradizione artigianale. Tutti questi artisti si trovarono convogliati, a eccezione di V. Pisani, nella tematica di una mostra del 1974 a Milano, La ripetizione differente, a cura di R. Barilli. La mostra, accanto ad artisti stranieri quali A. e P. Poirier (nati 1942), E. Arroyo (n. 1937), J. Baldessari (n. 1931), includeva, tra l'altro, le citazioni multiple di V. Adami (n. 1935), di E. Tadini (n. 1927), e i puzzles kitsch di E. Baj (n. 1924) e di U. Nespolo (n. 1941), a documentare tre livelli di "ripetizione differente": iconico, concettuale e comportamentale.
Questa ''presenza del passato'' è sintomo della ricerca di una gratificazione connessa non più soltanto all'eventuale validità di una scelta concettuale ma all'auspicata ''godibilità'' emotiva del manufatto: essa viene ad articolarsi sulla centralità del fare in cui coesistono polarità contrapposte e disinvolte, libere riproposizioni o evocazioni o parodie delle ''icone'' museali o delle immagini popolari-folcloriche con cadenze di sofisticata o primitiva stilizzazione e con segni di ''cattiva pittura''. Tale situazione è presentata non come ripudio dei "caratteri sessantotteschi" ma come "un riassestamento interno" per una "svolta qualitativa, dopo un programma sviluppato prevalentemente nei suoi aspetti quantitativi" alla rassegna Dieci anni dopo. I Nuovi-nuovi, curata da R. Barilli, F. Alinovi e R. Daolio alla Galleria comunale d'arte moderna di Bologna nel 1980.
La citazione del ''passato'', già reinterpretata da Salvo e Ontani, accanto al prelievo con cambio di registro e con il distacco insito nella simulazione, trova ulteriori declinazioni ironiche, leggere, arcaiche o decorative da parte di L. Mainolfi (n. 1948), G. Maraniello (n. 1945), L. Bartolini (n. 1948), M. Jori (n. 1951), A. Spoldi (n. 1950), F. Levini (n. 1956), G. Pagano (n. 1954), G. Salvatori (n. 1955), E. Barbera (n. 1947), B. Benuzzi (n. 1951), A.M. Faggiano (n. 1946), Wal (n. 1947), sfocianti poi in percorsi diramati di diverso rilievo. Lo stesso Barilli, mentore dei Nuovi-nuovi, vede maturare la loro tecnica linguistica, indipendentemente dalla citazione, anche all'interno di una linea che, originata dalla pittura analitica, aveva modulato la sua essenzialità minimalista con amplificazioni cromatiche, svincolate dalla bidimensionalità e invadenti lo spazio-ambiente (come evidenziato nella mostra Pittura-ambiente del 1979 al Palazzo Reale di Milano), e, per altri versi, all'interno di un settore rappresentato, per es., da G. Notargiacomo (n. 1945) definito da F. Caroli del ''magico-primario'' in quanto tentativo di ritrovare la magia primaria della seduzione-piacere del colore e della istintualità mitico-metaforica. Declinazioni decorative sono, d'altra parte, svolte in contesti di evocativa o sottile narratività, pittorica e grafica, da parte di L. Alinari (n. 1943), P. Echaurren (n. 1951), ecc.
In siffatta congiuntura i Nuovi-nuovi, non chiusi ''univocamente'' nella pittura o nella scultura, esenti da revivalismo archeologico, fondono, con esperienze differenziate, iconismo e aniconismo in un libero ed errante esercizio combinatorio di elementi eterogenei, con vocazione ornamentale e ludica, simbolista e decadente, senza impeti romantici, in osmotiche interferenze, come argomenta la mostra Una generazione postmoderna del 1983 a Genova e a Roma, al Palazzo delle Esposizioni. In un'inestricabile trama pirandelliana tra esigenze reali e fittizie, tra manifestazioni ansiose e bizzarre, tra sofisticazioni mentali e figurali, il viaggio nel passato per ritrovare un futuro converte l'aspirazione alla ''purificazione'' in una pratica contaminatoria.
Ampio si configura, comunque, lo spettro delle soluzioni ''citazionistiche'' in una contrapposizione di campi spesso polemici anche nella rivendicazione di primati. Un diverso orientamento è quello che si avvale di una versione più diretta e congrua della citazione in cui l'atto referenziale al passato avviene per trasposizione letterale.
Per questo tipo di proiezione nel passato, che blocca il tempo e recupera pregressi sistemi figurativi, pregnante, accanto ad altri segnali premonitori e a fonti più lontane, quali G. De Chirico e A. Savinio, è la particolare riflessione sull'arte, sulla sua valenza qualitativa come apice verticale e sulla sua esistenza ''pura'' condotta da G. Paolini: egli, con energia intellettuale, reintroduce una coscienza quasi rituale dell'idea stessa dell'arte sostenendo il proprio pensiero con un'immagine costituita appunto dalla riproduzione meccanica di un'opera classica. Tale riproduzione, pur negando il principio di unicità dell'opera d'arte, fornisce un contributo visivo subordinato ad assunti mentali: simbolo di una bellezza concepita nel passato e offerta al presente più immoto quale veronica-oggetto di consumo, essa è il segno solitario per una meditazione attiva sull'opera d'arte riproposta, con austera metodologia scientifica, come simulacro antico, rispecchiamento, evento storico. Precorritrice è pure la posizione di C.M. Mariani (n. 1931) il quale, muovendo da una singolare mimesi del reale originato da D. Gnoli e sensibile a impianti fotografici, alla metà degli anni Settanta, sottrattosi al principio egemone del nuovo, esente dal ''citazionismo'' riflessivo della tendenza concettuale e da qualsiasi tipo di ricalco esterno − come per altri versi attuato dalle dissezioni ''anatomiche'' di C. Parmiggiani (n. 1943) e A. Trotta (n. 1937) − ritiene la copia, pittoricamente realizzata in una rivisitazione neoclassica, l'espediente per una riforma della creatività in quanto concreto esercizio manuale di un codice pittorico, connesso a una visione statica dell'arte come "inattualità di un presente metastorico".
Su questi presupposti, dallo smarrimento del concetto di qualità, dal disagio per lo sperimentalismo modernista, dall'assoluta crisi d'identità, dal rifiuto della frammentazione sparsa, si avviano percorsi fondati sulla concezione dell'''arte come storia dell'arte'', un progetto il cui destino è già nella sua storia, e sul ''sentimento della memoria'' come reintroduzione, attraverso le immagini, anche dei temi dell'esistenza e dell'inconscio collettivo quali il mito, la vita, la morte, con la prospettiva di ritrovare l'unità della pittura, pur nella consapevolezza della relatività di un recupero siffatto.
Garantendo l'autonomia delle singole scelte nel riuso di stili rigorosamente ''premoderni'', tra rinascimento e romanticismo, non senza polemiche reazioni da più parti, fra gli archetipi del museo si muovono R. Barni (n. 1939), O. Galliani (n. 1954), L. Bonechi (n. 1955), U. Bartolini (n. 1944), e con una fisionomia più univoca soprattutto A. Abate (n. 1946), S. Di Stasio (n. 1948), F. Piruca (n. 1937), i quali espongono i propri lavori assieme a S. Marrone (n. 1948), N. Panarello e P. Pizzi Cannella (n. 1955), che presto si dissocia, in Una mostra di sei pittori a Roma, nel 1980. Nella nota introduttiva, dal titolo L'inversione del tempo, si enuncia appunto una nuova idea del tempo come arresto di un incondizionato divenire, come inattualità privilegiata dell'anacronismo, come esperienza del passato estranea al presente ma reincarnante un modello primigenio, il luogo dell'originario.
Differenziate sono le interpretazioni critiche: M. Calvesi, ''eretico'' sostenitore e primo esegeta della tendenza, approfondisce, come anche M. Vescovo, l'idea di anacronismo sottolineando l'importanza della riassunzione del tempo lungo nell'operazione artistica come ricerca di valore in contrapposizione al tempismo effimero dell'affannosa ansia del nuovo. Egli peraltro connota con implicazioni di ordine psicanalitico e alchemico tale esperimento da laboratorio, allegorizzante nella nostalgia iconografica, inquieto nelle fantasie iconologiche, melanconico nell'attitudine simulacrale e solitario nella "percezione del sogno" cosciente dell'arte dimenticata. Altre letture, congiuntamente ad altri esiti di nuovi adepti, vengono da I. Tomassoni che insiste sul concetto di ipermanierismo, sminuendo il fattore citazionistico quale residuo duchampiano e privilegiando invece l'aspetto parallelo dell'interpretazione quale mezzo per immettere in un presente sospeso, inesistente, il mito dell'arte con una visionarietà metamorfica più marcata nell'ascesa "mistica alla forma assoluta"; da I. Mussa che propone la definizione di pittura colta, da G. Gatt che parla di nuova maniera verso la grande maniera. E proprio sulla dimensione tempo insiste ancora la mostra Il tempo dell'immagine, del 1983, a Spello e Foligno, che conduce alla rassegna Arte allo specchio, nell'ambito della Biennale di Venezia del 1984, curata da M. Calvesi.
Tali pittori della memoria, in particolare la pletora degli epigoni, svolgono un ruolo eteronomo di ''copisti'', al di là di un rigore filologico, inclini a fermare l'epidermide dell'immagine piuttosto che la sua sostanza conoscitiva, incuranti della possibile ricaduta in uno stile che diventa stilema, esaltati da un'operatività specifica ed esclusiva. Per ritrovare un centro ipostatizzano il passato e danno fondamento alla loro fabulazione iconica con allusioni esoteriche e di forte carica semantica. In un viaggio inverso alla vettorialità proiettiva delle avanguardie essi rivisitano un lontano passato riproponendone con sapore neo-metafisico la ''figura'', pur sempre filtrata e alterata nell'intenzionalità conservativa.
Ancora come rivisitazione del passato, ma con spinte opposte, si caratterizza il movimento denominato nel 1979 Transavanguardia.
Il movimento trova pronto sviluppo nel sistema organizzativo che lo sottende costituito da uno stretto rapporto strategico, poi dissoltosi, tra il critico-teorico A. Bonito Oliva e gli artisti di varia estrazione: S. Chia (n. 1946), F. Clemente (n. 1952), E. Cucchi (n. 1950), N. De Maria (n. 1954), M. Paladino (n. 1948). Esso, mettendo a nudo il sistema dell'arte fondato sulla coalizione programmatica di artista, critico, gallerista, collezionista, museo, mass-media e pubblico, se ne appropria propiziando percorsi redditizi con il subitaneo lancio ufficiale nella Biennale di Venezia del 1980. Con l'assunto di superare l'ideologia del "darwinismo linguistico" delle avanguardie storiche e recenti, al di là dell'ottimistica fiducia nella sperimentazione frenetica di materiali e tecniche inusitate, la transavanguardia avanza le ragioni di una soggettività frammentata e del recupero di una manualità dell'artista, attivata nelle risorte categorie di pittura, scultura e disegno, esercitandosi con toni carichi o superficiali, convulsi o lievi, aggressivi o bizzarri, scaltri o ingenui. In un eclettico e sparso citazionismo di stili più o meno prossimi, contaminati attraverso una memoria visiva ambiguamente vagante in un "nomadismo culturale" che infrange con compiaciuto e tranquillo nichilismo qualsiasi contesto determinato e qualsiasi atteggiamento nostalgico d'impossibile restaurazione, svanisce l'idea di uno stile unitario e la ricerca dell'invenzione, mentre dilaga un fenomeno di riconversione destrutturante e uno sfrenato flusso pulsionale, attento più a sentire che a vedere il colore. Superata la distinzione desueta di astratto e figurativo, attraverso l'acritica attitudine a catturare, alterandole, porzioni di storia avulse dalla loro contestualità sia formale che semantica, si sospende qualsiasi giudizio in favore dell'avanguardia o della tradizione, della cultura alta o bassa. La trama incessante di riferimenti spesso inconciliabili, offerti per lo più con segno espressionista (esasperatamente accentuato dagli epigoni) e con marcato arcaismo nel riduttivismo primitivo e nel degrado regressivo, enfatizza un'immagine aperta al libero arbitrio del simbolico e alla flagranza casuale dell'attuale. Attraversare le avanguardie in un indifferente viaggio verso il passato e verso il futuro costituisce l'essenza di un ''pensiero debole'' che fa della debolezza la sua forza. La dominante dimensione d'incertezza favorisce la trasversalità stilistica, un agire mosso da situazioni contingenti ove tutto può equivalersi ed essere legittimato.
In un'ottica di apertura fenomenologica senza teorizzazioni compatte ma, talvolta, con sodalizi alimentati pure da spazi contigui di lavoro, si attende in altri ambiti a combinare materiali, tecniche e linguaggi quasi con l'intenzione di esorcizzare la presunta sorpassata usura dei mezzi espressivi evidenziando l'inattualità positiva della pittura e della scultura. La pratica creativa e gli strumenti linguistici sono esibiti in un processo di formalizzazione di marca non univoca che aggiunge e stratifica i propri referenti (astratti, informali, minimali, figurali), concentrando la percezione sugli intrecci plastico-pittorici, quali emanazioni di una coscienza individuale e di uno stato emozionale.
Per sfuggire alle insidie omologanti di raggruppamenti arbitrari, funzionali solo a una sinteticità espositiva, va segnalato che disparati e talora divergenti sono gli elementi che distinguono gli esponenti di tale sfaccettato orientamento. Di questi esponenti, alcuni peraltro già da tempo attivi, ricordiamo: D. Bianchi (n. 1955), B. Ceccobelli (n. 1952), G. Dessì (n. 1955), G. Gallo (n. 1954), o altrimenti Nunzio (N. Di Stefano, n. 1954), G. Limoni (n. 1947), E. Luzzi (n. 1950), P. Pizzi Cannella, S. Ragalzi (n. 1951), M. Tirelli (n. 1956), o ancora D. Benati (n. 1949), S. Coccia (n. 1942), E. Consolazione (n. 1941), M. De Luca (n. 1954), P. Fortuna (n. 1950), A. Garutti (n. 1948), F. Guerzoni (n. 1948), G. Guidi (n. 1942), V. Messina (n. 1946), A. Morandi (n. 1958), A. Pandolfelli (n. 1934), Renzogallo (R. Gallo, n. 1943), L. Vollaro (n. 1949), ecc. Essi, infatti, a seconda delle singole esigenze, privilegiano di volta in volta una dimensione archetipica nell'essenzialità delle immagini, una ritualità arcaica nella presentazione frontale, suggestioni magico-misteriche nelle allusioni simboliche, componenti fabulatorie nella memoria personale del mito, un sottile sensibilismo nella sostanza materica o una più marcata espressività con atmosfere e accenti larvatamente naturalisti, una spazialità discontinua, franta da cesure sulla superficie o mossa da aggetti tridimensionali, o ancora un ordine progettuale più esplicito, con gradi differenziati di risultati e d'interna consequenzialità.
Un ulteriore, articolato settore di ricerca è quello formato da artisti che dialogano organicamente con modalità varie dell'astrazione o dell'informale ma per procedere verso altri esiti compositivi.
