Milano, italiano di
L’italiano di Milano si può definire come una sottovarietà galloitalica dell’➔ italiano regionale settentrionale (che esclude cioè l’italiano regionale del Triveneto). La sua fisionomia va collegata ai profondi cambiamenti nell’assetto topografico e sociale della città dal secondo dopoguerra e alle dinamiche sociolinguistiche che sono proprie di una grande area urbana multiculturale e plurilingue, dove l’italiano è divenuto lingua ‘di contatto’ (➔ contatto linguistico) per fasce sempre più numerose di migranti (Bombi & Fusco 2004; De Blasi & Marcato 2006).
Milano, la più grande città del Nord e la seconda d’Italia (1.307.495 residenti al 31 dicembre 2009) ha attualmente (2010) una popolazione di poco superiore a sessant’anni fa (1.274.000 persone secondo il censimento del 1951), ma in questi decenni il suo andamento demografico ha subìto forti oscillazioni, dovute a due ondate di immigrazione. La prima, in corrispondenza del ‘miracolo economico’ di cui fu protagonista l’area industrializzata lombarda, riguardò soprattutto italiani provenienti da altre regioni (specialmente dal Sud e dal Nord-Est e dalle altre province della Lombardia) e portò al picco massimo di 1.743.427 abitanti nel 1973. Il successivo decremento di popolazione, costante dagli anni Ottanta, fu particolarmente sensibile tra il 1991 e il 1998. La seconda ondata di immigrazione, più recente, riguarda cittadini stranieri provenienti da altri paesi, e portò dal 2001 una nuova crescita di abitanti nell’area urbana (Pasquinelli & Stea 2008). Milano accoglie nel 2010 circa 200.000 residenti stranieri, e altri 200.000 nel resto della provincia, complessivamente pari a quasi metà dell’intera popolazione straniera presente in Lombardia, provenienti soprattutto da Asia (35,4%), Africa (22,8%), America (20,4%), Europa (21,4%, di cui 13% Europa dell’Est) (Pasquinelli & Stea 2008; Caritas & Migrantes 2009). Nonostante questo incremento di popolazione, gli indicatori demografici confermano che l’età media e l’indice di vecchiaia dei residenti non stranieri nel comune di Milano sono superiori a quelli degli altri comuni della provincia.
Per quanto riguarda gli usi linguistici, già dal secondo dopoguerra le trasformazioni avvenute in un breve arco di tempo nel rapporto tra nativi e non nativi attraverso i flussi migratori (circa 300.000 persone trasferite a Milano tra il 1951 e il 1961) incepparono la trasmissione del dialetto urbano alle nuove generazioni e indussero una diffusione generalizzata dell’italofonia, anche per ragioni di prestigio sociale. L’integrazione linguistica degli immigrati negli anni del miracolo economico avvenne infatti non più, come negli anni precedenti, sulla base del dialetto milanese, ormai in fase di regresso e indebolimento, ma in italiano. Milano divenne così nel giro di pochi decenni una delle aree in Italia di maggiore decremento nell’uso del dialetto urbano e di più estesa e consolidata diffusione dell’italiano, anzi rappresenterebbe addirittura il «polo più standardizzato» (Galli de’ Paratesi 1984) nell’uso dell’italiano (➔ italianizzazione dei dialetti).
La varietà milanese di italiano è quella valutata più positivamente dai giovani nella vicina Svizzera italiana perché è avvertita come poco marcata regionalmente e «si avvicina di più all’italiano» (Antonini & Moretti 2000: 73), anche rispetto alla varietà fiorentina. Nel 2010 a Milano la generazione più giovane ha solo l’italiano come lingua della socializzazione primaria, anche se si può riscontrare un rinnovato interesse, proprio tra i giovani, per il recupero del dialetto, soprattutto a fini espressivi. Rispetto alla media nazionale, in Lombardia è comunque più alta la percentuale di chi parla solo o prevalentemente italiano, sia con gli estranei (83,5% contro il 72,8% nazionale) sia con gli amici (62,7% contro il 48,9%), sia in famiglia (57,6% contro il 45,5%). Va sottolineato che la situazione di Milano città, per quanto riguarda l’uso di italiano e dialetto, è simile a quella dei centri lombardi più industrializzati ma si differenzia molto da quella della provincia, e ancor più da quella di province lombarde agricole e di montagna, dove anche tra i giovani l’uso dell’italiano non è esclusivo (per le differenze tra le diverse province nel 2008, cfr. tab. 1).
