emigrazione, italiano dell’
L’espressione italiano dell’emigrazione designa tutte le forme di italiano parlate, nei paesi di destinazione, da emigrati italiani e dai loro discendenti. Questa nozione esclude le forme di italiano apprese e utilizzate da gruppi di parlanti non di origine italiana con cui gli emigrati sono entrati in contatto, come l’italiano semplificato d’Etiopia sorto nel Corno d’Africa in seguito alla colonizzazione italiana (➔ italiano come pidgin). In base alla stessa definizione non sono prese in considerazione le forme di italiano ufficiali fuori d’Italia, come l’italiano elvetico (Berruto 1984; ➔ Svizzera, italiano di), nonché le forme di italiano relative ai recenti usi internazionali della lingua, per es. nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea (Turchetta 2005). Tutte le forme di italiano fuori d’Italia sono trattate in un quadro unitario da Bertini Malgarini (1994).
Dal punto di vista dei parlanti, l’italiano dell’emigrazione è la lingua di quegli italiani, singoli o gruppi, che, in seguito a spostamenti in località fuori d’Italia, hanno conferito un nuovo orientamento alla propria quotidianità nelle due componenti fondamentali delle attività per la propria sussistenza e della rete di rapporti sociali. Queste caratteristiche escludono dalla definizione di emigrante i turisti, la cui quotidianità non è riconfigurata dallo spostamento, e vi includono i lavoratori stagionali caratterizzati da consuetudini di pendolarismo su distanze più o meno grandi: per es., transatlantiche tra Italia e America meridionale per i mietitori campani del tardo XIX secolo; transalpine tra la Val di Zoldo e il Cadore (Belluno) e la Germania per i gelatieri veneti nel XX secolo (Krefeld 2004: 12, 25).
Infine, dal punto di vista storico, si prende in considerazione il periodo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, prima del quale non si davano le condizioni politico-economiche per l’espatrio di masse di italiani, ancora privi di un riferimento statale, sociale e linguistico unitario.
La consistenza e le direzioni dell’emigrazione italiana nel mondo sono riportate nella fig. 1 per il periodo 1876-2008, a partire dagli anni seguenti l’Unità del paese fino ai giorni nostri. La presenza di emigrati italiani e di loro discendenti è preponderante in Francia e nella Confederazione Elvetica in Europa, e negli Stati Uniti d’America fuori dall’Europa; presenze più o meno consistenti si riscontrano anche in Germania, Regno Unito e Belgio in Europa, e Argentina, Canada, Brasile, Venezuela e Australia fuori dall’Europa. Fino al 1945 i flussi emigratori si sono rivolti principalmente, ma non esclusivamente, verso la Francia, gli Stati Uniti d’America, il Brasile e l’Argentina e dopo quella data anche e soprattutto verso la Confederazione Elvetica, la Repubblica Federale di Germania, il Venezuela, l’Australia.
La multiforme situazione dell’italiano dell’emigrazione che risulta dal dispiegarsi dei flussi lungo l’arco di più di 130 anni e dalla dispersione delle comunità di emigrati in vari paesi è stata descritta con metodologie diverse in molti lavori dedicati a singole realtà. Tra questi vanno menzionati Rovere (1977) per la Svizzera, Krefeld (2004) per la Repubblica Federale di Germania, Marzo (2010) per il Belgio, Tosi (1991) per il Regno Unito, Haller (1993) per gli USA, Lo Cascio (1987) per l’America Latina, Bettoni & Rubino (1996) per l’Australia. Questioni generali sono trattate anche da Vedovelli (2002).
La natura dell’italiano dell’emigrazione è riconducibile a tre dimensioni principali relative alle dinamiche che si sono sviluppate rispetto a:
(a) le varietà di italiano della madrepatria;
(b) le altre varietà del repertorio dell’emigrazione, con particolare riguardo verso i dialetti importati dall’Italia e le lingue dei paesi ospiti;
(c) la trasmissione dell’italiano verso le generazioni successive a quella dell’espatrio.