Alcuni di questi artisti sono di più lontana, matura e accreditata esperienza, come G. Napoleone (n. 1936), M. Bottarelli (n. 1943), R. Boero (n. 1936), C.G. Morales (n. 1942), L. Gardini (n. 1935), E. Montessori (n. 1931), G. Cittadini (n. 1933), O. Piattella (n. 1932), P. Casadei (n. 1931), F. Giuli (n. 1934), E. Gallian (n. 1941), ecc.; altri di più giovane e propizia stagione, come L. Romualdi, S. Sanna (n. 1950), F. Angelini (n. 1946), P. Jacchetti (n. 1953), P. Coletta (n. 1948), A. Violetta (n. 1953), ecc. Essi non aspirano a ripetizioni differenti, non assalgono o venerano la storia, ma proseguono, in continuità temporale, a ristrutturare la percezione visiva scandita, come indica G.M. Accame, tra "ragione e azzardo", a organizzare una sintassi spaziale, a manifestare un sentimento di misura con toni lirici di risonanza interiore, a comporre stesure di forte sostanza cromatica o a creare dissolvenze di lontana eco fenomenica. Diversissime sono le modalità con cui attuano ciò, geometriche, segniche o gestualiinformali. Alcune più rigidamente programmatiche nella polemica rispetto a certe emergenze postmoderne, con un progetto astratto radicale e con evidenti riferimenti a specifiche avanguardie storiche, mirano a effettuare una riduzione quasi ascetica degli elementi linguistici, con una scala cromatica concentrata sul nero, bianco e grigio, in una poetica sottrattiva tra vuoto e assenza, denominata da F. Menna Astrazione povera per un'Astrazione-costruzione, come rilevato da M. Carboni, dialettica tra contestualità e scarto: A. Capaccio (n. 1956), M. Rossano (n. 1955), R. Salvia (n. 1953), G. Asdrubali (n. 1955), Annibel-Cunoldi (n. 1950), ecc. Altre invece focalizzano l'attenzione sullo scontro energetico dei colori primari per un'Astrazione arcaica, secondo l'accezione di G. Cortenova: A. Celeste, Miresi, G. Olivieri (n. 1937), A. Uboldi, ecc.
Da questo ventaglio variegato di proposte si profila negli ultimissimi anni un ambiente sempre più incline alla ribalta scenica, con una proliferante moltiplicazione di giovani attori (a volte attivi anche come galleristi e critici) e di luoghi espositivi. Con un esercizio intellettualistico accademizzante s'insiste nella scia delle rivisitazioni, più o meno evidenziate, a combinare elementi contrapposti con arrangiamenti ingegnosi, a sistematizzare in un sincretismo eclettico morfologie date, a rappresentare la cronaca di ''immagini annunciate'' nell'archivio-labirinto della memoria, della città o della natura.
Modi ornati s'intercalano con pensieri freddi, strutture rigide con preziosità cromatiche coniugando desinenze di post-astrazione e post-informale con una geometria neo-minimale, una manualità ostentata con procedimenti meccanici e materiali alternativi, mentre s'inflaziona ulteriormente l'uso del ready-made nelle installazioni che mimano lo spazio della realtà esterna, e nei riciclaggi dell'oggettistica della cosiddetta Transavanguardia fredda. Inoltre, ancora con un approccio multimediale, una concettosità ricercata s'impone a opere realizzate con l'uso della fotografia, della scrittura, della serialità tra nuove seduzioni tecnologiche, microcircuiti con memorie computerizzate e narratività primitive. Si assiste insomma allo spettacolo della conciliazione dei contrari, come confermano i titoli di alcune mostre del 1988: Geometrie dionisiache a Milano, Ordine e disordine a Rimini, rispettivamente a cura di L. Vergine e R. Barilli il quale suggerisce una catalogazione critica impostata sulla figura retorica dell'ossimoro. La pluralità delle opzioni, la flagranza degli eventi e la fluidità del materiale rendono difficile ogni più puntuale precisazione talora anche all'interno dei singoli protagonisti. Si può, però, rilevare che alcuni, come per es. C. Ambrosoli (n. 1947), S. Astore (n. 1957), M. Barzagli (n. 1960), M. Bindella (n. 1957), L. Bruno (n. 1944), S. Cardinali (n. 1951), G. Cerone (n. 1957), V. Corsini (n. 1956), G. D'Alonzo (n. 1958), M. Dompè (n. 1959), A. Fogli (n. 1959), M. Folci (n. 1959), I. Gadaleta (n. 1958), P. Modica (n. 1953), C. Palmieri (n. 1955), A. Pirri (n. 1957), E. Porcari (n. 1951), A. Zelli (n. 1957), sono variamente avviati su più fertili terreni, in certi casi anche più schivi e appartati nell'approfondimento della propria ricerca.
Numerose sono le vetrine offerte ai giovani, dalla sezione Aperto della Biennale di Venezia alle esposizioni promosse dalle gallerie pubbliche, dagli assessorati alla cultura, o dall'ente Quadriennale di Roma, o ancora alle incalzanti iniziative private, fino a Italia 90 - Ipotesi arte giovane, promossa dalla rivista Flash Art, o addirittura alle proiezioni futuribili della rassegna Anni Novanta del 1991, allestita contemporaneamente a Bologna, Rimini e Cattolica. Comunque l'indiscriminata coesistenza di tutte le pratiche, stili e generi, all'insegna della ''ironia della neutralità'' o della ''complessità'', insinua il sospetto di una permissiva strategia di un'offerta allargata per una domanda non chiaramente motivata e volubile.
L'articolazione sincronica di tendenze opposte, infatti, anziché riflettere una vitale trama dialettica pare svelare l'ansietà epocale di mostrare, come in una passerella, il possesso indifferenziato delle ''immagini note'', ibridate tra narcisistici desideri di delectatio e inflessioni kitsch, tra modi demistificatori o compiacenti, deboli o forti, neofuturisti o patafisici, baroccheggianti o austeri, che vivono il presente sfogliando distrattamente ma forbitamente il passato. Una sorta di esaltazione disinibita dell'occasionalità dell'opera manieristicamente artefatta conduce, nella caduta di ideologie, a una riduzione consapevole dell'''opera d'arte'' a comune oggetto di consumo mondanamente confezionato, feticcio retoricamente aspirante in ultima istanza a un'oleografica contemplazione, ma in effetti orientato a raggiungere un eventuale plus-valore non più inerente alla sua ''qualità'' intrinseca ma connesso al circuito economico in cui riesce a inserirsi. Anche l'oscillazione del gusto gioca su ''trovate'' minime. Già nevrotizzato dal dinamismo interno alle avanguardie, il suo andamento irregolare è ora più che altro governato dalla produzione prolifica e dal consumismo sfrenato, soprattutto psicologico, disposto a fagocitare e rigettare in modo indiscriminato e frenetico ''idòla'' vaganti nell'aleatoria supremazia di una promozione incline a favorire cicli accelerati di mercato, in sintonia o addirittura incentivante l'accelerazione stessa delle mode, e aliena da esigenze di più lenta e selettiva conoscenza. D'altra parte la crescita esponenziale di operatori e di prodotti ''estetici'' appare relazionabile non tanto a un esplodere di creatività o a un'effettiva richiesta di mercato, quanto a un avventurarsi epidemico nei sentieri indefiniti dell'arte e alle lusinghe suscitate dall'immagine di efficienza del mercato, più o meno costruita, imposta dal sistema dell'industria dei media e funzionale alla filosofia mercantile: è il tentativo di scendere in campo per vivere l'esperienza ''estetica'' come un azzardo economicamente seducente. E il giovane artista/prodotto diventa un fattore indispensabile in quanto strumentale alla pianificazione redditizia dei tempi e dei modi del profitto.
Nella sua nuova estensione quantitativa, quasi programmata in un ambiguo livellamento, monocorde sembra invece lo spirito più appariscente del momento, propenso a favorire formule che opportunamente gestite possano ottenere un consenso diffuso non certo incentivante ma patologico in quanto soggetto ai più negativi meccanismi ed esiti della comunicazione di massa, di cui il prodotto ''artistico'' non sarebbe che una tra le tante merci al servizio del mercato che ne è diventato fattore rilevante e diretto committente. E del resto il mercato stesso non può essere demonizzato in un rifiuto moralistico né abbandonato all'arbitrio ideologizzato di soggetti occasionali. Esso va totalmente ristrutturato, se mai possibile, e incanalato, attraverso un problematicismo critico, su più stabili e pertinenti normative teoriche, non certo dogmatiche, tese non a elargire surrettiziamente licenze ''culturali'' o a descrivere soltanto il potere delle immagini o a interpretarle nella loro natura socio-antropologica e semantica, bensì a istituire criteri oggettivi della loro qualificazione ''artistica'' e a distinguere i valori della ''forma'' da quelli della confezione di immagini. Sfocata la logica rivoluzionaria aggressiva ed esclusiva delle avanguardie, usata e abusata la dinamica permissiva del "si può leggere tutto e in tutte le maniere", anche la critica, come segnalano i numerosi convegni, avverte l'esigenza di una propria ricostituzione idonea a fornire, nella dialettica storica, appropriati parametri e fondamenti di discriminazione e legittimazione di sé e dell'arte per una conoscenza corretta della sua essenza nell'ambito delle scienze umane e per una gestione adeguata della sua singolarità di ''fenomeno che fenomeno non è'', manifestazione di tecniche e pensieri formali miranti appunto a proporre valori non da consumare ma da tramandare per la sopravvivenza del sapere.
Questa traccia degli episodi artistici più vistosi emergenti negli anni Ottanta, sia pure nei limiti insiti in ogni sintesi nella cautela interpretativa imposta da eventi recentissimi, evidenzia nella compresenza di indirizzi diametralmente opposti un contesto in cui la ricerca della ''novità'' e della ''non novità'' tende per lo più a specializzarsi nella ''rivisitazione'', articolando la nozione di ''ripetibilità omogenea meccanica'' in quella di ''ripetizione differente'', manuale e intenzionale, con un equivoco di fondo spesso avvertibile, che sarebbe fin troppo banale sottolineare se non fosse mascherato sotto intenzionalità d'ironia o di cinismo, di fedeltà o di contaminazione. L'equivoco, cioè, che nella reazione alla precedente situazione ''estetica'' incline a giocare come opera d'arte l'intera realtà o a coinvolgere ogni mezzo alternativo per esibire l'arte ''altra'', l'arte ''increata'' o la ''non-arte'', l'ostentazione del recupero delle tecniche tradizionali e l'immersione nella storia dell'arte possano costituire di per sé veicoli alla creazione dell'arte mentre, come ovvio, rappresentano soltanto l'utilizzazione di un tramite espressivo consolidato: agire mezzi e codici della pittura o della scultura non significa inventare pittura o scultura, come vorrebbe far intendere chi ritiene di esercitare la propria astuzia nell'assorbire tutto, nel mercificare la demercificazione, nell'omologare i valori e nell'annullare l'arte in un limbo neutro ove tutto è possibile e niente è necessario.
Nelle obbligate schematizzazioni di questa traccia, e nelle connesse schematicità terminologiche, abbiamo teso a delineare i caratteri più generali dei raggruppamenti (spesso, per altro, non univoci) e a restituire un clima piuttosto che ad analizzare gli esiti artistici e gli sviluppi dei singoli interpreti (fra i quali si sono per lo più ricordati quelli all'origine dei vari indirizzi, non sempre ad essi globalmente ascrivibili nel corso degli anni).
Fatte queste precisazioni, nei confini cronologici di questa ricognizione delle vicende visive va contemplato l'evolversi di precedenti esperienze insistenti, come noto, su problematiche assai differenziate.
Nell'impossibilità d'indicare tutte le più notevoli, da quelle di più specifica figurazione a quelle di più marcata progettualità ottico-tecnologica, ci si limita a menzionare il lavoro portato avanti articolando i propositi originari, per es., dagli esponenti dell'area culturale povera − sostenuta, già sul nascere, da G. Celant −, concettuale, comportamentale o multimediale, quali V. Agnetti (1926-1981), G. Anselmo (n. 1934), G. Baruchello (n. 1924), A. Boetti (n. 1940), P.P. Calzolari (n. 1943), J. Kounellis, F. Mauri (n. 1926), Mario Merz (n. 1925), Marisa Merz, M. Mochetti (n. 1940), S. Montalegre (n. 1940), G. Paolini, L. Patella (n. 1934), V. Pisani, M. Pistoletto (n. 1933), G. Zorio (n. 1944), ecc., o in settori diversi da M. Bentivoglio (n. 1922), E. Isgrò (n. 1937), M. Lai (n. 1919), M. Mussio (n. 1925) o ancora B. Conte (n. 1939), ecc.
Né va sottaciuto il ruolo rilevante di artisti ascrivibili alla cosiddetta generazione di mezzo i quali, non coinvolti nelle tendenze sopra descritte, attenti più al ''sentimento'' del tempo che ai tempi spasmodici dell'''attuale'', e positivamente attivi per rifondare in una dinamica creativa un'arte criticamente addestrata sulla sua storia, senza compiacere ai miti fluttuanti delle mode o alle apocalittiche visioni o rappresentazioni di morte, hanno espresso una propria concezione fin dagli anni Sessanta e significativamente anche negli anni Ottanta con pregnante identità inventiva nel raccordo dialettico tra pensiero-immaginazione e sperimentazione-operatività, costruendo percorsi sicuri e originali all'interno di termini ''inquietanti'', quali ''valori di forma'' e ''qualità'', fonti ineludibili per ulteriori manifestazioni. Tra essi segnaliamo N. Carrino (n. 1932), N. Caruso (n. 1928), A. Cavaliere (n. 1926), L. Del Pezzo (n. 1933), A. Fontanesi (n. 1926), N. Guidi (n. 1927), P. Icaro (n. 1936), I. Legnaghi (n. 1937), C. Lorenzetti (n. 1934), T. Magnoni (n. 1934), E. Mattiacci (n. 1940), H. Nagasawa (n. 1940), F. Somaini (n. 1926), G. Spagnulo (n. 1937), V. Trubbiani (n. 1937), G. Uncini (n. 1929), e in ambito pittorico R. Aricò (n. 1930), C. Battaglia (n. 1933), L. Boille (n. 1926), E. Castellani (n. 1930), V. Ciai (n. 1928), P. Cotani (n. 1940), P. Cuniberti (n. 1923), Dadamaino (E. Maino, n. 1935), G. Ferroni (n. 1927), M. Gastini (n. 1938), G. Griffa (n. 1936), R. Guarneri (n. 1933), P. Guccione (n. 1935), C. Olivieri (n. 1934), A. Pace (n. 1923), G. Pardi (n. 1933), M. Raciti (n. 1934), P. Raspi (n. 1926), P. Ruggeri (n. 1930), V. Satta (n. 1937), M. Schifano (n. 1934), V. Vago (n. 1931), C. Verna (n. 1937). Si tratta di protagonisti certi dell'arte degli ultimi decenni come indica lo spessore del loro iter critico, solido e senza clamori, e come testimoniano esposizioni di sintesi storica quali, per alcuni di essi, Disegno italiano del dopoguerra, a cura di P.G. Castagnoli e F. Gualdoni, al Kunstverein di Francoforte sul Meno e alla Galleria Civica di Modena, nel 1987; Astratta. Secessioni astratte in Italia dal dopoguerra al 1990, a cura di G. Cortenova e F. Menna, alla Galleria d'arte moderna e contemporanea, Palazzo Forti, di Verona nel 1988; Periplo della scultura italiana contemporanea, a cura di G. Appella, F. D'Amico, P.G. Castagnoli, nelle chiese rupestri di Matera nel 1988; Scultura a Milano 1945-1990, a cura di L. Caramel, M. De Micheli, M. De Stasio e F. Porzio al Palazzo della Permanente a Milano nel 1990; Percorsi ininterrotti dell'arte - Roma 1990, curata da F. D'Amico al Palazzo Rondanini di Roma nel 1991, ecc.
Tra le generazioni compresenti negli anni Ottanta vanno, inoltre, ricordati, e non per un riconoscimento dovuto alla loro storia passata, di eccezionale momento per il rinnovamento dell'arte italiana, ma per l'incisivo e fecondo contributo attuale, artisti come C. Accardi (n. 1924), V. Bendini (n. 1922), A. Burri (n. 1915), P. Cascella (n. 1921), P. Consagra (n. 1920), M. Conte (n. 1913), A. Corpora (n. 1909), P. Dorazio (n. 1927), A. Fabbri (n. 1911), Q. Ghermandi (n. 1916), L. Guerrini (n. 1914), M. Moreni (n. 1920), B. Munari (n. 1907), A. Perilli (n. 1927), A. Pomodoro (n. 1926), G. Pomodoro (n. 1930), S. Romiti (n. 1928), S. Scarpitta (n. 1919), T. Scialoja (n. 1914), G. Strazza (n. 1922), G. Turcato (n. 1912), E. Vedova (n. 1919), L. Veronesi (n. 1908) e altri, molti dei quali ospitati nei più prestigiosi luoghi espositivi pubblici, quali la Galleria nazionale d'arte moderna di Roma, il Padiglione d'arte contemporanea di Milano, ecc., e accreditati a livello internazionale, anche se non sempre con il rilievo adeguato.
