MONTEMEZZI, Italo
MONTEMEZZI, Italo. – Nacque a Vigasio (Verona) il 4 agosto 1875 (la data 31 maggio riportata da molti dizionari non è suffragata da documenti anagrafici) da Bortolo, artigiano benestante e musicista dilettante (suonava il flauto e il violino), e da Elisa Donadelli.
Terminate le scuole tecniche, nel 1894 fu convinto dal padre a recarsi a Milano per studiare al Politecnico, ma Montemezzi, che intanto aveva preso lezioni di pianoforte, si presentò in Conservatorio, dove, dopo due tentativi falliti, fu ammesso nel 1896 al secondo anno di composizione. Studiò contrappunto con Michele Saladino e composizione con Vincenzo Ferroni. Nel 1900 conseguì a pieni voti il diploma, componendo per il saggio finale la scena lirica Cantico dei Cantici, per soprano, mezzosoprano, coro e orchestra, eseguita sotto la direzione di Arturo Toscanini. Insegnò per un anno armonia presso lo stesso Conservatorio, dove vinse un concorso per un’opera in un atto con Bianca, su libretto di Giuseppe Zuppone Strani. Partecipò poi a un concorso per la composizione di un’opera in un atto bandito dalla casa musicale Sonzogno, presentando l’opera Giovanni Gallurese, che venne scartata dalla giuria. Secondo quanto riporta Giuseppe Silvestri (Vita e opere: vocazione e volontà, in Omaggio a I. M., 1952, pp. 21 s.), Montemezzi si sarebbe rivolto per il libretto a Giannino Antona Traversi, il quale però gli avrebbe suggerito di chiedere a Francesco D’Angelantonio la riduzione in un atto del libretto Nel regno delle ballerine, che costui aveva già scritto. In realtà tale libretto risale al 1901, è in quattro atti, non ha niente a che vedere con la vicenda di Giovanni Gallurese e probabilmente non fu mai musicato. Di seguito Montemezzi rifece l’intera partitura e D’Angelantonio portò il libretto a tre atti. In questa versione, con il titolo di Giovanni Gallurese, grazie all’intercessione dell’amico ed ex compagno di corso Tullio Serafin, all’epoca già accreditato direttore d’orchestra, l’opera riscosse l’interesse dell’impresario Luigi Piontelli, il quale propose al compositore di metterla in scena a patto che anticipasse le spese di allestimento, pari a 7000 lire. Non potendo far fronte alla spesa, Montemezzi si rivolse ad alcuni amici, critici musicali di Verona, i quali, divulgando nell’Adige e nell’Arena la notizia dell’impedimento alla rappresentazione dell’opera del conterraneo, raccolsero tra i lettori la somma necessaria. L’opera fu così allestita il 28 gennaio 1905 nel teatro Vittorio Emanuele di Torino, diretta da Serafin, con un notevole successo di pubblico e critica, tanto che Ricordi acquistò il lavoro e incaricò Montemezzi di scrivere altre due opere.
Giovanni Gallurese si inserisce nel filone del dramma storico in costume e prende spunto da una storia riportata nell’Historia cronológica degli avvenimenti di Sardegna dal 1637 al 1672 del cappuccino Jorge Aleo (1672- 1673). Ambientato nel XVII secolo in un borgo del nord dell’isola, narra dell’amore per Maria di Giovanni Gallurese, il quale non può rivelare all’amata la sua identità, essendo bandito per essersi schierato contro gli oppressori spagnoli. Uno di questi, Rivegas, tenta di rapire la ragazza, che viene però salvata da Giovanni. Maria inizialmente sospetta che l’autore del rapimento sia il gallurese, ma venuta a conoscenza della verità decide di fuggire con lui. Rivegas però uccide a tradimento il bandito, le cui ultime parole sono un inno all’amore e alla libertà della sua terra. Notevoli le differenze rispetto alla maggior parte delle opere veriste: il lavoro non è ambientato nel presente o nel recente passato; i personaggi appartengono al popolo, ma per l’ambientazione, non generica, l’opera non è riconducibile al filone ‘plebeo’, né all’idea di una meridionalità oleografica tanto di moda all’epoca. Un ballo tradizionale e una canzone sarda intonata dal coro sono introdotti secondo criteri che rimandano a una ricerca di fonti autentiche piuttosto inconsueta per l’epoca. L’opera inoltre palesa, a differenza del filone mascagnano, l’assimilazione da parte di Montemezzi dei modelli tedeschi. Fu ripresa in varie città, tra cui Brescia, Sassari, Milano, per approdare nel 1925 negli Stati Uniti, il 19 febbraio al Metropolitan di New York, diretta ancora da Serafin (protagonista Giacomo Lauri-Volpi), e il 24 marzo a Filadelfia. Nel 1931 inoltre fu trasmessa alla radio dall’EIAR.