Accanto alla variabile geografica sono da considerare le variabili legate all’età e al livello socioculturale, e quella legata alla situazione e allo stile più o meno formale del discorso. La varietà bassa di italiano regionale è circoscritta oggi (2010) a Milano alla generazione meno acculturata e più anziana, nata prima della guerra, che ha avuto ancora come prima lingua il dialetto.
Sebbene la suddivisione areale della Lombardia dialettale non sia direttamente sovrapponibile all’italiano regionale, all’interno dell’area lombarda si possono differenziare varietà geografiche di italiano. ll modello milanese influenza soprattutto il tipo di italiano regionale parlato nell’area lombarda occidentale e ticinese; ma tende a espandersi anche nell’area orientale, intermedia tra il polo veneto e quello lombardo-milanese, dove tuttavia resiste l’influenza di modelli provinciali, come Brescia e Bergamo. Dal punto di vista diacronico, è ormai ben testimoniata e studiata l’esistenza, per Milano e la Lombardia, di un italiano regionale scritto nel passato, cioè di un italiano venato di ➔ regionalismi lessicali e di varianti fonetico-grafiche e morfosintattiche resistenti alla norma di tipo toscano letterario definita da Pietro ➔ Bembo: i testi non letterari, gli usi privati di scrittura, gli epistolari, i libri di memorie, le scritture amministrative e burocratiche ne forniscono un’ampia documentazione dal Cinquecento in poi (Bongrani & Morgana 1994 e 1996; ➔ cortigiana, lingua).
Fonti importanti, sia per documentare la formazione dell’italiano regionale, sia per verificare la resistenza o la scomparsa, a più di un secolo di distanza, di certi usi, sono le raccolte di ‘errori’ di lingua e gli strumenti didattici impiegati nella scuola milanese e lombarda tra Otto e Novecento. Questi testi miravano infatti a cancellare nell’italiano usato in classe dagli scolari milanesi e lombardi le tracce regionali e le interferenze dialettali, soprattutto nel lessico e nella morfosintassi.
La formazione di un italiano parlato «di Milano», usato dalle classi colte e mediamente acculturate, unitamente al processo di italianizzazione del dialetto, è documentata da un intellettuale come Carlo Tenca già nel primo decennio postunitario:
Ora la lingua italiana è penetrata nell’uso delle classi più colte. Benché non ancora parlata comunemente, s’è però imposta tanto, che ha snaturato il dialetto nella conversazione delle persone non volgari. In certe conversazioni ha creato una specie di dialetto franco singolare, un italiano vestito alla vernacola che è quasi risibile. Un po’ per volta l’uso porta alla lingua (Tenca 1974, p. 336).
Anche il teatro milanese (Arrighi, Bertolazzi, Ferravilla) riflette le nuove abitudini all’italofonia, giocando in buona parte la partita della sua comicità sulle varietà del repertorio linguistico della società milanese del tempo (italiano aulico, italiano regionale, alternanza e commistione di dialetto e italiano). E ai primi del Novecento Edmondo De Amicis ironizzava, nel suo libro L’idioma gentile, sul fatto che la borghesia milanese avesse cominciato a impiegare come lingua d’uso familiare non il dialetto, ma un italiano connotato in senso regionale, insomma un italiano «di Milano»:
Ce n’è così a Milano di famiglie per bene, nelle quali i ragazzi credon mica di parlar male dicendo scusar senza per «far senza» e tanto ce n’è per «tanto fa» e far su il letto e aver giù la voce, e su e giù a ogni proposito (De Amicis 1906, pp. 49-50)
Nel seguito di questa voce saranno illustrati i tratti fondamentali della varietà media dell’italiano di Milano, segnalando anche alcuni fenomeni di variazione diastratica e diafasica (senza considerare le varietà parlate dai migranti stranieri come L2; ➔ acquisizione dell’italiano come L2).