L’italiano dell’emigrazione si caratterizza rispetto all’italiano d’Italia per le diverse configurazioni comunicative dei suoi usi, ridotti lungo quattro dimensioni:
(a) la gamma di varietà, limitata a quelle più basse, che l’emigrato porta nel paese di destinazione per la sua posizione sociale;
(b) l’assenza dei modelli di riferimento che condizionano la dinamica evolutiva delle varietà dell’italiano in Italia;
(c) lo spettro degli ambiti d’uso, relativi ai soli rapporti interpersonali all’interno del gruppo di emigrati;
(d) la pressione delle lingue dei paesi ospiti, obbligatoriamente utilizzate per rispondere ai bisogni comunicativi in ambiti d’uso lavorativi, scolastici, burocratici, nonché nei rapporti interpersonali nel nuovo ambiente (Berruto 1987: 180).
L’italiano dell’emigrazione mostra i caratteristici tratti non-standard che si ritrovano in Italia nell’➔italiano popolare, la varietà utilizzata da parlanti semicolti di strato sociale basso, ovvero:
(a) forme analogiche nel sistema verbale: fando «facendo», rimanerebbe «rimarrebbe»;
(b) riduzione dei verbi pronominali esserci e averci alla terza persona: non c’è italiani «non ci sono italiani», ci sarà certi posti «ci saranno certi posti», le farmacie c’ha «le farmacie hanno»;
(c) riduzione delle forme di congiuntivo: basta che mangiano e bevono «basta che mangino e bevano»;
(d) ausiliare avere al posto di essere: m’ha piaciuto tanto «mi è piaciuto tanto»;
(e) ridondanza pronominale: lui mi capiva bene me «mi capiva bene»;
(f) riduzione di forme pronominali: io gli parlo alla padrona «(le) parlo io alla padrona», lui ci porta a casa la spesa «lui le porta a casa la spesa», parlavano tutto il suo dialetto «parlavano tutti il loro dialetto»;
(g) ➔ che polivalente: i modelli che lei gli ha dato il nome «i modelli a cui ha dato il nome»;
(h) fragilità nell’➔accordo soggetto-verbo, con tendenza a concordanze logiche: la gente che lavorano «la gente che lavora», nessuno mi conoscono «nessuno mi conosce», le vostre famiglie ottiene tutto quello che gli spettano «le vostre famiglie ottengono tutto quello che spetta loro»;
(i) scambio di avverbi e aggettivi: lavorare privato il sabato «lavorare privatamente il sabato», i nostri meglio clienti «i nostri clienti migliori»;
(j) sovraestensioni di preposizioni: non era facile a tornare «non era facile tornare», è venuto qua di quindici anni «è venuto qui a quindici anni»;
(k) fenomeni di riduzione di negazione multipla: vedo niente «non vedo niente»;
(l) dislocazioni di elementi tematici, a sinistra: la gente la vedi in giro; a destra: non li lasciano andare negli appartamenti i cani.
La convergenza delle varietà dell’italiano dell’emigrazione verso quelle basse dell’italiano d’Italia è probabilmente il risultato non tanto di un influsso diretto, quanto dell’azione di strategie di ➔ semplificazione del sistema indotte dall’analogo contesto comunicativo orale e informale, dalla condivisione di conoscenze da parte degli interlocutori, dal riferimento a persone, oggetti, temi, presenti nel contesto della situazione comunicativa.
La caratterizzazione generale dell’italiano dell’emigrazione come varietà di italiano popolare va ulteriormente differenziata tra le singole comunità di emigrazione in base a tre variabili:
(a) la provenienza geografica, che comporta l’intreccio dei tratti popolari sub-standard con tratti di italiano regionale e dei dialetti ad esso soggiacenti: pecché da V. a M. dobbià fa tutte quelle curve […] di tornare la sera […] si vedeva niende «perché da V. a M. dovevamo fare tutte quelle curve […] tornando la sera […] non si vedeva niente» (emigrato pugliese in Germania);
(b) il tipo di reti sociali presenti nella comunità, che condiziona il mantenimento e la diffusione di certi tratti (per es., le forme conservative di forme dialettali meridionali, mantenute e diffuse anche presso emigrati non di origini meridionali nella rete sociale coesa delle comunità del Belgio studiate da Marzo 2010);
(c) il tempo in cui è avvenuta l’emigrazione, che si riflette in due condizioni: la diversa predominanza di dialetto e italiano nella competenza del singolo emigrante lungo il periodo in cui hanno avuto luogo i flussi emigratori, fattore che è funzione dei processi di diffusione dell’italiano dopo l’Unità descritti in De Mauro (1963); la relativa disponibilità di contatti con l’italiano d’Italia, che può condizionare l’orientamento verso lo standard presso gli emigrati.
