IUGOSLAVIA
(XX, p. 15; App. I, p. 767; II, II, p. 125; III, I, p. 936; IV, II, p. 275)
Fino al 1991 la I. era una repubblica federale socialista comprendente le repubbliche di Serbia, Croazia, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Bosnia-Erzegovina e le due province autonome serbe del Kossovo e della Vojvodina. La secessione della Slovenia e della Croazia, proclamatesi indipendenti nel giugno del 1991, a cui hanno fatto seguito l'adozione di una nuova costituzione secessionista da parte della Macedonia (gennaio 1991), nonché la dichiarazione d'indipendenza della Bosnia-Erzegovina (marzo 1992), hanno concorso a determinare la dissoluzione dello stato iugoslavo.
Nell'aprile 1992 Serbia e Montenegro hanno dato vita a una nuova federazione (Repubblica Federale di Iugoslavia).
Il nuovo stato ha un territorio di 102.173 km2. In base ai risultati del censimento svoltosi il 31 marzo 1991, entro i confini così ridimensionati la popolazione ammontava a 10.337.504 ab. e costituiva il 44% circa dell'intera popolazione (23.528.000 ab.) dell'ex Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia. I più aggiornati dati statistici ufficiali, sui quali si fondano in larga misura le notizie sulla popolazione e l'economia che di seguito riportiamo, risalgono al 1990-91 e si riferiscono quindi all'ex Iugoslavia.
Popolazione. − Il movimento naturale della popolazione, malgrado un progressivo calo del tasso di natalità (dal 16,4ı al 14,1ı fra il 1984 e il 1991), presentava ancora un saldo attivo (+5,2%) nel 1991. I flussi migratori, già consistenti prima del 1991 (nel 1981 erano temporaneamente all'estero oltre 1.000.000 di lavoratori, di cui più del 50% nell'allora Repubblica Federale di Germania), si sono intensificati dopo lo scoppio della guerra civile: nell'agosto 1992 i rifugiati fuori dai confini dell'ex I. ammontavano a 531.500 circa (dei quali 220.000 in Germania, 70.500 in Svizzera, 57.500 in Austria, 50.000 in Ungheria, 47.000 in Svezia e 17.000 in Italia).
A questi flussi migratori verso l'estero si sono accompagnati ingenti spostamenti nell'ambito del territorio dell'ex I., che hanno coinvolto circa due milioni di persone (625.000 abitanti della Croazia, dei quali il 57% si è rifugiato al di fuori dei confini della propria repubblica, e 1.325.000 Bosniaci, per il 47% fuorusciti dai confini della Bosnia-Erzegovina, ma rimasti nell'ambito dell'ex Iugoslavia). Una ridistribuzione territoriale della popolazione di così vasta portata trae motivo dalla scarsa omogeneità etnica delle repubbliche coinvolte nella guerra civile, e dalla feroce persecuzione cui sono state fatte segno le varie minoranze sparpagliate in terre diventate improvvisamente nemiche. All'atto del censimento del 1991 la composizione per gruppi etnici principali dell'ex Repubblica Federale era risultata la seguente: Serbi 36,2%, Croati 19,7%, Bosniaci di religione musulmana 9,8%, Albanesi 9,2%, Sloveni 7,4%, Macedoni 5,8%.
Al rimescolamento territoriale della popolazione hanno altresì concorso, prima del 1991, importanti flussi migratori interni innescati dagli squilibri economico-territoriali non solo dalle repubbliche meridionali, le più povere, verso le aree maggiormente sviluppate (Slovenia, Croazia, Vojvodina), ma anche dalle campagne verso le città. Le città con oltre 100.000 ab. sono così salite a 14, rispetto alle 6 del 1971. Belgrado, la capitale, contava 1.554.800 ab. nel 1991.
