Svizzera, italiano di
Per italiano di Svizzera si intende qui l’insieme delle varietà di lingua italiana presenti sul territorio della Confederazione Elvetica. Ne fanno parte sia l’italiano della Svizzera italiana, sia le varietà legate alla forte immigrazione dall’Italia, sia quelle derivanti dallo statuto di lingua nazionale e ufficiale che l’italiano ha in Svizzera.
L’italiano ottenne lo statuto di lingua nazionale in Svizzera, accanto al francese e al tedesco, già a partire dalla prima costituzione moderna, quella del 1848 che fece della Svizzera uno Stato federale (la quarta lingua elvetica, il romancio, ottenne questo statuto solo nel 1938).
Il territorio di lingua tradizionalmente italiana (la cosiddetta «Svizzera italiana») è costituito dal Canton Ticino e dalle quattro valli italofone del Cantone trilingue dei Grigioni (da est a ovest, le valli Poschiavo, Bregaglia, Mesolcina e Calanca; le altre lingue di questo Cantone sono il tedesco e il romancio). La lingua italiana è presente però in misura importante anche nel resto della Svizzera, in buona parte come conseguenza dell’immigrazione dall’Italia a partire dal secondo dopoguerra.
Secondo i dati più recenti, quelli del censimento federale raccolti nel 2000 (Bianconi 2005), il 6,5% della popolazione totale della Svizzera (che al momento del rilevamento era di 7.288.010 abitanti) ha dichiarato l’italiano come lingua principale, mentre il tedesco è dichiarato come lingua principale dal 63,7%, il francese dal 20,4%, e il romancio dallo 0,5% (il 9% della popolazione ha dichiarato come lingua principale una lingua non nazionale). La percentuale degli italofoni (6,5%) va suddivisa tra persone residenti nella Svizzera italiana (3,7%) e residenti nel resto della Svizzera (2,8%).
Le percentuali relative all’italiano degli ultimi sei rilevamenti nazionali, effettuati a scadenza decennale dal 1950 al 2000, mostrano come a un aumento notevole della presenza italofona sia seguito, a partire dagli anni Settanta, un calo legato sia al ritorno in Italia di parte degli immigrati, sia al fatto che alcuni di loro, a partire dalla seconda generazione, hanno dichiarato come lingua principale quella dei luoghi di residenza (e della scolarizzazione) e non quella d’origine:
1950 1960 1970 1980 1990 2000
5,9% 9,5% 11,9% 9,8% 7,6% 6,5%
Nei territori tradizionali invece l’italiano gode di ottima salute, come dimostra il fatto che tra il 1990 e il 2000 non solo non ha perso parlanti ma ha addirittura mostrato un leggero aumento, passando dal 3,6% al 3,7% della popolazione elvetica totale.
Per quanto riguarda la situazione nei due Cantoni italofoni summenzionati, la tab. 1 (che riporta i dati dei due ultimi rilevamenti) evidenzia bene come l’italofonia, sia in Ticino che nelle valli grigionesi, sia forte e sicura, anche se nelle seconde la ridotta consistenza demografica e l’appartenenza politica a un Cantone a maggioranza tedescofona rendono la situazione più delicata di quella ticinese.
Le differenti matrici che costituiscono l’italofonia in Svizzera fanno sì che ci si trovi di fronte a un quadro composito costituito da più varietà di italiano.
Innanzitutto è fondamentale distinguere tra l’italiano dei territori tradizionali e quello del resto della Svizzera. Per i territori tradizionali, poi, si manifestano differenze tra l’italiano del Ticino e quello del Cantone dei Grigioni. E in quest’ultimo si notano differenze ben individuabili tra le differenti valli, dovute anche al fatto che il territorio italofono grigionese è caratterizzato da discontinuità geografica, con le sole valli Mesolcina e Calanca a contatto tra loro (e confinanti con il Canton Ticino). Fuori dei territori tradizionali si ritrovano sia le varietà di italiano (e di dialetto) delle differenti generazioni di immigrati di origine italiana (la cui forza numerica aveva portato pure a una diffusione dell’italiano come lingua franca presso altri immigrati, descritta da Berruto 1991 sotto l’etichetta di Fremdarbeiteritalienisch; ➔ emigrazione, italiano dell’; ➔ italiano come pidgin), sia l’italiano appreso come lingua seconda dagli svizzeri non italofoni, sia l’italiano legato agli usi delle istituzioni statali e delle aziende aventi interessi nelle differenti regioni linguistiche, come le grandi catene commerciali, le banche, le assicurazioni, ecc. (denominato da Lurati 1976 italiano federale e da Berruto 1984 italiano elvetico). Una caratteristica tipica di queste ultime varietà è che in buona parte esse nascono come fenomeno di traduzione dal tedesco e dal francese.
