italiano regionale
Si intende per italiano regionale un italiano che varia su base geografica. Nella formula si riassume perciò il variare dell’aspetto dell’italiano e insieme il suo differente organizzarsi sul territorio nazionale (e, almeno, svizzero-italiano). È bene chiarire subito che in questo caso con l’aggettivo regionale non ci si riferisce propriamente alle regioni amministrative, ma a regioni linguistiche di varia estensione, e che quindi regionale vale «di una certa zona» ed equivale a locale. In questo quadro si collocano dunque le tante forme della nostra lingua che qualifichiamo con qualche determinazione geografica, l’italiano di Torino o di Catania, di una qualsiasi piccola città o invece di una più vasta area (con le sue similarità e variazioni interne).
Quando si parla di italiano regionale ci si riferisce innanzitutto all’oralità, benché la regionalità non vada affatto esclusa dalla scrittura; anzi, può interessare particolarmente riconoscerla nei testi scritti. Con questa precisazione, va poi detto che le varietà regionali (o diatopiche) dell’italiano costituiscono l’aspetto più appariscente della variazione nazionale, rispetto alle altre ➔ varietà di lingua (socioculturali, o diastratiche; situazionali, o diafasiche). Si dirà anzi che la variazione su base geografica, che pur appartiene in genere a ogni lingua, è caratteristica spiccata ed essenziale dell’italiano (➔ variazione diatopica; ➔ regionalismi). La forte misura del regionalismo in Italia è chiara conseguenza della storia ancora breve dell’italiano come lingua effettivamente d’uso da parte della generalità della popolazione.
In realtà si può affermare che l’italiano regionale è concretamente il nostro corrente italiano parlato e che della sua vitalità si trovano poi le tracce anche nella pagina scritta. Naturalmente, nel suo vivere quotidiano, esso si modula variamente e si intreccia con le altre forme di variazione appena ricordate. Sappiamo tutti infatti che l’elemento regionale, differente, dell’italiano è normalmente più accentuato a livello popolare e che, d’altra parte, in situazioni di massima formalità chiunque, impegnandosi per innalzare il registro, cerca di allontanarsi il più possibile anche dal regionalismo.
Tuttavia se l’italiano regionale è, luogo per luogo, qualcosa di intermedio tra quello che è senz’altro l’‘italiano senza aggettivi’ e il dialetto, ci si accorge a questo punto che il confine più problematico da definire è quello per così dire superiore. La difficoltà si incontra dunque proprio nel punto più delicato, perché se l’italiano regionale si può definire contrastivamente in un primo momento come non dialetto, dall’altro lato, dal momento che lo dichiariamo italiano, per essere definito necessiterebbe di un termine di confronto con possibilità di delimitazione ben chiare.
Cos’è l’italiano senza aggettivi, quello che comunemente viene chiamato ➔ italiano standard? Sarà bene dire che quest’ultima dicitura non è priva di ambiguità (e del resto, per quello che stiamo dicendo, un italiano veramente standardizzato non esiste). A volte equivale a «italiano corretto», con caratteristiche tradizionali, quello che sta alla base delle descrizioni delle grammatiche e dei vocabolari, in sostanza l’italiano normativo. A volte equivale invece a «italiano comune medio», ossia a un’idea astratta dalla viva realtà linguistica ed equiparabile a quanto appare comunemente di uso normale. Secondo i casi, i due sensi possono anche ben corrispondersi, ma non sempre è così (sulla nozione di neo-standard cfr. Berruto 1987: 62-65).
È evidente, per es., che l’italiano normativo, riferendosi tradizionalmente all’italiano di Firenze (per certi aspetti però emendato), differisce notevolmente, per quanto riguarda la descrizione della distinzione tra e od o aperte e chiuse, dall’italiano d’uso nella nazione, dove la distinzione può anche non sussistere o, se sussiste, avere distribuzione diversa. La constatazione, vista la frequenza di queste vocali, tocca subito un punto non da poco, in cui l’italiano comune non è unitario.
Di fatto, lavorando alla definizione dell’italiano regionale, si opera per confronto con un italiano tradizionale (di cui la lunga storia dei nostri studi ha messo a disposizione descrizioni esaurienti), tenendo conto però anche di quanto è stato successivamente chiarito circa i tratti comuni di un altro italiano, non tanto più recente, quanto più ampiamente scrutato e descritto in tempi recenti (D’Achille 1990).