Negli anni Ottanta, infine, concludono la loro vicenda creativa alcune delle personalità che hanno scandito lungo il secolo la storia dell'arte italiana con riconoscimenti critici più o meno consoni alla loro importanza. Il ruolo svolto in tempi e modi diversi, per es., da M. Reggiani (1897-1980), M. Marini (1901-1980), F. Melotti (1901-1986), A. Viani (1906-1989), G. Santomaso (1907-1990), G. Manzù (1908-1991), A. Ziveri (1908-1990), E. Morlotti (1910-1992), N. Franchina (1912-1987), R. Guttuso (1912-1987), F. Clerici (1913-1993), P. Fazzini (1913-1987), M. Nigro (1917-1992), A. Scordia (1918-1988), A. Cascella (1919-1990), E. Scanavino (1922-1986) è tracciato nelle linee principali anche nel dibattito interpretativo e ideologico delle alterne vicende del loro iter, pur sempre bisognoso di ulteriori analisi utili a selezionare i vari fenomeni. Non altrettanto attenta ed efficace è stata, forse, durante la loro esistenza, la valutazione di B. Lazzari (1900-1981) o di E. Mannucci (1904-1986) o di A. Sanfilippo (1923-1980) o di altri i quali attendono, e già se ne sono avute testimonianze nelle retrospettive ad essi dedicate in questi ultimi anni, una puntuale ricognizione della loro opera che ne delinei una giusta considerazione. Scomparse premature si registrano tra generazioni più giovani: grave, per es., quella di N. (Giovan Battista) Valentini (1932-1985), il quale sull'originaria e contenuta esperienza astratto-informale ha condotto, dagli anni Cinquanta, un'appassionante sperimentazione del materiale ceramico da cui fa emergere, con un rituale di saggezza antica, forme come corrose, archetipi ancestrali simbolici, entità fisiche dalle superfici scabre e incise di grande tensione emotiva e di segno positivo nel ritmo interno del frammento e nella misura spaziale che ordina la composizione. Ancora T. Festa (1938-1988) e F. Angeli (1935-1989), bruciati da un'esperienza vissuta tra felicità illusoria, polemica spensieratezza e ricerca di tensioni vitali sottese da inquietudine e spregiudicatezza in una condizione contraddittoria. La loro attività è accomunata dagli esordi all'inizio degli anni Sessanta sfociati poi nella cosiddetta ''Scuola di Piazza del Popolo'' o ''pop romana'', distinta, con i contributi anticipatori di M. Rotella (n. 1918), F. Mauri e T. Maselli (n. 1924), da una pluralità di strumentazioni e intenzioni da parte di esponenti tuttora attivi quali Kounellis, Schifano, G. Fioroni (n. 1932), M. Ceroli (n. 1938), C. Tacchi (n. 1940), R. Mambor (n. 1936), S. Lombardo (n. 1939) ecc. Nel clima di uno scardinamento dei mezzi tecnici, dei sistemi linguistici e delle proposizioni visive più consolidate, nella negazione di ogni ideologia e nella sospensione di giudizi di valore essi muovono, in sintonia con il programma di Azimuth, da un azzeramento, da una tabula rasa che pure rinvia a chiari antecedenti. Così Festa elabora cupe, smaltate monocromie di rettangoli e quadrati iterati che evocano mentali atmosfere metafisiche, talora con grafie lapidarie, specchi appannati, schermi maestosi, su cui si stampano immagini frazionate o echi di immagini note, o duri diaframmi da cui emergono oggetti emblematici. E Angeli costruisce con particolari velature monocromie malinconiche in cui affiorano da una spazialità indefinita o sfocano nella memoria del tempo apparenze simboliche, distanti e inquietanti. Vedi tav. f.t.
Bibl.: Oltre ai cataloghi di mostre e ai saggi indicati nel testo e oltre ai cataloghi relativi alle edizioni della Biennale di Venezia, regolari dal 1978 al 1990, e della xi Quadriennale di Roma (1986; 1992), si veda: M. Calvesi, Avanguardia di massa, Milano 1978; R. Barilli, Informale oggetto comportamento, ii, La ricerca artistica negli anni '70, ivi 1979; J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Parigi 1979 (trad. it., Milano 1981); A. Bonito Oliva, La transavanguardia italiana, Milano 1980; Linee della ricerca artistica in Italia 1960-1980, a cura di N. Ponente (Roma, Palazzo delle Esposizioni), Roma 1981; Identité italienne. L'art en Italie depuis 1959, a cura di G. Celant (Parigi, Centre Georges Pompidou), Parigi-Firenze 1981; A. Bonito Oliva, La transavanguardia internazionale, Milano 1982; F. Caroli, Magico-primario. L'arte degli anni Ottanta, ivi 1982; Forma senza forma, a cura di E. Bargiacchi (Modena, Galleria Civica), Modena 1982; F. Gualdoni, La sovrana inattualità. Ricerche plastiche in Italia negli anni Settanta (Milano, Padiglione d'arte contemporanea), Milano 1982; Gli anacronisti o pittori della memoria, a cura di M. Calvesi e testo di M. Vescovo (Reggio Emilia, Civici Musei), Reggio Emilia 1983; I. Mussa, La pittura colta, Roma 1983; Al vivo 2. Generazioni a confronto. Comunicazioni di lavoro di artisti contemporanei, a cura di S. Lux (1982), ivi 1983; F. Menna, La linea analitica dell'arte moderna. Le figure e le icone, Torino 19832; La forma e l'informe, a cura di F. Caroli, con scritti di M. Calvesi e S. Lux (Bologna, Galleria comunale d'arte moderna), Bologna 1983; Idiomi della scultura contemporanea, ii Rassegna internazionale di scultura, a cura di G. Di Genova (Sommacampagna, Ca' Zenobia e Villa Fiocco), Verona 1984; Attraversamenti. Linee della nuova arte contemporanea italiana, a cura di M. Calvesi e M. Vescovo (Perugia, Rocca Paolina, ecc.), Venezia 1984; Arte italiana 1960/80, a cura di A.C. Quintavalle (New York, Banca Commerciale Italiana), Torino 1984; L'oro della ricerca plastica, a cura di E. Crispolti, M. Crescentini e F. Milesi (Fano, Chiesa di S. Domenico), Milano 1985; I. Tomassoni, Ipermanierismo, ivi 1985; AA.VV., Anniottanta (Bologna, Galleria comunale d'arte moderna, Imola, Chiostri di S. Domenico, ecc.), ivi 1985; Dopo il concettuale. Nuove generazioni in Lombardia, a cura di L. Caramel (Trento, Palazzo delle Albere), ivi 1986; Aria. Per un'astrazione-costruzione, a cura di M. Carboni (Comune di San Miniato), Firenze 1986; Post-astrazione, a cura di F. Caroli (Milano, Rotonda della Besana), Milano 1986; G. Cortenova, La secessione astratta degli anni 80. Tra arcaicità e costruzione (Umbertide, Chiostro di San Francesco), ivi 1986; G. Gatt, La nuova maniera italiana, ivi 1986; Per un'astrazione povera, a cura di F. Menna (Erice, ex Convento San Carlo), ivi 1986; Una linea napoletana, a cura di E. Crispolti (Pordenone, Palazzo Marchi), ivi 1987; La costellazione del segno, a cura di S. Sinisi (Termoli, Galleria civica d'arte contemporanea), ivi 1987; R. Barilli, Il ciclo del postmoderno. La ricerca artistica negli anni '80, ivi 1987; Arte in Italia 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, ivi 1988; F. Gualdoni, Arte a Roma 1945-1980, pref. di E. Borzi, testimonianza di L. Trucchi, ivi 1988; Roma arte oggi, a cura di E. Borzi e M. Chiesa, introd. di F. Menna e testo di P. Balmas, ivi 1988; G. M. Accame, Ragione e trasgressione, ivi 1988; Anni '90. Pittura e scultura, bilanci e prospettive (Comune di Loreto), ivi 1988; Giovani artisti a Roma, i e ii (Roma, ex Borsa in Campo Boario), Roma 1988; Le scuole romane: sviluppo e continuità 1927-1988 (Verona, Galleria d'arte moderna e contemporanea, Palazzo Forti), Milano-Roma 1988; Periplo della scultura italiana contemporanea, a cura di G. Appella, P. G. Castagnoli, F. D'Amico (Matera, chiese rupestri), Roma 1988; Arte a Roma 1980-89. Nuove situazioni ed emergenze, a cura di L. Pratesi (Roma, Palazzo Rondanini), ivi 1989; Materialmente. Scultori degli anni Ottanta, a cura di D. Auregli e C. Marabini (Bologna, Galleria comunale d'arte moderna), Ravenna 1989; Roma Punto Uno, con uno scritto di M. Carboni, Perugia 1989; V. Fagone, L'immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Milano 1990; A. Bonito Oliva, L'arte fino al 2000, Firenze 1990; Presenze tra presupposti e tendenze nell'attualità (Premio città di Avezzano), a cura di M. Apa, Urbino 1990; Premio Marche. Biennale d'arte contemporanea. Rassegna nazionale (Fiera di Ancona), Roma 1990; Giovani artisti a Roma, iii, a cura di D. Ogliani e R. Siligato (Roma, Palazzo delle Esposizioni), ivi 1990; Il lusso della pausa. Stile e arte. La Provincia e l'Impero, a cura di M. Crescentini (Firenze, ex Padiglione Avicolo, ecc.), Milano 1990; Una scena emergente. Artisti italiani contemporanei, a cura di A. Barzel ed E. Grazioli (Prato, Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci), Firenze 1991; Ultralux. Metafore della luce ed altro, a cura di M. Vescovo (Bolzano, Museo d'arte moderna), Bolzano 1991; Materiali della scultura italiana, 1960-1990, a cura di A.B. Del Guercio (Reggio Emilia, sala esposizioni Antico Foro Boario), Reggio Emilia 1991; Esaedro, a cura di G. Di Genova (Termoli, Galleria Civica d'arte contemporanea), Milano 1991; Centro per l'arte contemporanea. La collezione, a cura di E. Mascelloni (Rocca di Umbertide), Perugia 1991; Percorsi ininterrotti dell'arte. Roma 1990, a cura di F. D'Amico (Roma, Palazzo Rondanini), Roma 1991.
Si vedano, inoltre, contributi nelle riviste specializzate: Arte, Art e Dossier, Arte e Cronaca, Arte in, Artinumbria, Color, D'Ars, Figure, Flash Art, Il Giornale dell'arte, Iterarte, La Vernice, Le Arti news, Next, Op. cit., Questarte, Risk, Segno, Tema celeste, Terzoocchio, ecc.
Architettura. - L'arco temporale che va dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta nell'architettura vede arrivare a maturazione, nel mondo e in I., un sentimento operativo ben diverso da quello che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Si stabilizza ora quel "tempo del cambiamento", che all'inizio degli anni Sessanta Ph. Johnson aveva annunciato, nel suo momento germinale, segnalandone con entusiasmo la "meravigliosa libertà", le "possibilità illimitate da esplorare" connesse alla fine del "tempo dell'ideologia" e delle "regole fisse". Ma questo annuncio, che rompeva clamorosamente il dominante clima razionalista dell'International Style steso dal modernismo sulla maggior parte della produzione architettonica americana e non, profetico quasi per quell'area culturale, cadeva invece, per l'I., su una situazione già avviata a trasformazione rispetto all'ortodossia del razionalismo. In effetti, rivedendole col distacco dei decenni, le vicende dell'architettura italiana, dal secondo dopoguerra a oggi, appaiono fortemente caratterizzate da tensioni e insoddisfazioni tese a esiti ulteriori: oltre quel razionalismo che il dopoguerra stava diffondendo nelle principali aree culturali mondiali.
Tra i più clamorosi risultati ''oltre il razionalismo'' si erano segnalate infatti esperienze quali la cultura ''alpina'' del Rifugio Pirovano di F. Albini (1949-50), o il ''goticismo'' della Torre Velasca a Milano di E.N. Rogers (1958), la ''venezianità'' della Casa alle Zattere di I. Gardella (1954-58), il popolarismo ''barocco'' di M. Ridolfi, la severa ''monumentalità'' romana dell'Auditorium (1951) di S. Muratori. A esse presto si affiancarono alcune ricerche delle nuove generazioni: quali la gran copertura a nervature ''goticheggianti'' della Borsa di Torino di Gabetti e Isola e di G. Raineri (1952-56) e le prime architetture ''neo-liberty'' di Gabetti e Isola, di V. Gregotti, di G. Canella e di G. Aulenti.
Al di là degli esiti e delle battute d'arresto di quelle ricerche, è sul lungo periodo che va comunque oggi rintracciato il senso più profondo della particolarità italiana, consistente forse nella volontà − diffusa in vario modo, ma costante − e nell'intuizione di un superamento di alcuni aspetti della Modernità: in quanto età dell'esaltazione del Nuovo, ferma fiducia nel progresso. Infatti carattere costante della ricerca sarà la lotta per una ripresa di contatto con la tradizione non moderna, insieme a una continuità col moderno. E, nella tradizione pre-moderna, la rimessa in luce dell'esistenza positiva e vitale di regole comuni, di costanti − una sorta di piattaforma ''etica'' fondamentale propria della natura umana − la cui esistenza non toglie validità ai nuovi fatti umani; così come le norme etiche non tolgono la libera soggettività ma la fondano. Regole cioè in grado di sottrarre la stessa soggettività dalla connotazione d'individualismo esasperato, che è specifica del tempo del Moderno, per fondarla in modo comunitario in nome della "comunità concreta della comunicazione" (K.O. Apel, citato in Penati 1990).
Su due problemi base sembra aprirsi la divaricazione tra le nuove ricerche italiane e la cultura razionalista: l'esigenza di uscire dalle gabbie dell'astrattismo e quella di recuperare all'architettura quello spessore ontologico-rivelativo, da sempre patrimonio dell'architettura della tradizione, ma bruciato dalle procedure formative del funzionalismo.
I processi astrattizzanti infatti colpivano sia gli elementi di base del linguaggio architettonico − fatti regredire a puro piano, a pura superficie, a pura geometria −, sia gli ulteriori elementi espressivi propri del formare architettonico (ordini architettonici, archetipi, sequenze simboliche, ecc.). Non a caso contro la "razionalità astrattizzante" si appuntava la denuncia di Muratori, che ad essa addebitava la dissoluzione moderna dell'organismo come unità costitutiva della fabbrica, la dissoluzione della struttura come sistema connettivo costruttivo, la dissoluzione della città.
Al recupero dello spessore ontologico, dopo l'esaurirsi del funzionalismo, ha mirato invece con autorità e con risultati molto alti soprattutto l'opera di L. Kahn, il quale ha fortemente sollecitato la necessità − prima d'iniziare l'avventura delle modulazioni formali − della riscoperta della verità dell'essere che è contenuta, che è insita, nel singolo tema architettonico da cui origina ogni nuovo organismo da creare. L'individuazione dell'identità di quelle che il maestro americano definisce le profonde "istituzioni", in una parola, del tema, ha il significato di una riscoperta dello spessore e del valore umano che ogni oggetto architettonico deve contenere. A partire da questa ritrovata identità e profondità, la perigliosa procedura del progetto si avvia, sceglie le strade da percorrere.