Condizioni economiche. − Nel corso della prima parte dell'anno 1990 una serie di provvedimenti adottati dal governo federale presieduto da A. Markovic (abbandono dell'autogestione, apertura agli investimenti stranieri, avvio delle privatizzazioni, convertibilità del dinaro), nel quadro di un radicale processo di revisione degli orientamenti di politica economica della Federazione, sembrava aver creato le premesse per una vigorosa ripresa dell'economia. Ma gli eventi successivi, che hanno in breve portato alla rottura degli equilibri politici sfociando infine nella guerra civile, hanno avuto ripercussioni disastrose sull'economia della nuova repubblica federale e degli stati usciti dall'ex Federazione socialista. Le infrastrutture sono andate in gran parte distrutte nelle varie fasi del conflitto e l'operatività di molti impianti si è ridotta a livelli minimi. La produzione industriale, che già aveva subito una certa flessione nel corso del 1990, riflettendo l'incipiente incertezza del quadro politico-istituzionale, si è ulteriormente contratta, e già nel 1991 risultava ridotta del 21% rispetto all'anno precedente. I dati che qui di seguito riportiamo sono ancora riferiti all'ex I. (nell'aprile 1992 è stato calcolato che la nuova Federazione serbo-montenegrina possedeva il 40% del potenziale produttivo della disciolta Federazione socialista).
Nel 1990 l'agricoltura aveva contribuito nella misura dell'11,4% alla formazione del prodotto interno lordo, impiegando il 21,7% delle forze di lavoro. Più di tre quarti dell'area coltivata erano destinati alle colture cerealicole (specialmente grano e mais), la cui produzione complessiva era passata, tra il 1972 e il 1990, da 128 a 150 milioni di q. Tra le colture industriali, la maggiore estensione spettava alle barbabietole da zucchero (158.000 ha nel 1990) e al girasole (214.000 ha). Notevole importanza avevano le tradizionali attività della viticoltura, della frutticoltura e dell'allevamento, che fornivano le materie prime a un'attiva industria alimentare.
Nel 1989 il 37% del territorio era coperto da foreste (9,5 milioni di ha, dei quali 3,2 posseduti da privati). In quell'anno la produzione di legname segato era stata di 15,2 milioni di m3.
Nel 1990 le attività estrattive, le industrie manifatturiere e quelle delle costruzioni complessivamente avevano contribuito alla formazione del prodotto interno lordo nella misura del 46,8%. Le risorse minerarie includono importanti giacimenti di carbon fossile (293.000 t di antracite e 75 milioni di t di lignite nel 1989) e di bauxite (2,9 milioni di t nel 1989). Nella Vojvodina orientale si estraevano petrolio (3,2 milioni di t) e gas naturale (2,2 miliardi di m3 nel 1989), ma il grado di dipendenza del paese da idrocarburi importati era e rimane molto elevato, con problemi di approvvigionamento che si sono manifestati con particolare gravità a partire dal 1990. L'energia era di origine idrica per il 33% e termica per il 58%. Una centrale elettronucleare ha fornito il 6,3% del totale dell'elettricità generata nel 1991. L'industria siderurgica ha prodotto 2,3 milioni di t di ghisa e ferroleghe e 3,6 milioni di t di acciaio nel 1990. Tra le industrie metallurgiche particolare rilievo aveva quella dell'alluminio (350.000 t nel 1990). Le più recenti realizzazioni dell'industria meccanica riguardavano l'industria automobilistica, con la produzione di autovetture e veicoli commerciali a Kragujevac in Serbia. Dai cantieri navali sono state varate imbarcazioni per 478.000 t di stazza lorda nel 1989. Notevole era stato lo sviluppo delle industrie chimiche ed elettroniche, mentre ritmi di crescita relativamente ridotti si erano registrati per le tradizionali industrie tessili, alimentari, del legno e della carta.
Fino al 1990 la bilancia commerciale ha potuto contare sul consistente apporto delle attività turistiche, che è diminuito del 60,9% l'anno successivo. Nel 1989 l'indebitamento estero ammontava a 17.600 milioni di dollari. In quello stesso anno le importazioni (prevalentemente costituite da idrocarburi, da materie prime industriali, da macchinari e mezzi di trasporto e da prodotti chimici) ammontavano a 46.400 miliardi di dinari, bilanciate da esportazioni per un controvalore di 41.400 miliardi di dinari (macchinari e mezzi di trasporto, altri prodotti dell'industria manifatturiera, tabacco e altri prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento). I principali partners commerciali sono stati l'URSS, la Germania Federale e l'Italia.