Parlare di italiano regionale significa, innanzitutto, riconoscere, zona per zona, un sistema dominante, esistente nonostante la ricchezza degli scambi caratteristica della nostra epoca, e capace di influenzare i nuovi arrivati. Storicamente è l’esito dell’adattarsi alle singole realtà dialettali preesistenti – e che normalmente erano l’unico modo di comunicare – di una lingua ‘piovuta dall’alto’: dalla scuola, dalle scritture, dall’amministrazione, poi in tempi più recenti anche dal cinema, dalla radio, dalla TV. Si può dire che in tutta Italia – eccettuata l’area centrale di quei dialetti che si differenziano solo moderatamente dalla lingua nazionale – l’arrivo dell’italiano, altra lingua benché sorella, è stato un innesto inatteso nella storia ininterrotta dell’evoluzione linguistica locale (in linea generale dal latino ai dialetti), divaricando per la prima volta le possibilità di comunicazione. E come ogni innesto la nuova lingua che veniva da fuori si è dovuta adattare al preesistente.
Nell’italiano regionale si riscontrano differenziazioni su tutti i livelli d’analisi.
I fatti intonativi, più difficili da descrivere, sono spesso ben riconoscibili a orecchio e possono essere rilevanti nel caratterizzare regionalmente, come del resto possono esserlo le caratteristiche dell’emissione fonica che non siano di motivazione individuale (per es., la velocità della dizione o l’altezza della voce; ➔ intonazione). In questi ambiti, dove una norma superiore di lingua non c’è mai stata, l’italiano di ogni luogo ha senz’altro alla base le modalità del dialetto locale, cui resta più o meno aderente. Anche i fatti fonetici sono altamente caratterizzanti data l’altissima frequenza dei suoni, vocalici e consonantici: è chiaro come il loro continuato ritornare renda particolarmente avvertibili le particolarità locali.
Il regionalismo si riscontra inoltre, naturalmente, nella morfologia e nella sintassi; ma, più fortemente, nel campo sterminato del lessico e della fraseologia e nell’organizzazione dei sensi delle parole. Qui infatti l’estensione dell’inventario determina sì bassissima frequenza degli elementi lessicali, ma con ciò stesso crea, nella scarsa possibilità di uniformazione nazionale, la persistenza di una miriade di caratteri locali che restano non toccati dalla naturale tendenza all’unificazione linguistica. Può poi riconoscersi anche in altro, interessando la pragmatica e la testualità:
È possibile e doveroso [...] chiedersi se non sia individuabile una regionalità anche nell’organizzazione testuale e nella particolare ricorrenza preferenziale di modalità e figure studiate finora, in generale, dalla retorica. Sarebbe inoltre opportuno studiare [...] la correlazione tra la parte verbale e quella non verbale dei testi orali (gestualità e mimica in particolare) (Lavinio 1990: 313).
Qualche cenno di esemplificazione, da piani diversi. Anche a livello di italiano colto una parola come scienza (la cui ortografia non presenta alternative: l’italiano nella sua storia è stato insegnato come lingua scritta) ha articolazioni diverse per la sibilante iniziale /ʃ/, può avere o no la i in seconda posizione, una e aperta o chiusa, una z sorda o sonora. Ognuna di queste realizzazioni della parola è, naturalmente, italiana, intelligibile e accettata: si potrà discutere su quale sia la più comune; l’italiano normativo dichiara che la pronuncia è [ˈʃεnʦa].
Qualche attimo di incertezza interpretativa in certi casi si può anche avere nello scambio comunicativo tra parlanti di diversa provenienza regionale, se il contesto non aiuta:
La pronuncia toscana e romana di pece ad altri sembra pesce; la pronuncia emiliana di pesce ad altri suona pese, sicché anche ascella sembra a sella; la pronuncia da Roma in giù di una giunta altri la interpretano come un’aggiunta; a Milano la scrittura esca è pronunciata con e aperta se sta per il sostantivo («esca per i pesci») e con e chiusa se sta per il verbo, mentre la pronuncia segnalata nei vocabolari e di fatto d’uso in Firenze è l’opposto [...]; la pronuncia di una parola come copia altri la intende come coppia e viceversa; a fine in parte d’Italia suona come affine e altrove suona con f non rafforzata; c’è chi distingue tra la pronuncia di spazi e quella di spazzi (Poggi Salani 19902: 57).