Il modo più immediato di oltrepassamento della razionalità astrattizzante sviluppatosi in Italia negli anni Settanta, oltre che nei modi − presto divenuti ''mode'' − di A. Rossi e G. Grassi, è quello che con più immediata determinazione decreta la "fine del proibizionismo", secondo una definizione di P. Portoghesi, verso la storia dell'architettura pre-razionalista, disponendosi a un utilizzo libero della memoria storica. È questa appunto la linea che viene propugnata e svolta nell'attività critica e in quella progettuale, dall'inizio degli anni Sessanta, da P. Portoghesi; il quale per primo, dopo la pubblicazione su Casabella (1957) delle prime opere di Gabetti e Isola e la manifesta perplessità di E.N. Rogers − conseguente alle censure espresse su quelle opere −, difende quelle posizioni e ne divulga gli ulteriori sviluppi coniando la definizione critica di neoliberty italiano.
Il richiamo alle diverse posizioni di Gabetti e Isola, di Rossi, di Portoghesi, di Grassi − i personaggi che più hanno inciso nella resistenza al tentativo modernista degli anni Sessanta di bloccare il clima di ''libera uscita'', avviato in I. nel decennio precedente − ci consente di accennare a quello che riteniamo uno dei nodi principali intorno a cui ruotano le ricerche ''oltre il Modern'': il problema della diversa e variata modalità con cui la memoria dà corpo alla ripresa della storia, di cui si diceva. È divenuta formula critica facile, nella pubblicistica italiana e straniera − soprattutto attraverso gli scritti di Ch. Jenks − una definizione che vede nella poetica classicistica la formula definitoria della nuova temperie. Noi crediamo che l'uso della categoria del ''classicismo'' sia fonte di molti equivoci: che essa si presti a interpretare parte delle ricerche in atto, ma che ne vada limitata l'applicabilità, pena una vaghezza estrema. Innanzitutto circa l'atteggiamento di base, che presenta una vastissima gamma di modalità attraverso cui avviene il recupero della storia: da modi del classicismo vero e proprio a modi barocchi, a modalità del folclore, a recuperi delle tradizioni costruttive dell'artigianato architettonico e delle architetture di base caratterizzanti il patrimonio edilizio italiano (quello del paesaggio agrario, o dei paesi, o del tessuto storico urbano). Per tutta questa complessa qualità del patrimonio premoderno la più vera categoria critica non è dunque quella di ''classicità'', ma quella di ''tradizione'', entro cui anche la linea del classicismo si pone. Il concetto di tradizione infatti contiene in sé, molto di più di quello di classicismo, quella componente che a un tempo radica il nuovo e lo libera, e che è particolarmente utile nell'avvio dei nuovi processi formativi.
Mentre la categoria della classicità è più strettamente connessa a un severo e preciso bagaglio di regole e di procedure formative, verso le quali per la forza e l'esemplarità delle stesse è quasi d'obbligo una connessione attuativa, invece la categoria della ''tradizione'', ricca com'è di ipotesi formative e meno cogente nell'istituzionalità formale, lascia all'operazione di ripresa e sviluppo dello spunto una più vasta oscillazione ricreativa. Essa infatti si sostanzia nel tradere, di cose ''quasi per mano portate a noi'' da chi ci ha preceduto nel tempo, che è operazione libera da rigide codificazioni; patrimonio vissuto, ricevuto, da far rivivere, che sollecita la nuova interpretazione e accoglie le deformazioni e/o le riformulazioni indotte dal processo creativo.
Il concetto di ''tradizione'' quindi non solo è molto più comprensivo del precedente, ma permette di raccogliere in unità le ricerche del post-modern insieme con una successiva più dettagliata articolazione delle stesse. Cioè fortemente unitario è il movimento di uscita dal Modern verso una riconnessione della ricerca architettonica con la tradizione storica dell'architettura prerazionalista; ma questa svolta ciclica si attua poi secondo linee formative molteplici.
Esse vanno da quelle a più marcata caratura ''alta'' e attinenti per lo più alle modalità della classicità − ma ve ne sono altre che recuperano sistemi conformativi dal Barocco, dal Manierismo, dal Medioevo, dal Tardoantico − a quelle che invece recuperano contenuti e sollecitazioni dall'architettura quasi ''senza tempo'' dei tessuti architettonici urbani, o che rivisitano archetipi e stimoli formativi depositati nella tradizione rurale italiana. Con tutti i possibili intrecci tra i diversi modi segnalati. Nel caso italiano, la commistione maturata col nuovo progetto quasi sempre avviene, salvo i non molti percorsi di desunzione archeologica e ''citazionistica'' delle forme tradizionali, a partire dalla tradizione del moderno e delle qualità meno aleatorie delle ricerche elaborate dai maestri, europei e non, del razionalismo.
Non a caso Gabetti e Isola, che tra i primissimi hanno lavorato all'apertura ''oltre il Moderno'', sono estranei alla declamazione della classicità e fanno oscillare di volta in volta le loro ricerche da una sensibile attenzione al carattere dei ''luoghi'' a una sempre rinnovata lettura della tradizione conformativa e formale dell'area piemontese. Dalle incorniciature a stucco delle finestre nella Chiesa di Montoso (1963) riprese nel Municipio di Bagnolo Piemontese (1975-80); alle coperture ''galleggianti'' delle case a torre nel quartiere di Vica di Rivoli (1983-88), desunte dalle costruzioni alpine della Val d'Aosta in cui suggestive coperture lignee sono giustapposte al pesante corpo basale in muratura; al recupero della sapienza artigianale valdostana della carpenteria in legno nel caseificio di Bagnolo Piemontese (effettuato con G. Drocco, 1980-82); all'alto livello del Monastero delle Carmelitane a Quart in Valle d'Aosta (con G. Drocco, 1985-88). Il tutto in naturale consonanza con le forme più tecnologicamente impegnate delle grandi vetrate nel grande cerchio interrato dell'unità residenziale Olivetti a Ivrea (1969-74) o nelle invenzioni delle lunghe logge in metacrilato, scintillanti al sole, nel complesso residenziale del Sestrière (1976-78).
L'intensità e lo sconcerto prodotti dal cambiamento, in questa fase di superamento del Modern, sono denunciati dalla rottura rilevabile nei percorsi personali di alcuni architetti − anche di notevole levatura culturale −, protagonisti del tempo del razionalismo italiano; i quali a volte hanno poi cercato di far propri i nuovi temi emergenti.
Valgano per tutti il caso di G. Samonà e L. Quaroni. Samonà, col figlio Alberto, nella Banca d'Italia a Padova (1971) definisce le due facciate principali esponendo due linguaggi formali diversi: razionalista in quella sulla Riviera Tito, ''citazionista'' nell'altra, sulla linea delle terminazioni monumentali a merli neomedievali del bolognese palazzo dell'Enpas di S. Muratori (1955); successivamente nel Municipio di Gibellina (1980) ripresenta il motivo della ''merlatura'' in un'accezione meno storicistica e più semplificata, in linea col monumentale trattamento volumetrico del Teatro di Sciacca (1974-79), sospeso tra astrattizzazione volumetrica ed espressività dimensionale.
In modo ancor più chiaro Quaroni, sicuramente uno tra gli architetti italiani culturalmente più impegnati, partecipe con Muratori e F. Fariello della prima stagione razionalista e poi della declinazione classicheggiante, che di questa stagione diedero i giovani razionalisti degli anni Trenta. Protagonista indiscusso dell'area romana nel dopoguerra e oltre, presente in fondamentali opere (progetto del Concorso per la Stazione Termini, Quartiere Tiburtino ii), figura particolarmente affascinante per il tormentante problematicismo con cui ha vissuto e attraversato il tempo del Moderno, nell'ultima sua prestigiosa prova − la ristrutturazione del Teatro dell'Opera di Roma (1986) − improvvisamente si fa carico delle tensioni postmodern e recupera così un contatto con le proposte della stagione classicista dell'EUR (1938), proponendosi come ''grande eclettico'' attraverso un vero e proprio ciclo progettuale ''in stile'', nel corso del quale raggiunge, nel definitivo progetto per l'Opera di Roma, un altisonante porticato colonnare, una suggestione di sicuro impatto visivo.
Tra gli altri protagonisti, valgano ancora i casi di alto risultato dell'Albini nelle Terme di Salsomaggiore (1971) nelle quali si ripropone vividamente il tema dei marcapiani e dei marcadavanzali; di C. Scarpa nella Tomba Brioni (1975), in cui la volumetria fa eco al tema della morte ''dissolvendosi'' nella ''modanatura'' scalettata; di Gardella nelle sistemazioni urbane in pietra a fasce bicolori realizzate a Genova (1972-79), che interpretano sagacemente il genius loci; infine dell'Aulenti.
Tralasciando altri richiami agli architetti che hanno segnato il passaggio dagli anni Cinquanta ai Settanta, è il caso di svolgere per cenni la vicenda più vicina a noi. Essa può schematizzarsi come segue.
Un primo settore raccoglie l'opera di chi continua in qualche modo la lezione del razionalismo; accanto a cui va collocata, come sua controfaccia, l'opera di chi si rifà alla poetica espressionista. La quale ora, in contesto del tutto diverso da quello degli anni ruggenti dell'espressionismo, riduce l'originaria poetica della protesta ''epocale'' nello spazio prevalente della tensione psicologica e del circuito formale di un'espressività gestuale e congestionata.
Sul fronte dell'uscita dal Modern il panorama si presenta particolarmente variegato. Un gruppo di architetti si ritrova nell'alveo della poetica del classicismo, in conseguenza della forte suggestione che la stabilità e l'univocità del codice classico esercitano, ma con diversificazioni tali da articolarlo perlomeno in tre gradazioni diverse: di un severo classicismo ''archetipico'', di un classicismo minimalista ''logico'', di un classicismo ''storicistico''. Altri architetti sviluppano poi, accanto al mito del classicismo, una diversa attenzione alla molteplice ricchezza del patrimonio depositato dalla storia architettonica, esterna alle poche ''isole felici'' della classicità. Tra questi, alcuni si propongono il rapporto tradizione-innovazione svolgendo con libertà il radicamento del nuovo sulla ''tradizione dei luoghi'': sia nell'accezione dei molteplici ''territori storici'' della geografia italiana, sia nell'ancor più duttile impegno a cogliere del ''sito'' il genius loci che ivi ''abita''. Mentre altri, soprattutto tra gli architetti delle ultime generazioni, pur attivi nella linea di ''fine del proibizionismo'' verso il recupero storico, non problematizzano in modo particolare la piattaforma o i ''padri'' recuperati e si muovono con ''leggerezza'' dentro il nuovo orizzonte multiforme del razionalismo, del classicismo, dello storicismo, del localismo, del vernacolare: al di là della soglia modernità-tradizione. Ancorché incomba su di loro il rischio di un eclettismo edonistico.
Entro il quadro schematico sopra tracciato val la pena ora per cenni richiamare qualcuna delle opere e delle presenze più significative.
In primo luogo sul fronte della continuità col razionalismo; tema questo che non è stato trattato espressamente nelle colonne precedenti perché caratterizzante i decenni appena trascorsi e perché il proprium del tempo attuale ne è la problematizzazione e l'allontanamento. Su un piano di riflessione e sviluppo, a partire dalla prima stagione razionalista, si pone l'opera di G.U. Polesello, di cui è rilevante testimonianza la Casa unifamiliare a Riva d'Arcano (1970-73), vicina ai modi dei newyorkesi Five Architects; a cui va aggiunto l'organismo del Mercato a S. Michele al Tagliamento (1977-80), efficace nella severa semplicità. Meno problematica, ma seriamente legata alla stagione razionalista, è la produzione di C. Melograni, spesso attivo in collaborazione con L. Benevolo e T. Giuralongo. Notevole rilevanza, per estensione e riconoscimento professionale, ha assunto negli anni in esame lo Studio Passarelli: valga tra i tanti risultati il progetto vincitore del Concorso internazionale per il Museo dell'Acropoli di Atene (1990), elaborato da M. Nicoletti e L. Passarelli.
A essi vanno aggiunti E. Zacchiroli, nell'efficace Deposito per l'Azienda Trasporti di Bologna (1983), e J. Lafuente, nel complesso per la Esso alla Magliana a Roma (1980), ridondante nell'enfasi strutturale. Sul piano di sviluppi virtuosi della tecnologia strutturale o impiantistica, componente importante del costruttivismo, ora assunta a modalità basale della forma, si possono citare varie presenze. La ricerca di A. Mangiarotti, condotta su moduli costruttivi definenti tout court l'architettura, come nell'elegante sistema di prefabbricazione ''U/70'' utilizzato ad Alzate Brianza (1971). L'impegno tecnologico di P.L. Spadolini, che riesce a colloquiare col patrimonio monumentale, come nel restauro del palazzo del Monte dei Paschi di Siena (1972). Alcune opere di L. Savioli, tra cui il Nuovo Mercato dei fiori a Pescia (1971-81) sul tema delle grandi coperture tirantate, nonché le ricerche di L. Pellegrini, fra cui la Cellula residenziale in resina poliestere (1974).
Ma l'architetto italiano che più di tutti ha legato la sua fortuna all'enfasi tecnologica, fatta divenire immagine architettonica, è R. Piano. Questo autore, prima e dopo il successo internazionale della gran macchinazione formale realizzata col Beaubourg di Parigi, elaborata con l'inglese R. Rogers, ha sviluppato su grande scala tecnologica sia grandi complessi, come gli uffici B e B Italia a Novedrate (1973), sia i piccoli temi residenziali, come nelle quattro abitazioni unifamiliari a Cusago vicino Milano (1974). Più recente è la realizzazione del nuovo stadio San Nicola a Bari (1990).
Nel campo delle ricerche sulla ''grande dimensione'', emerse dall'enfasi della società ''affluente'' degli anni Sessanta, si colloca prevalentemente V. Gregotti di cui va ricordata la determinante fatica svolta negli anni Cinquanta e in quest'ultimo decennio nella rivista Casabella. Attivo fin dagli anni Cinquanta nel gruppo del cosiddetto neoliberty milanese, gli sviluppi successivi lo vedono critico nei confronti degli svolgimenti maturati all'insegna del ''dopo l'architettura moderna''. Gregotti si fa elaboratore di quella particolare poetica ''della morfologia territoriale come linguaggio del sito'', dell'opera architettonica come espressione ''geografica'', ottenuta riducendo i manufatti, per lo più di grandi dimensioni, a poche articolazioni, nella speranza di ottenere con ciò un controllo di qualità sull'ambiente vasto. Impegno che, accanto a significative tappe, qualche volta rischia di scivolare nell'accademia del ''sommario'', come capita nelle piccole occasioni progettuali. Si veda la strana ''riduzione'' a due piani parete, entro cui chiude il progetto per una Villa unifamiliare a Novara (1977), o per la Casa a Coldrerio (1983). Più significativo formalmente risulta invece nei sistemi residenziali delle periferie urbane − dal Quartiere Zen di Palermo (1970) alle ''dighe'' edilizie gettate a sbarrare il vallone nel Quartiere 167 di Cefalù (1976), alle grandi strutture universitarie tra cui si segnalano quelle dei Dipartimenti dell'università di Palermo (1969-84), elaborati insieme a G. Pollini. Questa tematica formativa diviene proposta efficace quando si rapporta alla scala vasta del ''sito'', attraverso essenziali segni, ricchi di valenza archetipica; come nel Centro ricerche Montedison a Portici (1982), dove il tema dei grandi portali si fa figura di ''mitico'' accesso per l'aggregato edilizio retrostante, o come nella Galleria commerciale del progetto Cadorna-Pagano a Milano (1984).