Per le ➔ vocali, si segnala in generale l’allungamento delle vocali toniche, in particolare in posizione finale: [perˈkɛː] perché, [saˈraː] sarà; e la tendenza a nasalizzare la vocale in sillaba chiusa da nasale (questa, realizzata generalmente come velare) in parole come [ˈpẽŋso] penso, [ˈmãŋka] manca, [ˈtẽŋpo] tempo. La pronuncia di e e o toniche è divergente in molti casi, specie per la e, dalla pronuncia standard, e presenta numerose oscillazioni, anche presso lo stesso parlante. Le maggiori differenze si hanno nella resa della vocale anteriore, dove tuttavia sono individuabili alcune tendenze abbastanza regolari. La più costante nella pronuncia milanese è quella a chiudere la e tonica finale di sillaba: si ha perciò come nell’italiano standard [aˈveːvo] avevo, [paˈeːze] paese, [ˈseːme] seme, [ˈleːɲo] legno, ma anche la e chiusa dove lo standard l’ha aperta: [ˈbeːne] bene, [ˈʧeːlo] cielo, [teˈleːfono] telefono, [trenˈteːzimo] trentesimo, e in parole dotte come [saˈfeːna] safena, [miˈmeːzi] mimèsi. Viene a cadere pertanto l’opposizione /e - ɛ / presente nell’italiano standard in coppie come [koˈlːɛːga]) collega (sost. masch.) e [koˈlːeːga] collega (voce del verbo collegare), che nell’italiano di Milano si pronunciano allo stesso modo [koˈlːeːga]. Si ha pronuncia chiusa di e anche davanti a [ɲ], [ʎ], [ʃ], e [ʦ] se non è doppia nella grafia: [ˈseːɲo] segno, [ˈmeːʎo] meglio, [ˈpeːʃe] pesce, dato che per questi suoni la pronuncia locale non è rafforzata (v. sotto; ➔ allofoni; ➔ quantità fonologica) e pertanto la e si trova in finale di sillaba come nei casi precedenti. Il dittongo [jɛ], anche secondario, si pronuncia chiuso [je]: [ˈpjeːde] piede, [ˈvjeːne] viene, [ˈmjeːle] miele, [saluˈmjeːre] salumiere, [ˈpjeːno] pieno, [ˈdjeːtro] dietro.