Ovviamente non determinano difficoltà comunicativa differenze del genere son(o) potuto / ho potuto andare che passano per lo più inosservate (la prima tradizionale e in accordo con la norma, la seconda già a lungo disapprovata ma largamente in uso e non più censurata); così anche le forme dell’imperativo negativo non lo fare / non farlo, per cui si riscontra un’arealità di tendenze, o il tipo centro-meridionale (di solito diastraticamente basso) saluta a tuo padre, in cui si ha l’inserimento della preposizione a davanti a un complemento oggetto di persona (➔ accusativo preposizionale). O altri usi di preposizioni certamente diversi dalla norma: ci vediamo dalla chiesa (per «alla»); non c’è di pane («non c’è pane»), l’uno e l’altro correnti in zona genovese; o odor da fumo («di fumo»), normale a Venezia come a Padova.
L’esemplificazione dal lessico potrebbe essere molto ricca. Sono ➔ geosinonimi noti ora e adesso (eventualmente mo’), dopodomani e doman(i) l’altro, e l’altro ieri e ieri l’altro, avantieri, in certi casi anche e pure, e tanti altri. Una recente indagine sull’italiano contemporaneo condotta mediante questionario in diciotto città (Milano, Verona, Genova, Carrara, Prato, Firenze, Arezzo, Livorno, Siena, Roma, Latina, Sassari, Nuoro, Oristano, Cagliari, L’Aquila, Lecce, Catania) dà indicazioni interessanti sulla persistenza della frammentazione, ossia sulla capacità di resistere alla tendenza unitaria da parte dell’elemento localmente radicato. Ora si tratta di tipi lessicali diversi, ora la differenza è morfologica.
L’Italia indagata si divide tra arancia e arancio (per designare il frutto), zucchina e zucchino, orecchio e orecchia, anche se in ogni coppia il primo elemento nell’insieme dell’inchiesta risulta variamente maggioritario. Per scalino e gradino le risposte presentano quasi sempre compresenze, ma anche chiare contrapposizioni, con scalino ben attestato nella Toscana linguistica, a Carrara e a Genova, gradino in Sardegna e a Lecce. Perfino cadere e cascare mostrano distribuzione geografica differenziata; e la mostrano inoltre, pur tra le compresenze, termini che ci si aspetterebbe fossero più toccati dalla tendenza normalizzatrice legata ai prodotti dell’industria: avvolgibile, tapparella e serranda (intendendosi sempre quella per finestra), termosifone e calorifero (mentre radiatore non è scomparso).
La differenziazione si moltiplica ancora se si prendono in considerazione i sensi e dunque le possibilità contestuali delle parole: certo tutti intendono se in una ricetta di cucina (a stampa) si consiglia di mettere tra gli ingredienti di un risotto alcune gambe di prezzemolo, ma bisognerebbe vedere quanti trovino naturale questa espressione e che effetto faccia sugli altri, mentre – per stare ancora tra cibi, di sicuro non locali – bisognerebbe anche vedere cosa potrebbe succedere quando un toscano fuori dalla sua regione chiedesse al fruttivendolo con tutta naturalezza un cesto di insalata, laddove altri direbbe cespo. E come si distribuiscono sul territorio nazionale i sensi di parole del tutto usuali come assai e abbastanza?
Si ricorderà soltanto che esistono, sempre in tema di differenze regionali, anche fatti più sottili, ma tutt’altro che trascurabili, legati alle frequenze e alle probabilità d’uso, e dunque alla limitazione delle scelte (cfr., per un caso interessante, Benincà 1994: 161); e anche legati al fatto che le parole secondo i luoghi possono essere avvertite come usuali o insolite, e al livello stilistico che localmente vi si attribuisce. Tutto questo crea sensibilità linguistiche differenziate, che non sono piccola parte degli italiani regionali.
