Napoli, italiano di
La Campania non è un’area uniforme dal punto di vista linguistico (Radtke 1997; De Blasi 2006a), poiché nessun dialetto (nemmeno il napoletano, parlato a Napoli e nei dintorni) ha mai raggiunto lo status di dialetto regionale. Pertanto non si può parlare di un unico italiano regionale, ma solo di varietà di italiano locale in rapporto con i diversi dialetti (Radtke 1998).
Dalla bibliografia esistente (cfr. De Mauro 1963; Varvaro 1985; Bianchi, De Blasi & Librandi 1993; Avolio 1994; De Blasi 2006a) si traggono notizie sulle caratteristiche attuali dell’italiano in Campania e anche sul passato, grazie a testi didattici e a puntuali osservazioni di diversi autori, che già per il Cinquecento davano indicazioni su come parlare in italiano. Nel 1539 circa Benedetto Di Falco raccomanda di «parlar regolatamente», dicendo, per es., cervello e pianello, invece di cellevriello e chianiello. Per la compresenza di dialetto e italiano, almeno per Napoli, si ha precoce testimonianza di ➔ variazione diastratica (De Blasi 2002a): nel 1589 Del Tufo (cfr. Del Tufo 2007) distingueva la lingua del «popolaccio» dal «favellar gentil napolitano», per lui simile al toscano. Nel primo Seicento, Giulio Cesare Capaccio dichiarava che la «lingua cortigiana» dei nobili è un «napolitano assai regolato», quindi una probabile varietà intermedia, come l’attuale italiano regionale (Capasso 1882: 537-538). Nicolò Amenta (cfr. Amenta 1723-1724) qualificava come «parlare imperfetto» l’italiano in interferenza con il dialetto. Nel 1832 il purista Carlo Mele (Mele 1998) segnalava la pronuncia dei napoletani che in italiano dicono globbo per globo, stanga per stanca, quanno per quando, rompa per romba e spazio con la fricativa palatale iniziale. Queste fonti tra l’altro smentiscono l’idea diffusa secondo cui l’italiano, prima dell’Unità, non sarebbe stato mai usato come lingua parlata.
Per l’epoca postunitaria offrono documentazione rilevante i manuali didattici (Cammarano 1889; Nuzzo 1904-1911; Romanelli 18972), le opere teatrali (di Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani, Annibale Ruccello: cfr. De Blasi 2009a), i dialoghi cinematografici, numerosi narratori (da Matilde Serao a Giuseppe Montesano: cfr. Montesano 2005; Bianchi 2006; De Caprio 2006), nonché autori di canzoni (come Tony Tammaro: De Blasi 2002b).
Sebbene negli studi la varietà di italiano locale più ampiamente descritta sia quella del capoluogo, è tuttavia possibile indicare caratteristiche diffuse nelle diverse zone della regione.
Nell’area metropolitana risalta la connotazione diastratica di alcuni fenomeni: nella complessa geografia urbana si riconoscono aggregazioni successive di quartieri differenziati, in cui si distinguono «usi linguistici diversamente connotati (e connotanti)» (De Blasi 2002a: 123), che rimandano a stili di vita e prospettive culturali differenti. La maggiore conservazione del dialetto favorisce, in alcune zone cittadine, una più consistente interferenza tra il dialetto e l’italiano, che quindi risente più nettamente dell’influsso del dialetto.
Tratti fonetici generalmente comuni all’italiano dell’intera regione, spesso anche in una pronuncia sorvegliata, sono la chiusura delle vocali toniche nei dittonghi (buóno, viéni), l’apertura della tonica negli avverbi in -mènte, il raddoppiamento della consonante iniziale in parole come chiesa, la caduta della sillaba finale negli allocutivi (Anto’, dotto’), la pronuncia come semiconsonante intensa della laterale palatale (per es., [faˈmijːa] famiglia, [ˈpajːa] paglia; Maturi 2006: 101).
Altre caratteristiche, variabili in rapporto alle caratteristiche dei parlanti e al grado di accuratezza nel parlare, sono: il rafforzamento di -b- e -g- intervocaliche (sa[bː]ato, a[bː]ito, ra[dːʒ]ione, naufra[d:ʒ]io), la pronuncia della -i- grafica dopo consonante palatale sorda (per es., soc[i]ale, c[i]elo), la resa affricata [ʦ] della sibilante dopo vibrante o liquida (pen[ʦ]o, sal[ʦ]a, bor[ʦ]a).
