italiano standard
Il concetto di standard in linguistica identifica una ➔ varietà di lingua soggetta a codificazione normativa (➔ norma linguistica), e che vale come modello di riferimento per l’uso corretto della lingua e per l’insegnamento scolastico. Ogni lingua che abbia una riconosciuta varietà standard è una lingua standard. Dal valore di lingua standard come lingua corretta e modello di riferimento discende una concezione diffusa che vede lo standard come l’unica buona lingua, la varietà intrinsecamente migliore e pura (➔ purismo). Il termine standard si trova tuttavia usato spesso anche per indicare la lingua media, neutra, priva di marche sociolinguistiche; o il corpo della lingua comune diffuso in maniera indifferenziata presso un’intera comunità linguistica. Il concetto di standard è inoltre in sovrapposizione con quello di norma linguistica.
La nozione di standard è complessa e a definirla convergono fattori di diverso carattere. Ammon (1986) individua sei attributi principali definitori: lo standard è tale in quanto è: (a) codificato, (b) sovraregionale, (c) elaborato, (d) proprio dei ceti alti, (e) invariante, (f) scritto.
Di queste proprietà, pare essere essenziale, e quindi necessaria per la determinazione del concetto dello standard, la codificazione, intesa come l’esistenza di un corpo acclarato di testi di riferimento (opere letterarie modello, grammatiche, dizionari) e un insieme di regole normative appoggiate all’autorità di istituzioni e membri prestigiosi della comunità linguistica, e riconosciute dalla comunità che parla una certa lingua.
Lo standard è però indubbiamente anche sovraregionale, nel senso che è diffuso come modello unitario in tutto il territorio in cui è distribuita una comunità parlante, e quindi ha un raggio d’azione nazionale (di qui, il frequente, ma errato, conguaglio sinonimico fra lingua standard e lingua nazionale). È elaborato, nel senso che possiede tutti i mezzi e le risorse linguistiche (vocabolario, strutture grammaticali e testuali, ecc.) per adempiere soddisfacentemente a tutti gli usi in tutti i domini, anche quelli culturali e tecnico-scientifici più alti e complessi; e viene di fatto impiegato in questi usi. L’essere proprio dei ceti socialmente alti, con elevato grado d’istruzione, risponde alla constatazione che lo standard nasce ed è impiegato in primo luogo presso fasce socioculturalmente privilegiate della popolazione, e gode di prestigio sociale. L’invarianza e l’uniformità sono invece una conseguenza della codificazione normativa; l’uso tipicamente scritto coglie la caratterizzazione diamesica (➔ variazione diamesica) principale dello standard, in cui si manifestano tutti i caratteri propri della ➔ lingua scritta, e che è in primo luogo usato nello scritto.
In quanto soggetto a codificazione e normazione esplicita, lo standard è sempre un prodotto con un certo grado di artificialità. In natura non esistono varietà di lingua standard, la formazione di una lingua standard è un processo sociale e culturale in cui opera l’intervento congiunto di più agenti (Ammon 2003):
(a) parlanti e scriventi professionali, che producono testi modello;
(b) autorità normative in fatti di lingua (per es., accademie) che provvedono istruzioni e correzioni;
(c) codici linguistici (i manuali descrittivo-normativi di riferimento);
(d) esperti di lingua, che descrivono e giudicano le produzioni linguistiche.
