Palermo, italiano di
Per la particolare situazione linguistica della Sicilia, in cui i dialetti sono vivi e numerosi, è importante distinguere l’italiano regionale parlato da chi ha per madrelingua il dialetto da quello di chi per madrelingua ha l’italiano. In genere, i primi usano l’italiano regionale soltanto in contesti formali e con interferenze dialettali più marcate per i parlanti istruiti; i secondi possono anche non conoscere il dialetto, e in questo caso i tratti locali non sono dovuti a un’interferenza diretta. Alcuni fenomeni dell’italiano regionale di Sicilia (su cui in generale cfr. Leone 1982 e Tropea 1976) sono condivisi e considerati accettabili da tutti i parlanti a prescindere dal loro livello di istruzione.
La pronuncia, che risente particolarmente del sostrato dialettale anche in quei parlanti che non conoscono il dialetto, permette di distinguere non solo il modo di parlare in italiano di un siciliano rispetto a un veneto, a un emiliano o a un campano, ma anche di un palermitano rispetto a un catanese o un agrigentino. Ad es., l’italiano di area agrigentina ha una sonorizzazione delle occlusive sorde postnasali (an[k]e > an[g]e), che è assente nel palermitano. Nella Sicilia orientale, in particolare nel catanese, si registra una tendenza all’➔indebolimento della vibrante (te[r]a invece di te[rː]a).
Alcuni fenomeni, originariamente tipici di un’area, tendono a espandersi in tutta la regione: è il caso della pronuncia fricativa dell’affricata intervocalica (di[ʧ]e > di[ʃ]e) inizialmente propria dell’area palermitana. Altri fenomeni possono esser considerati comuni a tutta la regione e prodotti indipendentemente dal grado di istruzione dei parlanti o dalla loro conoscenza del dialetto. Ciò avviene, ad es., nel caso della mancata opposizione di grado d’apertura delle vocali medie (medio-alte o medio-basse) toniche, per cui nell’italiano di Sicilia le e e le o aperte non si distinguono da quelle chiuse e generalmente prevale la pronuncia aperta ([ˈsɔːle] sole). A volte, talune classi di parlanti presentano pronunce particolari: nell’italiano parlato da giovani palermitani le vocali medie (specialmente anteriori) toniche possono presentare un abbassamento (s[ɛ⊥̞]nti) e le vocali medie finali un innalzamento (pront[o⊥̞̝]). Diffusi nell’italiano regionale di Palermo, come nelle altre aree della Sicilia, sono anche l’allungamento della vibrante iniziale ([rː]otta invece di [r]otta) e la mancata opposizione di sonorità delle sibilanti intervocaliche, che vengono pronunciate sempre sorde (ro[s]a). Quest’ultimo tratto è avvertito dai parlanti come tipico della pronuncia meridionale e, soprattutto tra i giovani, è oggetto di ➔ ipercorrettismo, sicché produce una tendenza alla sonorizzazione anche in contesti in cui la sibilante dovrebbe essere sorda (ca[s]a > ca[z]a).
Analogamente si possono considerare pan-regionali e indipendenti dal livello di istruzione dei parlanti la pronuncia sonora delle affricate alveolari a inizio di parola ([dːz]ucchero) e il rafforzamento delle consonanti /b/ e /ʤ/ sia a inizio che all’interno della parola ([bː]ello; a[bː]ile; [dːʒ]ente; a[dːʒ]ile). La /d/ è rafforzata a inizio di parola ([dː]occia); nella sola Sicilia orientale si ha anche il rafforzamento di /g/ a inizio di parola ([gː]onna).
Altri tratti della pronuncia, propri soltanto dei parlanti di istruzione bassa che hanno come prima lingua il dialetto, vengono comunque di norma evitati in italiano da chi ne riconosce la matrice dialettale. Ciò avviene, ad es., per la palatalizzazione di /s/ e /z/ preconsonantiche ([ʃ]cuola) e per la realizzazione postalveolare dei nessi /(ṭ)tṛ̣̣̣/, /(ḍ)dṛ/ e /sṭṛ/. Proprio per la loro forte caratterizzazione regionale questi tratti sono spesso usati a fini espressivi e caricaturali quando si voglia riprodurre l’italiano di Sicilia.
