italiano in Europa
Sebbene con italiano si alluda qui alla lingua, non a chi la parla, la diffusione della lingua italiana fuori d’Italia può spesso essere desunta solo dal contatto con la civiltà italiana. Questa considerazione sta già alla base del libro di Gianfranco Folena (Folena 1983: IX segg.), intitolato L’italiano in Europa, appunto, e diventato un classico al riguardo. Per lo status attuale della lingua italiana e le iniziative della sua diffusione si rimanda a Turchetta (2005). Per altri aspetti connessi, ➔ immagine dell’italiano, ➔ italianismi e ➔ mondo, italiano nel.
In riferimento al medioevo, italiano e italianismo sono denominazioni convenzionali per indicare le parlate italo-romanze e i prestiti che esse danno ad altre lingue. Anzi, fuori d’Italia queste parlate furono percepite come lingue diverse, e anche gli abitanti della penisola italiana non furono individuati come italiani ma come lombardi, toscani, ecc. L’idea di una lingua italiana nacque con ➔ Dante ma divenne comune e fu codificata solo nel Cinquecento (Vàrvaro 2003).
Benché i primi italianismi attestati in altre lingue siano del XII secolo, contatti con l’italiano devono essere esistiti anche prima. Da secoli l’Italia era il crocevia di tre mondi: quello dell’Europa romanzo-germanica; quello greco; e, sia per il dominio arabo in Sicilia (827-1091), sia attraverso le pratiche commerciali, sia in quanto territorio di passaggio di pellegrini e viaggiatori, quello islamico. Infatti, molti dei primi italianismi passati in altre lingue sono a loro volta di origine araba ( ➔ arabismi), per es. assassino, baldacchino, dogana (Mancini 2006; Vàrvaro 2003; con il maiuscoletto viene indicato qui l’etimo italiano).
I primi italianismi di origine indigena riflettono il primato dell’Italia nei campi della marineria mediterranea (➔ marineria, lingua della), del commercio e delle finanze (➔ economia, lingua dell’), e dell’arte militare, prima che in quello della cultura. Italianismi marinareschi s’incontrano oltre che in francese, dove sono i più numerosi, nelle altre lingue romanze, per es. bussola «denominante un oggetto italianissimo, [...] migrata dall’italiano nel francese, nello spagnolo, nel portoghese, nel catalano, nel tedesco, nel serbocroato, nel mediogreco, nel turco e nell’arabo» (Vidos 1939: 6).
In Occidente, l’influenza italiana era soprattutto genovese. L’ascesa della marina aragonese-catalana avvenne a opera di genovesi, che erano anche implicati nei viaggi di esplorazione dei portoghesi e degli spagnoli: Genova forniva le galere, l’equipaggio e persino gli ammiragli (Terlingen 1943: 46). I genovesi mantenevano a Siviglia un fondaco e una propria chiesa; ma erano coinvolti anche altri italiani e altre città spagnole. Come prestatori di denaro e assicuratori, i genovesi ebbero anche una parte importante nelle spedizioni nel Nuovo Mondo nei primi decenni del Cinquecento. A Siviglia e anche a Cadice nel Cinquecento un quarto della popolazione era di origine genovese. Per molti prodotti i genovesi ebbero il monopolio, e in cambio dei loro servizi finanziari ottennero da Carlo I alcuni diritti doganali e il permesso di fondare delle banche (ibid. 76-81).
Invece, nell’Adriatico e nel Levante l’influenza romanza era soprattutto veneziana, come dimostrano i prestiti veneziani nelle lingue slave, e, attraverso queste, in ungherese. Mentre il francese spinse molti termini marinareschi italiani verso l’Europa settentrionale, per es. fregata (> olandese fregat, ingl. frigate, ma non ted. Fregatte, prestito diretto dall’italiano), il neogreco e il serbocroato diffusero i loro italianismi verso est: il neogreco alle altre lingue balcaniche e al turco, il serbocroato all’ungherese, al bulgaro e anche al romeno. Per lo stesso marinaro, venez. mariner, si ritrova la prima forma in albanese marinar, gr. marnáros, turco marinar, romeno marinar, la seconda in croato marinēr, in gr. marnéros, e in turco mariner. Ancora nel Seicento e Settecento i consolati inglesi e francesi del Maghreb e nell’area del Mediterraneo orientale usavano l’italiano per gli atti pubblici (Vàrvaro 2003; per il ruolo dell’italiano come lingua della diplomazia e quello degli italiani nei servizi diplomatici stranieri, cfr. anche Gorini 1997: 16 segg.). L’italiano, o pidgin su base italiana (➔ italiano come pidgin), come la lingua franca (➔ lingua franca, italiano come), rimasero a lungo in uso nei porti e lungo le coste del Mediterraneo (Cifoletti 2004; ➔ Mediterraneo e lingua italiana). Venezia era il più importante punto di contatto per i tedeschi. Attestazioni della presenza di commercianti austriaci a Venezia si trovano a partire dal 1218, e intorno al 1228 fu costituito il Fondaco dei Tedeschi, magazzino e allo stesso tempo albergo per i commercianti tedeschi.