In posizione interna di parola davanti ad [a], [e], [o] la e si pronuncia chiusa: [iˈdeːa] idea, [maˈreːe] maree, [pleˈbeːo] plebeo; mentre davanti a [u] è aperta: [ˈrɛu̯ma] reuma, [ˈnɛu̯tro] neutro. Davanti a [i] la e è di solito pronunciata aperta, ma con oscillazione in alcune parole, come [pleˈbeːi]. Altri casi in cui si avverte oscillazione tra la pronuncia chiusa e aperta di e: [ˈdeːʎi] o [ˈdɛːʎi] degli, [ˈkweːʎi] o [ˈkwɛːʎi] quegli. In sillaba chiusa davanti a consonante nasale la pronuncia è sempre chiusa, e si ha quindi [e] invece di [ɛ] in molti casi: [ˈdeŋte] dente, [ˈveŋti] venti (nome e numerale, dove nell’italiano standard si ha /ˈvɛn̪ti/ ~ /ˈven̪ti/), ecc. Davanti a [l, r] + consonante la e è aperta in molte voci: [ˈɛlmo] elmo, [ˈbɛlva] belva, [ˈskɛrʦo] scherzo, ma si hanno anche forme con [e]: [ˈverde] verde, [ˈʧerko] cerco, [ˈfermo] fermo (e forme corradicali). La e è aperta davanti a s + consonante: [ˈkwɛsto] questo, [ˈpɛska] pesca, senza l’opposizione tra /ˈpɛska/ «frutto» e /ˈpeska/ «atto del pescare»; ma chiusa nella coniugazione di uscire, riuscire: [ˈesko], [ˈri̯eska]. Anche davanti a consonante rafforzata (doppia nella grafia) la e è prevalentemente aperta, e si ha quindi [ɛ] invece di [e] in molte voci: [oˈrɛkːjo] orecchio, [ˈfrɛdːo] freddo, [kaˈpɛlːi] capelli, [ˈkwɛlːo] quello, [poveˈrɛtːo] poveretto, con varie oscillazioni nella pronuncia ([ˈnɛbːja] e [ˈnebːja] nebbia, [ˈsɛpːja] e [ˈsepːja] seppia, [veŋˈdɛmːja] e [veŋˈdemːja] vendemmia). Davanti a [gː], [dːʒ] la e si pronuncia per lo più chiusa: [ˈlegːo] leggo, [ˈregːo] reggo, [ˈledːʒe] legge, [ˈredːʒe] regge. Più oscillante la pronuncia davanti a [ʧ], come in [korˈtetːʃa] e [korˈtɛtːʃa] corteccia, [peskeˈretːʃo] e [peskeˈrɛtːʃo] peschereccio.
Per quanto riguarda la posizione tonica finale, come si è detto, si avverte di solito una pronuncia allungata. La e in fine di parola è pronunciata aperta, con poche oscillazioni: [re] re, nota musicale, [ke] che (congiunzione e pronome relativo), [se] se congiunzione, [fiŋˈkɛ] e [fiŋˈke] finché, [maˈkːɛ] e [maˈkːe] macché, [ʤiˈle] e [ʤiˈlɛ] gilè, [kanaˈpe] e [kanaˈpɛ] canapè. Nel registro accurato è da segnalare la pronuncia sempre chiusa anche in tipi come [ˈstelːa] stella, [kaˈfːe] caffè, avvertita come più distinta, e comune all’italiano lombardo più sorvegliato.
La pronuncia di o tonica presenta una casistica meno regolare. Si hanno divergenze dallo standard in voci dove la o è pronunciata chiusa come [ˈbosko] bosco, [ˈkosto] costo, [ˈskor-ʤere] scorgere, [skleˈrozi] sclerosi (e suffissati dotti in -osi); e dove la o è pronunciata aperta come in [ˈdɔtːʃa] doccia, [ˈpɔsto] posto, [kwaˈtːɔrdiʧi] quattordici, e nei suffissati in -oio: [korːiˈdɔjo] corridoio, [ˌinːafːjaˈtɔjo] innaffiatoio. Si hanno oscillazioni in molte parole, come (la seconda pronuncia conforme allo standard) giovane pronunciata [ˈʤɔːvane] e [ˈʤoːvane], sposo [ˈspoːzo] e [ˈspɔːzo], giostra [ˈʤostra] e [ˈʤɔstra].