Per una caratterizzazione dell’italiano in Svizzera è indispensabile tenere presente questa variazione interna, per evitare di commettere l’errore di confondere l’italiano di non nativi con quello della Svizzera italiana e considerare quindi tratti di varietà di apprendimento (cioè di una lingua non posseduta in modo completo; ➔ acquisizione dell’italiano come L2) come fenomeni tipici dell’italiano di Svizzera.
Inoltre, il fatto che l’italiano in Svizzera sia lingua ufficiale e nazionale di una nazione sovrana differente dall’Italia rende necessario postulare uno statuto policentrico complessivo della lingua italiana stessa, simile per alcuni aspetti, per es., a quello del tedesco (con la distinzione tra tedesco della Germania, della Svizzera, dell’Austria, ecc.). A questo proposito si è proposto recentemente di considerare l’italiano della Svizzera come un italiano ‘statale’ (Pandolfi 2009), che va valutato autonomamente, perché il suo statuto politico lo rende in parte indipendente dalla norma italiana e lo differenzia dunque dalle normali varietà regionali di italiano ritrovabili in Italia. Se da un lato si hanno indubbiamente influssi dialettali com’è normale negli italiani regionali, d’altro canto una buona parte delle peculiarità linguistiche è legata all’essere appunto l’italiano di un altro Stato nazionale, con differenze rispetto all’italiano d’Italia dipendenti da differenze nella realtà sociale, nelle istituzioni, ecc.
Prendendo, per es., in considerazione il livello più ampiamente studiato dell’italiano di Svizzera, quello lessicale, ci si rende rapidamente conto che parecchie delle caratteristiche che differenziano quest’ultimo dall’italiano d’Italia sono dovute proprio alle differenze nella società, con denominazione peculiari di istituzioni o entità differenti (come nel caso di cassa malati per «assicurazione malattia, mutua», consiglio federale «collegio dei ministri, governo», dipartimento nel senso di «ministero»). Inoltre, una parte delle peculiarità deriva dal contatto stretto con le altre lingue principali della Confederazione, che non possono non avere influssi sull’italiano di Svizzera, anche perché a volte è necessario denominare in modo parallelo, nelle varie lingue nazionali, significati tipicamente svizzeri.
Ne risultano quindi sia ➔ prestiti non adattati, che mantengono la forma originale della lingua d’origine (come trottinette «monopattino», quark «ricotta»), che prestiti adattati (tippare «digitare su una tastiera», sciala «caffè lungo con latte»), che ➔ calchi, in cui con materiali italiani si ricrea una espressione proveniente da altre lingue (tesoro notturno «cassa continua», ted. Nachtresor, dove Tresor significa «cassaforte»; penna a biglia «biro, penna a sfera», ted. Kugelschreiber, fr. stylo à bille).
Questi fenomeni sono particolarmente evidenti nelle serie parallele di significanti che attraversano le lingue nazionali e sono chiamate triplette panelvetiche (alcuni esempi da Lurati 1976: 169 segg.):
(1) buraliste / Bürolist / buralista «impiegato postale che sta allo sportello»
(2) auto postale / Postauto / autopostale «corriera»
(3) numéro postal d’acheminement / Postleitzahl / numero di avviamento postale
Accanto a questi influssi provenienti dalle altre lingue nazionali, emergono fenomeni che vanno ricondotti a sviluppi autonomi rispetto alla norma italiana. Si ritrovano quindi soluzioni, legittime dal punto di vista del potenziale del sistema della lingua italiana, ma differenti dalle soluzioni diffuse in Italia, con un effetto che può essere di sfasatura sociolinguistica (diacronica, diastratica, di registro o di sottocodice). Sono così comuni termini che all’orecchio italiano possono suonare di volta in volta come arcaici (carta gommata, lapis, bottiglia con la macchinetta), o aulici (negligere, vieppiù) o popolari (di raro, picchiar giù [una] fiera [= «fare una gran baraonda»], stoppo «intasato»), o che rimandano a lingue speciali (per es. nella scuola: matura «maturità», plenum «assemblea dei docenti», nota «voto», classatore «raccoglitore», mappetta «cartellina»).
Pandolfi (2009) riprendendo con qualche adattamento la dettagliata classificazione di Petralli (1990), considera le seguenti categorie di ➔ regionalismi ticinesi (che tratta come ‘statalismi’ e non semplici regionalismi, per le ragioni sopra menzionate):
(a) ticinesismi assoluti: lessemi per cui non esiste corrispondente nell’italiano d’Italia né a livello di significante né a livello di significato: corso di ripetizione «richiamo periodico al servizio militare»;
(b) ticinesismo semantico: nell’italiano d’Italia esiste il significante ma con significato diverso. Pandolfi (2006) distingue tra ticinesismi semantici omonimici (brutto «peso lordo», vignetta «contrassegno che permette di circolare sulle autostrade») e polisemici (ripresa con il significato di «ritiro della vecchia automobile al momento dell’acquisto di una nuova», o patrizio «membro delle corporazioni locali di diritto pubblico»);
(c) ticinesismo lessicale: in italiano esiste il significato ma non il significante, come in trattanda «punto all’ordine del giorno», ramina «rete di confine o rete metallica in genere».