Al di là della posizione di Gregotti, in cui il tema della grande dimensione, caratteristico della cultura architettonica degli anni Sessanta, cerca di farsi modo per una congrua risposta ai temi della grande scala, la ricerca sulla grande dimensione ha informato alcune realizzazioni edilizie − di edilizia economica e popolare − la cui verità tematica non implicava la rincorsa al gigantismo e al fuori scala. Emblematico di questa enfasi è il discusso megaedificio di Corviale a Roma (1972-82), a cui hanno legato il proprio nome, tra altri, M. Fiorentino, F. Gorio, P.M. Lugli, M. Valori: impegnati invece negli anni Cinquanta, sotto la guida di Ridolfi e Quaroni, nel Tiburtino iii, nella poetica del neorealismo e nella costruzione di una dimensione di ''vicinato'' edilizio a scala tradizionale. Nel megacomplesso di Corviale, che ammassa nell'unico edificio ''lungo un miglio'' le 8000 persone dell'originario quartiere di edilizia economica e popolare, viene annullato − al di là degli sparuti spazi di pertinenza dei servizi afferenti agli abitanti − lo spazio pubblico della strada e della piazza, il luogo dell'incontro sociale. Quegli spazi che L. Kahn definisce i ''corridoi'' e i ''salotti'' della città.
Fuori dalla linea di un ossequio formale al razionalismo ma attiva nella linea metodologica dello stesso, si è mossa la ricerca di G. De Carlo: uno dei protagonisti dell'architettura e del dibattito urbanistico italiano dagli anni Cinquanta a oggi. La sua lunga carriera architettonica ha tappe significative nelle realizzazioni per l'università di Urbino (1962-83) e nel contributo offerto, col Quartiere Matteotti a Terni (1969-74), al problema, impostosi negli anni Sessanta e Settanta, del rapporto architettura-urbanistica nella crescita della città. In cui, superando le deluse speranze ideologiche e le tecnocratiche ''certezze'' di controllo progettuale della nuova città, ha innestato sulle precedenti convinzioni progettuali un ulteriore livello, quello partecipativo della popolazione; il quale, al di là del risultato finale dello stesso quartiere, resta stimolo attivo per un ripensamento delle modalità formative implicate nella definizione e nella costruzione delle nuove parti di città.
Sul fronte di quello che può definirsi il lato ''oscuro'' del Modern, quello dell'espressionismo architettonico, vanno segnalate alcune personalità di rilievo. A una gestualità di ''magia'' spaziale è approdato nei primi anni Sessanta G. Michelucci − figura tra le principali dell'architettura italiana del 20° secolo − con le esaltate naturalistiche spazialità della Chiesa dell'Autostrada a Firenze (1967), di San Marino (1961-67) e di Longarone (1978), che segnano una netta rottura rispetto alle sue precedenti architetture; nelle quali avevano preso corpo alcune tra le più importanti realizzazioni, negli anni Cinquanta, della linea italiana di continuità tra modernità e tradizione. Il segno di quella rottura arriva fino alla sede del Monte dei Paschi di Siena a Colle Val d'Elsa (1983) ove emerge una non risolta tensione, che sconnette l'unità dell'organismo, tra il tema costruttivo della muratura pesante e la struttura del ferro elastica e leggera. In definitiva, le esperienze di Michelucci risultano tanto stimolanti nei valori plastici e formali quanto discutibili, soprattutto nell'architettura sacra, per la verità espressiva e simbolica propria del tema.
Accanto a Michelucci si muove un'altra presenza notevole del panorama fiorentino: L. Ricci. Il quale, proseguendo le ricerche degli anni Sessanta, nell'ultima conclusa sua costruzione, il premiato Palazzo di Giustizia di Savona (1987), ha raggiunto il maggior risultato. Il suo modo espressivo mette in gioco un particolare impasto tra procedure di ''distruzione'' e scomposizione delle volumetrie e dell'organismo di derivazione neo-plastica, anticipatrici di modalità ''decostruttive'' recenti, e violenta contrapposizione dei singoli ''pezzi'' risultanti: siano essi elementi ''principali'' della struttura portante o elementi ''secondari'' delle chiusure o delle pareti.
Un personaggio di particolare evidenza nell'esiguo gruppo espressionista italiano è G. Canella, già dagli ultimi anni Cinquanta impegnato, con M. Achilli e D. Brigidini, nella linea del neoliberty milanese. La ricerca di Canella, tesa al traguardo di una ''dura'' espressività, quasi una ''incapacità'' al colloquio cordiale, a ''conquistare un'armonia'', dopo le prime ricerche del Municipio di Segrate (1966), la cui cifra resta sospesa tra la fluidità del sistema volumetrico avvolgente e le accentuazioni espressive del corpo di chiusura a ''colonne'', nel Centro Civico e soprattutto nel Municipio di Pieve Emanuele (1971-80) raggiunge risultati notevoli, di una durezza volumetrica violenta e urtante. In essi emerge un'aggressività espressiva provocante, che utilizza prevalentemente − a differenza del metodo scompositivo di Ricci − la contrapposizione stridente e senza raccordo tra volumi e/o sistemi volumetrici; utilizzando connessioni fortemente contrastanti e ridondanti, nella speranza di raggiungere significativi ''a solo'', nodi pubblici animatori delle anonime periferie urbane.
Su una linea di accentuazione espressiva, si muovono C. Aymonino e A.L. Rossi. Di Rossi vanno ricordate le congestionate volumetrie della Casa del Portuale nel Porto di Napoli (1968-80) e l'Edificio residenziale in via Pontirossi, sempre a Napoli (1986), di risonanti effetti plastici. Di Aymonino, attivo a Roma fin dagli anni Cinquanta in significative operazioni urbane insieme a Ridolfi e Quaroni, va segnalato il deciso risultato del complesso residenziale Monte Amiata del quartiere Gallaratese a Milano (1967-74) e quello del Campus scolastico di Pesaro (1976), in cui trova cadenze complesse ma di convincente espressività; mentre nelle ultime costruzioni e progetti calibra l'innata foga in formulazioni più connesse alla qualità del sito. Tra queste ultime va evidenziato l'intenso progetto per l'Ospedale di Mestre (1981-86), elaborato con G.P. Mar e G. Tamaro, ove Aymonino raggiunge un risultato notevole attraverso il deciso impianto assiale dell'organismo e la severa articolazione monumentale del concavo prospetto del corpo-degenze.
Un posto a parte − rispetto sia alle posizioni fin qui segnalate che a quelle di ''dopo il Moderno'' − occupa l'architettura di G. Valle; non dimenticato autore negli anni Cinquanta di quella Casa di abitazione a Sutrio presso Udine (1953-54), che rappresenta uno sviluppo creativo dell'architettura rurale padana a pilastri, esaltata da un protettivo tetto a padiglione: caposaldo per vari sviluppi degli anni successivi. Tra questi va citata la Cooperativa ''La Conca d'Oro'' ad Ariccia di S. Benedetti e G. Miarelli (1975): qui lo spunto originario, declinato con rotazioni volumetriche e coordinamenti pulsanti, viene sviluppato attraverso l'innesto con gli archetipi laziali della gran loggia aerea e delle scale esterne. La ricerca di Valle nel successivo Stabilimento termale di Arto Terme (1963) e nel Palazzo per uffici in via Mercato Vecchio a Udine (1965), sviluppa una sagace disponibilità e modi che ricercano un'attiva connessione con i caratteri del sito. Più recentemente, nel Quartiere residenziale alla Giudecca a Venezia (1986), l'operazione di connessione si costruisce soprattutto sulle cadenze della morfologia urbana veneziana trascurandone il riesame tipologico; mentre nella ristrutturazione del palazzo per la Banca Commerciale Italiana a Manhattan (1981-82) e nel Palazzo per uffici alla Défense di Parigi (1984-88) resiste alla mitologia delle luccicanti, ossessive pareti tipiche degli edifici del terziario modernista. In particolare a New York riformula, ''prosegue'' per ''analogia'', i caratteri dell'architettura preesistente di F.M. Kimball, su cui interviene e di cui manipola con sagacia gli spunti evitando il ''ritorno alla norma'' della condizione postmoderna.
Sul fronte delle esperienze esterne all'architettura del Modern il quadro si presenta particolarmente complesso. Capofila del classicismo archetipico, suo elaboratore cosciente fin dalle prime opere − dal non dimenticato Monumento alla Resistenza di Segrate (1965) − è A. Rossi. La cui forza formativa, attivata sulla lezione di A. Loos riscoperto attraverso G. De Finetti come "l'ultimo classico e il solo classico della nostra età", sta − crediamo − nella capacità a desumere creativamente dal repertorio classico sobri archetipi basali, sottoposti a un processo di severa semplificazione. Emblematizzati quel tanto che basta, oltre quanto l'operazione astrattizzante ne disseccherebbe le potenzialità espressive, rilanciati poi in contesti tipologici e in connessioni formali diverse. Il recupero di questi archetipi, accolti nella loro flagranza formale, supera la semplice citazione e riesce per lo più a rilanciare − salvo i momenti di caduta creativa − un'essenzialità nuova; la quale si avvale spesso, per qualificare le nuove figure, di un tono figurale di particolare ''straniamento''. In questa linea notevoli risultati espressivi sono raggiunti nelle opere dell'ultimo periodo: dal Cimitero di Modena (iniziato nel 1971, in corso di realizzazione), alla Scuola elementare di Fagnano Olona (1976), al Teatro del Mondo per Venezia (1979), alla Scuola media di Broni (1981), notevolissima nella cadenzatura assializzata dei volumi crescenti verso il grande ottagono centrale. E ancora nel complesso per uffici ''Casa Aurora'' a Torino (1987), così sintetico ed espressivo a un tempo nella forza turrita del giro d'angolo, in cui s'incide un ordine colonnare monumentale, foriero degli sviluppi del complesso residenziale di Kochstrasse a Berlino (1987); o infine nel notevole risultato del Centro Torri a Parma (1988).
Tra le opere di altri autori, che si rifanno alla poetica di A. Rossi e più o meno vicini a lui nell'esperienza, si possono citare le ricerche del gruppo COPRAT, in particolare le abitazioni popolari in corso Garibaldi a Mantova (1981), fortemente caratterizzate da una severa cadenza volumetrica che isola i singoli alloggi, chiusi da una loggia architravata di sicura risonanza, in cui echeggiano allusioni al Foschini romano di corso Rinascimento; quindi il progetto per il concorso per il Ponte Rialto a Venezia (1985), essenziale nella sua sintetica figura a gigantesco ''timpano'' oltrepassante le acque. E inoltre i progetti di A. Ferlenga, in particolare quello per il Poble Nou a Barcellona (1980); le opere degli svizzeri B. Reichlin e F. Reinhart, operanti per lo più nell'area svizzera del Ticino, di cui vanno ricordate la ''palladiana'' Casa Tonini a Torricella (1972-74), la Casa Sartori (1976-77), la Casa Rivola a Rivera (Canton Ticino); la presenza di L. Scacchetti, di cui si segnala l'edificio per abitazioni in corso Garibaldi a Milano (1985).
Capofila di un classicismo ''logico'', sorpassante la ''razionalità'' del razionalismo, giocato su una rigida ''fissazione'' procedurale, è G. Grassi, il cui scavo nella lezione classica è modalità per una ''costruzione logica'' della nuova architettura, tesa al ritrovamento di quegli ''elementi costanti'', degli ''aspetti di generalità'', delle ''forme perpetue'' in essa depositate. ''Costruzione logica'' che vorrebbe perseguire lo scopo ''non raggiunto'' dal razionalismo architettonico: quello di un'architettura come scienza. Una ''costruzione'' che si concretizza nella reiterata esplorazione di pochi, anzi pochissimi, schemi organizzativi del patrimonio antico. Tra questi, la simmetria completa o ancipite, le cadenze e i ritmi equivalenti e costanti, il porticato anteposto ai blocchi edilizi; strumenti piegati a fissare i tanti temi dell'architettura. Tra i risultati conseguiti da questa poetica dell'''uguale'' vanno citate alcune opere in cui, dopo il notevole progetto elaborato con A. Monestiroli della Scuola media a Tollo (1975), d'intensa qualità, ritorna il tema porticato-loggiato-ballatoio a ordine pilastrato giustapposto o combinato con distillate immagini edilizie in poche centellinate combinazioni compositive. Così nella Casa dello Studente a Chieti (1976), nel progetto per Quattro residenze a Miglianico (1979), sul tema della villa rustica; e nella Casa in Rauchstrasse a Berlino (1984). Sulla linea di queste ricerche, essenzializzate fin quasi alla ripetizione, vanno ricordati anche i lavori di A. Monestiroli, collaboratore di Grassi in molte opere, che, nel progetto dell'Asilo a Segrate − con A. Di Leo e P. Rizzato (1987) − e nella Casa per anziani a Galbiate (1982-87) svolge il soggetto del porticato in esili altissimi pilastri, immersi in cadenze mono-tone.
Su un piano di maggior autonomia rispetto al codice classico si pongono altri architetti che, utilizzando un approccio più libero della memoria, mettono in risonanza una gamma di innesti particolarmente ricca. Antesignano e capofila di questo atteggiamento è P. Portoghesi, della cui risolutiva importanza come critico e architetto già dalla stagione degli anni Cinquanta abbiamo accennato all'inizio. La sua ricerca, dopo un affondo svolto negli anni Sessanta su modi organizzativi del linguaggio moderno, ripensati in un sentire spaziale, polarizzato su moduli circolari (Casa Andreis, 1969; Casa Paganica, 1970; Centro culturale a L'Aquila, 1982), in particolare nelle case IACP ad Anguillara (1979-85), nel progetto per il Centro commerciale per la città di Vallo di Diano (con G. Ercolani e G. Massobrio), nell'alto risultato della facciata della Strada Novissima alla Biennale 1980, nel complesso residenziale ENEL di Tarquinia (1981-85) e nel progetto per la Città della scienza al quartiere Testaccio di Roma (1983), mette a frutto l'acuta sensibilità a captare spunti attivi della cultura storica e della tradizione architettonica del luogo con risultati di alta valenza. In modo analogo nella lunga vicenda progettuale della nuova Moschea di Roma (1975-91) arriva a colloquiare creativamente, tramite l'amata mediazione barocca di G. Guarini, con la tradizione architettonica araba: consegnando un edificio il cui valore dello spazio interno deposita un risultato spirituale e formale di notevole significato.
Su un fronte autonomo di decisa e radicale critica alle insufficienze del Movimento moderno e di riscoperta della storia come fonte di leggi di composizione e deposito di significati architettonici, si è posta fin dal suo primo costituirsi (1964) l'opera del gruppo GRAU (Gruppo Romano Architetti Urbanisti), per il quale l'architettura del Movimento moderno andava reimmersa in una continuità con quella eclettica e neoclassica, nel nome della comune emergenza dal ciclo storico della borghesia. Quindi una diversa tradizione dell'architettura ricercata contro l'esasperante cifra del ''nuovo'', propria delle avanguardie moderniste; recupero positivo attivato dalla sollecitazione vivida dell'architettura di L. Kahn e centrata, come dirà Portoghesi nel 1980, su una "ritrovata complessità organica". Carattere questo che, al di là delle cadenze personali, pure particolarmente qualificanti e che si evidenzieranno soprattutto dopo l'allentamento del gruppo successivo al 1968, s'integrerà con una più decisa accelerazione verso lo spessore semantico dell'architettura. Così nell'elevato risultato del Cimitero di Parabita (1967-72) di A. Anselmi e P. Chiatante, poi ripreso nei successivi lavori per Santa Severina da A. Anselmi e G. Patanè (Cimitero, 1982, e Piazza, 1983). Così la nuova complessità simbolico-geometrica dispiegata nei concorsi per gli Archivi di Stato a Firenze (1972) e per il Mercato dei fiori di Sanremo del 1973-75 (A. Anselmi, P. Chiatante, R. Mariotti, F. Pierluisi). La novità della prima stagione del GRAU sta in una immissione, che spesso è sovrapposizione, nel meccanismo costitutivo della forma di sistemi di definizione, di tracciamento geometrico, di organizzazione proiettiva delle immagini, di polarizzazioni grafiche, esterni alla legge costruttiva del manufatto: inseriti con lo scopo d'intercettare − arricchendo o contestando − la legge naturale dell'organismo, onde uscire dal tono prevedibile dell'impianto e arrivare alla straniata aura perseguita. A volte toccando sintesi efficaci (Parabita), a volte fallendo quando la difficile fusione non riesce a portare a maturazione l'intellettualistica procedura (Mercato dei fiori di Sanremo, primo progetto). Ibridazioni difficili che sembrano calare d'importanza nelle opere degli ultimi anni. Di queste vanno segnalati i molteplici interventi edilizi a Cori, fra cui le Case Carpineti di M. Martini, F. Montuori, F. Pierluisi (1972) e la Casa Marafini (1987) di G. Colucci e F. Pierluisi.