I contatti con l’italiano d’Italia dipendono dalle tecniche di comunicazione a distanza, che per decenni dall’inizio dell’emigrazione sono state affidate solo alla corrispondenza scritta, contribuendo così al relativo isolamento linguistico delle comunità emigrate dalla madrepatria. Tuttavia l’emigrazione del primo periodo (circa 20 milioni tra il 1876-1951, di cui 7 rimasti definitivamente all’estero; De Mauro 1963: 53) impose agli espatriati e ai loro congiunti, esclusivamente dialettofoni e poco o nulla scolarizzati, l’esigenza di alfabetizzazione e istruzione per poter comunicare senza intermediari con le persone lontane. L’emigrazione fu così uno dei fattori cruciali nell’italianizzazione in Italia e fuori, favorendo la diminuzione dell’analfabetismo (De Mauro 1963: 61-63). L’evoluzione più recente dei mezzi di comunicazione a distanza (TV satellitari, telefoni cellulari, rete telematica mondiale), insieme alla maggiore facilità di spostamento, potrà comportare una più fitta rete di contatti e una potenziale convergenza delle varietà emigrate con quella metropolitana, come già traspare dalla minore ricorrenza di tratti sub-standard rilevata a questo riguardo da Marzo (2010).
In termini generali, il repertorio degli emigrati comprende tre poli: il dialetto, l’italiano (nella varietà popolare descritta nel § 2), la lingua del paese ospite. Il repertorio può essere ulteriormente articolato nel caso di compresenza di più varietà di lingua del paese ospite (per es., tedesco svizzero e tedesco standard nella Confederazione Elvetica).
I tre poli del repertorio degli emigrati hanno diverso peso specifico a seconda:
(a) della relativa predominanza di dialetto nel gruppo di emigrati di prima generazione fino al 1945, e di italiano dopo quella data;
(b) delle reti di comunicazione delle singole comunità;
(c) degli ambiti d’uso della lingua;
(d) delle generazioni successive alla prima.
L’intreccio di questi fattori comporta diverse configurazioni di dominanza nelle diverse comunità di emigrati.
La predominanza del dialetto è emblematicamente esemplificata dalla comunità di Chipilo (stato di Puebla, Messico, oggi 4000 abitanti), dove si è mantenuto il dialetto veneto di Sigusino (Treviso) come era parlato più di un secolo fa, al momento dell’insediamento di 529 abitanti di quel paese nel 1882 (Ursini 1988). L’egemonia della lingua del paese ospite nella varietà locale di tedesco svizzero è invece stata registrata nella seconda e nella terza generazione di emigrati nella Confederazione Elvetica (Berruto 1991). L’intreccio dei fattori elencati si dispiega in molteplici configurazioni di uso di dialetto, italiano o lingua del paese ospite a seconda delle situazioni, degli interlocutori, degli argomenti: per es., l’uso dell’inglese tra fratelli è minoritario nella prima generazione di emigrati in Australia (8-31% delle situazioni), ma dominante tra quelli di seconda generazione (93-98%) (Bettoni 1993).
La possibilità di alternare più lingue nella conversazione e la posizione della lingua del paese ospite rispetto agli altri due poli del repertorio, per ampiezza di ambiti d’uso e prestigio sociale, comporta fenomeni di pressione della lingua straniera sull’italiano, che si manifestano in interferenze, prestiti e nell’insorgere di varietà miste.
Interferenze si ritrovano anzitutto nei segnali di articolazioni del discorso: iè ← ingl. yeah «sì»; iù nòu ← ingl. you know «(tu) sai»; esté ← spagn. esté «ebbene».
