Calvino, Italo
Italo Calvino nacque nel 1923 a Santiago de Las Vegas (L’Avana, Cuba), ma due anni dopo tornò con la famiglia in Italia, a San Remo, dove il padre diresse una stazione sperimentale di floricultura.
Unico letterato della famiglia, Italo già nel 1942 mise insieme una prima raccolta di racconti. Dell’esperienza tra i partigiani sulle Alpi Marittime restano segni nel romanzo breve Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e in alcuni dei racconti di Ultimo viene il corvo (1949). Trasferitosi a Torino, lavorò all’Einaudi, si iscrisse al PCI, collaborò a «l’Unità», scrisse e pubblicò tra il 1952 e il 1959 Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente (trilogia confluita in I nostri antenati, 1960), la raccolta di Fiabe italiane, La speculazione edilizia e un volume antologico di Racconti. Abbandonato il PCI nel 1957, si dedicò anche alla saggistica, destinata a procurargli fama quasi quanto l’attività creativa (i pezzi più importanti si leggono nella raccolta Una pietra sopra, 1980, i più recenti in Collezione di sabbia, 1984). Risiedette a lungo a Parigi, dove stabilì relazioni con l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle), con Georges Perec, Raymond Queneau, di cui tradusse I fiori blu, unendole a quelle, per lui meno stimolanti, con la neoavanguardia italiana e alla conoscenza della semiotica. Al decennio 1965-1975 risalgono, dopo La giornata di uno scrutatore del 1963, Le Cosmicomiche, Ti con zero, Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili. Fece diversi soggiorni all’estero (Stati Uniti, Messico, Parigi, Argentina). Gli ultimi libri pubblicati in vita furono: Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Palomar (1983). Morì nel settembre 1985, in seguito a un ictus.
L’importanza di Calvino nella storia della lingua italiana contemporanea è grande. Se si pensa che i primi due libri uscirono negli anni in cui il neorealismo promuoveva l’adozione di elementi dialettali e gergali, colpisce che l’autore, perfino nel Sentiero dei nidi di ragno e nei racconti coevi di Ultimo viene il corvo, usasse con assoluta parsimonia parole o valori semantici legati alla Liguria occidentale, in cui si svolgono i fatti narrati.
Riflessioni sulla lingua come fatto sociale e sulla questione della lingua letteraria sono abbondanti nei saggi che Calvino scrisse dalla fine degli anni Cinquanta agli ultimi anni della sua vita. La pulizia della scrittura, legata a una vocazione illuministica e anche al contesto scientifico familiare, trova un ambiente favorevole quando la vita conduce l’autore a Parigi e al modello di chiarezza e unità linguistica francese; questo tratto in seguito si rafforza quando i temi toccano contenuti scientifici o comunque confinanti con la riflessione scientifico-filosofica (da Ti con zero a Palomar). Secondo ➔ Pier Paolo Pasolini, che tra i primi notò il carattere più francese che toscano della sua prosa, l’estro più volterriano che strapaesano, il «distacco razionale dalla propria materia dà a Calvino una asciuttezza e una eleganza […] e insieme un procedimento di specie naturalistica […] realizzato attraverso una mimetizzata ordinazione dei fatti» (Pasolini 1960: 302).
Nei primi due libri si trovano molti elementi lessicali e soprattutto sintattici vicini al parlato, ‘leggeri’, cioè rapidi e lineari per la coordinazione che prevale sul periodare complesso (Mengaldo 1994: 169). Anche le frasi nominali, i cambi improvvisi di progetto sintattico ossia gli anacoluti, la dislocazione sintattica, l’uso di soprannomi (La Bersagliera, Pietromagro, Miscèl Francese, Giraffa, Il Dritto, Baciccin) hanno la snellezza dell’oralità e puntano ad abbassare la prospettiva della narrazione verso il punto di vista degli incolti o dei bambini. Contribuiscono all’effetto il riporto di canzoni popolari, i lessemi affettivamente forti (l’imprecazione mondoboia, macacco «brutto muso», strafottersene, mettere dentro «imprigionare», scappellottare o scapaccionare «dare scappellotti o scapaccioni», mollare «lasciare», acchiappare «prendere», smicciare «sogguardare»); certe metafore e paragoni espressivi come lampione guercio oppure occhi, come grandi lumache nere. Pochi, tuttavia, i termini e le connotazioni liguri: carrugio «viottolo stretto tra le case»; beudo «piccolo canale accosto a un fossato con una linea di pietre per camminarci», angosciare nel senso di «infastidire», meschino «poveraccio».