A seconda della trafila che porta alla formazione di uno standard, si hanno standard che emergono per così dire spontaneamente dallo sviluppo storico di una comunità parlante, o all’opposto standard che vengono studiati e creati a tavolino e diffusi con politiche e interventi di pianificazione linguistica. Nel primo caso, l’ingrediente che dà avvio alla formazione di uno standard è la produzione di testi riconosciuti come modello di lingua fra i quattro agenti di cui sopra; a ciò segue la produzione di codici che fissano i caratteri linguistici della norma intesa come standard; l’istituzione di autorità normative, che valutano la correttezza e argomentano la validità dello standard; e infine l’intervento di esperti di lingua. È questo il caso delle principali lingue di cultura europee, incluso l’italiano, che hanno visto in genere la nascita di una forma standard in epoca tardo-medievale e il suo consolidamento all’inizio dell’età moderna. La trafila opposta riguarda invece tipicamente la problematica della ➔ pianificazione linguistica di varietà linguistiche minoritarie, marginali, non elaborate, in Europa; e di lingue etniche locali prive di una tradizione scritta, in molte situazioni mondiali, specie in Africa.
Il concetto di lingua standard si oppone a quello di dialetto (➔ dialetti). La lingua standard ha prestigio, è la norma approvata, il modo di usare la lingua degno di imitazione. I dialetti non hanno prestigio (per lo meno nel senso esplicito del termine, anche se è stato dimostrato che possono avere un certo prestigio ‘coperto’), e rispetto ai caratteri dello standard sono poco o per nulla codificati, sono regionali (o locali), scarsamente o per nulla elaborati, sono parlati dai ceti non egemoni in una società, hanno un’alta variabilità e sono di impiego tipicamente orale. Nel territorio e nella comunità parlante in cui è lingua standard, una varietà standard è di solito sovrapposta a vari dialetti e ad altre varietà (➔ bilinguismo e diglossia).
È successo nella storia di più lingue che uno dei dialetti (varietà geografiche di lingua) in cui era articolato un certo spazio linguistico sia diventato lingua standard. Questo avviene quando uno dei dialetti, per varie ragioni spesso cumulantisi (quali: essere parlato dalla classe dominante, dare luogo a una vasta e consolidata produzione letteraria, essere l’espressione di una comunità all’avanguardia nell’economia, nella tecnica, nella cultura), comincia ad acquistare prestigio, guadagna status, amplia e affina le sue strutture e estende le sue funzioni, fino a diventare una lingua pienamente elaborata ed essere promosso come il modello linguistico in cui si riconosce la società.
È questo il caso dell’italiano: il toscano fiorentino, base dello standard, era uno dei tanti volgari parlati in Italia dopo il Mille; con il suo qualificarsi come standard, gli altri volgari italiani (tranne per qualche secolo il veneziano, che ha conosciuto una certa codificazione ed è stato impiegato per gli usi scritti politici e amministrativi come lingua della Repubblica Serenissima) sono diventati dialetti.
La varietà standard di italiano è basata sul volgare fiorentino del Trecento, che grazie al prestigio letterario delle cosiddette tre corone fiorentine (➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio) e alla supremazia economica e culturale raggiunta in quell’epoca da Firenze, e incrementata nel Quattrocento, acquista via via nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’) il carattere di lingua letteraria di elezione, presentandosi come il principale candidato a rispondere all’esigenza di una lingua unitaria adeguata al rinnovamento culturale rinascimentale (Durante 1981: 128).
Il coronamento di questo processo si ha nella prima metà del Cinquecento con la fioritura di grammatiche del volgare (➔ grammatica), che diffondono il modello fiorentino come lingua letteraria in tutta Italia, e discutono e fissano le norme dell’italiano segnandone la codificazione come lingua standard. Particolarmente influente nella standardizzazione dell’italiano è l’opera di ➔ Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, pubblicata a Venezia nel 1525. Un’altra tappa importante nella codificazione dell’italiano standard è la pubblicazione nel 1612 della prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (a cui seguirono nel tempo varie edizioni rivedute e accresciute; ➔ accademie nella storia della lingua).