Per le ➔ consonanti, i fenomeni principali riguardano il grado d’intensità. La pronuncia milanese delle consonanti rafforzate tende a indebolirsi, ma la degeminazione delle doppie, tipo [ˈpaːla] palla, si avverte oggi solo nelle varietà basse dell’italiano di Milano. L’indebolimento si verifica invece comunemente se il rafforzamento non è segnalato dalla grafia. In posizione intervocalica [ʎ], [ɲ], [ʃ] non vengono pronunciate rafforzate come nello standard (➔ palatali): [ˈaːʎo] aglio, [ˈvɔːʎo] voglio, [biˈzoːɲo] bisogno, [ˈoːɲi] ogni, [ˈkɔːʃa] coscia. Nelle pronunce trascurate [ʎ], [ɲ], [ʃ] tendono addirittura a ridursi perdendo il tratto palatale e ad essere realizzate come nesso di alveolare e semiconsonante: [ˈaːljo], [ˈvɔːljo], [biˈzoːnjo], [ˈkɔːsja]. Tra vocali o tra vocale e semiconsonante anche [ʦ] e [ʣ] sono pronunciate scempie se non sono rafforzate nella grafia: quindi [ˈpεtːso] pezzo, [ˈmεdːzo] mezzo, ma [aˈʦjoːne] azione, [baˈʣar] bazar; e nelle pronunce trascurate tendono anch’esse a ridursi perdendo l’elemento dentale: [aˈsjoːne], [baˈzar]. È assente il ➔ raddoppiamento sintattico: [aˈkaːza] a casa, [faˈkaldo] fa caldo.
Come negli italiani settentrionali in genere, anche in Lombardia le consonanti nasali sono solitamente pronunciate come velari in fine di sillaba: [ˈdeŋte] dente, [ˈteŋpo] tempo, [ˈgaŋʧo] gancio, [noŋ] non, con effetto nasalizzante sulla vocale precedente (cfr. sopra). Sempre come in tutto il Nord, nell’italiano di Milano tra vocali non c’è distinzione tra s sorda [s] e sonora [z], ma si pronuncia sempre [z]: [ˈriːzo] riso, [ˈmeːze] mese, [ˈkɔːza] cosa. La s intervocalica si pronuncia [s] solo quando si vuol fare sentire che è iniziale del secondo elemento di una parola composta o prefissata: [riˈsalta] «salta di nuovo» (ma [riˈzalta] «spicca, è evidente»); o con -si enclitico: [aˈfːitːasi]. Anche nel prefisso trans- si ha la pronuncia sonora, e quindi [ˈtranzito] transito, [tranziˈtaːre] transitare.
La pronuncia dell’affricata dentale è sempre sonora in posizione iniziale, anche dove lo standard ha la sorda: [ˈʣuːfolo] zùfolo, [ˈʣiːo] zio, [ˈʣukːero] zucchero. In posizione interna la pronuncia non diverge dallo standard per la sonorità, quindi [alˈʦaːre] alzare, [ˈmaŋʣo] manzo. Le maggiori divergenze si hanno, come s’è detto sopra, nell’intensità, e nella riduzione delle affricate a fricative ([s], [z]) nelle pronunce trascurate in tutte le posizioni: quindi anche [ˈzuːfolo] [ˈziːo] [ˈzukːero] [alˈsaːre] [ˈmaŋzo] nei parlanti più anziani o meno colti (Poggi Salani 1976; Canepari 2006).
Quasi tutti i tratti morfosintattici dell’italiano di Milano non sono specifici ma sono condivisi dalle varietà lombarde e settentrionali dell’italiano (come i tipi il Paolo; mia mamma; questa sedia qui; aver giù la voce; far su il letto; aver bisogno come transitivo: ho bisogno un favore; ecc.). Più caratterizzanti come tratti ‘milanesi’ appaiono ancora oggi l’uso dell’ottativo mai che + presente congiuntivo / indicativo (mai che mi porti al cinema), usi particolari di così in molti contesti (così tanto, dire così, ce n’è così di roba), l’uso di con + avverbio (un cappello con su una piuma, un quadro con dietro una etichetta), e di cosa interrogativo nel senso di «perché» (cosa ridi?).