Bibl.: J. Globocar, Yougoslavie, in Courrier des Pays de l'Est, 1986, pp. 158-88; H. Sachter, Théories et processus d'intégration regionaux en Jougoslavie. Espoirs et limites, in Bulletin de la Société languedocienne de géographie, 1987, pp. 65-76; R. Simoncelli, Iugoslavia: diversità etniche e demografiche, in Scritti in onore di E. Massi, Bologna 1987, pp. 209-14; R. Stefanovic, D. Breznik, Internal migration, in Yugoslav survey, 1987, pp. 25-40; AA.VV., Investire in Iugoslavia. Sfide e possibilità, Belgrado 1989; AA.VV., La question serbe, in Hérodote. Revue de géographie et de géopolitique, 67 (ottobre-dicembre 1992); AA.VV., La guerra in Europa. Adriatico, Iugoslavia, Balcani, in Limes, 1993, n. 1-2.
Storia. - Le riforme degli anni Settanta e la morte di Tito. − Le crisi sia di natura sociale, sia di origine più strettamente nazionale che avevano scosso la I. a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta erano parse risolte, o per lo meno attenuate, in seguito al grande moto riformatore del triennio 1974-76.
Infatti, nonostante la svolta autoritaria prevalsa dopo l'allontanamento dei gruppi dirigenti serbi, croati e sloveni nel 1971-72 e la repressione attuata in particolare verso gli intellettuali (significativa fu la forzata chiusura nel 1974 della rivista filosofica Praxis, nota in tutto il mondo), Tito riuscì a imprimere alla riforma tratti del tutto peculiari, non configurabili come un mero ripristino centralista di tipo sovietico. Se, infatti, il monolitismo della Lega dei Comunisti era stato ristabilito respingendo ogni ipotesi di riorganizzazione confederale e alla sua forza di coesione era stato affidato il compito di salvaguardare l'unità del paese, non per questo il processo di decentramento e di rafforzamento del potere delle repubbliche (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia) e delle regioni (Kosovo e Vojvodina) venne arrestato; al contrario, esso proseguì, a tutto danno delle istanze federali ridimensionate nei loro ruoli.
Negli anni Settanta, insomma, mentre da un lato si poneva con sempre maggior evidenza il problema della successione a Tito, dall'altro la I., sotto l'influenza delle idee dello sloveno E. Kardelj, si diede nel 1974 una nuova Costituzione in cui si delinearono assetti istituzionali di tipo semiconfederale. Due anni dopo entrò in vigore la legge sul lavoro associato, che riformò radicalmente l'autogestione.
La società, sempre sottoposta − secondo il dettato costituzionale − alla "dittatura del proletariato", fu articolata in forme assai complesse. I poteri del governo federale vennero drasticamente ridimensionati, mentre crebbero quelli delle repubbliche e delle regioni, alle quali fu assegnato, di fatto, un diritto di veto su tutte le questioni d'interesse generale. Dal 1975 esse ottennero pure la sovranità valutaria, ciò che permise loro di condurre un'autonoma politica commerciale e di contrarre prestiti all'estero. La scelta delle élites di stato e di partito venne stabilita rispettando la proporzionale etnica, con qualche vantaggio per le minoranze (nel 1981, per es., gli Albanesi, che nel Kosovo costituivano il 77,5% della popolazione, esprimevano il 70,4% dell'élite di stato e il 65% di quella di partito, i cui iscritti erano per il 62,8% albanesi). Il diritto all'uso della lingua nazionale fu garantito, mentre problematici rimasero sempre i rapporti con le tre principali religioni. Al vertice della federazione fu più tardi posta una presidenza collegiale, alla cui guida − una volta scomparso Tito − si sarebbero avvicendati ogni anno i rappresentanti delle sei repubbliche e delle due regioni.