Il modello di lingua che viene codificato è «il toscano urbano della classe colta di Firenze» (Galli de’ Paratesi 1984: 60), cioè una varietà scritta, un registro letterario con influenze latineggianti e di altri volgari, e non il fiorentino parlato. Non tutte le caratteristiche del fiorentino sono quindi accolte dallo standard. L’italiano standard in effetti non ha mai, fin dalla codificazione cinquecentesca, coinciso esattamente con il fiorentino, e sin dal Seicento ha accolto, data anche la mancanza fra il tardo Cinquecento e l’avanzato Ottocento di un centro preminente che imponesse una norma, innovazioni di varia provenienza. La distanza dal fiorentino si è ancora accresciuta dopo l’Unità d’Italia, nonostante i tentativi puristici di imporre il fiorentino moderno come modello, in particolare per la pronuncia.
Fra i tratti morfosintattici dell’italiano standard che si discostano dal fiorentino si possono ricordare: l’assenza di pronomi clitici soggetto di terza persona singolare e plurale (➔ clitici), tipici del fiorentino parlato (e’/gli, la, le); l’impiego di si + terza persona singolare per la prima plurale dei verbi (partiamo e non si parte). Nella morfologia, l’italiano non accoglie la formazione della terza persona plurale del ➔ passato remoto con l’aggiunta della desinenza -no alla terza singolare (portarono, e non portonno). Più numerosi sono i tratti fonetici in cui lo standard si differenzia dal fiorentino (➔ toscani, dialetti). L’italiano standard in particolare non conosce gli indebolimenti di consonanti in posizione intervocalica (➔ indebolimento): né la cosiddetta ➔ gorgia toscana, né la realizzazione come fricative delle affricate palatali sorda e sonora in posizione intervocalica ([ˈpaʧe] pace, e non [ˈpaʃe]; [vaˈliʤa] valigia, e non [vaˈliʒa]), né l’indebolimento o caduta della fricativa labiodentale sonora ([aˈvuto], avuto, e non [aˈwuto], [aˈuto]). Sono anche assenti dallo standard le vocali paragogiche (in genere, una e) aggiunte alla fine della parola per evitare la terminazione consonantica o l’ossitonia ([film] film, e non [ˈfilme]; [anˈdɔ], andò, e non [anˈdɔe]). Numerose le differenze lessicali (➔ geosinonimi) anche nel vocabolario più comune: lo standard ha straccio e non cencio, ditale e non anello, fango e non mota, figlio e non figliolo / figliuolo (si noti che la monottongazione del ➔ dittongo [wɔ] è un’innovazione del fiorentino, posteriore alla sua standardizzazione come base dell’italiano, non accolta dallo standard), guancia e non gota, l’una («ora») e non il tocco, maniglia e non gruccia, raffreddore e non infreddatura (➔ italiano regionale).
L’italiano standard, coi suoi trenta fonemi (o ventotto, se non si accetta la fonematicità delle ➔ semivocali, [j] e [w]) e con le realizzazioni allofoniche normali (per es., la nasale realizzata come velare davanti a consonante velare; ➔ fonologia; ➔ allofoni), il suo ➔ lessico di ampia eredità latina (si calcola che circa l’85% delle 100.000-130.000 entrate lessicali registrate nei dizionari di consultazione sia di diretta o mediata provenienza latina), la sua grammatica di riferimento (quale è dettagliatamente presentata in Serianni 1988), si configura quindi complessivamente come un «fiorentino emendato» (Galli de’ Paratesi 1984: 57): una varietà di lingua non coincidente con alcuna varietà effettivamente parlata, sottoposta a partire dal Cinquecento a una codificazione normativa che, fra spinte e discussioni a volte miranti a riavvicinare la lingua italiana alla lingua fiorentina, a volte agenti in direzione opposta (per es., quella di una koinè che accolga diversi apporti macroregionali: esemplare a questo riguardo è il dibattito fra ➔ Graziadio Isaia Ascoli e ➔ Alessandro Manzoni nell’ultimo quarto dell’Ottocento), si è piuttosto allontanata dal modello toscano. Il risultato è che tutto sommato l’italiano standard viene ad essere una lingua artificiale, senza nessun reale equivalente in nessuna varietà effettivamente parlata da una concreta comunità linguistica all’interno del territorio nazionale.