Nella prefazione alla ristampa 1964 del Sentiero dei nidi di ragno Calvino interpreta e commenta, in modo originale e preciso, certe spinte del neorealismo: il fascino dell’oralità, cioè della «voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte […] ci muovevamo in un multicolore universo di storie» (Calvino 19642: 8); l’attenzione al mondo dei protagonisti semplici, letti spesso in chiave grottesca con venature espressive e perfino espressionistiche; i modelli, infine, che soggiacciono alla semplicità ricercata di quegli anni, sensibile alle varietà di un’Italia ancora plurale, e cioè Hemingway e gli scrittori americani degli anni Trenta, attenti alla singolarità della provincia, ma maestri universali di realismo per gli italiani che non volessero ricadere nel naturalismo minore ottocentesco: «Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio» (Calvino 19642: 9), con macchie di colore e elementi quasi di folklore. Calvino ricorda qui che Cesare Pavese parlò subito di tono fiabesco per il punto di vista, più in basso dei fatti, del piccolo Pin, protagonista del Sentiero, il che vale in genere anche per i racconti di Ultimo viene il corvo, scritti un poco a imitazione di chi non parla l’italiano in casa (Calvino 19642). Ebbe ragione, Pavese, visto che Calvino si sarebbe occupato ben presto di fiabe italiane e avrebbe messo insieme la cosiddetta trilogia I nostri antenati e i racconti riuniti nel 1963 in Marcovaldo ovvero le stagioni in città. Residuano talvolta termini liguri, ma entro una più vasta e ambiziosa polifonia, che tocca anche i soprannomi e nomi propri, nei quali eventuale dialettalismo e innalzamento favoloso convivono, suscitando spesso effetti di comicità e di straniamento: in Marcovaldo uno spazzino si chiama Amadigi, un vigile Astolfo. Allo stesso modo colloquialità controllata e accenni di tinta letteraria si fondono in una prosa moderna, limpida ma sensibile all’intarsio fino al pastiche, che avrebbe accompagnato Calvino fin dentro gli anni ‘francesi’, nelle traduzioni da Queneau e in altri scritti dove una lieve sfumatura parodica governa gli aulicismi e gli eventuali toscanismi: ammantellato, biancoguantato, flabellare, costassù, dianzi, principiare (ampia documentazione in Mengaldo 1991).
Calvino però si sottrae al bello stile e a qualsiasi enfasi, puntando alla elegante precisione lessicale e a una ricca esattezza, dalla terminologia botanica alla resa dei rumori alla aggettivazione, che procede per successive messe a fuoco nella direzione di una geometrica nitidezza delle immagini.
Una fase dalla sintassi più complessa, con ripresa di elementi della frase a gradienti e ripetizione di parole-chiave, si legge a partire dalla Giornata di uno scrutatore, nelle Cosmicomiche e in Ti con zero, dove i termini scientifici e i prefissi colti sono legati ai temi.
Nei saggi sulla lingua dei pieni anni Sessanta, Calvino confessa la propria estraneità all’Italietta provinciale e ai relativi dialetti, «questi dialetti decaduti, stracchi, bolsi, corrotti», dunque anche all’abuso di termini troppo locali (Calvino 1980: 121). Il saggio L’italiano: una lingua tra le altre lingue sottolinea nella nostra lingua la duttilità, utile nelle traduzioni da altri idiomi, ma anche la sua intraducibilità, per la mescolanza di codici diversi tipica di ogni scrittura italiana stilisticamente curata. Come Pasolini, di cui pure non condivideva l’antipatia per l’aspetto tecnologico che la lingua stava prendendo a metà degli anni Sessanta, Calvino odiava il linguaggio dei politici, astratto e vago; considerava dannoso il «terrore semantico» che riveste la povertà di significati e le inutili perifrasi del linguaggio burocratico (➔ burocratese), da lui definito «antilingua». Amava invece la precisione tecnica, per es. la terminologia meccanica dei pezzi del motore, univoca a tutti i livelli sociali e dappertutto:
«Il mio ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e il più possibile preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare espressioni astratte e generiche. Per svilupparsi come lingua concreta e precisa l’italiano avrebbe possibilità che molte altre lingue non hanno. Ma la necrosi che tende a farne un tessuto verbale in cui non si vede e non si tocca nulla lo sta cancellando dal numero delle lingue che possono sperare di sopravvivere ai grandi cataclismi linguistici dei prossimi secoli» (Calvino 1980: 121)
Tale volontà di pensare l’italiano moderno inserito in una lucida prospettiva europea sembra venire meno negli ultimi scritti, come in alcuni passi delle Lezioni americane, preparate l’anno della morte e uscite postume nel 1988, dove si legge:
«Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze» (Calvino 1988: 58)
Ma, benché un certo pessimismo governi queste riflessioni, Calvino continua a inseguire l’ideale di una scrittura che agganci le cose e i fenomeni, anche quelli più sfuggenti. In questo senso il signor Palomar, alter ego di Calvino nel libro di brevi prose analitiche che porta il nome suo (che è poi quello di un famoso telescopio americano), offre una decisiva documentazione. Le descrizioni scientifiche dei movimenti di un’onda che Palomar vede «crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire, rifluire» (Lettura di un’onda); l’analisi della spada del sole sul mare, riflesso mobile di luce, e le considerazioni del soggetto che osserva «immerso in un mondo scorporato, intersezioni di campi di forze, diagrammi vettoriali, fasci di rette che convergono, divergono, si rifrangono» (La spada del sole) dicono quanta ricchezza e lucidità questo scrittore abbia immesso nell’italiano contemporaneo, al punto da diventare un modello di lingua che viene sovente offerto come lettura esemplare e didattica agli studenti universitari.
Calvino, Italo (19642), Prefazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi (1a ed. 1947).
Calvino, Italo (1980), Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi.
Calvino, Italo (1988), Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1991), Aspetti della lingua di Calvino, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, pp. 227-297.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1994), Il Novecento, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino, pp. 167-171.
Pasolini, Pier Paolo (1985), Passione e ideologia, Milano, Garzanti (1a ed. 1960).