L’➔intonazione è il livello che rende più riconoscibile la provenienza del parlante (Telmon 1994: 613-614), anche nell’ambito delle varietà di una stessa area geografica. Ad es., il profilo intonativo delle domande polari del tipo sì / no (➔ interrogative dirette) distingue nettamente l’italiano regionale di un palermitano da quello di un catanese; a Palermo l’intonazione ascendente ha una discesa finale postaccentuale (Grice 1995), mentre a Catania l’intonazione si mantiene ascendente anche in posizione postaccentuale. Nell’esempio seguente è sottolineata la parte della frase che viene prodotta con livello intonativo basso a Palermo e alto a Catania:
(1) la strà-da giù-sta qué-sta è?
Anche il lessico consente di osservare, accanto a una serie di termini che hanno diffusione pan-regionale e sono senza antagonisti (per es., tovaglia «asciugamano»; zineffa «riloga, sostegno delle tende»; immischiare «contagiare»), varianti interne all’italiano regionale di Sicilia. Basti pensare al nome delle bietole, per cui si registrano nell’isola le forme concorrenti giri, zarchi, sègali, o alle espressioni per «marinare la scuola» che hanno distribuzione microareale: buttarsela (Palermo), fare Sicilia (trapanese e zona occidentale), fagliare (agrigentino), fare l’una (zona centrale e nisseno-ennese), caliarsela (zona orientale). Alcuni termini sono attestati soltanto in un’area ben delimitata: carnezzerìa «bottega del macellaio» e scarrozzo «passo carraio» nel palermitano; mucco «bianchetto» nel catanese.
Il rapporto dei termini regionali con il ➔ sostrato dialettale può essere più o meno presente: alcune parole sono la forma italianizzata di un termine dialettale di cui non sempre i parlanti hanno consapevolezza. Si vedano, ad es., mappina «strofinaccio da cucina»; giochi di fuoco «fuochi d’artificio»; grèvio «insipido»; mellone «anguria»; scaffa «scaffale; buca nel terreno»; amarostico «amarognolo»; coricarsi «andare a letto». In altri casi, la regionalità riguarda il significato dei termini (mollica «pangrattato»; collera «dispiacere»; acido «acidità di stomaco»). Tali termini sono di norma percepiti come accettabili anche dai parlanti di istruzione alta, proprio per la coincidenza della loro forma con lessemi di italiano standard di diverso significato:
(2) avvicina da me che ti devo parlare [= «vienimi a trovare …»]
(3) i miei figli si levano tre anni [= «hanno una differenza d’età di tre anni»]
Sono ampiamente usati anche alcuni termini regionali che non hanno corrispondenti nel dialetto: comodista «persona che fa i propri comodi»; carpetta «cartelletta, raccoglitore di documenti»; stranizzarsi «stupirsi», per cui si registrano alte percentuali di accettabilità e di uso anche tra i parlanti di istruzione alta. Pari diffusione e accettabilità hanno anche alcune espressioni polirematiche (➔ polirematiche, parole): scotolare la tovaglia «scuotere le briciole dalla tovaglia»; calare la pasta «mettere giù la pasta nella pentola»; ammaccare un tasto «premere un tasto»; essere nelle spese «dover sostenere spese impegnative»; essere di matrimonio «dover partecipare a un matrimonio»; buttare voci «gridare»; fare la cucina «lavare i piatti»; stare dentro «stare in casa» (Amenta & Castiglione 2003: 295).
L’alta variazione osservata per il lessico nella regione fa sì che talora un termine di una zona prevalga su quelli concorrenti ed espanda i suoi domini d’uso: per es., zaùrdo «zotico, villano» dell’area orientale rispetto a tàscio del palermitano.