La nuova realtà economica richiese strumenti finanziari adeguati, per es. la lettera di credito e la lettera di cambio (la moderna cambiale), il sistema delle assicurazioni, la partita doppia, le prime società di capitale, la banca e il sistema bancario (Malato 2003). La diffusione di monete italiane è emblematica nell’attività finanziaria internazionale. Già dalla metà del XII secolo Firenze aveva emesso il fiorino d’argento, seguito, nel 1252, dal fiorino d’oro (fr. e ted. florin, ted. anche floren, oland. florijn, ungh. forint). A sua volta, Venezia attorno al 1202 aveva coniato il ducato, poi adottato da altri stati italiani e non italiani. A Genova, il ducato d’oro fu più tardi chiamato zecchino, anch’esso diffusosi internazionalmente (cfr. fr. sequin 1400, ingl. zecchin 1575 e di nuovo, attraverso il francese, sequin 1617, ted. Zechine 1573). La stessa lira, la cui origine italiana risale ugualmente al Duecento, fu adottata dall’Impero Ottomano e mantenuta dalla Turchia, e dette anche il nome alla valuta maltese. Erano tante le monete italiane delle quali si ritrovavano, o si ritrovano tuttora, riflessi in altre lingue, per es. centesimo, crazia, denaro, piastra, quattrino, scudo, soldo (Malato 2003; DIFIT 2008).
La Curia romana, che fino al Duecento era ricorsa a banchieri ebrei per le sue imposizioni fiscali, in seguito si avvalse di banchieri soprattutto fiorentini, fondando così la fortuna dei Medici, che aprirono filiali in tutto l’Occidente europeo (Vivanti 2003: 66 segg.). All’inizio del Cinquecento risiedevano a Norimberga molti toscani di Pisa e Firenze, che ospitavano anche giovani compatrioti per un tirocinio commerciale in Germania; ad Augusta esisteva nella prima metà del Cinquecento una forte comunità di commercianti italiani. Italiani, soprattutto fiorentini, agivano anche nell’ambito della lega anseatica, e a Colonia c’era la più grande comunità italiana in Germania.
I più noti erano i ‘lombardi’, che non venivano tanto dalla Lombardia, quanto da Asti e Chieri in Piemonte (Bordone 2005). Furono chiamati così i prestatori di denaro italiani, dapprima in Francia, dove lombard è uno degli italianismi più antichi («della Lombardia, italiano» 1174, «usuraio» 1260), poi in tutta l’Europa del Nord. Nella terminologia bancaria moderna Lombard si riferisce sempre a un tipo di credito.
Dopo il dominio degli arabi sulla Sicilia, l’Italia fu occupata da spagnoli, francesi, tedeschi, e mercenari stranieri combattevano nelle ‘guerre d’Italia’. Ma l’Italia non era solo pomo della discordia e campo di battaglia: gli italiani erano artefici di armi avanzate, teorici della guerra e condottieri di truppe straniere. Come esperti balistici e architetti della fortificazione, furono chiamati alle corti d’Europa, per es. per la difesa contro i turchi. Fino al Cinquecento i termini militari formano uno dei gruppi più numerosi di italianismi in tutte le lingue, per es. allarme, battaglione, capitano (cfr. Del Negro 2002).
L’irradiazione dell’Italia umanistica e rinascimentale avvenne per il tramite sia di stranieri che vennero in Italia, sia di italiani che andarono all’estero. Come riflesso linguistico, agli italianismi nei campi della marineria, del commercio e delle finanze, delle armi e delle fortificazioni s’aggiunsero quelli della letteratura, delle belle arti e dell’architettura, del teatro, del balletto e della musica, e anche della scherma, dell’equitazione e di tutte le raffinatezze della vita italiana, inclusa l’arte culinaria.
Infatti, dopo che in Italia furono fondate le prime università, studenti e studiosi europei vennero a studiare a Bologna, Padova e poi in altri atenei. Si formarono in Italia, vi vennero a studiare o vi soggiornarono intellettuali, scienziati e artisti come Janus Pannonius, Antonio de Nebrija, Juan de Valdés, Rudolf Agricola, Erasmo da Rotterdam, Willibald Pirckheimer, Johann Reuchlin, Ulrich von Hutten, Niccolò Copernico, Jan Kochanowksi, Guillaume Budé, Andrea Vesalio, William Harvey. Viaggiarono in Italia Rabelais e Montaigne, e vennero a perfezionarvisi Dürer, Rubens e Velázquez.
