Venezia, italiano di
L’introduzione della lingua nazionale nel repertorio veneto è stata più lenta che in altre regioni, per una diffusa persistenza nell’uso del dialetto, come attestano le statistiche Doxa e ISTAT. Oggi tuttavia l’italiano è entrato nel parlato informale, dando luogo ai normali meccanismi di regionalizzazione, con frequenti episodi di alternanza di codice (➔ commutazione di codice) e di inserimento di elementi dialettali negli enunciati, anche nel parlato giovanile. Non tutti i livelli di analisi hanno ottenuto la medesima attenzione negli studi. La sintesi che segue deve le osservazioni fonetiche e le note morfosintattiche e lessicali principalmente a Canepari (1980 e 1984) e a Cortelazzo & Paccagnella (1992).
Il ritmo delle parlate venete è caratterizzato dal fatto di avere poche differenze di durata tra sillabe accentate e non accentate (➔ pronuncia), mentre l’➔intonazione mostra consistenti variazioni melodiche, producendo l’effetto, imitato nello stereotipo, di un andamento cantilenante (➔ curva melodica).
L’inventario dei suoni del dialetto è simile a quello dell’➔italiano standard. Le vocali sono le stesse, con la possibilità per /e/ e /o/ di essere pronunciate, in sillaba accentata, chiuse o aperte. È diversa tuttavia la distribuzione: [ˈvɛnti] «venti», plurale di «vento», e [ˈventi] «20» corrispondono rispettivamente a [ˈveŋti] e [ˈvɛŋti]; la distinzione è neutralizzata in [ˈpeska], che è sia «frutto» che «attività del pescare». La /e/ in sillaba aperta, chiusa da consonante nasale, e nel dittongo /je/ tende a chiudersi: [ˈbene], [ˈteŋpo], [ˈpjede]. Tendono alla realizzazione aperta invece [trɛ], [mɛ]. Nel Veneto centrale, soprattutto a Vicenza e in parte del veronese, /er/ seguito da vocale si apre in [ɛr]: [ˈsɛra], [ˈvɛro], [doˈvɛre]. Analogamente per /ɔ/ dello standard si può sentire [o]: [ˈpoko], [ˈsporko], mentre per /o/ dello standard [ˈdɔpo], [ˈpɔsto].
Fortemente caratterizzante è la pronuncia scempia delle consonanti lunghe geminate (➔ quantità fonologica): si oscura così la differenza tra copia e coppia, tuta e tutta, pala e palla; e talora, per reazione, vengono pronunciate lunghe consonanti brevi. Questo tratto può avere ricadute morfologiche, neutralizzando l’opposizione tra futuro e condizionale ([aˈvremo] «avremo» e «avremmo»). Se, nel caso di pronuncia sorvegliata, il parlante può realizzare lunghe le consonanti che ha appreso essere doppie nella scrittura (➔ doppie, lettere), non altrettanto avviene con [ʎ] e [ɲ], nello standard foneticamente lunghe. Queste stesse consonanti, poi, nella pronuncia più connotata sono sostituite da [nj] e [lj] ([kaŋˈpanja] «Campania» e «campagna»; [voˈljamo] «voliamo» e «vogliamo»). Anche [ʃʃ] si riduce a [ʃ] e nell’accento più marcato a [sj] ([la ˈʃeŋʦa], [la ˈʃjeŋʦa] o [la ˈsjeŋʦa]). La /r/ semplice, soprattutto tra vocali, è molto spesso monovibrante (➔ vibranti). Le ➔ nasali in finale di parola e finale di sillaba sono sempre velari: [ˈɡaŋba] «gamba», [ˈpeŋsa] «pensa». La /s/ intervocalica si realizza come sonora; fanno eccezione forme come affittasi, cercasi, pronunciate con la sorda. Le ➔ affricate dentali iniziali tendono nella pronuncia più marcata a /s/ e /z/ (per es. [ˈzio] «zio»). Per reazione ipercorretta (➔ ipercorrettismo) può aversi la pronuncia come [ʦ] della [s] dello standard (generando confusione tra parole come sessione e sezione). Ne abbiamo un esempio letterario nella commedia goldoniana Il campiello, in cui Gasparina, una ragazza con smanie di distinzione, suscita divertimento per il suo modo di parlare, perché sostituisce tutte le /s/ con altrettante /ʦ/, secondo un modello che vuole essere toscano, ma che accenna anche all’uso della nobiltà veneziana del tempo.
