italianizzazione dei dialetti
L’espressione italianizzazione dei dialetti fa riferimento in generale al processo per cui i dialetti tendono ad evolversi verso una riduzione della loro distanza strutturale con l’italiano, a tutti i livelli di analisi (lessico, fonologia, morfologia, sintassi). Si tratta quindi di un caso particolare di ➔ contatto linguistico, in cui i due codici coinvolti sono particolarmente sbilanciati per prestigio sociolinguistico, sicché è il codice più debole a risentire maggiormente del contatto, tendendo ad adeguarsi a quello dominante (anche se non manca il processo complementare, che conduce alla formazione delle varietà di ➔ italiano regionale).
Dal punto di vista diacronico, il contatto linguistico ‘verticale’ tra italiano e dialetti risale almeno al Cinquecento, quando il toscano fiorentino si afferma come varietà di prestigio, letteraria e cancelleresca, acquisendo uno status gerarchicamente superiore rispetto agli altri volgari romanzi parlati come lingue native nel resto d’Italia. Di per sé, dunque, fenomeni di italianizzazione dei dialetti sono presenti da lungo tempo (cfr. Berruto 1997: 14). Ma fino almeno all’unità d’Italia, il terreno di contatto effettivo tra i due codici era estremamente limitato, essendo il repertorio caratterizzato stabilmente da una situazione di diglossia senza bilinguismo (Grassi 1993; Sobrero 1997; ➔ bilinguismo e diglossia): l’italiano aveva il monopolio degli usi ufficiali e amministrativi e un assoluto dominio di quelli letterari, ma fuori di Toscana non era lingua nativa di nessuno, e solo una piccola parte della popolazione, localizzata nelle città, ne aveva una parziale competenza attiva, per di più quasi mai utilizzata nel parlato, che rimaneva dominio pressoché esclusivo del dialetto. In queste condizioni, ogni fenomeno di italianizzazione doveva partire dalle varietà urbane e diastraticamente alte del dialetto (in pratica le koinè regionali), e di qui eventualmente estendersi alle altre varietà. Per di più, anche nelle varietà urbane, a fenomeni di italianizzazione soprattutto lessicali si contrapponevano importanti innovazioni in direzione anti-italiana, che sono la migliore conferma della piena autonomia dei due codici nel periodo preunitario e anche oltre: tra i principali fatti morfosintattici che oppongono i dialetti settentrionali all’italiano, molti (perdita del passato remoto, negazione postverbale, clitici soggetto, interrogative del tipo quando che …?) nascono o si affermano solo negli ultimi secoli, alcuni addirittura nell’Ottocento.
Solo nel XX secolo il bilinguismo si è diffuso gradualmente in tutta la popolazione, determinando una forte accelerazione del processo di italianizzazione, che ha potuto coinvolgere direttamente tutte le varietà dialettali, senza bisogno di mediazione delle koinè. Si pone quindi la questione se a questo incremento quantitativo corrisponda un cambiamento sostanziale sul piano qualitativo: cioè se oggi l’impatto dell’italianizzazione sulle strutture linguistiche portanti dei dialetti sia tale da metterne in pericolo l’individualità come sistemi autonomi. È probabile che non ci sia una risposta univoca, nel quadro complesso e differenziato del repertorio linguistico italiano attuale. Per di più, buona parte della ricerca sull’italianizzazione dei dialetti si è concentrata sui due livelli della fonologia e del lessico, che sono i più sensibili al contatto linguistico in generale, ma anche i meno decisivi dal punto di vista delle conseguenze strutturali sul sistema della lingua.