Sin dal Cinquecento il viaggio di formazione in Italia era normale per i nobili nordeuropei. In tedesco questo viaggio si chiamava Kavaliersreise («viaggio del cavaliere»), nelle altre lingue si diceva Grand Tour (il termine è attestato per la prima volta nel 1670 in un autore inglese); e col tempo non fu più privilegio dei soli nobili. Il secolo classico del Grand Tour è il Settecento. Essendo il termine francese, non stupisce che si riferisca dapprima alla Francia, in contrapposizione al «giro d’Italia» (OED 19892: ad vocem Grand Tour). È difficile da determinare l’effettiva importanza del Grand Tour per la diffusione della lingua italiana. Comunque, ad es., l’opera di Goethe è piena di riferimenti all’Italia e nella sua Weimar la conoscenza della lingua italiana era così diffusa che dal 1787 al 1789 vi usciva persino un settimanale in italiano, la «Gazzetta di Weimar» (Stammerjohann 1999). È infinito, e continua ad allungarsi a tutt’oggi, l’elenco degli intellettuali stranieri che viaggiano attraverso l’Italia o vi soggiornano o vi ambientano le loro opere.
Nella direzione opposta, ➔ Baldassarre Castiglione giunse a Madrid in missione diplomatica nel 1525 e morì a Toledo nel 1529. ➔ Francesco Guicciardini, Tiziano, Luca Giordano, gli spagnoli El Greco, Hurtado de Mendoza, Cervantes, Quevedo, Velázquez, lo Spagnoletto, e altri soggiornarono alle corti dei due paesi (Pizzoli 2001). Scultori italiani andarono in Spagna a lavorare a monumenti spagnoli, o committenti spagnoli ne fecero costruire in Italia. Filippo II assunse artisti italiani per decorare l’Escorial. Sia i contatti personali tra artisti spagnoli e italiani che le pubblicazioni teoriche ispirate dall’Italia o tradotte dall’italiano ebbero un influsso sulla terminologia dell’arte e dell’architettura spagnole. José de Sigüenza, dal 1575 bibliotecario del re, si lamenta più volte che è impossibile evitare l’uso di termini italiani «pues todo vino de Italia» (Terlingen 1943: 70).
Molti italiani andarono all’estero per rifugiarvisi, o perché vi erano invitati, i più in Francia. Oltre a ➔ Leonardo da Vinci, che morì a Parigi nel 1519, Francesco I accolse Andrea del Sarto, Benvenuto Cellini e altri. Soggiornarono in Francia Jacopo Sannazzaro, Matteo Maria Bandello, Stefano Guazzo, ➔ Torquato Tasso, Giulio Cesare Scaligero, e Tommaso Campanella. Visse a Parigi Giovan Battista Marino e vi fu chiamato dal Re Sole Gian Lorenzo Bernini. Lodovico Castelvetro, Giordano Bruno e Tommaso Campanella fuggendo dall’Inquisizione andarono in esilio in Francia e in altri paesi.
Nessun altro paese fu trasformato dall’influsso italiano come la Francia. Un primissimo centro di irradiazione dell’Umanesimo italiano in questo paese era stato Avignone, residenza dei papi dal 1309 al 1377, dove ➔ Francesco Petrarca trascorse gran parte della sua vita. Dopo il ritorno della Santa Sede a Roma, la città continuò a far parte dello Stato della Chiesa, e come enclave in Francia giocò un ruolo importante in campo commerciale e finanziario. Banchieri italiani di Lione finanziarono le campagne di Francesco I e Enrico II. Nel 1533 Enrico II sposò Caterina de’ Medici; i cuochi fiorentini al seguito di Caterina importarono in Francia la cucina italiana, come testimoniano ancora termini come becfigue, bergamot(t)e, brocoli, carbonade, cervelas, daube e altri italianismi gastronomici.