Le tracce morfosintattiche regionali sono sporadiche anche nell’italiano parlato informale: la diffusione ancora rilevante del dialetto (➔ veneti, dialetti) nella regione permette una buona consapevolezza della norma e di conseguenza una più netta distinzione tra le varietà del repertorio. Abbastanza persistente è l’uso degli articoli il, i e un davanti a nomi inizianti per [ʦ] o [ʣ], [s] seguita da consonante, [ʃ] e [ɲ]: il zucchero, i scambi, i gnocchi, un scemo. Talora emergono nei nomi differenze di genere (peri per pere) e plurali regolarizzanti (bracci, uovi) o usi al plurale invece che al singolare (i risi, le trippe). Nettamente preferito è il suffisso diminutivo -etto rispetto a -ino. Molto spesso i dimostrativi sono rafforzati: ’sto uomo qua, quela dona là. Ancora, si deve al ➔ sostrato dialettale l’uso di si per ci con i verbi riflessivi o intransitivi pronominali: si abbiamo divertiti «ci siamo divertiti» (dove va anche notato l’ausiliare avere per essere: si aveva lamentato «si era lamentato»). Per l’➔imperativo negativo, è usata anche la forma con non stare a, non state a + infinito, a volte rafforzata con mica. Tipica anche la perifrasi progressiva essere dietro a + infinito: sono dietro a venire «sto venendo» (➔ perifrastiche, strutture). Caratteristica dei dialetti veneti (e settentrionali), trasferita all’italiano regionale, è il rafforzamento di congiunzioni e avverbi con che: quando che, come che, dove che. L’area delle ➔ preposizioni, meno soggetta al controllo normativo consapevole, presenta vari esempi di differenza rispetto allo standard: estensione dell’uso di da (mi fa da ridere, sa da pesce) e di su (siamo stati su [in] una scuola); eliminazione di a con verbi di moto seguiti da infinito (è andato servire un altro cliente); inserimento di a davanti all’infinito retto da verbi di percezione (lo abbiamo visto a venire; ➔ percezione, verbi di), psicologici (mi piace ad ascoltare; ➔ psicologici, verbi), modali (posso a guidarla; ➔ modali, verbi), espressioni impersonali (è una soddisfazione a fare programmi).
Compaiono poi locuzioni verbali analitiche (➔ sintagmatici, verbi) soprattutto con verbi di movimento (andare su, scendere giù: ➔ movimento, verbi di), che in alcuni casi acquisiscono una semantica specifica (dire su «insultare», saltar su «contraddire», perdersi via «distrarsi»). Altri usi particolari sono, per es.: per causa che «a causa di», il giorno dietro «il giorno dopo», non proseguo altro «non proseguo più».
Il dialetto veneto, soprattutto il veneziano, ha introdotto numerose forme nell’➔italiano standard, alcune con referenti locali come gondola, calle, campiello, doge, lido, ghetto, barena; altre con significati più generali, come anagrafe, catasto, ditta, gazzetta, lazzaretto. Un secondo livello di ➔ dialettismi si ferma invece nell’area regionale, anche se per vie imprevedibili ne può varcare i confini: tipico il riferimento a prodotti gastronomici come i risi e bisi, le sardelle in saór, l’ossocollo o lo spriz. Si possono aggiungere, con diversa diffusione: baba «donna vecchia, chiacchierona», bagìgi «noccioline americane», còttola «sottana», franchi «lire», ombra «bicchiere di vino», pèrgolo «poggiolo», pomèlla «bacca», sgabèllo «comodino», sartóra «sarta».
Come osserva Canepari (1990), nell’uso regionale sono possibili tre classi di modificazioni semantiche di parole che appartengono al vocabolario italiano: ampliamento, come in rimandare, che ha anche il valore di «vomitare»; restrizione, ad es., in camera, che significa «camera (da letto)», ma non «sala (da pranzo, di soggiorno)»; o diversità, come in balcóne con il valore di «finestra», condiviso peraltro, per es., con Liguria e Venezia Giulia. Un significato molto particolare assume il verbo combàtere, che ha minore carica aggressiva di combattere, ed è usato in contesti familiari (i figli mi fano combàtere), mentre la locuzione non vado a combàtere si è specializzata come espressione di disimpegno, di non voluto coinvolgimento.
Alcune interiezioni assumono un valore pragmatico specifico: aiuto! «è incredibile»; va’ là usato come forma di attenuazione amichevole (porta pazienza, va’ là); taci! «meno male» (è inciampato, ma taci che non si è fatto niente).