Anche a livello di lessico e semantica si registrano per lo più forme comuni a più varietà settentrionali di italiano, come l’uso assolutamente prevalente di adesso «ora», fondina «piatto fondo», fregarsi gli occhi «stropicciarsi gli occhi», (giocare a) nascondersi «giocare a rimpiattino», sberla «schiaffo», terrina «zuppiera», verza «cavolo verzotto», ecc. Più ‘milanesi’, ma non esclusive del capoluogo, sono espressioni e forme come andare insieme la vista «confondersi la vista», appena «soltanto» (siamo appena in tre per giocare a carte), avere un bel dire «dire inutilmente» (anche avere un bel fare, ecc.), brucio «bruciato» (odore di brucio), crescere (a) «aver in più» (ho un biglietto che mi cresce), curare «sorvegliare» (puoi curarmi la borsa un momento?), dar dentro «dare in cambio» (ho dato dentro la collana per comprare l’anello), farne una pelle (di qualcosa) «esagerare» (siamo stati a mangiare il pesce e ne abbiamo fatto una pelle), inverso «di malumore», metter giù la tavola «apparecchiare», sfera «lancetta dell’orologio», stortare «torcere» (hai stortato la vite e ora non gira più).
Per la ➔ pragmatica e testualità, i più diffusi fenomeni di organizzazione del testo parlato (frammentarietà, ridondanza, ricorrenza di segnali discorsivi) non presentano caratteri spiccati di specificità locale. I costrutti segmentati, come la frase scissa (➔ scisse, frasi; ➔ focalizzazioni), ricorrono con frequenza, che in alcuni casi può essere imputata al sostrato dialettale (il tipo [che], cos’è che: che cos’è che è; cos’è che è sporgente?). La frase scissa ricorre anche in forme ibride (ovvero, con ristrutturazioni multiple, che sommano alla scissione una dislocazione: la spada quant’è che è lunga del tipo a cavallo?; la macchina com’è che è messa dietro la statua?; fonte: CLIPS 2006).
De Amicis, Edmondo (19062), L’idioma gentile, Milano, Treves.
Siti
http://www.provincia.milano.it
http://www.dossierimmigrazione.it
Antonini, Francesca & Moretti, Bruno (2000), Le immagini dell’italiano regionale. La variazione linguistica nelle valutazioni dei giovani ticinesi, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana.
Bombi, Raffaella & Fusco, Fabiana (a cura di) (2004), Città plurilingui. Lingue e culture a confronto in situazioni urbane. Atti del Convegno internazionale di studi (Udine, 5-7 dicembre 2002), Udine, Forum.
Bongrani, Paolo & Morgana, Silvia (1994), La Lombardia, in L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, pp. 101-170.
Bongrani, Paolo & Morgana, Silvia (1996), La Lombardia, in L’italiano nelle regioni. Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Milano, Garzanti, 2 voll., vol. 1°, pp. 125-212 (1a ed. L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, Torino, UTET, 1992, pp. 84-142).
Canepari, Luciano (2006), Avviamento alla fonetica, Torino, Einaudi.
Caritas italiana & Migrantes (2009), Immigrazione. Dossier statistico 2009. XIX Rapporto sull’immigrazione, Roma, IDOS.
CLIPS (2006) = Corpora e lessici dell’italiano parlato e scritto, a cura di F. Albano Leoni et al., CIRASS, Napoli (http:// www.clips.unina.it).
De Blasi, Nicola & Marcato, Carla (a cura di) (2006), La città e le sue lingue. Repertori linguistici urbani, Napoli, Liguori.
Galli de’ Paratesi, Nora (1984), Lingua toscana in bocca ambrosiana. Tendenze verso l’italiano standard: un’inchiesta sociolinguistica, Bologna, il Mulino.
Pasquinelli, Sergio & Stea, Stefania (2008), Un territorio che cambia: demografia e contesto sociale, «Prospettive sociali e sanitarie» 16, pp. 15-27.
Poggi Salani, Teresa (1976), Note sull’italiano di Milano e in particolare sulla “e” tonica, in Studi di fonetica e fonologia. Atti del Convegno internazionale di studi (Padova, 1-2 ottobre 1973), a cura di R. Simone, U. Vignuzzi & G. Ruggiero, Roma, Bulzoni, pp. 245-260.
Tenca, Carlo (1974), Scritti linguistici, a cura di A. Stella, Milano - Napoli, Ricciardi.