Italiani erano presenti nelle élites politiche, militari e culturali della Francia ed erano italiani anche molti vescovi, tanto che negli anni Sessanta del Cinquecento l’influsso italiano cominciò a suscitare ostilità. L’italianismo della corte condusse all’anti-italianismo del popolo, che attribuì la notte di San Bartolomeo del 1572 a Caterina in quanto italiana e legata alla sanguinosa tirannia medicea. Sotto la pressione della Lega cattolica, la maggior parte dei ben 6000 italiani che circondavano Enrico III fuggì; quelli rimasti persero la protezione della corte con la morte della regina madre e l’assassinio di Enrico III nel 1589. Gli italiani non recuperarono la loro posizione neanche quando il nuovo re, Enrico IV di Borbone, nel 1600 sposò a sua volta una Medici, Maria; anche se fu ancora un italiano, Jules Mazarin (Giulio Raimondo Mazarino), ad assicurare alla Francia, come reggente per Luigi XIV e successore di Richelieu, una posizione di predominio tra gli stati europei. L’influsso italiano continuò comunque in aree e ambienti determinati. L’italiano rimase lingua di cultura e ancora Voltaire, pur non essendo mai venuto in Italia, usava l’italiano non solo nelle lettere d’amore ma anche con corrispondenti italiani (➔ scrittori stranieri, italiano degli), e la sua pubblicazione del Saggio intorno ai cambiamenti avvenuti su ’l globo della terra gli fruttò nel 1746 l’aggregazione all’Accademia della Crusca.
Anche l’Inghilterra della seconda metà del Cinquecento e del primo Seicento fu trasformata dall’influsso italiano. La lingua italiana divenne lingua di cultura accanto alle lingue classiche; l’italiano era parlato a corte e lo coltivò la stessa regina Elisabetta (Mueller & Scodel 2009). Gli umanisti inglesi, che in Italia erano conosciuti col nomignolo di inglesi italianati, ritornati in patria erano conosciuti con quello di Italianates (Tosi 1990: 51; per le etimologie cfr. DIFIT 2008, ad vocem). Ma anche in Inghilterra l’italianismo ebbe come reazione un certo anti-italianismo, come risulta dal detto «inglese italianato è un diavolo incarnato» (Iamartino 2001: 26; cfr. anche Tosi 1990: 51 segg.; analogo detto esisteva per i tedeschi). Frasi, proverbi, interiezioni italiane si trovano oltre che nelle opere di Shakespeare anche nei drammi di Kyd, Marlowe, Webster, Marston, Ben Jonson (Praz 1962: 377). Dopo che Carlo I, re dal 1625, aveva sposato una francese, il nuovo modello di civiltà era però la Francia, non più l’Italia, ora aborrita per il suo cattolicesimo. Ma l’italiano rimaneva lingua di cultura e faceva parte del curriculum proposto nel trattato Of Education (1644) di John Milton (2003: 232), che in italiano scrisse anche alcuni componimenti (Brugnolo 2009).
Sul territorio germanico, i primi contatti tra umanisti italiani e tedeschi ebbero luogo a Praga, dove nel 1348 fu fondata da Carlo IV la prima università tedesca. Nel 1356 fu adottata la Bulla d’oro, una specie di costituzione dell’Impero romano proposta da Carlo IV, la cui ultima stipulazione richiedeva ai futuri Elettori l’apprendimento delle lingue latina, italiana e slava (cioè ceca), tra il settimo e il quattordicesimo anno. I concili di Costanza e di Basilea portarono in Germania e altri paesi nordeuropei gli umanisti italiani Gianfrancesco Poggio Bracciolini e Enea Silvio Piccolomini (più tardi papa col nome di Pio II). L’influsso italiano era evidente anche nell’architettura: Ludovico X di Baviera fece, per es., costruire la sua residenza di città a Landshut, 1536-1542, sul modello del palazzo Te di Mantova).
La più italianizzata di tutte le residenze non italiane era però Vienna (Ricaldone 1987). L’italianizzazione della capitale austriaca si può ripercorrere fino a Massimiliano I (imperatore dal 1508), che chiamò architetti, pittori, disegnatori, orafi, ritrattisti, armaioli e antiquari italiani. Dopo i due assedi turchi del 1529 e del 1683 la città fu ricostruita da architetti, militari e muratori italiani. Il primo esercito austriaco permanente fu fondato da Raimondo Montecuccoli di Modena, e a seconda del coinvolgimento in Italia gli italiani nell’esercito e nella marina erano più o meno numerosi. Le navi della piccola flotta danubiana mantenuta contro i turchi furono comunemente chiamate navi italiane; essendo veneziani la maggioranza degli ufficiali e dell’equipaggio, gli ordini venivano impartiti in veneto e, benché fosse prescritto l’uso e l’insegnamento del tedesco, l’italiano rimase in uso nella marina fino al 1848 (➔ Mediterraneo e lingua italiana; per gli usi dell’italiano alla corte imperiale nel Seicento, cfr. Kanduth 2002). L’italiano divenne quindi, accanto al latino e al tedesco, la terza lingua ufficiale, nella quale si potevano, per es., redigere i testamenti. Sapevano l’italiano la stessa Maria Teresa e gli imperatori; dopo tutto, l’italiano era una delle lingue nazionali della monarchia asburgica, tanto che l’inno nazionale del 1797 esisteva anche in versione italiana: «Serbi Dio l’Austriaco Regno ...» (Grassi 1991: 157).