In linea generale, quanto alla genesi, le differenziazioni regionali sono per lo più rispecchiamenti più o meno diretti di condizioni dialettali locali; ma sono anche ipercorrettismi, o in altri casi semplificazioni, uniformazioni analogiche o adattamenti avvenuti per le necessità di una nuova organizzazione linguistica specifica di un certo italiano regionale, che acquista una sua autonomia. È, per es., ➔ ipercorrettismo l’estensione della sonorizzazione settentrionale di s intervocalica, all’interno di parola, al Sud (dove tradizionalmente si ha solo s sorda), secondo modalità più spinte che al Nord, come in risente o stasera (fenomeno osservato per primo da Baldelli nel 1963; cfr. Migliorini & Baldelli 1964: 319). D’altra parte nello stesso Nord la generalizzazione della pronuncia sonora di s intervocalica – salvo casi come quelli appena citati – è semplificazione rispetto all’organizzazione dialettale precedente, che conosceva presenze di s sorda in quella posizione. E sono stati segnalati anche casi di influenze da altri tipi di italiano regionale, sganciati dalla base dialettale del luogo: per la Toscana l’espansione della ➔ spirantizzazione di [p], [t], [k] intervocaliche e del passaggio di [s] postconsonantica a [ʦ] oltre le zone originarie (Agostiniani & Giannelli 1990: 222); per il Salento l’influenza specifica dell’italiano di Lecce per fatti vocalici e consonantici (Sobrero & Romanello 1981: 174); per l’italiano del Sassarese e della Gallura l’influenza di quello del Logudoro e del Campidano nel vocalismo (Loi Corvetto 1983: 49-50).
La situazione della Toscana linguistica (più ristretta della regione amministrativa) richiede un cenno particolare (➔ toscani, dialetti). È risaputa infatti la notevolissima sovrapponibilità tra dialetto e lingua in quest’area (ma si tenga presente la situazione linguisticamente analoga di Roma città e di parte dell’Umbria, delle Marche e del Lazio, particolarmente dei centri urbani). Di conseguenza si riconosce concordemente l’esistenza – diversamente da tutto il resto d’Italia – di un continuum linguistico che, luogo per luogo, nella varietà geolinguistica della regione, non conosce passaggi da un sistema linguistico a un altro, ma soltanto una sfumata gradualità di registri e di varietà socioculturali mai fortemente divaricati: nel dominio, comunque, della variabilità interna. Grande è la permeabilità, anche ai livelli alti del parlato, dell’elemento tradizionale, per quanto anche localmente molto circoscritto.
Se per la Toscana resta forte il legame col sottofondo dialettale, per motivi diversi è stato pur osservato che anche nel Sud domina «una varietà di italiano regionale fortemente dialettale, la cui estensione geografica è perciò strettamente legata a quella delle singole famiglie dialettali» (Sobrero & Romanello 1981: 29). Sembra invece si possa cogliere a tratti nell’italiano del Nord, là dove l’esperienza dell’alfabetizzazione ha potuto diffondere un italiano corrente parlato, nel senso largo del termine, prima che al Sud, una maggiore autonomia rispetto ai dialetti sottostanti, realizzata attraverso proprie regole e strutture (Poggi Salani 1993: 232-234).
Data comunque l’importanza, ovunque, della componente dialettale, una possibile classificazione indicativa degli italiani regionali potrà distinguere
le varietà settentrionali, che comprendono tutte le sottovarietà gallo-italiche (piemontese, lombarda, ligure, emiliana, romagnola) e le varietà nord-orientali (Veneto, Trentino, Friuli); centrali (varietà: toscana e mediana, che a sua volta comprende Lazio, Umbria, Marche centrali); meridionali (Campania, Abruzzo, Molise, Puglia senza il Salento, Basilicata, Calabria settentrionale); meridionali estreme (Salento, Calabria centro-meridionale, Sicilia); sarda (Sobrero 1988: 732-733).
Distinzioni del genere, per quanto preliminari, sono comunque basate, come le classificazioni dei dialetti, su considerazioni di carattere fonetico, che per loro natura meglio si prestano all’operazione. Si citerà in questa sede solo qualche esempio ben noto di arealità di fatti fonetici e si darà qualche indicazione generale circa il consonantismo. Quanto al caso citato di a fine pronunciato affine, si tratta di ➔ raddoppiamento sintattico, fenomeno per cui in determinate condizioni la consonante iniziale di una parola si rafforza nella pronuncia: ignorato come tale al Nord, interessa tutto il resto d’Italia, dalla Toscana in giù, sia pure con modalità non sempre identiche (con qualche differenziazione già all’interno della Toscana). E tuttavia dove la scrittura – rispecchiando anche in questo la specifica storia dell’italiano – l’ha rappresentato, cioè in certe parole composte, anche il Nord naturalmente si adegua, e pronuncia davvero o sopralluogo. Peraltro il Nord in linea generale, e particolarmente presso le generazioni anziane, realizza le doppie con intensità e durata minori rispetto al Centro-sud. Inoltre le consonanti intervocaliche [ʎ], [ɲ] e [ʃ], come in aglio, ragno, ascia, sono pronunciate scempie al Nord, doppie al Centro-sud; lo stesso si dica per [ʦ] e [ʣ] intervocaliche quando l’ortografia non preveda il grafema doppio (ozio, bazar), ma al Sud sono reperibili pronunce come paziente con [ʦ] scempia in corrispondenza col latino -ti- + vocale (diversamente dalla pronuncia di azione con la rafforzata, dal latino -cti- + vocale). Per altro verso è nota la pronuncia sempre rafforzata di [b] e [ʤ] intervocaliche nel Sud e in parte dell’Italia centrale. Dopo nasale una vasta area meridionale tende alla sonorizzazione delle occlusive sorde [p], [t], [k], con pronunce che possono portare un ascoltatore di altra estrazione geografica a interpretare magari come quando quello che per il parlante era quanto.