La particolare storia dell’italiano standard si manifesta anche nel fatto che in una varietà che dovrebbe essere uniforme, si ritrovano in grado notevole fenomeni di difformità. Si hanno infatti ➔ allotropi, o come mere varianti di pronuncia (pronunciare e pronunziare) o come attribuzione a classi flessionali diverse (succube e succubo; ➔ flessione) o come fenomeni di allomorfia (devo e debbo; ➔ allomorfi). Si hanno varianti ortografiche (come le scrizioni del plurale di nomi terminanti con le sillabe -cia e -gia precedute da vocali: camicie / camice, ciliegie / ciliege; ➔ allografi).
Per la fonologia, si hanno distribuzioni alternative di alcuni fonemi, per es. laddove sono accettate una pronuncia di trafila fiorentina e una di trafila romana (come per colonna, [koˈlonːa] e [koˈlɔnːa], o lettera, [ˈlɛtːera] e [ˈletːera]), o laddove hanno preso piede pronunce settentrionali, come nel caso della /z/ intervocalica (per la quale in molte parole è registrata dai manuali sia la realizzazione toscana, [s], sia quella settentrionale [z]: caserma, [kaˈsɛrma] e [kaˈzɛrma]), ecc. Sempre sul piano della fonologia, si hanno inoltre casi di differenti collocazioni dell’➔accento (come regìme e règime). Questo insieme di realizzazioni ortoepiche diverse costituisce uno standard allargato, in cui coesistono una «pronuncia tradizionale», una «moderna», una «accettabile» e una «tollerata» (Canepari 2004: 23-26).
Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento fu anche avanzata da più linguisti (con buoni argomenti, fra i quali la maggiore vicinanza alla grafia) la proposta di adottare come modello da insegnare agli stranieri una pronuncia di tipo settentrionale.
Per le ragioni addotte nel § 3, nell’architettura in varietà dell’italiano contemporaneo lo standard occupa una posizione sbilanciata verso il polo alto della diastratia e della diafasia (➔ variazione diastratica, ➔ variazione diatopica).
Per secoli l’italiano è stato una lingua quasi soltanto scritta, impiegata per gli usi elevati e letterari, e parlata al massimo nella conversazione delle corti; ha vissuto nei libri e nei manuali di insegnamento, come lingua scolastica, più che nella vita quotidiana; non coincide in tutto con alcuna varietà socio-geografica effettivamente parlata; e una pronuncia pienamente corrispondente alla norma standard è di solito il frutto di apposito apprendimento da parte di parlanti professionisti. Nella seconda metà del Novecento si è reso evidente un processo di evoluzione interna e allargamento dello standard, causato in primo luogo dal progressivo diffondersi dell’italiano come lingua comunemente parlata nella vita quotidiana nel quadro dei sensibili mutamenti sociali e culturali che hanno contrassegnato la fine del secolo. Effetto su questo parziale riatteggiarsi della norma dell’italiano standard hanno anche avuto ragioni culturali e ideologiche come, in primo luogo, la vivace discussione, avviatasi negli anni Settanta, sull’➔ educazione linguistica e sul modello di lingua da tenere presente nella scuola.
Uno standard per sua natura paludato e tendente all’aulico, con un lessico molto più adeguato a temi astratti e al bello scrivere che alle tante esigenze pratiche della vita quotidiana, ha dovuto adattare i suoi mezzi linguistici ed estendere le sue risorse per adattarsi anche a questo nuovo raggio d’azione. Si sono in tal modo manifestati due fenomeni. Da un lato, lo standard tende a spostarsi verso le zone basse dell’architettura della lingua: parole, costrutti e abitudini linguistiche che, pur ben presenti da secoli nella gamma di realizzazioni e di varietà ammesse dal sistema della lingua italiana, non erano state accolte dalla codificazione normativa, o erano tenute ai margini, a poco a poco sono venute ad essere impiegate anche dai parlanti colti e negli usi scritti e hanno perso del tutto o in gran parte il loro carattere non standard. Dall’altro lato, in varie parti d’Italia si sono consolidati, soprattutto per quel che riguarda la pronuncia, dei veri e propri standard regionali, cioè varietà di italiano che, pur essendo diatopicamente marcati, sono comunemente usate anche dai parlanti più colti, non sono sanzionate come lingua non corretta e valgono da norme di realizzazione coesistenti accettate dell’italiano.