Dresda si italianizzò nella seconda parte del Cinquecento (Watanabe-O’Kelly 2002: 37-70; Marx 2000 a; Marx 2000 b), tanto da essere chiamata altera Florentia (ted. Elbflorenz, «Firenze sull’Elba»). L’italianizzazione della città raggiunse il culmine sotto il principe Augusto il Forte (1694-1733), che nel suo viaggio da cavaliere era stato anche in Italia. Pur essendo inizialmente francofilo, fu lui che trasformò Dresda in residenza italiana e la fece dipingere come tale dal suo pittore Canaletto (Lieber 2000).
Più a est, nel 1476 il re Mattia Corvino sposò una principessa napoletana, Beatrice d’Aragona, e introdusse la cultura e l’architettura rinascimentale italiana in Ungheria. L’area slava occidentale (la Boemia e soprattutto la Polonia) fu raggiunta dal Rinascimento italiano sia attraverso la Dalmazia e l’Ungheria che attraverso l’Europa occidentale, romanza e germanica. Mentre commercianti, ecclesiastici, diplomatici, pellegrini, artisti, studenti e studiosi polacchi venivano in Italia, legati del papa, poi ‘lombardi’, costruttori, muratori e minatori, artigiani e artisti, dotti e anche avventurieri italiani andarono numerosi in Polonia. Nel 1517 Sigismondo I, che l’anno prima aveva incaricato l’architetto-scultore fiorentino Bartolomeo Berecci di aggiungere una cappella sepolcrale al duomo di Cracovia (Tönnesmann 2000), sposò un’italiana, Bona Sforza d’Aragona, figlia del re di Napoli, che arrivò in Polonia con un seguito di 280 connazionali. Nel 1565 il nunzio apostolico Ruggieri riferiva che i polacchi assimilavano in modo straordinariamente facile costumi e lingue straniere, l’italiano innanzitutto. Quando, nel 1572, dopo la morte dell’ultimo Jagellone, legati polacchi andarono a prendere a Parigi il primo sovrano eletto, Enrico di Valois, molti di loro parlavano italiano.
Anche per la Russia va ricordata la grandissima parte che ebbero gli architetti italiani nella costruzione della nuova capitale, San Pietroburgo. L’attività europea di architetti italiani è tanto più significativa per la presenza della lingua italiana, poiché spesso questi portavano con loro anche operai italiani per l’esecuzione dei lavori.
Dombrowski (2000: 85) riassume così l’italianità delle corti d’Europa:
Il dialogo della cultura mondiale del Seicento e del primo Settecento si svolgeva simbolicamente tra i principi, praticamente però dappertutto tra gli artisti italiani o italianizzati nelle loro corti. Essi importavano il sistema semiotico sperimentato nelle corti rinascimentali d’Italia […] e nello stesso tempo la tecnologia necessaria. La loro mobilità aveva aiutato il Rinascimento a divenire un movimento non solo ideale ma anche spaziale. Questi italiani s’incontrano sempre quando si cercano le ragioni della dinamica e ubiquità della cultura del tardo Rinascimento.
L’emigrazione intellettuale dall’Italia è continuata nei secoli successivi e riguarda nomi come Rolli, Algarotti, ➔ Goldoni, Baretti, Casanova, ➔ Alfieri, Da Ponte, ➔ Foscolo, Bellini, ➔ Manzoni, Rossini, Panizzi, Ruffini, ➔ D’Annunzio, Modigliani, Marinetti, fino ai profughi dal fascismo. Nel tardo Ottocento e nel Novecento all’emigrazione intellettuale si è aggiunta l’emigrazione di massa per lavoro.
Essendo il latino lingua di cultura internazionale, si capisce che anche della letteratura italiana le prime opere percepite fuori d’Italia, verso il 1400, fossero quelle scritte in latino, per es. di ➔ Boccaccio e ➔ Petrarca. A volte anche le opere in volgare circolavano prima in traduzione latina, e la prima traduzione francese del Decameron, stampata nel 1485, era tradotta non dal testo originale ma da una versione latina (Formisano et al. 2002: 129).