Il lessico è chiaramente il ‘cavallo di Troia’ dei fenomeni di italianizzazione. In primo luogo, il ripiegamento del dialetto all’interno dell’ambito familiare riduce grandemente la sua capacità di far fronte con mezzi interni (cioè con le strategie morfologiche della ➔ derivazione e della ➔ composizione) alla continua ‘domanda di parole nuove’ per i nuovi concetti, attività, oggetti quotidiani del mondo contemporaneo. Prevale largamente l’accoglimento di ➔ prestiti dall’italiano; rispetto a fasi storiche precedenti, spia di italianizzazione crescente può essere il loro minore adattamento fonologico. Per es., in torinese [o] / [ɔ] atone sono assenti nel lessico autoctono. Fino all’Ottocento, i prestiti che in italiano hanno [o] atona finale erano – e normalmente sono tuttora – pronunciati con [u] finale: [ˈtrenu] «treno», [ˈkilu] «chilo», ecc.; i prestiti più recenti, tuttavia, hanno [o]: [aˈereo], [teˈlefono], [seˈmaforo].
Una più evidente forma di italianizzazione del lessico si ha quando i prestiti non sono ‘di necessità’ come i precedenti, bensì sostituiscono equivalenti dialettali preesistenti. Questi possono avere forma completamente diversa: piem. [purtyˈgal] «arancia» → [aˈranʧa], lomb. [erˈbjuŋ] «piselli» → [piˈzej], calabr. [nʦuˈrara] «sposare» → [spoˈsara], friul. (Maniago) [maraŋˈgoŋ] «falegname» → [faleˈɲam]); o una forma sincronicamente lontana benché etimologicamente connessa: piem. [ˈɛva] «acqua» → [ˈakwa], ticinese (Cevio) [ˈʒindru] «genero» → [ˈʤener]; oppure differire solo per singoli tratti fonologici, come, sempre in piemontese, la sostituzione di [s] con [ʧ] in tutta una serie di parole (come [sərˈke] «cercare» → [ʧerˈke], [sɛrv] «cervo» → [ʧɛrv]), ecc., o l’equivalente processo [ʃ] > [ʧ] in milanese.
Normalmente, tali sostituzioni passano attraverso una fase di compresenza; inoltre, il termine originario del dialetto può ulteriormente sopravvivere in nicchie di specializzazione semantica (calabr. [ˈgjombaru] «gomitolo» è stato sostituito da [goˈmitulu] solo per il prodotto industriale) o comunicativa ([ʧɔrɲ] «sordo» esiste ancora a Torino con connotazione spregiativa, mentre il termine neutro è il prestito [surd]; [gwarˈde] ha sostituito [varˈde], che sopravvive in espressioni idiomatiche come [ˈvarda mak] «guarda un po’», lett. «guarda solo»). Data la gradualità del processo, si può anche avere in qualche caso una sua regressione: non sembra esserci traccia nel torinese contemporaneo, ad es., di una forma come [ˈɔʤi] per [aŋˈkøj] «oggi», attestata nella varietà scritta fin dal primo Ottocento. Nel complesso, però, la riduzione delle specificità lessicali nei dialetti italiani negli ultimi decenni è incontestabile, anche se è difficile individuare elementi di sistematicità.
I prestiti possono contribuire all’italianizzazione di un dialetto anche a livelli diversi da quello lessicale. Da un lato, possono introdurre fonemi estranei, avvicinando il sistema fonologico a quello dell’italiano. Per es., [ʎ] può comparire in torinese, quando non è adattato in [j] o almeno [lj], in prestiti comuni come [zbaˈʎe] «sbagliare», [miʎuˈre] «migliorare». Più spesso, però, si registra il fenomeno opposto, cioè l’eliminazione di tratti fonologici e fonotattici peculiari del dialetto. In questo caso un ruolo fondamentale è svolto da parole di forma simile nei due codici: la sostituzione lessicale con la variante più vicina all’italiano in tutta una serie di parole può infatti condurre alla perdita generale del tratto in questione nel sistema fonologico del dialetto. Ad es., la restituzione di vocali atone interne di parola nei dialetti piemontesi o emiliani sul modello delle corrispondenti parole italiane (piem. [ˈtnaje] → [teˈnaje] «tenaglie», emil. [zgumˈte] → [zgumiˈte] «sgomitare») finisce col comportare una drastica riduzione dei tipi sillabici complessi presenti in questi dialetti ma sconosciuti all’italiano. Un caso più forte è la perdita delle fricative interdentali [θ] e [ð] nei dialetti veneti rustici che le possedevano ([ˈθiŋkwe] → [ˈʧiŋkwe] «cinque»).
