Torino, italiano di
L’italiano parlato a Torino condivide, con differenze diafasiche (➔ variazione diafasica), diastratiche (➔ variazione diastratica) e di frequenza d’uso, i principali tratti regionali delle varietà settentrionali. Presenta inoltre un certo numero di caratteri dalla diffusione areale più circoscritta, quando non tipicamente piemontesi.
Sotto il profilo fonetico si possono citare, tra quelli non pansettentrionali, i seguenti tratti (cfr. Canepari 19863: 98-99):
(a) tendenza alla velarizzazione di a tonica, specie se in sillaba chiusa da consonante nasale o laterale: ad es. [ˈkɑŋto], o anche, con velarizzazione totale e arrotondamento, [ˈkɒŋto], per canto (ma cfr. anche più avanti il tratto c); [ˈkɑldo] o [ˈkɒldo], per caldo;
(b) pronuncia di e, specie se tonica, sempre aperta in sillaba chiusa da consonante vibrante (ad es. [ˈvɛrde] per verde) e sempre chiusa se in sillaba aperta non finale di parola (ad es. [ˈtreːno] per treno) o in sillaba chiusa da consonante nasale (ad es. [ˈdeŋti] per denti; ma cfr. anche il tratto c), con alta variabilità negli altri casi;
(c) nasalizzazione della vocale in sillaba chiusa da una consonante nasale: ad es. [ˈmẽŋto] per mento;
(d) tendenza all’➔epentesi di una semivocale per effetto dell’allungamento della vocale tonica, con creazione di un semidittongo (specie in sillaba chiusa): ad es. [ˈpwɔːrto] per porto (➔ dittongo);
(e) pronuncia decisamente semiconsonantica della semivocale [w] (➔ semivocali) nei dittonghi ascendenti con [ɔ] o [o], da cui derivano casi come lo suocero, con presenza dell’articolo lo richiesto per ragioni eufoniche dal nesso s + consonante a inizio di parola;
(f) realizzazione semiconsonantica, [w], di v iniziale di parola o intervocalica, se adiacente a [u]: ad es. [ˈwuoj], o anche [woj], per vuoi; [ˈuːwa] per uva;
(g) tendenza alla palatalizzazione incipiente della dentale [s] iniziale di parola (da cui pronunce simili a [ˈʃito] per sito).
Sul piano dell’➔intonazione, invece, è caratteristico l’andamento melodico delle domande «sì / no» (➔ interrogative dirette), che hanno un continuum di realizzazioni contraddistinte dal particolare profilo intonativo di alcune sillabe e dai relativi valori della frequenza fondamentale (oltre che da fattori meno distintivi, quali durata e intensità). Ai poli di questo continuum si collocano, rispettivamente, il noto contorno (stereo)tipico piemontese e un nuovo modello emergente, che mostra caratteri prosodici comuni a quelli di altre varietà regionali (➔ curva melodica). Il primo ha intonazione discendente-ascendente sulla sillaba tonica finale e discendente su quella postonica finale, con entrambe le sillabe sui valori minimi di frequenza dell’enunciato; il secondo presenta sulla sillaba postonica finale un’intonazione ascendente-discendente e un valore di frequenza medio-alto (Romano & Interlandi 2005: 265-271).
Quanto ai ➔ regionalismi lessicali, occorre distinguere:
(a) i casi di uso medio;
(b) quelli di ➔ italiano popolare;
(c) quelli con valore espressivo-paragergale.
Si possono qui menzionare, tra i casi (a), vari regionalismi semantici come arrivare «capitare», buono «capace», buttare «mettere», chiamare «chiedere», comprare «avere un figlio», grilletto «insalatiera, zuppiera», guadagnare «vincere» (anche intransitivo), tagliare «marinare la scuola», venire «diventare», vera «fede», o termini come cicles «gomma da masticare», toretto «fontana pubblica torinese, a forma di testa di toro», vestimenta «completo (abito)». Per il tipo (b), invece, si possono citare barone «mucchio», bialera «canale di irrigazione», borgno «cieco», bosco «legno, legna», compagno «uguale», gavata «stupidaggine», genare «mettere in imbarazzo», gramizia «cattiveria», lesa «slitta», losnare «lampeggiare» (verbo meteorologico), mostrare «insegnare», prontare «preparare, procurare», rangiare «aggiustare, sistemare», vesta «gonna». Per (c), infine, si hanno barbare «rasentare» e «rubare», cottolengo «scemo», gagno «bambino», gnogne «coccole», lordone «schiaffo», mina e tampa «figuraccia», trigo «pasticcio, imbroglio». Tali lessemi si configurano per lo più come ➔ prestiti adattati morfo-fonologicamente (sono tali, ad es., i termini che denotano realtà o referenti locali) e ➔ calchi semantici dal dialetto, fonti entrambi di possibili casi di ➔ geosinonimi e di geoomonimi.