I primi riflessi delle opere volgari dei trecentisti si trovano presso l’inglese Geoffrey Chaucer, che conosceva l’italiano e fu in Italia nel 1372-73 e poi nel 1378. Il Decameron e il Canzoniere cominciarono a ispirare le letterature europee nel Quattrocento, mentre l’entusiasmo per la Divina Commedia si fece attendere fino alla riscoperta romantica del medioevo. Dopo che le traduzioni spagnola e catalana erano già uscite rispettivamente nel 1428 e nel 1429, quella francese uscì solo nel 1597 e quelle inglese e tedesca addirittura nel Settecento. In inglese è oggi il libro più tradotto dopo la Bibbia (Vivanti 2003: 55).
Opere come Il Principe di Machiavelli (1513), Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1527), il Galateo di Giovanni della Casa (1558) o La civil conversazione di Stefano Guazzo (1574) contribuirono a formare la concezione dell’uomo e della società della prima età moderna. Una traduzione-adattamento polacca del Cortegiano uscì nel 1566; e la Gerusalemme liberata fu tradotta in polacco nel 1618.
Se le traduzioni mostrano l’interesse per la letteratura italiana, per la presenza della lingua italiana fuori d’Italia è più significativa la pubblicazione di opere italiane in lingua originale, o perché le opere erano proibite dalla Chiesa e non potevano uscire in Italia, o perché c’era un mercato italofono abbastanza grande. La tradizione comincia nel Duecento con Brunetto Latini e Andrea da Grosseto (Vàrvaro 2003) e comprende opere di Guicciardini, Alamanni, Bruno, Sarpi, Campanella, Marino, Tassoni, Galilei, Martello, Algarotti, Metastasio, Alfieri, Goldoni, Berchet, Leopardi, pubblicate in Francia, in Inghilterra, in Austria e Germania o in Olanda (Ferroni 2003; per scrittori stranieri in lingua italiana cfr. Brugnolo 2009).
Per l’imitazione del repertorio tematico e stilistico del Canzoniere petrarchesco nacque, adattato secondo la lingua, il nome di petrarchismo, rappresentato in Francia, in Spagna, in Inghilterra (Edmund Spenser chiamò i suoi sonetti col nome italiano amoretti, 1595, e introdusse canto per una delle divisioni di un lungo poema, mentre Shakespeare e George Puttenham avevano usato il termine stanza) e nel primo barocco della Germania secentesca (Antonelli 2001). Le derivazioni dal nome di Petrarca appaiono dapprima in francese, il verbo pétrarquiser nel 1550, pétrarquiste come sostantivo nel 1558 e come aggettivo nel 1580, mentre pétrarquisme è recente (1842). Anche il prestito di sonetto appare dapprima in francese, dal 1536; dal 1557 appare in inglese e dal 1576 in tedesco (DIFIT 2008, ad vocem). A parte il petrarchismo, influenzarono la letteratura europea del Seicento Torquato Tasso con La Gerusalemme Liberata e Giovanbattista Marino con L’Adone.
Merita un cenno la Romania, non tanto per l’influsso italiano sul romeno antico, rimasto sporadico. Nella cultura romena il termine italianismo (romeno italienism) designa una corrente ottocentesca fondata da Ion Heliade Rădulescu, che non solo propose la letteratura italiana come modello per quella romena ma considerava il romeno e l’italiano dialetti di una stessa lingua e voleva addirittura sostituire voci turche, slave, ungheresi, neogreche con parole italiane. Più significativo dell’influsso lessicale è quello ortografico. Infatti, quando, sempre nell’Ottocento, i romeni passarono dai caratteri cirillici a quelli latini, presero l’italiano come modello (per es., l’inserzione della ‹h› per rendere le velari davanti a e e i: chelner, chimie, gheişă, ghid; D’Achille 2008).
Nel medioevo le lingue straniere s’imparavano informalmente tramite viaggi e soggiorni nel paese. Nella Bulla d’oro si propone o di mandare gli studenti nelle regioni dove sono parlate le lingue (tra cui l’italiano), o di affidarli a casa a precettori, maestri o compagni coetanei che conoscano la lingua e gliela insegnino tramite la conversazione e l’istruzione. Nel Cinquecento, il desiderio, se non il bisogno, di sapere la lingua italiana converge con l’espansione della stampa nella produzione e diffusione di manuali di lingua. Poiché erano gli stranieri a studiare l’italiano, è naturale che grammatiche e anche dizionari bilingui uscissero più all’estero che non in Italia.