Il particolare status del veneziano, che nei secoli della Serenissima si colloca in un rapporto di parità e di cosciente autonomia nei confronti del toscano, ritarda la formazione di una sistematica varietà di italiano regionale, favorendo piuttosto episodi di inserti lessicali dialettali, già individuabili, assieme a qualche elemento di grafia, negli atti ufficiali della Repubblica. Non mancano comunque testimonianze al limite dell’italiano popolare, con più evidenti caratterizzazioni. Ruzante nella commedia La Moscheta mostra la propria abilità col toscano dicendo: «io sono lo io mi, che vòleno favelare con Vostra Signoria de vu» (➔ italiano popolare). È in questo caso esplicita la satira del «villano rifatto».
Un accenno particolare merita l’italiano che ➔ Carlo Goldoni usa accanto al veneziano e al francese. Oltre all’incertezza nel trattamento delle consonanti intervocaliche, a volte indebolite, a volte allungate per ipercorrettismo, si rilevano: l’uso della preposizione a con i verbi di percezione (ho sentito a dire); il gerundio di una quarta coniugazione in -indo (si andò smarrindo); la presenza del pronome atono soggetto di terza persona femminile («ora pare che la mi voglia, ora che non la mi voglia»); l’uso del possessivo suo con la funzione di «proprio» («per dir la sua ragione, non vi è bisogno di scaldarsi il sangue»); il pronome soggetto posposto al verbo nelle interrogative («che cosa [...] vai tu fare a Parigi?»). È bene precisare che non si tratta di italiano regionale in senso stretto: è una lingua letteraria, che non trova riscontro in una varietà realmente usata.
Con il passaggio della regione sotto la dominazione austriaca (1797) e la perdita dell’autonomia, muta anche lo status delle lingue entro il repertorio veneto, e il veneziano, contrastato nell’uso orale dalla lingua nazionale, si avvia ad acquisire una condizione simile a quella degli altri dialetti. Meglio rappresentata nel parlato che nella scrittura, la varietà regionale comincia a essere identificata tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: nel tardo Ottocento (1889) G. Mussini ne pubblica una descrizione allo scopo «di servire ai giovani studiosi delle province del Veneto» e qualche decennio dopo Edmondo De Amicis (1920) così la riproduce:
A noi, piccolo veneziano. A te pure quando che parli italiano, vien fatto di ficcare il che dappertutto, e non sei buono da liberartene, e dici: non so cosa che voglia dire, non so cosa che ci vorrebbe; e ti scappa detto lasciarsi tirar giù per “lasciarsi indurre” e che bello e che caro, e incapricciarsi in una cosa, e non s’indubiti, e l’aspetta un momento; e ti sfugge ben sovente scampare per “scappare” e balcone per “finestra” e altana per “terrazza” e sgabello per “comodino”.
Accanto a tratti che hanno persistenza di secoli, compaiono qui elementi, in particolare incapricciarsi o non s’indubiti, che si rinvengono con difficoltà nell’attuale produzione linguistica, a conferma, forse ovvia, di una variazione diacronica anche nell’italiano regionale. Per il Novecento va citato Luigi Meneghello (1922-2007), di Malo (Vicenza), autore di testi autobiografici e di riflessione linguistica, in cui è frequente l’inserimento di elementi veneti, con diversi gradi di assimilazione all’italiano.
De Amicis, Edmondo (1920), Idioma gentile, Milano, Treves (1a ed. 1905).
Mussini, Gianni (1889), Venetismi o provincialismi più comuni nel Veneto e raccolti per uso degli studiosi e delle scuole, Reggio Emilia, Tip. Ariosto.
Canepari, Luciano (1980), Italiano standard e pronunce regionali, Padova, CLEUP.
Canepari, Luciano (1984), Lingua italiana nel Veneto, Padova, CLESP.
Canepari, Luciano (1990), Teoria e prassi dell’italiano regionale. A proposito del “Profilo della lingua italiana nelle regioni”, in L’italiano regionale. Atti del XVIII congresso internazionale della Società di Linguistica Italiana (Padova-Vicenza, 14-16 settembre 1984), a cura di M.A. Cortelazzo & A.M. Mioni, Roma, Bulzoni, pp. 89-102.
Cortelazzo, Michele A. & Paccagnella, Ivano (1992), Il Veneto, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, pp. 220-281.