Altrettanto ricco è il repertorio di polirematiche regionali (➔ polirematiche, parole): tra le varie, avere la mano «essere pratico», avere (più) caro «preferire», dare a mano «incominciare», dare da mente «dare retta», dare dei nomi «insultare», fare amico «fare amicizia», fare baracca «fare baldoria», fare conto «immaginare», leggere la vita «sparlare», prendersi guardia «fare attenzione», tenere da conto «conservare», toccare la mano «stringere la mano», trovare da dire «criticare», venire a taglio «essere utile», ecc.
Alcuni enunciati, specie con particolari strutture prosodiche, possono poi assumere connotazioni pragmatiche tipiche; è il caso, ad es., di o basta là «ma guarda!», che può veicolare un senso lievemente schernevole di disinteresse, anziché di effettivo stupore; lei dice?, che può esprimere riprovazione, invece di un cortese interessamento; sì che so, che può significare, con valore propriamente antifrastico, «non lo so, figurarsi se lo so» (il modulo sì che è tuttavia produttivo anche con altri verbi).
Fra i principali tratti morfosintattici non pansettentrionali, o comunque con specificità locali, si possono invece citare (cfr. Cerruti 2009):
(a) avverbi e sintagmi avverbiali come il tipico solo più, dai valori di «ormai soltanto» o «ancora soltanto», e già, la cui presenza parentetica in frasi interrogative segnala che l’informazione richiesta era precedentemente nota al locutore (ad es., come si chiama, già? «mi ricordi come si chiama?»);
(b) verbi pronominali (➔ pronominali, verbi) e verbi sintagmatici (➔ sintagmatici, verbi): ad es., fra i primi, aggiustarsi «cavarsela», andarci «occorrere», costumarsi «usarsi», inciamparsi «inciampare», osarsi «osare»; fra i secondi, attaccare sotto «agganciare», dare indietro «restituire» e «retrocedere», farsela bene «stare bene, essere agiato», mettere incontro «accostare», rimanere lì «restare esterrefatto»;
(c) perifrasi verbali per l’espressione di valori imperfettivi (➔ perifrastiche, strutture; ➔ aspetto): essere qui (o lì) che + verbo finito, con senso progressivo (ad es., quando sono entrato era lì che studiava), continuo (ad es., è tutto il pomeriggio che è lì che studia) o abituale (ad es., di solito è lì che studia); essere dietro a + infinito, con valore progressivo o continuo (anche con morfologia perfettiva; ad es., per tutto il pomeriggio è stato dietro a studiare); essere qui (o lì) che + stare + gerundio ed essere in cammino a + infinito, dal significato progressivo (ad es., quando sono entrato era lì che stava studiando / era in cammino a studiare; essere in cammino può anche avere valore incoativo); essere appresso a + infinito, con valore continuo (ad es., è due ore che sono appresso a studiare);
(d) altre perifrasi verbali, con vari significati: fare che + infinito (cfr. Ricca 2002), dai valori di immediatezza o imminenzialità (ad es., faccio che andare «vado subito»), correttivo (per es., ti chiamo, anzi faccio che scriverti) o modale, con sfumatura deontica (per es., fai che [= «devi»] scrivere anche a lui); non stare (lì) a + infinito (ad es., non stare a cucinare tanto «non darti / non vale la pena di …»); essere per + infinito, di senso imminenziale-volitivo (ad es., ero per [= «stavo per, volevo»] scartare il re di fiori); tornare + infinito, dal valore iterativo (ad es., torno partire «parto di nuovo»; ➔ iterazione, espressione della);
(e) la particella neh, notissimo indicatore di domande orientate (con risposta positiva attesa; neh [= «vero»] che ti sei divertito?) e domande-coda (come richiesta di conferma o consenso; si sta bene in ferie, neh?);
(f) la profrase é [eː], corrispondente all’➔italiano standard sì, con diversi valori di replica positiva a enunciati dichiarativi o interrogativi (ad es., A: il potere piace a tutti – B: é «già»; A: posso prenderne ancora? – B: é «certamente»; A: Lino non finisce mai di stupirci – B: é «davvero»);
(g) le congiunzioni subordinanti con elementi separati per che (con valore finale), ben che, fin che (ad es., per non che combinino guai, ben che sia tardi, fin che possiamo).