Vicine all'atteggiamento di Portoghesi si possono collocare le ricerche di molti architetti della giovane generazione, che in Portoghesi hanno trovato non solo una valorizzazione critica di particolare spessore attraverso il lavoro della prima serie della rivista Controspazio, ma anche stimoli operativi diretti. In particolare vanno ricordate le proposte di C. D'Amato con la sua rielaborazione della facciata del Palazzo Miccichè a Scicli (1983), la Casa Reggini a San Marino (1985) e il recente maturo organismo per la nuova Facoltà di Architettura di Reggio Calabria (1990); le ricerche di G. Ercolani con i progetti per la Casa Giovannini a Rocca di Papa (1982-84) e per una Fontana a Fiumicino (1983); di G. Priori con i progetti per il Parco Muratori a Velletri (1983-84) e per il giardino per la piazza di Capena (1983); di S. Cordeschi con il Cimitero a ordine colonnare gigante di Ciampino (con L. Berretta, F. Quattrini) del 1981-90, memore delle suggestioni depositate da Fariello-Muratori-Quaroni nella piazza Imperiale all'EUR di Roma; di G. D'Ardia con il notevole progetto per Ca' Venier a Venezia, che ha ottenuto il Leone di Pietra alla Biennale di Architettura di Venezia (1985). E infine, anche se maturata lungo un itinerario personale di più complessa vicenda, la presenza di L. Barbera, in particolare col suo edificio residenziale in via Guadagno a Napoli (1985).
A un uso più ''edonistico'' del patrimonio classico si rapportano spesso molti dei giovani architetti, il cui impegno progettuale si è avviato a clima postmodern già consolidato; valga, a titolo di segnalazione dell'uso disinibito e spettacolare delle forme stilistiche storicistiche, il risultato dello Showroom Terzani a Firenze (1982), di R. Bertoni. Attraverso una molteplice desunzione di singoli sintagmi classicistici, combinati con sequenze razionaliste in libera commistione, si muovono i triestini C. e L. Celli con D. Tognon nelle ricerche dell'ultimo quindicennio. Dopo il gigantesco quartiere-edificio residenziale su corte quadrata di Rozzol Mellara a Trieste (1968-83), emergente dall'enfasi posta negli anni Sessanta sulla grande dimensione, nell'attuale diversa declinazione del loro fare arricchiscono secondo un vitalismo eclettico nostalgico della classicità gli organismi recenti dando loro una particolare caratterizzazione: tra questi si ricordano il deciso organismo del palazzo del Lloyd Adriatico di Assicurazioni a Trieste (1990) e il progetto per la nuova espansione dell'Ospedale di Cattinara a Trieste (1985).
Su una linea più autonoma rispetto al codice classicista e con le relative connessioni stilistiche si colloca poi, come parte molto viva delle ricerche uscite dal Modern, tutto un gruppo di ricercatori, i quali avviano le loro operazioni formative impegnandosi prevalentemente in un serrato colloquio con la tradizione del luogo, guardando in particolare ai caratteri dell'architettura rurale o cittadina che concreta il sito. Capisaldi di quest'atteggiamento ed espressioni eminenti dello stesso sono le opere di Gabetti e Isola, a cui si è già accennato in apertura per l'importanza storica che questa ricerca ha avuto nell'inaugurare il distacco dal Modern. A fianco di Gabetti e Isola, va posta l'opera di G. Raineri, che ha firmato insieme ai due alcune delle opere dei decenni Cinquanta e Sessanta, ma che poi ha sviluppato questa poetica secondo una linea autonoma; oltre al non dimenticato alto risultato della Cooperativa agricola di Montalenghe presso Torino (1957-58), vanno ricordati il complesso del Noviziato delle Suore della Carità (1962), la notevolissima Scuola materna a Mondovì in collaborazione con L. Mannino (1972), le case d'abitazione a Dogliani in via Codevilla (1986).
Alla tradizione rurale o dei ''paesi'', al recupero e alla riattualizzazione dei tanti archetipi e delle ricche sintesi formative ivi depositate, particolarmente attive perché meno cogenti dal punto di vista stilistico e più facilmente ibridabili nella tradizione del moderno, si rifanno − ciascuno secondo una linea specifica − molti dei più significativi attori delle presenti ricerche italiane. Converrà citarne qualcuno tra quelli che finora più si sono evidenziati.
A. Cortesi, di cui va ricordata la ruvida, efficace immagine della Casa a Langhirano (1972), chiusa da una severa altana, e la Casa a Noceto (1983), libera rievocazione delle suggestioni volumetriche e costruttive dei casali contadini. U. Riva, che, dopo gli intrecci spaziali desunti dalle cascine pilastrate della campagna lombarda, svolti nella Casa a Taiano-Varese (1967), conferma nelle successive opere la capacità a coniugare nella conformazione dell'organismo recuperi della tradizione con libere manipolazioni spaziali e strutturali: come nelle tre Case per vacanze a Stintino (1973) e nell'organismo scolastico di Faedis (1980), di cui si segnala il complesso risultato spaziale interno.
Su un piano a parte, pur entro il movimento di uscita dal razionalismo, si muove la particolare ricerca di N. Pagliara; la quale, dopo le prime prove di decisa espressività volumetrica, ha trovato nel ripensamento di suggestioni della Scuola di Vienna un orizzonte stabile di riferimento. Delle recenti sue opere si ricordano i bei risultati della Cassa rurale a Capaccio Scalo e la Nuova Sede per il Banco di Napoli a Napoli; nelle quali Pagliara si mostra cultore di una cifra sofisticata di notevole livello, ancorché distaccata dalla temperie largamente omologata dell'oggi.
A questi più maturi architetti vanno affiancate le belle prove dei più giovani. A. Natalini, che si segnala per l'alto livello raggiunto nel Centro elettrocontabile di Zola Pedrosa (1983) e nella Cassa rurale e artigiana di Alzate Brianza (1983) oltre che nel Teatro per la Regione Toscana a Firenze (1987), riesce a ripensare creativamente, con risultati notevoli, i temi della cascina pilastrata della campagna padana e quello del teatro cittadino della tradizione premoderna. A. Burelli, che nei municipi di Montenars (1982) e di Cercivento (1983) sa conferire al tema dell'edificio rappresentativo cadenze significative, in cui convergono sapienti risonanze della tradizione espressiva del luogo. P. Zermani, che nelle opere per Medesano − il Teatro per il Foro Civico (1984) e il Padiglione di Delizie (1986) − inventa suggestive immagini, nuove e antiche insieme, distillando con arguzia dalla tradizione spunti organizzativi sapientemente tradotti in forme, ove convergono echi delle ricerche e conquiste anche della più recente ricerca internazionale (Kahn, M. Botta). O. Zoeggler, che soprattutto nell'edificio residenziale (1983) in via Gries a Chiusa (Bolzano) rivisita efficacemente e con ironia la libera intrecciata spazialità delle residenze della tradizione altoatesina, configurando un ''ingresso'' che è a un tempo monumentale e ''cordiale''.
Su un fronte di maggior autonomia, pure a partire da tutto un insieme di spunti significativi desunti dalle tradizioni costruttive dei luoghi e/o dei temi storici, quasi ormai liberi dal ''problema'' della riconnessione moderno/antico di questi anni, si muovono altri architetti delle nuove generazioni, F. Cellini, F. Purini, P.P. Balbo, T. Paris. Cellini ha legato più strettamente i suoi esordi all'utilizzazione disinibita e libera di stilemi della tradizione storica: si vedano i progetti per la sistemazione della piazza Fuscani di Genzano (1983), di piazza dei Cinquecento a Roma (1982), nonché quello per il Sottovia di piazza della Repubblica a Torino (elaborati questi ultimi con N. Cosentino). La ritrovata libera contiguità fra tradizione del moderno e tradizione antica fruttifica poi invenzioni di valore in altri suoi progetti: nel Complesso residenziale Furama (Torino, 1983), in cui il rinnovamento del sistema scale/ballatoi consente di trasformare decisamente e con risultati molto positivi le cadenze spaziali interne ed esterne degli edifici, o nel progetto presentato al Concorso internazionale per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia (1988), che lo ha visto vincitore su un selezionato e qualificato lotto di concorrenti.
Purini, la cui poetica dell'architettura come ''apparizione inquietante'', attraverso la quale ha dato sostanza a una vis disegnativa intensa, e il cui amore per la storia è a un tempo tensione rivolta al prelievo di archetipi fascinosi e contemporaneo desiderio di un ''congedo'' dalla stessa (una sorta di distacco dalla ''madre'') per accamparsi in una razionalità ''visionaria'', insegue nei suoi tanti progetti − elaborati per lo più in collaborazione con L. Thermes − una complessità congestionata di spazi e di figure costruttive. In essi, stereotipi semplificati e figure architettoniche, desunte dai più vari contesti, si accavallano e si scontrano, affascinanti a livello grafico, a volte meno convincenti a livello del costruito. Valgano per tutti il caso della Casa per un farmacista a Gibellina (1982-88), la notevole invenzione del Municipio di Castel Forte (progetto 1983), col gran cornicione terminale conformato a iper-gola diritta, o la perplessa accumulazione dei tanti pilastri nella Cappella di S. Antonio a Poggioreale (Trapani, 1988).
Su un particolare aspetto della ricerca architettonica, fortemente rilanciato dal lavoro di rifondazione innovativa di Kahn ma abbastanza marginalizzato nel convulso progredire del rinnovamento apertosi con gli anni Settanta, vorremmo ora richiamare l'attenzione in chiusura: lo spessore ''rivelativo'' della qualità umana, che l'architettura contiene in tutti i suoi temi e nelle opere veramente significative. Il tema cioè di quale sia la ''natura'' che ''distingue'' le diverse ''istituzioni'' umane e che presiede all'invenzione formale, e quale sia l'identità ontologica che risiede in ciascuna di esse. Niente di meglio, per chiarire questo tema critico e formativo, che accennare − per il periodo in questione − al problema dell'architettura sacra. Tema che vive, quasi esclusivamente, sulla capacità dell'architetto di raggiungere proprio lo strato ontologico connesso al costruire. Non a caso, proprio la piatta procedura funzionalista, che dimentica questo strato, ha bruciato lo spessore di verità dell'architettura, presente invece nelle opere prerazionaliste: si pensi soltanto a quelle di P. Bonatz, di P. Behrens, di H. Poelzig. Non a caso le tante chiese costruite negli ultimi decenni, invece di raccogliere la positiva provocazione, creata dal rinnovamento liturgico introdotto dal Concilio Vaticano ii, di recuperare nei nuovi modi della liturgia postconciliare l'essere dello spazio sacro, si sono chiuse in una piatta ridefinizione funzionale del presbiterio e in una sua interpretazione spaziale per lo più di anonima unificazione. Quando invece la natura profonda del colloquio religioso, che rapporta l'uomo con Dio, l'esigenza di esprimere la grandezza della presenza dell'''altro'', che presiede alla ragione del riunirsi nell'aula sacra del popolo di Dio e a cui è finalizzata la preghiera, avrebbe dovuto spingere verso una differenziata valorizzazione spaziale delle differenti ''carature'' liturgiche e simboliche dell'aula (presbiterio, assemblea, luoghi dei sacramenti, ecc.). Se per lo più questo tema è stato eluso, tuttavia alcune opere indicano la potenzialità e la reale qualità di questo spessore simbolico-veritativo, su cui costruire il valore espressivo dello spazio architettonico.
Su questa linea vanno segnalate le chiese milanesi di Figini e Pollini, quella della Madonna dei Poveri (1952-54) e quella dei SS. Giovanni e Paolo (1968) di forte caratterizzazione espressiva nello spazio interno e nell'intensa articolazione volumetrica; le chiese di S. Giovanni Bosco a Bologna (1968) e di S. Giorgio Barbarigo a Roma (1970) di G. Vaccaro; la notevole Nuova Cattedrale di Taranto (1964-71) di G. Ponti a facciata ''traforata'', gioiosamente svincolata dalle gabbie delle obbligazioni funzionaliste, libero recupero delle facciate-pareti della tradizione chiesastica italiana (si pensi al traforo di archeggiature del S. Michele di Lucca svettante al di sopra delle navate); le chiese di G. Gresleri e S. Venier tra cui quella di S. Francesco a Pordenone (1974); le chiese di S. Rita da Cascia a Cava dei Selci-Marino (1975) e dei SS. Gioacchino e Anna a Cinecittà a Roma (1982) di S. Benedetti, che ripropongono e rinnovano con forza archetipi religiosi e valori simbolici; la chiesa di S. Valentino nel Villaggio Olimpico a Roma (1987) di F. Berarducci che organizza e gerarchizza l'articolazione volumetrica sullo spazio-luce dell'altare; così ancora l'intenso risultato espressivo della nuova Moschea di Roma di Portoghesi, a cui si è precedentemente accennato.
La qualità notevole di queste opere, così positivamente espressive del valore simbolico, che si esalta al massimo nel tema sacro, ma che risiede, come sottolinea Kahn, in tutti gli organismi-istituzione dell'operare architettonico, indica uno spessore specifico dell'architettura.
Le varie linee di sviluppo dell'architettura italiana dagli anni Settanta a oggi, esterne alle riprese del Modern, trovano, pur nella loro diversità, un'attiva comunanza nell'acuta attenzione alle qualità permanenti contenute nella grande tradizione architettonica, che con sagacia, quale in un senso quale in un altro, si torna a indagare con amore. Il patrimonio basale di questa grande tradizione, unito alla naturale e non più ideologica appartenenza al flusso del tempo attuale − un Moderno non mitizzato, né vituperato − determina un campo d'ispirazione non più drammaticamente visitato, ma vissuto nella sua immersione naturale. È così che la lotta per l'oltrepassamento della linea del Modern, vivamente presente in opere della generazione nata intorno al 1930, sembra ora stemperarsi in una fase in cui, tra transizioni ed eclettiche libertà, si è conquistato il distacco dal culto del Nuovo come totale cambiamento e da un progresso ideologicamente inteso; sostituiti per lo più da un sentimento del cambiamento, come scorrimento entro un destino, che potrà sembrare meno ''eroico'' di quello delle avanguardie, ma che non è meno drammatico.
Se, come s'è accennato all'inizio, aspetto importante del tempo del postmodern è l'esigenza di una riapertura di contatti con la tradizione, per rimettere in luce l'esistenza positiva per la ricerca architettonica di ''regole comuni'', di ''costanti'', la cui esistenza non solo non taglia la soggettività ma la fonda e la libera dall'assillo del novum, allora lo sviluppo del colloquio con questo ritrovato antico/nuovo retroterra non dovrà intendersi come un vago contenitore di possibilità senza vincoli, di un fluttuante patrimonio da depredare, ma come richiamo a una radice, a una sorgente, su cui fondare e da cui attivare l'atto progettuale necessario per l'oggi.