Questo italiano caratterizzato da una serie di tratti che, un tempo esclusi dallo standard, appaiono ora ampiamente diffusi e accettati da tutti i parlanti, e in cui è diminuita la forbice fra scritto e parlato, è stato chiamato «italiano dell’uso medio» da Sabatini (1985) e «italiano neo-standard» da Berruto (1987) (➔ lingue romanze e italiano). Costrutti, forme e realizzazioni, per lo più tipiche del parlato, che non facevano parte del canone presentato dalle grammatiche e dai manuali, hanno perso gran parte della marcatezza sociolinguistica che li relegava ai margini della lingua, come tratti ➔ substandard, e sono entrati o stanno entrando nello standard.
Si possono citare per la sintassi, in primo luogo, tipi di frasi segmentate e topicalizzate come le ➔ dislocazioni a sinistra (i giornali li leggo) e a destra (li leggo, i giornali), le frasi scisse (è Gianni che ha rubato la marmellata; ➔ scisse, frasi). Riguardano la morfosintassi, fatti come la normalizzazione dell’uso dell’➔imperfetto esteso a valori contrafattuali quali quelli di cortesia (volevo delle mele), ludico (io facevo la guardia e tu il ladro) e ipotetico dell’irrealtà (se venivi prima, trovavi ancora posto); e l’uso aggettivale di forme come bene, bis, gratis, super, ecc. (gente bene, corsa bis), che dà luogo alla formazione di una nuova classe di aggettivi invariabili (Durante 1981: 268).
Coinvolto in numerosi fenomeni è il sistema dei ➔ pronomi. Si possono per es. notare in questo campo: l’impiego ormai generalizzato di lui, lei, loro come pronomi soggetto (a scapito di egli, ella, essi); l’uso di gli come unico pronome dativo di terza persona, anche per il plurale e per il femminile; la fissazione del clitico ci sul verbo avere con significato di possesso (ci ho un gatto) e sul verbo entrare con significato di «essere pertinente» (questo non c’entra); il frequente impiego di ne come clitico ridondante di ripresa anaforica (una questione della quale ne parleremo domani); l’estensione dell’impiego di lui / lei come pronomi anche per referenti inanimati (questo è un grosso problema anche lui; Berruto 1987: 74).
Il settore più in movimento è naturalmente quello del lessico, che è il livello della lingua più soggetto all’interazione col mondo esterno. In particolare, fra i moduli di formazione di parola, e quindi di costruzione di neologismi, si possono segnalare la grande produttività della prefissazione con prefissoidi (in cui rientrano anche nuove forme di espressione dell’elatività: superdotato, iperzelante) e la diffusione di un modello di parola composta (➔ composizione) con l’ordine modificatore-modificato (come in tossicodipendente). Questo italiano contemporaneo correntemente accettato non costituisce comunque una nuova e diversa varietà di lingua, caratterizzata dal formarsi di moduli strutturali, costrutti e fenomeni prima sconosciuti al sistema della lingua italiana, bensì rappresenta una fase di un processo – normale nella fisiologia delle lingue – di progressivo indebolimento o spostamento della marcatezza sociolinguistica di forme, costrutti e realizzazioni che, ben presenti in genere anche nel passato nella gamma di usi della lingua, non erano accolti dalla norma standard.
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