A Napoli più che altrove la vocale finale è indistinta (anche in relazione con la velocità dell’eloquio; ➔ vocali; ➔ scevà); come a Firenze e a Roma è frequente la pronuncia fricativa dell’affricata palatale in parole come pa[ʃ]e per pace e simili. Nell’italiano delle aree interne si notano la sonorizzazione dopo nasale (can[d]are «cantare», cam[b]agna «campagna», tron[g]o «tronco») e la palatalizzazione della sibilante davanti a velare e a labiale ([ˈʃkusa], [ˈʃpesa]), ma non davanti a dentale (per cui [ˈstupido]).
Tali fenomeni (ripresi, anche in modo improprio, nella parodia dei campani fatta dai non campani) non sono assenti nel capoluogo, ma sono oggi evitati da chi vuole allontanarsi da una pronuncia troppo vicina al dialetto. In un italiano di profilo basso risaltano a Napoli i seguenti aspetti: il rafforzamento della consonante in di[sː]occupato, ga[sː]olio, i[pː]oteca; l’assimilazione, per es. in a[bː]itro, Ge[mː]ania, so[pː]resa o nelle sequenze con non (no [dː]ico); l’inserimento della vocale per interrompere nessi consonantici, come in p[is]ichiatra e simili.
Fenomeni vari sono indizio di una non controllata interferenza con il dialetto: la ritrazione dell’accento in parole ossitone (tipico piazza Càvour); la restituzione di una base di derivazione impropria in guadambiare «guadagnare», sparambiare «risparmiare» (dal dialettale sparagnà); l’occlusiva sorda per la sonora in pa[k]ato «pagato», ven[k]o «vengo»; la dissimilazione in giu[mb]otto «giubbotto», za[mb]aglione «zabaione» (a partire da una pronuncia con bilabiale intensa), ca[mb]omilla (da cammomilla).
Nella morfologia spicca l’occasionale inserimento di tratti integralmente dialettali, dall’articolo all’infinito apocopato (viene a mangià anche ’o presidente). Capita che siano trasferite all’italiano caratteristiche morfologiche o morfosintattiche dialettali, come il genere di un nome (lo scatolo, la capo, la ascensore o la asciugamani; a un livello basso gli analisi), il passato remoto per riferirsi a eventi recenti (mai però dello stesso giorno), l’imperfetto congiuntivo del tipo venisse qua per venga qua; a un livello basso appartengono il congiuntivo per condizionale in chi l’avesse detto «chi l’avrebbe detto», io dicessi «direi», e il periodo ipotetico del tipo se potessi, venissi sul modello dei costrutti dialettali (per reazione ipercorretta se potrei, verrei).
Nella formazione delle parole sono produttivi, tra gli altri, i suffissi -illo, -ella (D’Achille 2002), per i quali anche nell’italiano locale affiora quindi l’opposizione metafonetica (masch. bellillo «carino» ~ femm. bellélla, come manélla o pizzélla; ➔ metafonia). Tra i diminutivi (cappelluccio, martelluccio) alcuni sono privi di specifico valore semantico, sicché giacchetta è «giacca». I diminutivi e i vezzeggiativi dei nomi propri passano normalmente dal dialetto all’italiano locale (Peppino, Ciccillo, Annarella).
A Napoli in particolare è produttiva la serie dei nomi deverbali senza suffisso (➔ conversione): allucco «urlo» (da alluccà), arrevuoto «sovvertimento» (da arrevotà), pànteco «spavento», in specie prendersi un pànteco (da spantecare), scasso «luogo in cui si raccolgono le auto rottamate», scazzo «litigio», spiega «spiegazione», nonché sfratto e scippo entrati nell’italiano comune.
All’interno della frase si incontrano, in ogni parte della regione, l’uso di stesso come avverbio anteposto, in sequenze come portalo stesso tu, vado stesso io, e la posposizione del possessivo al nome (il compare mio) e talvolta dell’avverbio all’aggettivo, soprattutto in presenza di una sfumatura espressiva (sei fesso proprio, è bello assai).