I fenomeni qui elencati si riferiscono principalmente alla varietà di italiano di Torino e trovano quindi rispondenza, di norma, in tratti consimili del dialetto torinese, varietà di koinè dell’area dialettale piemontese (➔ piemontesi, dialetti). L’italiano regionale può poi presentare caratteristiche differenti in zone diverse del Piemonte a seconda della specifica varietà di ➔ sostrato che ne è alla base, specie per i livelli di analisi più permeabili all’➔interferenza.
Soltanto una parte dei regionalismi citati è inoltre da ritenersi effettivamente diffusa senza restrizioni di natura diastratica o diafasica, ossia costitutiva dell’italiano regionale standard. Per la morfosintassi, ad es., si è notato che appartengono allo standard regionale di Torino tutti i tratti riconducibili a tendenze di ristandardizzazione attive su scala panitaliana (è il caso, ad es., di essere qui (o lì) che + verbo finito, che condivide l’espansione aspettuale della corrispondente espressione panitaliana stare + gerundio: sto facendo) o che consentono l’espressione di significati per i quali l’italiano standard non dispone di forme grammaticalizzate (è il caso, ad es., dell’uso regionale di già).
In diacronia (cfr. Marazzini 1992), forme di italiano scritto modellate dal sostrato dialettale piemontese si riscontrano già nel XV secolo, quando iniziarono a diffondersi, anche a livello popolare, i primi modelli di lingua a base toscana; furono specialmente le laudi e il teatro religioso di piazza a incoraggiare la produzione locale di testi toscaneggianti, inevitabilmente segnati dalle interferenze dialettali.
L’uso dell’italiano, poi imposto ufficialmente da Emanuele Filiberto di Savoia con gli editti del 1560 e del 1577 e in seguito promosso dalle riforme scolastiche sette- e ottocentesche e dalle spinte postunitarie all’unificazione linguistica (➔ scuola e lingua), continuò a manifestarsi in forme regionali, particolarmente nella scrittura popolare e con differenze sociali destinate a ridursi in relazione al progressivo diffondersi dell’istruzione.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento l’italiano regionale di Torino diventò uno dei modelli di lingua a disposizione degli immigrati meridionali, sostituendosi al dialetto torinese come veicolo di integrazione. Evidenti e numerosi tratti regionali ricorrono, nella letteratura postunitaria e novecentesca, in molte opere di scrittori piemontesi quali Giovanni Faldella, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Primo Levi (La chiave a stella) e Nuto Revelli.
Canepari, Luciano (19863), Italiano standard e pronunce regionali, Padova, CLEUP (1a ed. 1980).
Cerruti, Massimo (2009), Strutture dell’italiano regionale. Morfosintassi di una varietà diatopica in prospettiva sociolinguistica, Frank-furt am Main, Peter Lang.
Marazzini, Claudio (1992), Piemonte e Valle d’Aosta, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, pp. 1-44.
Ricca, Davide (2002), “Facciamo che andare”: sulla semantica di una tipica perifrasi dell’italiano regionale piemontese, in La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, a cura di G.L. Beccaria & C. Marello, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2 voll., vol. 1°, pp. 355-371.
Romano, Antonio & Interlandi, Grazia Maria (2005), Variabilità geo-socio-prosodica. Dati linguistici e statistici, «Géolinguistique» 3, pp. 259-280.