I prestiti si possono configurare come adattamenti alla struttura della parola italiana, nonché come calchi semantici e strutturali: nierlàsug ← ted. Niederlassung «permesso di soggiorno»; firma ← ted. Firma «ditta»; farma ← ingl. farm «fattoria»; giobbo ← ingl. job «lavoro»; introdurre ← ingl. introduce «presentare»; scuola alta ← ingl. high school «scuola superiore»; baliù ← franc. banlieue «(sobborgo di) periferia».
Varietà miste, con forti influssi lessicali e strutturali della lingua del paese ospite, formatesi nel periodo di emigrazione con predominanza del dialetto nel repertorio di partenza, sono l’➔italoamericano (Haller 1993), l’italoaustraliano (Bertini Malgarini 1994), il cocoliche nell’Argentina degli anni 1880-1950 (cfr. omenaggio ← spagn. omenaje «omaggio»; partire ← spagn. partir «dividere»; ladroni ← spagn. ladrones «ladri»; alcun amico ← spagn. algún amigo «qualche amico»; parlo per sapere ← spagn. hablo por saber «parlo perché so»; ricorsi tutte le tende ← spagn. recorrí todas las tiendas «sono stato in tutti i negozi»; Giunchi 1986; ➔ ispanismi.
La pressione della lingua del paese ospite nel repertorio concorre all’abbandono dell’italiano in dipendenza di fattori quali la coesione familiare, la dispersione della comunità nella società ospite, la durata del soggiorno nel paese ospite, la generazione di appartenenza dell’emigrato, la distanza geografica e culturale dall’Italia.
L’italiano appare più saldo presso le comunità di emigrati nei paesi europei che non in quelle oltreoceano; negli USA la pressione all’integrazione ha reso più rapido l’abbandono dell’italiano, mentre la recente politica multiculturale e linguistica adottata in Australia lo ha rallentato.
L’abbandono dell’italiano si manifesta nel logorio delle sue strutture, che si dissolvono fino a ridursi a uno stato di estrema frammentazione indotto dall’input sempre più limitato a disposizione degli appartenenti alle generazioni seguenti la prima. Secondo il modello di Gonzo & Saltarelli (1983), tra la prima e la terza generazione la lingua (qui l’italiano) passa da L1 a L2, riduce la sue funzioni a poche occasioni, subisce drastiche semplificazioni e il lessico viene richiamato alla memoria del parlante in maniera sempre più selettiva. Nella comunità lucchese emigrata nella California nord-occidentale il logorio comporta l’erosione delle regole fonologiche in confine di parola, che nella seconda generazione trovano solo applicazione fissa con determinate parole o locuzioni; analogamente, le forme di negazione un, ’n «non» si mantengono solo se seguite da ci, ce (cfr. ’n c’o «non c’ho»), ma sono sostituite da non in tutti gli altri contesti (Scaglione 2000). Presso un gruppo di emigrati a Perth, in Australia, dei sei tempi usati da parlanti della prima generazione (presente, imperfetto, passato prossimo, passato remoto, trapassato prossimo, futuro) scompaiono nell’ordine futuro e trapassato prossimo nella seconda generazione. All’interno di questa, si riduce drasticamente anche il numero di occorrenze corrette dei tempi utilizzati, che scende sotto il 50%. Il sistema viene così semplificato con la sovraestensione delle forme verbali a disposizione, soprattutto presente e imperfetto: fare con i bambini cresciono a bit more «quando i bambini saranno cresciuti un po’ di più» (presente per futuro anteriore), e dopo andavo su dove c’ho tutte i zie «e dopo andrei là dove ho tutte le zie» (imperfetto per condizionale presente), quando mi maritavo I couldn’t cook «quando mi sono sposata non sapevo cucinare» (imperfetto per passato prossimo) (Caruso 2010).
I processi di logorio non sono ineluttabili. Oltre che dal concorrere di fattori sociali favorevoli, essi possono essere rallentati da atteggiamenti positivi dei parlanti nei confronti delle lingue importate nel paese ospite e da un’accorta politica scolastica e linguistica (Bettoni 1993).
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