Per quanto riguarda la quantità, nel campione di italiano parlato nella Svizzera italiana utilizzato da Pandolfi (2006) i regionalismi e i forestierismi costituiscono assieme lo 0,81% delle occorrenze dell’intero corpus; e va tenuto presente che il regionalismo in assoluto più ricorrente è il segnale discorsivo bon [boŋ] (➔ intercalari), che è responsabile da solo di più di un decimo delle occorrenze totali di regionalismi e contribuisce indubbiamente in modo importante alla ‘coloritura’ diatopica del parlato ticinese.
Dal punto di vista fonologico, l’italiano della Svizzera italiana presenta parecchie similarità con il suo ‘parente’ più vicino, l’italiano regionale di Lombardia (➔ Milano, italiano di; ➔ lombardi, dialetti), che lo differenziano dalla pronuncia dello standard, come, per es., nel caso della distribuzione delle vocali toniche e ed o aperte e chiuse, nell’abbreviamento delle consonanti doppie (con assenza del ➔ raddoppiamento sintattico), nella diversa distribuzione di [ʦ] e [ʣ].
Comune con altre varietà settentrionali è pure la rilevante presenza nella popolazione nativa di ➔ allofoni liberi non standard di /r/, con pronunce da velari a uvulari oppure monovibranti. Accanto a questi tratti ve ne sono però altri che non coincidono con le soluzioni dell’italiano di Lombardia, come la realizzazione molto lunga, fino quasi al dittongamento, di [o] tonica (con un esito, per es., di poi che diventa quasi [pwoj]).
Altrettanto caratteristica, al punto da costituire spesso uno degli elementi della caricatura del parlante svizzero italiano da parte di italiani, è la tendenza a realizzare come affricata la fricativa alveolare preceduta da liquida o nasale, che porta a pronunce come [ˈpolʦo] per polso o [ˈpeŋʦo] per penso. Ancora, rispetto al modello lombardo, emergono differenze nelle pronunce sorde o sonore per [s] intervocalica, come in [diˈseɲo] disegno o [kreˈatazi] creatasi. Simile è il caso dell’affricata alveolare dopo nasale, che ha realizzazione sonora e non sorda e dà quindi [ˈpraŋʣo] e non [ˈpraŋʦo] pranzo. Infine, tra i tratti considerati come tradizionalmente tipici, vanno ancora menzionati la pronuncia palatale dei nessi [n] + [j] o [l] + [j] (con niente realizzato come [ˈɲeŋte] o allievo come [aˈʎevo]) e la riduzione, talvolta fino alla scomparsa, di [v] intervocalica (lavoro realizzato come [laˈworo] o [laˈoro]).
Per molti di questi tratti va comunque tenuta presente la forte variazione interna, che porta da pronunce molto marcate in diatopia a pronunce vicine allo standard (spesso con caratteri variabili, come, per es., nel caso delle consonanti doppie). Già Bianconi (1980) segnalava la valenza diastratica di parecchi di questi tratti e Bianconi & Patocchi (1990: 303), in un’indagine su giovani del Luganese, sostenevano che «sembrano in particolare scomparsi i tratti più marcati di una pronuncia dialettale locale rilevati ancora presso la generazione precedente».
Da questo punto di vista, se nel passato alcune di queste pronunce andavano considerate come effetto della forte dialettofonia dei parlanti, al giorno d’oggi la maggiore diffusione dell’italiano nelle giovani generazioni ha ridotto l’influsso dei dialetti lasciando contemporaneamente più spazio ai modelli italiani e contribuendo a ridurre i fenomeni con connotazione diastratica bassa. Sarebbe comunque sbagliato pensare alla caratterizzazione regionale come conseguenza unicamente della dialettalità, dato che anche nell’italiano della Svizzera italiana vi sono tratti che si discostano dalle scelte fatte dal dialetto (per es., nella pronuncia tipica ticinese di freddo si ritrova una vocale tonica aperta, anche se il dialetto ha la pronuncia chiusa).