L'autogestione fu estesa dalle fabbriche a tutti gli aspetti della vita sociale. Articolata in migliaia di organizzazioni di base, di imprese e cartelli secondo un sistema piramidale che attribuiva a meccanismi concorsuali − che almeno formalmente avrebbero dovuto basarsi su criteri di merito (anche se l'iscrizione alla Lega costituiva quasi sempre un requisito indispensabile) − la scelta del direttore (regolando in tal modo tutte le carriere), essa assegnò larghi poteri ai Consigli di fabbrica, a quelli di amministrazione e alle direzioni; sottopose le banche al controllo delle aziende e impose agli stessi servizi sociali vincoli più stretti con le imprese. Per favorire l'integrazione fra mondo del lavoro e interessi dei cittadini si stabilì una serie di legami tra governi territoriali e produzione. Sia le amministrazioni locali, sia i poteri regionali e repubblicani venivano esercitati da ben tre camere in sedute congiunte e disgiunte, in rappresentanza rispettivamente degli interessi del mondo del lavoro, della cittadinanza e di un sistema politico imperniato su varie organizzazioni quali la Lega dei comunisti, l'Alleanza socialista (ex Fronte popolare), i sindacati, l'organizzazione giovanile, quella dei partigiani, delle donne e altre minori. In breve, tra comitati, assemblee, parlamenti, oltre due milioni di persone furono coinvolte in un sistema rappresentativo e decisionale del paese ad ampia partecipazione. Tuttavia, per effetto dei complessi meccanismi decisionali, delle difficoltà di reperire informazioni e dell'inevitabile impreparazione tecnica di molti eletti, il potere d'intervento della burocrazia risultò rafforzato, anziché scalfito. La moltiplicazione dei centri di potere nelle repubbliche, nelle regioni e perfino nei comuni consentì infatti agli apparati non più soltanto dello stato federale, ma radicati in tutto il paese, d'influire largamente sull'economia e sulla società, fino a soffocarle.
Negli anni Settanta, peraltro, lo sviluppo della I. conobbe nuovamente ritmi elevati e il tenore di vita crebbe: nei centri urbani risiedeva ormai il 46,5% della popolazione, mentre solo il 23,6% era addetto all'agricoltura. Lo stesso terziario, grazie al turismo, registrò un apprezzabile incremento. La fase di espansione fu agevolata dall'accesso ai crediti internazionali, cui attinsero anche le singole repubbliche senza che esistesse un effettivo controllo federale. L'indebitamento raggiunse pertanto, nei primi anni Ottanta, i 20 miliardi di dollari, mentre nel paese continuavano a crescere prezzi, salari e investimenti, rivelatisi per lo più inutili o improduttivi solo in un secondo tempo.
Attorno al 1977 E. Kardelj tornò a porre il problema della democrazia nel paese, muovendo dalla convinzione che fosse necessario riconoscere l'esistenza di un diffuso ''pluralismo di interessi'' nella cresciuta società iugoslava, e che a tale pluralismo dovesse essere consentito trovare un'espressione politica. Tuttavia Kardelj, già malato, morì nel febbraio 1979, mentre cominciava a profilarsi una grave crisi economica interna.
Tito, del resto, negli ultimi anni di vita aveva concentrato la propria attività soprattutto in politica estera. Forte del proprio prestigio personale, ma sostenuto anche dalla stabilità interna, da risultati economico-sociali apprezzabili e da un'idea di società come quella dell'autogestione che ai comunisti iugoslavi pareva ideologicamente vincente nei confronti sia dell'URSS sia degli USA, Tito intensificò la sua presenza sulla scena mondiale conferendo al proprio paese un prestigio e un apprezzamento senza precedenti. Il suo impegno per la pace e il disarmo s'intrecciò con una fitta serie di visite che nel 1977 lo portarono in URSS, Corea del Nord e, clamorosamente, a riaprire le relazioni con la Cina. L'anno successivo fu in Gran Bretagna e negli USA. Nel 1979 affrontò con energia e tenacia una dura battaglia per salvare i caratteri originari del Movimento dei paesi non-allineati, messi in discussione da F. Castro che riteneva, invece, necessario riconoscere il ''campo socialista'' come alleato ''naturale'' del Movimento. Tuttavia Tito, critico nei confronti di tutti e due i blocchi, riuscì a ottenere la sua ultima vittoria al vertice dei nonallineati a L'Avana (settembre 1979), allorché sconfisse le tesi cubane. Nel gennaio 1980, a causa dell'aggravarsi di problemi circolatori a una gamba, egli dovette sottoporsi a un'operazione che non riuscì e che comportò l'amputazione. La fibra dell'ottantottenne maresciallo non resse e, dopo alcuni mesi di agonia, Tito morì, il 4 maggio 1980, lasciando l'intero paese nel più profondo sconforto. Al suo funerale parteciparono − fatto eccezionale − i capi di Stato di tutto il mondo (tranne lo statunitense J. Carter e il francese V. Giscard d'Estaing), ultimo riconoscimento del prestigio umano e politico del grande statista.
In politica interna, già negli anni Settanta Tito aveva comunque gradualmente abbandonato parte dei poteri nelle mani di un gruppo dirigente che, in seguito agli stessi conflitti nazionali del 1971-72 e alle successive epurazioni, risultava o incapace o unicamente attento alla salvaguardia dell'esistente, senza troppo esporsi politicamente.