Bibl.: P. Portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty, in Comunità, 65 (1958); R. Banham, Neo liberty. The Italian retreat from modern architecture, in The Architectural Review, 747 (1959); A. Rossi, L'architettura della città, Padova 1966; G. Grassi, La costruzione logica dell'architettura, ivi 1967; V. Gregotti, Orientamenti nuovi nell'architettura italiana, Milano 1969; P. Portoghesi, Dopo l'architettura moderna, Roma-Bari 1980; AA.VV., La presenza del passato, Catalogo della Mostra internazionale della Biennale di Venezia, Venezia 1980; Aldo Rossi, a cura di G. Braghieri, Bologna 1981; A. Del Noce, L'idea di modernità, in AA. VV., Modernità. Storia e valore di un'idea, Brescia 1982; Guido Canella, a cura di K. Suzuki, Bologna 1984; G. Caniggia, G.L. Maffei, Moderno, non Moderno. Il luogo e la continuità, Venezia 1984; Paolo Portoghesi, a cura di G. Priori, Bologna 1985; A. Belluzzi, C. Conforti, Architettura italiana 1944-1984, Roma-Bari 1985; L. Benevolo, L'ultimo capitolo dell'architettura moderna, ivi 1985; P. Portoghesi, I nuovi architetti italiani, ivi 1985; M. Tafuri, Storia dell'architettura italiana, Torino 1986; Vittorio Gregotti, a cura di S. Crotti, Bologna 1986; G. Muratore, A. Capuano, F. Garofalo, E. Pellegrini, Italia. Gli ultimi 30 anni, ivi 1988; Gabetti e Isola, a cura di P. Zermani, ivi 1989; R. Gabetti, C. Olmo, Alle radici dell'architettura contemporanea, Torino 1989; G. Penati, Modernità e postmoderno nel pensiero filosofico attuale, in Communio, 110 (1990); P. Zermani, Ignazio Gardella, Roma-Bari 1991.
Musica. - La diffusione del serialismo postweberiano verificatasi negli anni Cinquanta segnò anche in I., come nel resto d'Europa, l'inizio di un radicale rinnovamento nell'insieme della vita musicale. Le prime presenze italiane a Darmstadt furono infatti quelle di giovani compositori di grande rilievo, fra cui va ricordato anzitutto L. Nono (1924-1990), che fu subito fra i maggiori rappresentanti della neoavanguardia europea con il tedesco K. Stockhausen e il francese P. Boulez, e ancora B. Maderna (1920-1973) e C. Togni (n. 1922).
Nono esordì nel 1951 a Darmstadt con Polifonica-Monodia-Ritmica, per orchestra da camera; più tardi si allontanò dal serialismo in favore di un discorso musicale maggiormente sensibile all'impegno politico: a questa nuova fase della sua attività appartengono lavori che risalgono ai primi anni Settanta, come per es. Como una ola de fuerza y luz (1971-72), scritto in collaborazione, fra gli altri, con il direttore d'orchestra C. Abbado (n. 1933) e il pianista M. Pollini (n. 1942). Tra i suoi lavori successivi figura Quando stanno morendo (Diario polacco n. 2), per quattro voci femminili, flauto, violoncello e sintetizzatore (1982); A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili, per orchestra ''a microintervalli'' (1984); Prometeo, ''tragedia dell'ascolto'' (1982-83), su testo di M. Cacciari, presentato a Venezia nel settembre 1984.
Maderna ha fatto uso della tecnica seriale in Serenata n. 2 per 11 strumenti (1957). Dopo la sperimentazione del mezzo elettronico, si è dedicato alla musica sperimentale sia strumentale che vocale (da Hyperion, su testo di Hölderlin, 1964, a Serenata per un satellite per 8 strumenti, 1969). In composizioni più tarde è tornato alla musica elettronica (così in Tempo libero I e Ausstrahlung per voce femminile, flauto, oboe, orchestra e nastro magnetico).
Tra le opere più recenti e significative di Togni si ricorderà il dramma in tre scene Blaubart (1972-75), che venne rappresentato alla Fenice di Venezia nel dicembre 1977.
Se Maderna, Nono e Togni furono a Darmstadt fra il 1949 e il 1950, alla metà del decennio prese parte ai corsi della città tedesca un secondo gruppo di giovani compositori italiani, i quali per parte loro contribuirono ulteriormente alla diffusione della Nuova Musica nel nostro paese: si tratta di compositori che per formazione e luogo di attività vengono solitamente ricondotti in parte all'''area milanese'', come nel caso di V. Fellegara (n. 1927), N. Castiglioni (n. 1932) e F. Donatoni (n. 1927), in parte a quella ''romana'', come A. Clementi (n. 1925), F. Evangelisti (1926-1980) e D. Guaccero (1927-1984).
Tra le prime opere di Fellegara compare il balletto Mutazioni (1962), scritto con la collaborazione del poeta N. Balestrini e del pittore A. Perilli; tra le successive andrà ricordato il Notturno per soprano, contralto, coro maschile e orchestra, su testo di Verlaine (1971), e Chanson, per soprano e orchestra da camera, su versi di Eluard (1976).
Castiglioni presentò nel 1958 a Darmstadt Inizio di movimento per pianoforte. Tra i suoi lavori più significativi è Eine kleine Weihnachtsmusik per orchestra da camera (1959-60), presentato al Festival di Venezia nel settembre 1960. Posteriori, le due opere in un atto Oberon. The fairy Prince, e The Lord's masque, rappresentate a Venezia nell'ottobre 1981.
Donatoni si è rifatto dapprima alle teorie dell'indeterminatezza di J. Cage (così nel Quartetto IV ''Zrcadlo'', del 1963), inaugurando più tardi una fase compositiva nuova con Puppenspiel 2, per flauto e orchestra da camera (1966). Più recentemente si è dedicato al teatro con Atem, opera rappresentata alla Scala nel febbraio 1985. Tra le opere più significative di Clementi andrà ricordato il Concerto per violino, 40 strumenti e carillons (1977); il Capriccio per viola e 24 strumenti (1979-80); il rondò in un atto Es (1980), rappresentato alla Fenice di Venezia nell'aprile 1981. Fra gli altri ''romani'', F. Evangelisti si è dedicato particolarmente alla sperimentazione elettroacustica, mentre D. Guaccero raggiunse risultati notevoli in Rappresentazione et esercizio, azione sacra per 12 esecutori (1968), e nelle Descrizioni del corpo (1973-78).
Altri giovani autori, che pure furono presenti a Darmstadt, si posero tuttavia all'avanguardia nella ricerca di nuove forme aperte all'elemento rappresentativo e teatrale, rompendo in tal modo con certo purismo sperimentale dominante ancora agli inizi degli anni Sessanta attraverso lo strutturalismo seriale. In questo quadro occorrerà ricordare A. Paccagnini (n. 1930), che nel 1959 presentò a Bergamo l'opera Le sue ragioni (su testo di E. Pagliarani), e soprattutto G. Manzoni (n. 1932), che fin dall'inizio si mostrò sensibile al discorso dell'impegno politico aperto proprio in quegli anni dallo stesso Nono (il quale presentava nel 1960 l'opera Intolleranza, su testo di A. M. Ripellino), da Maderna e da Togni, proponendo nel 1960, sempre a Bergamo, l'opera La sentenza (libretto di E. Jona, da F. Fortini), confermandosi negli anni seguenti uno degli autori più significativi dell'attuale panorama musicale italiano. Ancora agli anni Sessanta risale la composizione di Ombre, per orchestra e voci corali, mentre negli anni seguenti ha composto le Scene sinfoniche per il Doktor Faustus di Th. Mann (1984) e lo Studio per il finale del Doktor Faustus (1985). Alla ''scuola romana'' appartengono ancora B. Porena (n. 1927), E. Macchi (n. 1928), G. Maselli (n. 1929) e F. Razzi (n. 1932).
Formazione autonoma rispetto alla darmstadtiana ha avuto un altro grande rappresentante della neoavanguardia, L. Berio (n. 1925).
Dopo aver aderito ai modi postweberniani in lavori come Alleluja II per 5 gruppi strumentali (1957) e Sequenza I per flauto solo (1958), Berio si è dedicato a un radicale sperimentalismo, che lo ha condotto alla composizione di opere notevoli, fino a La vera storia, su testo di I. Calvino (composta nel 1976-79 e rappresentata a Milano nel 1982), e Un re in ascolto, ancora su testo di Calvino (del 1982-83, rappresentata a Salisburgo nel 1984).
Unica figura di spicco dell'avanguardia del tutto estranea al discorso seriale è quella di S. Bussotti (n. 1931), la cui produzione comprende lavori particolarmente significativi, come il poema sinfonico I semi di Gramsci (1971) per quartetto d'archi e orchestra; La racine, per 5 mimi, pianoforte e voci (1980); il balletto pantomima di J. Dupin Miró, l'uccello luce (1981), e l'opera Phoedra-Heliogabalus (1981).
Fra gli autori che presero a gravitare intorno all'associazione Nuova Consonanza, fondata intorno al 1961, fra gli altri, da F. Evangelisti e D. Guaccero a Roma, è possibile ricordare M. Bortolotti (n. 1926), E. Macchi, E. Morricone (n. 1928) e M. Bertoncini (n. 1932); provenienti dall'ambiente fiorentino sono C. Prosperi (n. 1921) e R. Pezzati (n. 1939), oltre a esponenti di un più accentuato sperimentalismo, come B. Bartolozzi (n. 1911), A. Benvenuti (n. 1925), P. Grossi (n. 1917) e G. Chiari (n. 1926).
Compositore della generazione più anziana, la cui opera è rimasta negli ultimi decenni costantemente legata alle vicende della Nuova Musica, è G. Scelsi (n. 1905), autore prolifico, delle cui composizioni si ricordano Kya e Le réveil profond (1984), Anahit, Chukrum, Quattro illustrazioni, Ixor e Tre studi (1985), Quattro pezzi per tromba (1986), Ka n. 10, Suite n. 8 Bot-Ba e Ttai n. 9 (1987), Quattro illustrazioni sulle Metamorfosi di Vishnu e Ko-Lho (1988).
Eventi di rilievo che contribuirono variamente alla diffusione della Nuova Musica in I. fra gli anni Cinquanta e Sessanta furono senz'altro il Convegno internazionale sulla Situazione della musica nel XX secolo, tenutosi a Roma nell'aprile 1954; il progetto ''Incontri Musicali'' di Milano (1956), cui furono legati l'omonima rivista, diretta da L. Berio (1956-60), la serie di concerti di musica contemporanea (1957-58) e l'attività del gruppo da camera organizzato da B. Maderna; il xxxiii Festival mondiale della Società internazionale di musica contemporanea (Roma 1959), l'organizzazione annuale del Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia (dal 1973 come settore ''teatro-musica'' della Biennale veneziana), sotto la direzione di A. Piovesan (cui si deve tra l'altro l'esecuzione di lavori stravinskiani, di B. Britten, S. Prokofiev, e degli stessi Nono e Maderna), e più tardi di M. Labroca, che grande spazio riservò alla neoavanguardia italiana, e in particolare alle opere di Clementi, Castiglioni, Nono, Berio, Togni e Maselli.
Nel 1955 Maderna e Berio fondarono a Milano lo Studio di fonologia per la Ricerca elettronica della RAI, presso il quale lavorarono, oltre ai suoi fondatori, rappresentanti illustri della nuova musica europea, come H. Pousseur e A. Boucourechliev, l'americano Cage, e successivamente gli italiani Nono e Paccagnini, al quale verrà affidata nel 1968 la direzione dello Studio. Seguirono l'esempio dello studio milanese altri centri minori, come lo Studio dell'Accademia filarmonica romana (1957), lo Studio di fonologia musicale di Firenze (1963) e lo Studio di musica elettronica di Torino (1964).
Negli anni seguenti la ricerca per la musica elettronica ha trovato un'attenzione crescente anche in molti dei conservatori e delle università delle città più importanti, anche se piuttosto in una forma spontanea, che non per una effettiva programmazione da parte dello stato. In questi ultimi anni si è particolarmente sviluppata l'attività del Laboratorio per l'Informatica Musicale del settore musicale della Biennale di Venezia (LIMB), sorto nel 1980. Nel 1981 è stata fondata l'Associazione di Informatica Musicale Italiana (AIMI), mentre nel 1982 si è tenuta a Venezia, e per la prima volta in Europa, la sessione annuale della International computer music conference.
Nel 1960 veniva intanto organizzata la prima delle sei Settimane internazionali della nuova musica di Palermo, che coprirono quasi tutto il decennio e videro la partecipazione dei maggiori esponenti del panorama musicale contemporaneo, non solo italiano, ma anche europeo ed extraeuropeo. Le Settimane furono legate al nuovo Istituto per la storia della musica di Palermo (1958), affidato a L. Rognoni, sotto il cui impulso ebbe origine nel 1959 il Gruppo Universitario per la Nuova Musica (GUNM).
Tra le altre importanti manifestazioni legate alla Nuova Musica e sviluppatesi fra gli anni Sessanta e Settanta, e che caratterizzano tuttora il nostro panorama musicale, è possibile ricordare i Giorni della nuova musica dell'Autunno musicale di Como (1967), la Rassegna internazionale di musica pianistica contemporanea del Festival pianistico di Brescia e Bergamo (1969), e l'iniziativa milanese di Musica del nostro tempo (1976).
Fra gli autori che vengono affermandosi in questo periodo, una particolare attenzione meritano S. Sciarrino (n. 1947), P. Renosto (n. 1935), F. Pennisi (n. 1934), A. Corghi (n. 1937), A. Gentilucci (n. 1939) e D. Anzaghi (n. 1936). Accanto a essi è possibile inoltre menzionare F. Oppo (n. 1935), G. Giani-Luporini (n. 1936), U. Rotondi (n. 1937), C. De Incontrera (n. 1937), G. Zosi (n. 1940), W. Branchi (n. 1941), G. Baggiani (n. 1932) e I. Vandor (n. 1932).
Notorietà a livello internazionale hanno inoltre raggiunto durante gli anni Settanta anche L. Lombardi (n. 1945), G. Sinopoli (n. 1946), A. Guarnieri (n. 1947), S. Gorli (n. 1948), L. Ferrero (n. 1951); si sono affermati nell'ultimo decennio F. Vacchi (n. 1949), R. Abbate (n. 1950), G. Cappelli (n. 1952), F. Carluccio (n. 1952), I. Fedele (n. 1953), M. Tutino (n. 1954), G. Taglietti (n. 1955), M. Ferrari (n. 1956), L. Mosca (n. 1957), G. Testoni (n. 1957), F. Incardona (n. 1958), M. Stroppa (n. 1959).
Ancora si possono menzionare L. Ceccarelli (Koan, 1986, e Koan II, 1988), F. Grillo (Lideison, 1984, e Improvviso, 1985), D. Lombardi (Per Agata Smeralda come Alice Through the Looking Glass, 1985), G. Lorenzini (Opera 2, 1986), M. Mollia (Diaphanes, 1976), R. Musto (Interludio n. 2, 1976), A. Sbordoni (Angelus Novus, in ricordo di I. Calvino, 1985, ed Eros: Daedalus, 1988), G. Schiaffini (Patchwork, 1986) e S. Scodanibbio (Due pezzi brillanti, 1988).
L'approvazione e l'attuazione di una legge generale di riforma del settore musicale, la cui urgenza è stata ripetutamente denunciata in questi ultimi anni, risultano ancora oggi disattese: la conseguenza di ciò è stato un progressivo aggravamento delle condizioni in cui versano le istituzioni musicali nel nostro paese, dal punto di vista finanziario e organizzativo. Ciò vale in modo particolare per enti di prestigio anche mondiale come il Teatro della Scala di Milano, il Teatro dell'Opera e l'Accademia di Santa Cecilia di Roma, e ancora il San Carlo di Napoli, il Regio di Torino e La Fenice di Venezia, accanto ai quali vanno ricordati gli altri enti lirico-sinfonici presenti ormai in quasi tutte le maggiori città, i numerosi teatri di provincia di antica tradizione (come il Petruzzelli di Bari, distrutto da un incendio nel 1991), e le maggiori istituzioni concertistiche, fra cui in particolare le orchestre sinfoniche della RAI di Milano, Roma e Torino. Particolarmente grave risulta la non attuazione di una riforma anche nel settore dell'educazione musicale, in mancanza di un quadro legislativo che ridefinisca attività e programmi non solo a livello scolastico − dove si deve segnalare l'assenza pressoché totale dell'insegnamento della musica nei programmi ministeriali − ma anche per quanto riguarda le istituzioni dei conservatori (alcuni dei quali ancora di notevole prestigio, come l'Accademia di Santa Cecilia di Roma, i conservatori di Venezia e Napoli), che risultano ormai gravemente isolate rispetto al più generale contesto sociale e culturale.