Nel maggio del 1905 fu stipulato un contratto per una collaborazione tra la Ricordi, Luigi Illica e Montemezzi, che portò inizialmente all’idea di ricavare un libretto da Ramuntcho di Pierre Loti. In settembre però si passò all’idea di trarre un lavoro dall’Adolphe di Benjamin Constant. Nacque così Héllera – il nome della protagonista femminile sta per l’Ellénore dell’originale –, su libretto in tre atti di Illica. L’opera fu diretta da Serafin al teatro Regio di Torino il 17 marzo 1909. Nonostante le lusinghiere accoglienze non ebbe riprese, se non alla radio tremite l’EIAR nel 1937. Nel 1911, su incarico del municipio di Cremona, Montemezzi scrisse una cantata per coro e orchestra per il 25° anniversario della morte di Amilcare Ponchielli, su testo di Giuseppe Adami. Al tiepido successo di Héllera si contrappose l’ottima riuscita di pubblico e critica di un’altra opera, su libretto di Sem Benelli, al quale Montemezzi si era rivolto per avere l’autorizzazione a musicare La cena delle beffe; questi, avendone già ceduto i diritti (a Tommaso Montefiore), gli propose in alternativa un libretto da una tragedia che stava elaborando, L’amore dei tre re.
Allestita alla Scala il 10 aprile 1913, direttore anche questa volta Serafin (interpreti Luisa Villani, Edoardo Ferrari Fontana, Carlo Galeffi, Nazzareno De Angelis), l’opera ottenne ampio successo. Fu rappresentata a Parigi, Londra, Berlino, Vienna e l’anno dopo, il 2 gennaio, diretta da Toscanini al Metropolitan di New York (dove rimase in repertorio per più di 25 anni). In seguito ebbe importanti allestimenti con altri celebri direttori tra cui Leopold Stokowsky, Bruno Walter, Victor de Sabata. Storia fosca e cruenta ambientata in un Medioevo fantastico, per l’atmosfera rimanda a Maeterlinck e al simbolismo francese, ma anche a Wagner, interpretato da Benelli in un’ottica dannunziana. Musicalmente si caratterizza per i toni cupi e un raffinato neogoticismo. Per le scene d’amore Montemezzi ritorna a formule del Tristan wagneriano (facendo anche ricorso alla tecnica del Leitmotiv), mentre nei finali d’atto si rifà all’opera di gusto verista. Importanti spunti wagneriani si inseriscono in un linguaggio tipicamente tardoromantico. Caratteristica dell’opera è l’accostamento di una vocalità ancora verista a un’orchestra trattata secondo criteri di tipo impressionistico. Fiora ama riamata Avito, ma è costretta a sposare Manfredo, figlio del re Archibaldo, il quale, durante l’assenza per la guerra del figlio, la sorprende con l’amante, che essendo cieco non riconosce. Cerca di farle confessare il nome dello spasimante, ma non riuscendovi la strangola e le cosparge di veleno le labbra per avvelenarne l’amante. Avito, infatti, muore dopo averla baciata ma così accade anche a Manfredo. L’opera si conclude con la disperazione di Archibaldo per la morte del figlio. Così scrisse il critico Olin Downes sul New York Times: «Quest’opera maiuscola troneggia nel proprio genere. Fa a meno dell’impatto dei grandi cori e della magnificenza spettacolare. È un dramma intimo. Il testo esibisce sì un intricato simbolismo, che però si dissolve in mano al compositore […] Ciò che il pubblico vede e sente in teatro è lo spasimo pulsante di esseri umani travolti nei gorghi della passione e d’un tragico destino, […] la foga e l’ansimo vibrante d’incessanti, invisibili correnti dell’emozione e della vita stessa, in perenne agitazione sotto la superficie degli eventi e del dialogo, imperturbate da ciò che avviene in scena. Questi marosi abissali non si arrestano un istante; né l’ascoltatore se li scorda più » (30 ottobre 1928; cfr. Omaggio a I. M., 1952, p. 122).