Nel 1977 i vertici politico-militari del paese furono inoltre sconvolti da una crisi, a tutt'oggi non completamente chiarita, nella quale fu coinvolta la stessa moglie di Tito, Jovanka Budisavljević. Il ripudio di quest'ultima e l'allontanamento di alcuni generali in seguito alla scoperta del complotto lasciarono intendere che, comunque, tensioni sotterranee continuavano a minare un gruppo dirigente solo superficialmente coeso. Scomparso il vecchio maresciallo, il tanto atteso ''dopo-Tito'' venne pertanto affrontato da élites di stato e di partito incerte e divise, dalla visione generalmente angusta e, comunque, culturalmente impreparate ad affrontare la crisi economica che avrebbe devastato il paese per tutto il decennio successivo.
La crisi. − Scatenata da una politica economica federale inadeguata a far fronte alla crisi energetica degli anni Settanta e così pure da un incontrollato indebitamento estero contratto dalle singole repubbliche, la crisi degli anni Ottanta fu rapidamente aggravata dall'inefficienza del sistema politico e di quello dell'autogestione rivelatisi farraginosi, lenti ed economicamente dispendiosi. Nel 1981 ci fu una nuova esplosione nazionalista fra gli Albanesi del Kosovo, che, al di là del secolare contrasto con i Serbi, trasse le proprie origini soprattutto dalle condizioni di particolare arretratezza della regione e da un diffuso malessere che, di fronte all'incalzante crisi generale, si avvertirono qui prima e con particolare pesantezza. Tuttavia, il suo intrecciarsi con rivendicazioni di tipo politico (come la richiesta di trasformazione della regione in repubblica) e il suo perdurare nel tempo − per cui la crisi generale del paese vanificò ogni programma volto a risollevare la regione − finirono con lo scatenare il risentimento dei Serbi. Questi, infatti, avvertivano come una frustrazione il fatto di essere diventati una minoranza in Kosovo (vuoi per le migrazioni serbe verso Belgrado, vuoi per l'alto tasso di natalità albanese) e di trovarsi divisi amministrativamente: da un lato perché la Serbia risultava in una posizione non paritaria rispetto alle altre repubbliche, dal momento che essa soltanto possedeva due regioni (il Kosovo, per l'appunto, e la Vojvodina) tanto autonome da essere praticamente incontrollate, e dall'altro perché, comunque, fuori dalla Serbia vivevano circa tre milioni di Serbi.
Nel frattempo, il paese veniva travolto da un'inflazione gravissima che raggiunse nel 1989 il 2500%, nonché da una drastica riduzione del tenore di vita e degli investimenti, che vide la I. tornare ai valori dell'inizio degli anni Sessanta. Inoltre, la gravità della crisi e le difficoltà sempre maggiori nel trovare accordi per la sua soluzione indussero i leaders del paese a un progressivo abbandono della loro presenza in campo internazionale.
I gruppi dirigenti si preoccuparono allora di ricercare nel rispettivo territorio d'origine la propria e unica legittimità di potere, con ciò provocando una rapida delegittimazione dell'élite iugoslava e il rafforzamento di un ceto politico a carattere locale. Contemporaneamente, le chiusure autarchiche provocarono la nascita di una sorta di ''nazionalismo economico'', il cui pericoloso consolidamento convinse già nel 1983 il premier croato M. Planinc ad apporre il segreto di stato sull'indebitamento delle singole repubbliche, rendendo noto solo quello dell'intera Federazione.
In realtà, si dovette ben presto constatare come proprio il carattere semiconfederale del paese e l'esistenza di un sistema burocratico ben ramificato nelle otto unità federate fossero, almeno in parte, all'origine della crisi iugoslava e, in larga misura, costituissero la causa della crescente ingovernabilità. Il nodo, insomma, che l'autogestione non era riuscita a sciogliere riguardava tanto l'inefficacia del sistema economico, quanto l'inadeguatezza dei meccanismi decisionali, sottoposti a complessi e tormentati ''dosaggi'' imperniati su una forma di ''lottizzazione'' nazionale e praticati da gruppi dirigenti non sottoposti al controllo democratico da parte dei cittadini. Sicché, mentre l'economia si arenava nelle pastoie delle otto burocrazie, il potere politico si dimostrava impotente a decidere alcunché.