L’italiano regionale di Palermo sembra caratterizzarsi per una maggiore forza di irradiazione delle proprie varianti lessicali rispetto a quello di Catania, come dimostra, ad es., l’uso prevalente di giri «bietole» e neonata «bianchetto» rispetto a sègali e mucco. Questa tendenza può trovare spiegazione anche nella particolare realtà sociolinguistica di Palermo. L’uso dell’italiano (regionale) nel capoluogo è più diffuso rispetto a ciò che avviene nelle altre realtà urbane dell’isola per ragioni storico-sociali e ideologiche. Nel 1947 venne istituita la Regione Siciliana e Palermo accrebbe il suo prestigio nell’isola. Da allora la città fu meta di migrazioni interne che favorirono l’aumento di coloro che usavano prevalentemente l’italiano anche nella comunicazione quotidiana a discapito dei dialetti locali.
Questo processo di italianizzazione degli usi linguistici dei parlanti del capoluogo comportò anche una diversa politica linguistica familiare nella trasmissione dei codici alle nuove generazioni, con l’inibizione dell’uso del dialetto palermitano, stigmatizzato come rozzo e volgare. I giovani palermitani, pertanto, a prescindere dal livello di istruzione dei genitori, manifestano comportamenti linguistici differenti rispetto ai coetanei isolani, dal momento che tendono a parlare esclusivamente italiano anche nei contesti più informali e in famiglia (D’Agostino 1996).
Tuttavia, a questa più capillare diffusione dell’italiano nel capoluogo non sempre corrisponde una maggiore consapevolezza nell’uso di questo codice da parte dei parlanti palermitani, come si nota soprattutto se si prendono in considerazione l’uso e l’accettabilità di alcuni fenomeni morfosintattici (Amenta & Castiglione 2003: 293-297; 2007: 72-76).
Il livello morfosintattico non presenta la stessa variazione intraregionale del lessico o della pronuncia: pertanto non si possono individuare fenomeni propri di una particolare zona. Alcuni tratti morfosintattici dell’italiano regionale di Sicilia non solo sono comuni a tutta l’isola ma sono condivisi anche da altre varietà meridionali. È il caso, ad es., dell’allocuzione inversa con nomi di parentela (vieni qua, mammina!) comune all’Italia centro-meridionale, o dell’oggetto marcato da preposizione (➔ accusativo preposizionale) che ha un’indubbia vitalità nell’italiano regionale di Sicilia:
(4) chiama a tua madre
(5) salutami a tuo fratello
Questo tratto, accettato e usato dai parlanti di istruzione bassa, viene invece condannato dai parlanti di istruzione alta che ne avvertono la regionalità (Amenta & Castiglione 2007: 70-71). Altrettanto sanzionati dai parlanti di istruzione alta, benché ampiamente usati, sono: alcuni metaplasmi di ➔ genere (scatolo per scatola; orecchine per orecchini); l’uso di senza come avverbio di negazione davanti ad aggettivi e participi passati (caffè senza macinato, letto senza fatto); e l’inversione pronominale si ci:
(6) è uno a cui non si ci può dire niente!
Invece sono usati e considerati accettabili anche dai parlanti di alto livello di istruzione: l’uso della perifrasi progressiva per indicare il futuro imminente (➔ futuro): sto tornando «torno subito»; senza + infinito per esprimere l’➔imperativo negativo (senza correre!; ► imperativo negativo); la tendenza della forma verbale finita, soprattutto di essere e avere, a occupare l’ultima posizione nella frase (➔ ordine degli elementi):
(7) nel pomeriggio a casa sono
(8) ancora i compiti fate?
Quest’ultimo fenomeno, elevato popolarmente a tratto tipico dell’italiano regionale di Sicilia, è ampiamente adoperato per la resa televisiva della varietà siciliana di italiano. Basti pensare alla famosa battuta Montalbano sono (dalla serie televisiva sul commissario Montalbano, dal 1999 in poi, tratta dai racconti polizieschi di Andrea Camilleri).