Bibl.: La vita musicale in Italia, supplemento al n. 12 (dicembre 1974) di Vita Italiana-Documenti e Informazioni, pubblicazione della presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1974; L. Pinzauti, Musicisti d'oggi. Venti colloqui, Torino 1978; M. Mollia, Autobiografia della musica contemporanea, Cosenza 1979; AA.VV. Di Franco Evangelisti e di alcuni nodi storici del tempo, Roma 1980; A. Gentilucci, Gestualità drammatica nel teatro musicale italiano del dopoguerra, in Musica/Realtà, dicembre 1980, pp. 81 ss.; A. Lanza, Storia della musica. Il Novecento, ii, parte seconda, Torino 1980, passim; AA.VV., Luoghi e momenti della musica. Firenze nel dopoguerra: aspetti della vita musicale dagli anni '50 a oggi, a cura di L. Pinzauti, S. Sablich, P. Santi, D. Spiri, Firenze 1983; G. Spina, L'educazione musicale nella scuola primaria, in Nuova rivista musicale italiana, 1984, pp. 284-92; R. Zanetti, La musica italiana nel Novecento, voll. ii e iii, Busto Arsizio 1985; La condizione del compositore oggi. Convegno internazionale, in La musica, 10, 1 (dicembre 1985); AA.VV., Bruno Maderna. Documenti, Milano 1985; AA.VV., Nuova Atlantide. Il continente della musica elettronica, Venezia 1986; Nono, a cura di E. Restagno, Torino 1987; G. Scelsi, ''Quaderni di Musica Nuova'', a cura di G. Castagnoli, ivi 1987; Itaco. Compositori italiani. Prime edizioni. Prime esecuzioni 1985-1987, a cura di D.F. Tomassini e M. Ruggieri, Roma 1989; D. Tortora, Nuova Consonanza. Trent'anni di musica contemporanea in Italia (1959-1988), Lucca 1990.
Cinema. - Nonostante le crisi ricorrenti e le molte carenze legislative, il bilancio della cinematografia italiana degli anni Ottanta può definirsi positivo almeno per quanto riguarda la conferma di autori già affermati, la maturazione di alcune ''promesse'' e l'affacciarsi di nuovi autori dotati di buon estro e discreta originalità.
Fra i maggiori, anche se presto ostacolato da problemi di salute, M. Antonioni (v. in questa Appendice), presente con due film, uno, Il mistero di Oberwald (1980), in cui sperimentava nel cinema le nuove tecnologie elettroniche, con speciale attenzione per il colore, l'altro, Identificazione di una donna (1982), sulla scia dei suoi abituali approfondimenti psicologici dell'universo femminile: con un linguaggio teso e asciutto. Più ampia l'attività di F. Fellini (v. in questa Appendice) che, con quattro film (E la nave va, 1983; Ginger e Fred, 1985; Intervista, 1987; La voce della luna, 1989), ha proseguito con coerenza i cammini già intrapresi all'insegna non solo dell'autobiografia ma della visionarietà, con invenzioni creative soprattutto a livello di immagini, arrivate adesso fino al più rotondo e acceso barocco, coronate nel 1993 da un premio Oscar alla carriera che, trasformatosi quasi in apoteosi, lo ha in parte risarcito dell'inattività cui è stato costretto agli inizi degli anni Novanta.
Sorretti da splendide ricerche non solo formali ma di gusti e di stili nuovi, sono i film dei fratelli P. e V. Taviani (v. in questa Appendice), arrivati, con La notte di San Lorenzo (1982), a operare una perfetta fusione fra tre generi diversi, il cinema, il teatro, la musica, saldandoli fermamente alla cronaca, e intenti in seguito (Kaos, 1984; Good morning Babilonia, 1986; Il sole anche di notte, 1990; Fiorile, 1993) a trovare i collegamenti più giusti e creativi fra letteratura e cinema, imponendosi fra gli autori più stimolanti dell'intero decennio anche con ricerche linguistiche di classe.
La generazione più anziana, rappresentata soprattutto da L. Comencini (v. in questa Appendice) e M. Monicelli (v. in questa Appendice), pur discendendo, per opere e ispirazioni, dagli anni d'oro della ''commedia all'italiana'', anche là dove ha continuato a guardare alla comicità, l'ha stemperata in imprese in cui sull'ironia hanno spesso prevalso i sentimenti. Comencini soprattutto (Voltati Eugenio, 1980; Cercasi Gesù, 1982; Un ragazzo di Calabria, 1987; Buon Natale, Buon Anno, 1989; Marcellino pane e vino, 1991), più che in passato incline a studiare le psicologie giovanili fino a trarne, anche in cifre d'apologo, momenti di intensissime emozioni. Più aperto all'umorismo, invece, sia pure spesso anche con sentimento, M. Monicelli (Temporale Rosy, 1980; Il marchese del Grillo, 1981; Amici miei atto II, 1982; Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, 1984; Speriamo che sia femmina, 1985; I Picari, 1987; Parenti serpenti, 1992), attento a tenersi in equilibrio fra lo spettacolo vivace, anche nella caricatura e nella beffa, e le considerazioni fini sulla società di oggi, analizzata spesso anche attraverso la letteratura e il costume.
Fra gli esponenti della generazione di mezzo hanno continuato a proporsi spesso con fortuna due autori che si erano già affermati nel decennio precedente, F. Rosi ed E. Scola (v. in questa Appendice). Non più legato come un tempo alle correnti polemiche e civili, Rosi ha raggiunto comunque con Tre fratelli (1981) uno dei suoi momenti stilistici e narrativi più alti; le opere seguenti sono di gusto scopertamente letterario (Carmen, 1983; Cronaca di una morte annunciata, 1985; Dimenticare Palermo, 1989). Scola, all'opposto, imponendosi come uno dei narratori più intensi, sia quando punta alla cronaca sia quando si affida al costume e alla storia, è venuto costruendo un'opera via via sempre più compiuta, in equilibrio giusto fra i sentimenti, la memoria e il quotidiano (Il mondo nuovo, 1982; Ballando ballando, 1983; Maccheroni, 1984; La famiglia, 1986; Splendor, 1988; Che ora è, 1989; Il viaggio di capitan Fracassa, 1990; Mario, Maria, Mario, 1993). Accanto a essi si può ricordare R. Faenza (dopo il profetico Forza Italia!, 1977, Mio caro dr. Gräsler, 1990, e Jona che visse nella balena, 1992).
Un posto a parte, da solo, lo pretende P. Avati, di certo l'affermazione più intensa, nel decennio, di un cinema che, intento alla descrizione delle piccole cose e dei sentimenti semplici, è riuscito a proporsi con una novità linguistica e un ''tocco'' che, pur ricordando a molta critica gli stessi modi del primo Camerini, ha rivelato sempre accenti autonomi: nei gusti, nelle ricerche, nell'approccio al mondo di oggi e alla vita (Gita scolastica, 1983; Impiegati, 1985; Festa di laurea, 1985; Regalo di Natale, 1986; Storie di ragazzi e di ragazze, 1989; Bix, 1990; Fratelli e sorelle, 1992; Magnificat, 1993).
Sempre attento alle cronache di oggi con forti risentimenti polemici ma alleggeriti adesso da inclinazioni più decise per la caricatura, N. Loy (v. in questa Appendice) si è fatto apprezzare con film non del tutto simili fra loro per gusto e linguaggi (Café-Express, 1980; Mi manda Picone, 1984; Scugnizzi, 1989; Pacco, doppiopacco e contropaccotto, 1993), in cui però ha continuato a rivelare una forte personalità cinematografica sorretta da un'analisi ora calda ora fosca della vita del Meridione, affidata a cronache secche o riletta con l'amore per il canto e per l'ode. Più saldo e più portato ormai a esprimersi tramite il supporto di strutture cinematografiche internazionali, B. Bertolucci è arrivato a vincere nove Oscar con L'ultimo imperatore (1986), realizzato con larga dovizia di mezzi e un senso caldo e ispirato del grande spettacolo, corredato da musiche e costumi di rigorosa qualità e ancora una volta illuminato dalla magica fotografia di V. Storaro. Meno convincente il film successivo, Il tè nel deserto (1990), dal romanzo di P. Bowles, anch'esso però, seppure con insistenze letterarie e risvolti un po' gratuiti, capace di coinvolgere con una vitalità spettacolare mai fine a sé stessa e carica a ogni pagina di un'intensissima forza emotiva. G. Bertolucci, il fratello, vola forse meno alto, ma la sua filmografia annovera egualmente opere d'impegno saldo (Panni sporchi, 1983; Segreti segreti, 1985; Tuttobenigni, 1986; Strana la vita, 1987; I cammelli, 1988; Amori in corso, 1989), sorrette da mature riflessioni sui sentimenti e i temi sociali, in cifre stilistiche attente e meditate.
Personalità forti anche in due donne registe che si propongono da tempo nel cinema italiano con impegni e con impeti: L. Cavani (v. in questa Appendice), spesso guidata da precise attenzioni linguistiche (La pelle, 1981; Interno berlinese, 1985; Francesco, 1989) che la conducono ad approdi di salda qualità; L. Wertmüller che, dopo essersi imposta per anni soprattutto con il ''grottesco'', ottenendone film di vivide suggestioni, lo ha lasciato invadere, negli anni Ottanta, da una vena polemicamente ''popolare'' indirizzata, non sempre però con fortuna, agli effetti più colorati dello spettacolo vistoso (Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti, 1985; Notte d'estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico, 1986; In una notte di chiaro di luna, 1989; Speriamo che me la cavo, 1992).
Fra i comici si sono soprattutto affermati C. Verdone, presto passato dalle caricature televisive dell'esordio a un cinema di osservazioni ironiche e gustose, con qualche compiacimento sentimentale (Un sacco bello, 1980; Bianco, rosso e verdone, 1981; Acqua e sapone, 1983; I due carabinieri, 1984; Io e mia sorella, 1987; Compagni di scuola, 1988; Maledetto il giorno che t'ho incontrato, 1991; Al lupo, al lupo, 1992); M. Troisi, soprattutto agli inizi, con Ricomincio da tre (1981), considerato una vera rivelazione, in seguito, forse, un po' deludente (Scusate il ritardo, 1982; Non ci resta che piangere, 1984; Credevo fosse amore invece era un calesse, 1991); M. Nichetti, con il gusto della comicità funambolica e lunare, sulla scia degli anni del muto (Ho fatto splash, 1980; Domani si balla, 1982; Ladri di saponette, 1989; Volere volare, 1991; Stefano Quantestorie, 1993). Commedie leggere hanno dato C. ed E. Vanzina ed E. Oldoini, mentre maestro del genere horror si è confermato D. Argento (Inferno, 1979; Tenebre, 1981; Opera, 1987). Nel cinema sperimentale si è elegantemente cimentato F. Piavoli con Il pianeta azzurro (1982) e Nostos, il ritorno (1990).
Fra gli autori drammatici, il primo posto va assegnato a G. Amelio che, dopo film molto rigorosi (Colpire al cuore, 1982; I ragazzi di via Panisperna, 1988; Porte aperte, 1989), si è imposto anche sul piano internazionale con il film Il ladro di bambini (premio speciale della giuria al Festival di Cannes nel 1992) in cui prevalgono l'emozione, la sottrazione degli effetti, in cifre non molto dissimili dal cinema più raccolto e nello stesso tempo più lirico di V. De Sica. Ben affiancato, comunque, sia pur con graffi ironici, da N. Moretti, una delle voci, negli anni Ottanta, più agguerrite del cinema italiano giovane (Sogni d'oro, 1981; Bianca, 1983; La messa è finita, 1985; Palombella rossa, 1989; La Cosa, 1991). Ampiamente riconosciuti, anche all'estero, i meriti di G. Tornatore (premio Oscar per Nuovo Cinema Paradiso, 1988) che rivela doti stilistiche e psicologiche in parte riconfermate l'anno successivo con Stanno tutti bene; di G. Salvatores (premio Oscar per Mediterraneo, 1990) dedito nella maggioranza dei suoi film (Kamikazen, 1987; Marrakech Express, 1989; Turné, 1989) a un'analisi dei rapporti corali in cui riesce sempre a far prevalere con finezza anche l'indagine psicologica più sottile; di M. Risi, intento a cronache durissime (Soldati 365 all'alba, 1987; Mery per sempre, 1989; Ragazzi fuori, 1990; Il muro di gomma, 1991) o ad amare metafore (Nel continente nero, 1992); di R. Tognazzi (Piccoli equivoci, 1989; Ultrà, 1990; La scorta, 1993); di D. Luchetti (Domani accadrà, 1988; La settimana della sfinge, 1990; Il portaborse, 1991). Per alcuni di questi registi, come per Risi e Tognazzi, si è cominciato a parlare perfino di un nuovo neorealismo, meno oggettivo del primo ma con un approccio altrettanto diretto nei confronti della realtà. Si sono avuti anche alcuni esordi felici: S. Rubini (La stazione, 1990; La bionda, 1993); S. Soldini (L'aria serena dell'Ovest, 1990); P. Pozzessere (Verso Sud, 1992); M. Martone (Morte di un matematico napoletano, 1992); A. Capuano (Vito e gli altri, 1991); F. Archibugi (Mignon è partita, 1987; Verso sera, 1990; Il grande cocomero, 1993); A. Alatri (Americano rosso, 1991); M. Zaccaro (Dove comincia la notte, 1991); L. Faccini (Donna d'ombra, 1988; Notte di stelle, 1991). Potrebbero diventare anch'essi il cinema italiano di domani, indirizzato in prevalenza verso un'osservazione del quotidiano, con tutti i suoi disagi e travagli, espressi oggettivamente secondo il principio rosselliniano del ''mostrare senza dimostrare''.
Un sensibile contributo è conferito da una nuova generazione di attori, fra i quali si annoverano, accanto ai comici R. Benigni, P. Villaggio e F. Nuti, le intelligenti M. Buy, E.S. Ricci, L. Sastri, N. Brilli, A. Sandrelli e i già maturi S. Castellitto, D. Abatantuono, M. Placido, E. Lo Verso, C. Amendola, in gran parte debitori di una tradizione che ha raggiunto le vette maggiori con A. Sordi, G.M. Volonté, V. Gassman, M. Mastroianni. Da non dimenticare infine l'apporto che hanno continuato a dare alla cinematografia italiana musicisti quali E. Morricone, R. Ortolani e A. Trovajoli.
Bibl.: Le cinéma italien des années 80, a cura dell'Ente Autonomo Gestione Cinema, Roma 1985; Presidenza del Consiglio dei ministri, 50 anni di cinema italiano (con filmografia dal 1930 al 1980), ivi 1986; F. Montini, I Novissimi, Torino 1988; Cinema di qualità, repertorio 1968-88, a cura di F. Gabella, Roma 1988; M.C. Questerbert, Les scénaristes italiens, 50 ans d'écriture cinématographique, Renens 1988; Accadde domani, registi esordienti nel cinema italiano 1985-88, a cura di F. d'Angelo e P. Vecchi, Reggio Emilia 1988; Accadde domani '89, giovani registi nel cinema italiano, a cura di P. Vecchi, ivi 1989; Accadde domani '90, giovani registi nel cinema italiano, a cura di V. Cavandoli e P. Vecchi, ivi 1990; Accadde domani '91, giovani registi nel cinema italiano, a cura di V. Cavandoli, ivi 1991.