Un’altra collaborazione importante di Montemezzi lo vide implicato con Tito Ricordi nella realizzazione de La nave di Gabriele d’Annunzio. L’editore lo invitò a musicare la tragedia, che celebra il dominio italico sull’Adriatico, da lui stesso ridotta a libretto (già un decennio prima Ildebrando Pizzetti ne aveva scritto le musiche di scena).
L’opera fu eseguita alla Scala il 3 novembre 1918 (prima del secondo atto, Ricordi annunciò agli spettatori l’entrata delle truppe italiane a Trento e Trieste). Gaetano Cesari su Il secolo scrisse: «La parte migliore dell’opera di Montemezzi ci sembra stare nei frammenti decorativi e nei quadri d’insieme dove il coro ha tanta parte. In questi frammenti ci pare raggiunta l’integrazione fra gli elementi plastici, poetici e musicali accettata quale base estetica del moderno dramma lirico […]. La musica de La nave raffrontata con L’amore dei tre re palesa un progresso in questo: che l’assimilazione dei vari stili si limita ora a quello di uno stile solo, il wagneriano, e da questo punto di vista diviene tecnicamente più perfetta. Non troviamo più Debussy accanto a Wagner. Montemezzi compie ora belle passeggiate avendo la sola guida del secondo a lato e senza più curarsi del primo. Però dimostra di avere appreso parecchio nelle sue escursioni “a due”. La mano dell’istrumentatore si è fatta più franca e attraverso la uguaglianza dello stile è pervenuto anche a una relativa uguaglianza di tecnica » (riportato in Omaggio a I. M., 1952, p. 31). L’orchestrazione è considerata una delle caratteristiche migliori della Nave, mentre l’evidente wagnerismo dell’opera fu giudicato da una parte della critica a tratti eccessivo. Il lavoro fu riproposto, diretto dall’autore, nel 1919 a Chicago, dove riscosse grande consenso. Forse la tematica della tragedia, palesemente ricollegabile agli eventi bellici, scoraggiò successivi allestimenti: vi furono due riprese, a Verona e a Roma, nel 1938.
Nel 1921 a New York Montemezzi sposò Katherine Leith. Nel 1929 la stampa diffuse la notizia che stesse scrivendo un’opera su libretto di Adami, La Dogaressa, ma di tale lavoro non si hanno altre notizie. Nel febbraio 1930, diretto da Bernardino Molinari, fu eseguito all’Augusteum di Roma il poema sinfonico Paolo e Virginia, ispirato al romanzo omonimo di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre. Negli anni seguenti si impegnò soprattutto nell’attività direttoriale, facendo conoscere le proprie opere negli Stati Uniti, dove si trasferì nel 1939 rimanendovi fino al 1949.
Scrisse due opere in un atto, La notte di Zoraima su libretto di Mario Ghisalberti, che egli stesso diresse il 31 gennaio 1931 alla Scala al posto di de Sabata, indisposto, e L’incantesimo su libretto di Benelli (ambientata in un castello alpino medievale, intreccia magia e incantesimi), che negli USA fu trasmessa per radio dalla NBC in forma di concerto nel 1943, ma andò in scena solo postuma, il 9 agosto 1952 all’Arena di Verona. Nel 1946 fu eseguito a Hollywood il poema sinfonico Italia mia! Nulla fermerà il tuo canto diretto da Stokowsky; la composizione, in due movimenti, riprende motivi di canzoni garibaldine. Montemezzi inoltre progettò, lasciandola incompiuta, un’opera tratta da La Princesse lointaine di Edmond Rostand.
Morì a Vigasio il 15 maggio 1952.
Dedito quasi totalmente alla musica operistica, si tenne lontano dalle avanguardie. Sostenne che la sua vera scuola era stato il loggione della Scala. In particolare nelle opere più importanti si trovano spunti pucciniani, straussiani e wagneriani. Accostò raffinatezze orchestrali di gusto impressionista a una vocalità spesso verista. Lo stile si caratterizza per una commistione fra tradizione italiana e modernismo tedesco che dà luogo a un linguaggio affatto personale, scevro da quell’eclettismo che gli fu talvolta ingiustamente rimproverato.
Altre opere: Elegia per violoncello e pianoforte (Milano, 1932); Sinfonia in Mi minore (inedita).
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