In molte situazioni, le conseguenze di queste evoluzioni non andranno sopravvalutate: in torinese, ad es., a dispetto della sua bassa vitalità, i numerosi tratti fonologici divergenti rispetto all’italiano (➔ piemontesi, dialetti) sono in massima parte conservati. In aree dove la divergenza fonologica tra i due codici è minore, la liquidazione di quanto resta di specifico nella fonologia del dialetto può essere invece più radicale, contribuendo al riconfigurarsi di italiano standard e dialetto come poli di un unico continuum di ➔ varietà.
Nel campo della morfologia, l’italianizzazione ha un impatto molto diverso nei diversi sottosistemi. Da un lato, il ricorso sistematico ai prestiti per i neologismi significa di fatto per i dialetti una crisi profonda dei meccanismi autonomi di formazione di parola. Naturalmente possono entrare nei dialetti moltissime forme del tipo di piem. [kumentaˈtur] «commentatore radiofonico», analizzabili come morfologicamente complesse; tuttavia i suffissi derivazionali coinvolti non sembrano in realtà essere applicabili a basi lessicali prive di un corrispondente modello italiano. Queste parole saranno dunque da considerare prestiti adattati, e non prodotti di un processo derivazionale autonomo (cfr. Ricca 2006). Dall’altro lato, per quanto riguarda la morfologia flessiva, non sembra (con tutta la cautela dettata dalla scarsezza di studi specifici) che per il momento le dinamiche evolutive dei paradigmi dialettali risentano profondamente del contatto con l’italiano, mentre più importanti sembrano semmai i processi di omologazione di alcune forme locali alle koinè regionali: a puro titolo di illustrazione, il regresso dei plurali metafonetici maschili nelle varietà settentrionali porta al tipo invariabile torinese o milanese, e non al ripristino di una marca plurale [-i] di tipo italiano/toscano.
Infine, per quanto riguarda la sintassi l’italianizzazione è stata assai poco studiata. È però forse possibile dire che anche in questo caso i tratti fondamentali della sintassi dialettale mostrano tuttora una forte resistenza all’italianizzazione: si pensi, per es., alla negazione postverbale nei dialetti piemontesi, lombardi ed emiliani, o alla marca preposizionale per il complemento oggetto animato nei dialetti meridionali (quest’ultima anzi passata all’italiano regionale; ➔ accusativo preposizionale). È invece senz’altro frequente l’introduzione di calchi (morfo)sintattici di fenomeni meno salienti per l’identità del dialetto, come l’adozione della perifrasi progressiva stare + gerundio modellata sull’italiano a fianco dei tipi locali essere lì che, essere dietro a, essere + gerundio, stare a + infinito ecc. (➔ fraseologici, verbi; ➔ perifrastiche, strutture). Ma non è lecito proporre valutazioni generali in quest’ambito, perché un’indagine ad ampio raggio è tutta da fare.
Berruto, Gaetano (1997), Linguistica del contatto e aspetti dell’italianizzazione dei dialetti: appunti di creolistica casalinga, in Italica et Romanica. Festschrift für Max Pfister zum 65. Geburtstag, hrsg. von G. Holtus, J. Kramer & W. Schweickard, Tübingen, Niemeyer, 3 voll., vol. 3º, pp. 13-29.
Grassi, Corrado (1993), Italiano e dialetti, in Introduzione all’italiano contemporaneo, a cura di A.A. Sobrero, Roma - Bari, Laterza, 2 voll., vol. 2° (La variazione e gli usi), pp. 279-310.
Ricca, Davide (2006), Sulla nozione di “dialetto italianizzato” in morfologia: il caso del piemontese, in Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, a cura di A.A. Sobrero & A. Miglietta, Galatina, Congedo, pp. 129-149.
Sobrero, Alberto A. (1997), Italianization of the dialects, in The di-alects of Italy, edited by M. Maiden & M. Parry, London - New York, Routledge, pp. 412-418.