Ancora, risultano diffusi a Palermo, ma anche nelle altre aree della Sicilia, e senza particolare relazione al livello di istruzione dei parlanti: l’uso di di con valore limitativo (per es., di mangiare, mangia «quanto a mangiare, …») e la reduplicazione dei nominali con verbi di movimento (➔ movimento, verbi di), per segnalare che il movimento del soggetto avviene lungo tutta la superficie dell’elemento denotato, e con i verbi stativi per l’espressione di un significato distributivo:
(9) va camminando casa casa, senza concludere niente
(10) la corda è tutta nodi nodi
La reduplicazione sintattica nell’italiano regionale di Sicilia può riguardare anche il sintagma verbale inserito in una relativa libera introdotta da chi o come (➔ raddoppiamento espressivo). In questi casi, la ripetizione della forma verbale conferisce a questi pronomi un valore analogo a quello delle forme in -unque dell’italiano standard:
(11) come li fai fai, risultano sempre troppo dolci [= «comunque tu li faccia, ...»]
(12) chi viene viene, io ci vado [= «chiunque venga, ...»]
L’uso come transitivi di verbi intransitivi è diffuso e accettato presso tutti i parlanti a prescindere dal loro livello di istruzione:
(13) entra la macchina in garage
(14) non uscire la lingua!
(15) non fa altro che sparlare tutti
Espressioni come entrare la biancheria «ritirare; portare dentro», uscire i soldi «pagare», uscire i documenti «presentare i documenti» risultano quasi cristallizzate nell’uso.
Non sono accettati dai parlanti di alto livello d’istruzione, benché talvolta presenti in contesti informali o poco sorvegliati: l’uso delle congiunzioni temporali rafforzate da che (16), l’uso della congiunzione causale essendo che (17), l’uso frequentissimo di quanto con valore consecutivo-finale (18); la costruzione infinitiva della completiva dopo i verba voluntatis per l’espressione della necessità (19) e della forma desiderativa (20); il verbo avere al posto di essere in frasi scisse con focalizzazione sull’espressione temporale (21):
(16) mentre che aspettiamo, facciamo quelle telefonate
(17) essendo che si è buttato vento, non usciamo
(18) aspetta, quanto vedo che sta combinando
(19) questa cucina vuole essere pulita
(20) il dottore vuole essere richiamato tra un’ora
(21) ha tre anni che sanno del pericolo e non fanno niente.
L’italiano regionale contemporaneo in Sicilia non permea soltanto il parlato o gli usi scritti informali ma anche la lingua letteraria. Non pochi scrittori siciliani, nel corso del Novecento, hanno fatto ricorso alla lingua regionale seppur con diverse motivazioni e con diverse modalità. L’uso rigoroso dei regionalismi in ➔ Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia, lo sperimentalismo espressivo di Stefano D’Arrigo che coinvolge anche la dimensione regionale, l’ostinazione filologica in Gesualdo Bufalino e la forza poetica delle scelte espressive di Vincenzo Consolo, sottoposti a numerosi studi, non possono essere considerati alla stregua delle scelte a effetto, perfino caricaturali, di Andrea Camilleri. Il progetto VIRLeS (Vocabolario dell’Italiano Regionale Letterario della Sicilia) punta a un’indagine sistematica delle scelte linguistiche regionali degli scrittori siciliani (Trovato 2001).