La prima grammatica italiana per stranieri in assoluto fu la Grammaire italienne di Jean-Pierre de Mesmes, uscita nel 1549 (per i manuali d’italiano per francesi, cfr. Mattarucco 2003). Nel 1550 seguì la prima grammatica d’italiano per inglesi, Principal rules of the Italian grammar di William Thomas (Pizzoli 2004). La prima grammatica d’italiano circolante in Germania, la Italica grammatica praecepta, ac ratio di Scipio Lentulo Neapolitano, pubblicata nel 1567 a Parigi e dedicata a un figlio dell’elettore del Palatinato, era in latino e perciò non concepita esclusivamente per un pubblico germanofono. Rimase inedito il primo testo d’italiano in italiano redatto da uno straniero: le Regolette et precetti della grammatica volgare, che Sigismund Kohlreuter, medico personale del principe elettore sassone, redasse nel 1579 per le lezioni private del principe ereditario. La Grammatica Italica et Gallica di Scipio Lentulo Neapolitano, pubblicata a Francoforte nel 1590, era concepita per l’insegnamento dell’italiano e del francese (cfr. Gorini 1997). Nel 1596 uscì anche la prima grammatica italiana per spagnoli, l’Arte muy curiosa di Francisco Trenado de Ayllón. Non si conosce l’autore della prima grammatica italiana per olandesi, e in olandese, che uscì nel 1672 (Lo Cascio 1995). Va inoltre notato che la prima grammatica catalana di un’altra lingua volgare era una grammatica dell’italiano, compilata intorno al 1715 (Feliu 2008).
Se si escludono glossari occasionali, la componente lessicale-fraseologica dei manuali e i dizionari plurilingui del tipo Calepino che includevano l’italiano, i primi dizionari bilingui apparvero anch’essi nel Cinquecento. Il primo vero e proprio dizionario d’italiano come lingua straniera fu il Vocabulario de las dos lenguas Toscana y Castellana di Christoval de las Casas, pubblicato nel 1570. Nel 1620 seguì il Vocabolario Italiano e Spagnolo di Lorenzo Franciosini, ristampato fino al 1786 (Galina 1991).
La lessicografia italo-francese era legata alla diaspora dei protestanti in Francia, a cominciare dal Dictionnaire françois et italien di Jean Antoine Fenice del 1584, rivisto e ampliato da Pierre Canal nel 1598 e nel 1603. La tradizione lessicografica italo-francese più accreditata risale alle Recherches italiennes et françoises, ou dictionnaire contenant outre les mots ordinaires, une quantité de proverbes & phrases pour l’intelligence de l’une & de l’autre langue di Antoine Oudin, 1640, e al Nouveau dictionnaire françois-italien di François Alberti de Villeneuve, 1771-1772 (Bingen & Van Passen 1991; Lillo 2009). Quest’ultimo cita tra le sue fonti un dizionario che per la sua ricchezza è rimasto importante per la storia della lingua italiana: il dizionario italiano-inglese di John Florio, A Worlde of Wordes, uscito in prima edizione nel 1598 (O’Connor 1991). Il primo dizionario italiano-tedesco vero e proprio fu il Dictionarium Teutsch-Italiänisch, und Italiänisch-Teutsch di Levinus Hulsius, uscito a Francoforte nel 1605. Restano monumenti della lessicografia bilingue europea i dizionari di Matthias Kramer, tra cui quelli italo-tedeschi del 1676-1678, del 1693 e del 1700-1702 (Bruna, Bray & Hausmann 1991).
I primi insegnanti professionali di lingue straniere furono i ‘maestri di lingua’ (ted. Sprachmeister, fr. maîtres de langue), che insegnavano spesso più lingue straniere, di solito italiano e francese. Sin dal tardo Cinquecento erano attivi nelle università, e la loro era si chiuse solo con l’inizio dello studio scientifico delle lingue e letterature nel primo Ottocento (per la Germania, cfr. Gorini 1997: 29 segg.; Giovanardi & Stammerjohann 1996). Per i fuorusciti italiani, l’insegnamento della lingua era spesso l’unico modo di sopravvivere.
Tra il tardo Cinquecento e il primo Ottocento lo spettacolo italiano invase le corti europee, «provocando tra l’altro una nuova più vigorosa ed estesa diffusione della lingua italiana» (Ferroni 2003: 131), con la commedia dell’arte, le commedie di Machiavelli, Ariosto, Aretino, la teoria trissiniana della tragedia. La prima recita in Germania di una commedia dell’arte si ebbe nel 1568 a Monaco, per le nozze di Guglielmo V di Baviera con Renata di Lorena.
In Francia la commedia dell’arte era presente fin dal 1577 con la Compagnia dei Gelosi, ma sembra determinante per la sua fortuna la rappresentazione dell’Arlecchino di Tristano Martinelli nel 1600 per le nozze di Enrico IV con Maria de’ Medici (Ferroni 2003). A Parigi si stabilì quindi la tradizione dei teatri italiani, dalla Comédie-Italienne, fondata nel Seicento per ospitare la commedia dell’arte, al Théâtre-Italien, fondato nel 1801 grazie alla predilezione di Napoleone per l’opera italiana, ed esistito fino al 1882.