Naturalmente alcuni fenomeni non soffrono censure, mentre altri sono valutati diversamente, secondo sensibilità linguistiche locali. Per es., mentre il passaggio da [s] a [ʦ] dopo nasale, maggioritario in Toscana benché non tradizionalmente fiorentino, nella regione arriva tranquillamente a livello di italiano colto, altrove (Salento, Abruzzo) tende a essere avvertito come basso e la sua presenza si dirada a livello socioculturale più alto (Telmon 1990: 19).
Per quanto riguarda le possibilità di scrittura dell’italiano regionale, è evidente che una serie di fatti fonetici (e non soltanto) risulta cancellata dall’ortografia (ma può trasparire in alcuni errori ortografici). Per il resto l’atteggiamento generale, in accordo con la tradizione scolastica, è quello di evitare il regionalismo nelle scritture di tipo semplicemente comunicativo e che prevedano un pubblico. Qui però entra in gioco la misura della consapevolezza – o, all’inverso, eventualmente il gioco consapevole di un uso marcato – e quindi accade di trovare anche nella pagina a stampa il dato locale fonetico, morfosintattico o, più frequentemente, lessicale. Che una certa marca propagandi la sua miscela di caffè con la formula gran aroma è spia sicura di settentrionalismo; lo stesso si dirà per la presenza di essicazione (che è variante in uso) in istruzioni per apparecchi di riscaldamento. Che una guida a stampa di Genova, oltre a parlare di cibi tipici, naturalmente, col loro nome locale, nomini poi però i gnocchi è indubbiamente non voluto. Che invece ditte di surgelati scrivano su certe confezioni bietole erbette o bieta erbetta è una scelta pratica che risponde alla conoscenza di usi diversi esistenti. D’altra parte il fatto che in italiano ci siano forme varie concorrenti come intravedere ~ intravvedere, familiare ~ famigliare, da capo ~ daccapo o devo ~ debbo è o può essere una fatto di regionalità (➔ allotropi).
In moltissimi casi non è facile essere consapevoli del regionalismo, perché in realtà, per ciascuno di noi, l’italiano regionale è il nostro italiano. Non si dimentichi che «per i parlanti sembra più facile distinguere varietà diafasiche di una stessa lingua piuttosto che varietà diatopiche» (Cardinaletti & Munaro 2009: 8).
Gli usi letterari possibili nel nostro tempo sono sotto gli occhi di tutti, e allora per gli scrittori normalmente (ma l’inconsapevolezza, il difetto di percezione, sono di tutti) si tratta di uso soppesato nel suo sapore, nei suoi effetti evocativi e tonali, visti anche dalla parte del lettore. Per i secoli passati era diverso, e si richiederebbe un discorso articolato, ma in tempi lontani in cui una comunità di lingua in qualche modo unificava gli stati d’Italia come poteva e quasi solo nelle scritture di pochi, il regionalismo è legato innanzitutto a un sapere di scriver rozzo e al senso della colpa. Come tale, costella la Storia della lingua italiana di Migliorini (1960), il quale, si badi, pare essere stato il primo a usare, proprio, la formula «italiano regionale» nell’ormai lontano 1935 (Fanfani 1999: 208); il concetto, da applicare poi ai modi d’uso di una lingua di tutti si diffuse da noi però soltanto con l’eco del saggio di Rüegg (1956).
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Benincà, Paola (1994), Che cosa ci può dire l’italiano regionale, in Come parlano gli italiani, a cura di T. De Mauro, Scandicci, La Nuova Italia, pp. 157-165.
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