In particolare, nella lingua letteraria i regionalismi toccano per lo più il livello lessicale e il loro uso si lega quasi sempre alla necessità di dare una coloritura locale conforme all’ambiente descritto. In tali contesti, ad es., Pirandello preferisce l’uso di termini regionali pur disponendo di un corrispettivo in italiano: vedi il suo uso di giardino «agrumeto», trazzera «mulattiera» o curatolo «fattore». Differenti sono i casi in cui gli adattamenti in italiano dei sicilianismi sono dovuti alla ricerca di espressività. Ciò avviene soprattutto nella prima produzione narrativa pirandelliana, in cui il termine siciliano italianizzato ha una efficacia espressiva non altrimenti raggiungibile con la parola italiana: allocchito che traduce il siciliano alluccutu «stordito, intronato», stonato dal siciliano stunatu al posto di «allibito», chiaria «alba» o sbomicare dal siciliano sbummicari «erompere». Talvolta il termine regionale permette un adattamento di una forma alterata, quale padruccio al posto del siciliano patruzzu.
Occasionalmente l’uso di regionalismi investe il livello sintattico; è il caso della reduplicazione verbale a fini intensivi o iterativi:
(22) Zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel’appiastrò sul capo, glielo tirò sulla faccia a pugni chiusi, là, là, là sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva (Il fu Mattia Pascal)
In Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo la lingua è una particolarissima mistione tra italiano e dialetto siciliano, che si avvale dell’inserzione in un contesto fortemente letterario di lessemi desunti dal dialetto e adattati o come regionalismi (monchio «floscio», dal siciliano di area messinese mònchiu; avversare «sistemare», dal siciliano avvirsari «sistemare qualcosa o qualcuno») o come regionalismi semantici (cristiano, detto di pesce commestibile, dal siciliano cristianu «buono, di buona qualità») comuni sia alla lingua letteraria che al parlato.
Vincenzo Consolo, invece, inserisce in un contesto italiano materiale lessicale non altrimenti registrato, che risulta dotato di una maggiore carica anche per il potere evocativo:
(23) T’ho cercato per vanelle e per cortigli. […] Son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, mandola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno «meschino, meschino …» a confortare (Retablo).
I romanzi di Silvana Grasso (nata nel 1952) pullulano di elementi dialettali e regionali: nelle sue opere i regionalismi sono sia quelli presenti nel repertorio dei parlanti colti (dolceria «pasticceria»; carnezzeria «macelleria»; falsomagro «rotolo di carne ripieno»; stranizzarsi «stupirsi») sia quelli che hanno trovato una affermazione nella letteratura regionale come adattamenti dal siciliano (intruppicato dal siciliano ’ntruppicatu «incespicato»; appagliato dal siciliano ’mpagghiatu «confuso») sia quelli di tipo semantico (spiare «chiedere»; pietoso «degno di compassione»; pupetta «bambolina»; tovaglia «asciugamano»). Nella lingua di Grasso appaiono anche polirematiche e regionalismi fraseologici: pezza da piedi «persona di scarsa considerazione»; letto grande «letto matrimoniale»; calare le corna «abbassare la cresta»; far fare bile «procurare dispiaceri»; fare acido «procurare malessere».
Infine, va menzionata l’ultima generazione di scrittori palermitani che, pur avendo imparato solo l’italiano, non disdegna di usare regionalismi per manifestare la propria adesione al luogo d’origine e per conseguire l’obiettivo mimetico della scrittura, in cui rientra, accanto alle varietà di un repertorio plurilingue, anche l’italiano regionale: si pensi a Roberto Alajmo (nato nel 1959), che ricorre ad un regionalismo anche nel titolo del suo ultimo libro L’arte di annacarsi (2010).
Amenta, Luisa & Castiglione, Marina (2003), Convergenza linguistica fra conoscenza, uso e percezione: l’italiano regionale di Sicilia, in Italia linguistica anno Mille, Italia linguistica anno Duemila. Atti del XXXIV congresso internazionale della Società di Linguistica Italiana (Firenze, 19-21 ottobre 2000), a cura di N. Maraschio et al., Roma, Bulzoni, pp. 287-301.
Amenta, Luisa & Castiglione, Marina (2007), Nuove categorie per la definizione di italiano regionale, «Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano» 31, pp. 59-81.
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