Diffusa, presso chi risente di più dell’interferenza con il dialetto, è la costruzione transitiva di restare e rimanere «lasciare», di entrare (costruito come il dialettale trasì, per cui entra il motorino vale «porta dentro il motorino»), di salire e di scendere (costruito come calà «calare», per cui scendimi le chiavi vale «porta giù le chiavi»), costruzione che si ha anche per telefonare (la telefono «le telefono»). Rientrano in un italiano basso (e forse solo di Napoli e dintorni) sequenze calcate sul dialetto come la voglio bene «le voglio bene» (anche con oggetto non pronominale come voglio bene la famiglia mia), non lo dare retta «non dargli ascolto».
La costruzione transitiva è un ipercorrettismo che reagisce alla costruzione del complemento oggetto con a (➔ accusativo preposizionale), ritenuta errata (hai visto a Paola?), tipica del dialetto e dell’italiano locale. Il ricorso alla preposizione a è del resto più esteso che nello standard: si trova nelle infinitive soggettive (è bello a mangiare), nei complementi di moto e stato in luogo (va all’America, giocare a porta detto di chi, nel gioco del calcio, ricopre il ruolo di portiere), per le relazioni di amicizia e di parentela (amico, fratello a Pasquale), nell’esclamazione beato a lui!, fesso a te!, nel paragone (come a); recente, a Napoli, la a nel complemento di paragone riferito all’età (lui ha un anno in più a me) e nella locuzione stare a problema «avere un serio problema economico».
Va notato anche l’uso senza articolo di a nella qualificazione di specialità gastronomiche, come cornetto a crema, spaghetti a vongole (invece che alla crema, alle vongole), gelato a limone, zucchini a scapece, cioè conditi con salsa marinata. Frequente è vicino a dopo ➔ verba dicendi per indicare il destinatario: ho detto vicino alla signora «ho detto alla signora». Usi particolari riguardano giù, dentro e sopra in rapporto allo spazio urbano del capoluogo: giù Napoli «al centro della città» (nella prospettiva di chi abita in collina), sopra il Vomero (nella prospettiva inversa), dentro la Sanità, fuori la Marina; e si aggiunga sopra nel senso di «presso» (sopra il Comune, sopra lo stadio, sopra lo studio «presso gli uffici comunali, allo stadio, allo studio»).
In tutta la regione sono presenti il ➔ gerundio proposizionale (ti ho trovato giocando «sono sopraggiunto mentre giocavi»); la perifrasi con dovere per il futuro (domani devo andare a Roma), calco del futuro perifrastico dialettale (aggi’a fà [adːʒaˈfa] «farò»); l’anteposizione del dimostrativo quello come tema in una frase segmentata (quello, Antonio mi ha telefonato); volere seguito da infinito passivo (vogliono essere tradotte [le mie parole] per «vogliono che io traduca»: De Caprio & Milella 2008: 267). Diffuso è l’uso dell’aggettivo per avverbio (va buono «va bene», pare brutto «non è opportuno», fa bello «migliora l’aspetto»), anche in coppia con un altro aggettivo (bello caldo, bello papale papale «ben chiaro»); ha funzione avverbiale anche qualche sequenza di articolo + nome come lo tratta una chiavica oppure manco una chiavica «lo tratta molto male»; a Napoli inoltre bello e buono vale «improvvisamente».
Negli allocutivi (➔ allocutivi, pronomi), tra il tu (in espansione come nel resto d’Italia) e il lei permane il voi sia tra sconosciuti sia nei rapporti segnati da rispettosa consuetudine (quando il lei marcherebbe una distanza eccessiva).
Nel lessico, conservano connotazione locale le voci che, in ogni parte della regione, rimandano ad aspetti della realtà e della cultura materiale come boccaccio «recipiente di vetro per conservare alimenti», buatta «scatoletta di latta (usata in particolare per i pomodori pelati)», ceneriera «posacenere», cercare «chiedere», ciappa «bottone automatico a pressione», coppola «berretto», coppino «mestolo», fatica «lavoro», faticare «lavorare», friarielli «cime di rape» (impropriamente italianizzato in friggiarelli), laccetto «catenina», macchinetta «caffettiera», pittare «tingere, dipingere, tinteggiare», punessa «puntina da disegno», quartino «appartamento», sommozzare «nuotare sott’acqua», sparatrappo «cerotto», scafaréa «zuppiera», spasa «piatto grande da portata», tenere «avere, possedere». Sono radicati nell’uso i localismi gastronomici: tipicamente napoletani sono prussiana («ventaglio di pasta sfoglia caramellata»: Radtke 1998), coviglia «semifreddo» (De Blasi 2009b: 71-83), scapéce «condimento con salsa marinata».