È tipicamente settentrionale la forte frequenza di verbi sintagmatici (➔ sintagmatici, verbi) o di rinforzi deittici di sintagmi nominali. Esempi dei primi possono essere prendere su, sporcare giù, scrivere su, dei secondi quel libro lì, questi giovani qua, la mia banca lì. A volte si hanno anche esiti poco trasparenti, come far su «imbrogliare» o marcar giù «prendere nota». Simile nella sua matrice settentrionale (e non solo), ma con aspetti peculiari, è l’uso sistematico dell’➔ articolo con i nomi di persona anche maschili (il Luigi; ➔ antroponimi; ► cognomi, articolo con i; ► nomi propri) o l’assenza dell’articolo con i nomi di parentela (➔ parentela, nomi di) preceduti da possessivo (mio papà). Anche in questi ambiti vi è una tendenza a ridurre i fenomeni sentiti come legati al dialetto e quindi aventi una valenza popolare.
Ci sono pure fenomeni specificamente svizzero-italiani (non condivisi quindi con il resto del Settentrione), come, per es., usi peculiari delle ➔ preposizioni o in generale problemi di ➔ reggenza. Questi fenomeni, con il loro collegamento con la memorizzazione lessicale e la componente idiomatica, sono in generale una zona privilegiata di differenziazione diatopica. Si ritrova così l’omissione della preposizione in pensare qualcosa e aver bisogno qualcosa, oppure si hanno scelte alternative come in mettere sotto discussione e chinarsi su + complemento astratto nel senso di «occuparsi di, concentrarsi su». Tra gli scambi di preposizioni dominano le alternanze di di e da, che hanno origine nella neutralizzazione dialettale sull’unica forma da (abiti da poche pretese, pausa da dieci minuti, ecc.). Per altri fenomeni legati alle preposizioni basti riportare alcuni esempi citati in Bianconi (1980) e Berruto (1980): obbligato di mantenere, preoccupato a fare, vedere a venire, confidare sulla premura. Un’altra zona di bassa motivazione, che quindi si presta bene a soluzioni diatopiche differenti, è quella delle attribuzioni di ➔ genere: la meteo e la fine settimana occorrono accanto ai corrispondenti maschili, normali in Italia.
Per quanto riguarda la sintassi del periodo e la testualità (trascurando qui gli accenni già fatti a elementi lessicali, come i connettivi, che hanno valenze testuali), si può ora far riferimento in particolare alla serie di studi di A. Ferrari e dei suoi collaboratori apparsi in Moretti, Pandolfi & Casoni (2009), dove viene analizzata la lingua dei quotidiani arrivando alla conclusione che «la lingua dei giornali ticinesi è complessivamente (molto) diversa da quella dei quotidiani italiani» (Ferrari 2009: 244), con periodi mediamente più brevi a costruzione più lineare, ma meno aperti agli influssi tipici del parlato di quanto sia la lingua dei quotidiani italiani degli ultimi decenni (➔ giornali, lingua dei). È evidente che uno studio settoriale sui giornali non può essere considerato come un rappresentante globale dell’intera varietà della Svizzera italiana, ma, dato il carattere normativo (e normato nella società) di questi testi, esso fornisce indubbiamente informazioni molto significative.
Per quanto riguarda infine il livello pragmatico, è tutta da esplorare l’ipotesi che le modalità di interazione, su influsso del resto della Svizzera, siano in parte differenti nella Svizzera italiana rispetto all’Italia (ma rimarrebbe da stabilire «quale Italia?»).
La letteratura della Svizzera italiana ha spesso accolto e sfruttato queste particolarità regionali facendone uno strumento di espressione e caratterizzazione. Per una rassegna storica, fin quasi ai giorni nostri, cfr. l’antologia curata da G. Orelli (1986).
I censimenti federali a partire dal 1990 permettono anche di analizzare il tasso di dialettofonia, ciò che nel caso della Svizzera italiana non è privo di interesse, data la presenza tradizionalmente molto forte del dialetto nella quotidianità (in parte come conseguenza del fatto che esso ha permesso soprattutto in passato di definire un’identità regionale differente da quella italiana e da quella del resto della Svizzera).
I rilevamenti più recenti hanno mostrato la forte avanzata dell’italiano a scapito del dialetto, ma al di là di ciò non va dimenticato il dato assoluto, che rivela che quasi un abitante di nazionalità svizzera su due nella Svizzera italiana parla anche dialetto in famiglia (cfr. Moretti 2006).
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Moretti, Bruno, Pandolfi, Elena M. & Casoni, Matteo (a cura di) (2009), Linguisti in contatto. Ricerche di linguistica italiana in Svizzera. Atti del Convegno dell’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana (Bellinzona, 16-17 novembre 2007), Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana.
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Pandolfi, Elena M. (2009), LIPSI. Lessico di frequenza dell’italiano parlato nella Svizzera italiana, Bellinzona, Osservatorio Linguistico della Svizzera Italiana.
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