Oltre che lingua delle maschere, l’italiano era la lingua della musica (➔ cantata, voce; ➔ immagine dell’italiano; ➔ melodramma, lingua del). Il passaggio dalla supremazia fiamminga a quella italiana nella musica è personificato da Orlando di Lasso, attivo in Italia e in Germania, e da Giovanni Pierluigi da Palestrina, maestro di cappella a Roma. La terza parte (1619) del Syntagma musicum di Michael Praetorius, compositore e teorico tedesco, tratta di «Come sono da intendere e usare i termini italiani e altri, per es. ripieno, ritornello, forte, piano, presto, lento, capella, palchetto e molti altri» (Praetorius 1958 [1619]: frontespizio). Tra Bach e Händel, fu Händel a essere considerato l’‘italiano’, non solo perché aveva soggiornato in Italia e musicava libretti in lingua italiana, ma perché il suo stile era italiano, cioè più melodioso, di quello di Bach. Questi scriveva «nach italiänischem Gusto» («secondo il gusto italiano», si noti l’italianismo) sulla partitura del concerto per cembalo in cui faceva ‘concessioni’ alla melodiosità italiana; il Concerto italiano (Italienisches Konzert), come è oggi chiamato, è una delle composizioni più conosciute di Bach.
Ma la musica italiana è vocale, più che strumentale, e operistica. Il ‘dramma per musica’ nacque a Firenze alla fine del Cinquecento «per recitare cantando, cioè per potenziare e ampliare la gamma espressiva del linguaggio verbale» (Coletti 2005: 29); il termine opera è attestato in francese (opéra) dal 1646, in inglese (opera) dal 1648, in tedesco (Oper) dal 1681, ecc., inizialmente non ancora in senso musicale. La prima rappresentazione di un’opera italiana fuori d’Italia era stata nel 1628 a Varsavia La liberazione di Ruggiero dell’isola d’Alcina, che la fiorentina Francesca Caccini aveva composto in occasione della visita del principe Ladislao Sigismondo (dal 1632 re Ladislao IV) in Italia nel 1625. Nel 1646 il fiorentino Giambattista Lulli fu portato in Francia, dove, ribattezzato Jean-Baptiste Lully, entrò al servizio di Luigi XIV e divenne la massima autorità musicale e l’inventore dell’opera francese.
L’opera italiana, nella sua diffusione europea che si svolge lungo un secolo, dalla metà del Seicento […] fino alla metà del Settecento, quando comincia a perdere il suo primato pur fornendo ancora a lungo il suo apporto vitale e innovatore, soprattutto col trionfo dell’opera buffa, crea per la prima volta in Europa sulle ali del canto e della musica un pubblico comune di spettatori, e anche di ascoltatori della nostra lingua (Folena 1983: 219; cfr. anche Bonomi 1998).
Folena parla addirittura di una ‘questione della lingua’ per la musica, dibattuta particolarmente in Francia e tra francesi e italiani durante tutto il Settecento, a cominciare dal Parallèle des Italiens et des François en ce qui regarde la musique et les opéras dell’abate François Raguenet (Parigi, 1702). Mentre a Parigi la concorrenza tra l’opera italiana e quella francese si inasprì nella querelle des bouffons della metà del Settecento, che finì a favore dello stile italiano, nei paesi di lingua tedesca l’opera italiana rivaleggiava non solo con quella tedesca ma anche con quella francese, a seconda dei luoghi. Tradizioni operistische autoctone come in Francia e nei paesi di lingua tedesca non esistevano in Inghilterra, dove la penetrazione dell’opera italiana cominciò subito dopo la morte di Henry Purcell (1695) e si impose dall’arrivo di Händel nel 1711. In Spagna l’opera italiana fu introdotta da Filippo V, la cui seconda moglie, italiana come la prima, nel 1737 chiamò a corte il castrato Farinelli, uno dei più famosi cantanti dell’epoca. L’opera italiana penetrò anche in Portogallo; e fu introdotta in Russia attraverso la mediazione della corte di Dresda nel 1730.
Il predominio dell’italiano come lingua dell’opera lirica durò fino al nazionalismo romantico, quando si scrissero libretti in tutte le lingue e diventarono comuni le traduzioni, anche di libretti italiani, nella lingua del pubblico. Ma con la moderna mobilità internazionale dei cantanti e l’introduzione dei sottotitoli, le opere sono di nuovo normalmente cantate in lingua originale. Nella stagione 2003-2004, nei grandi teatri lirici non italiani, il tasso di presenza di opere cantate in italiano risultava del 37% (Turchetta 2005).
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