Nell’italiano locale avviene anche la ripresa espressiva di voci dialettali (da chiattone «grasso» e corto «basso» fino a inguacchio «pasticcio»). La stessa cosa vale per il lessico usato in senso figurato o iperbolico come chiavica «persona pessima» (lett. «fogna»), insallanuto «rimbambito» (lett. «fuori di senno»), intalliarsi «perdere tempo» (lett. «mettere radici»), làzzaro «giovinastro» (lett. «straccione»), meza cazétta «persona dappoco» (lett. «mezza calzetta»), péreta «donna vistosa ma inelegante» (lett. «peto»), purpo «persona non avvenente» (lett. «polpo»), sapunaro «persona che fa lavori approssimativi» (lett. «robivecchi»), schiattare «soffrire per il gran caldo» (lett. «scoppiare»), sconocchiare «venir meno per la stanchezza» (lett. «rovinare in terra»), scostumato «maleducato», seccia «sfortuna» (lett. «seppia»), sturzillo «malore» (lett. «convulsione»). La sottolineatura espressiva risalta anche in molte locuzioni: farsi attaccare per pazzo «dare in escandescenze», pigliare una nziria «avere una fissazione, un capriccio», fare una tarantella «discutere», nessuno ci corre appresso «nessuno ci mette fretta», avere una mazzata in capo «incorrere in una situazione sgradita», ecc.; locuzioni connotate come basse sono tenere il fegato, il sistema nervoso che indicano le rispettive patologie, attaccarsi i nervi (o la nervatura) «innervosirsi».
Alcune voci, tra queste pizza, scugnizzo (De Blasi 2006b), camorra (Montuori 2008), sono passate in ➔ italiano standard in quanto considerate a vario titolo ‘pittoresche’ (Avolio 1994: 593). Tra le interiezioni hanno coloritura regionale azze «accidenti», aspita «caspita» (entrambe forme eufemistiche, rispettivamente da cazzo e caspita), uh anema, abbreviata anche in uà.
Alcune voci denotano una più consistente interferenza con il dialetto, collocandosi in una varietà bassa di italiano locale: bombolone «lecca lecca», posteggio «parcheggio dei taxi», scendere «uscire» (per «sbarcare il lunario»), uomo di lóta «uomo di merda», giovane «apprendista, aiutante» (quindi calco di guaglione, anche se riferito a persone adulte), iokscià «cagnolino della razza yorkshire» e mezzo «ciclomotore».
L’italiano regionale si modifica nel tempo; lo dimostrano voci (spesso provenienti dal dialetto: De Blasi in corso di pubblicazione) in uso in ambito giovanile come capata «assaggio» ma anche «cosa straordinaria» (questo blog è una capata!), incapante «interessante», parià «divertirsi», da cui la serie pariamento, parianza, pariata; alcune di queste novità resteranno forse nell’italiano locale come i giovanilismi novecenteschi fittiare «fissare intensamente» o chiattillo «fighetto, ragazzo di ceto sociale medio-alto, vanesio e alla moda» (lett. «piattola»). In passato è probabile che i campani usassero in italiano un lessico più vicino al dialetto, visto che Cammarano (1889) consigliava agli scolari di non ricorrere in italiano a espressioni come vòzzola in canna «fastidio in gola» o rociuliare per gli scalini «scivolare rovinosamente». Oggi è più raro che qualcuno adotti un lessico interamente dialettale credendo di parlare in italiano, mentre è diffuso il ricorso a forme del dialetto o dell’italiano locale usate come consapevole citazione.
In una situazione sociolinguistica in cui convivono varietà fortemente vitali e tutte presenti nel repertorio della maggioranza dei parlanti (dialetto, italiano locale, italiano standard) è quindi usuale, anche nella comunicazione quotidiana, la ricerca di una coloritura espressiva con ➔ commutazione di codice o con metafore, iperboli e sottolineature ironiche. Tale ricorrente tendenza va tenuta nella giusta considerazione quando si prendano in esame le scelte linguistiche di autori che ricorrono a un uso riflesso dell’italiano locale (➔ dialetto, usi letterari del); per questi autori la scelta espressiva di forme marcate (come dialettalismi o localismi italiani), più che rappresentare uno scarto rispetto all’uso, sarebbe invece un modo di reinventare in scena o sulla pagina scritta «una realtà comunicativa che di fatto è di per sé orientata verso l’espressività» (De Blasi 2006c: 94).
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