A partire dalla metà degli anni Ottanta la critica dei comunisti sloveni all'esperienza iugoslava si appuntò sul ruolo soffocante esercitato in campo economico dalla burocrazia, per combattere la quale diventava necessario introdurre un sistema pluripartitico. Convinti che ogni proposta d'integrazione celasse il pericolo di un ritorno al centralismo, essi ritennero che concentrando l'attenzione sui soli problemi della democrazia, si sarebbe trovata la via per rendere efficiente lo stato federale. Le autonomie, in questo quadro, avrebbero dovuto essere ulteriormente rafforzate fino a trasformare la I. in un'inedita ''tenue'' confederazione, priva sia di un sistema doganale unitario, sia di un sistema finanziario, creditizio, valutario e fiscale comuni. Da ciò trasse origine quell'impasto di riformismo e nazionalismo separatista che progressivamente caratterizzò il comunismo sloveno.
In Serbia, invece, l'esasperazione per la crisi economica generale, unitamente al prolungarsi di quella in Kosovo, provocò un travagliato scontro politico tra i comunisti, mentre gli intellettuali dell'Accademia serba delle Scienze e delle Arti stesero un proprio Memorandum in cui si delineavano i punti essenziali della rinascita del nazionalismo serbo. La soluzione della crisi iugoslava − secondo tale interpretazione − doveva essere individuata nella creazione di uno stato efficiente, di una governabilità liberata dai vincoli dell'unanimismo e ricondotta al principio etnico proporzionale, permettendo così ai Serbi (il 36% della popolazione, demograficamente distribuiti in 5 delle 6 repubbliche) di ritrovare un posto più adeguato nella Federazione, e in tal modo spezzando quella coalizione ''croato-slovena'' (identificata in Tito e Kardelj) a cui si attribuiva la responsabilità per l'inefficienza economica e istituzionale del paese. Tale impostazione aprì, di fatto, la ''questione nazionale serba'', che dal 1986 trovò in S. Milošević un leader incontrastato. Da allora, Milošević − facendo leva sul problema del Kosovo − si fece paladino di un progetto di riforma della società iugoslava che, in nome di una ''rivoluzione antiburocratica'', individuò nei meccanismi federali di assunzione delle decisioni l'ostacolo principale al rilancio del paese, per realizzare il quale condivideva − con gli Sloveni − la prospettiva di una piena realizzazione dell'economia di mercato.
A differenza, però, di quanto si sosteneva a Lubiana, Milošević ritenne possibile realizzare tale prospettiva senza il pluripartitismo. In ciò fu aiutato dal peso del conservatorismo ideologico comunista, a cui del resto rimase legato, e dal fatto che prioritaria − per la popolazione serba − era divenuta la soluzione del problema del Kosovo, trasformatosi in un ''incubo'' nazionale. Il nodo, dunque, dell'efficienza delle istituzioni si fuse presto, e con grandi ambiguità, con la rinata ''questione nazionale serba''. Da ciò trasse origine quella convergenza tra nazionalismo egemonico e ortodossia comunista che costituì l'essenza della politica di Milošević.
L'impossibilità di modificare la Costituzione per altra via che non fosse l'accordo unanime, indusse Milošević a incoraggiare la protesta popolare per forzare la situazione. Tuttavia, l'aggressività della sua politica, il sostegno da lui fornito a comizi di piazza dai toni sempre più esasperati e, infine, il rovesciamento nell'autunno 1988 dei governi del Kosovo e della Vojvodina, imposto da dilaganti manifestazioni di massa, e − fatto ancor più grave − del Montenegro (repubblica a sé stante e non regione della Serbia) scatenarono l'opposizione slovena e spaventarono gli altri popoli della Iugoslavia. L'assoluto non rispetto dei diritti umani in Kosovo, l'inasprirsi della repressione antialbanese nei confronti sia di singoli cittadini, sia di dirigenti di orientamento ''iugoslavo'' quali A. Vllasi (imprigionato, poi scarcerato e assolto per le pressioni interne e internazionali), le restrizioni alle libertà di stampa e di parola in Serbia (mentre questi diritti ottenevano un sempre maggiore riconoscimento in altre parti del paese) accentuarono l'isolamento di Milošević e aggravarono le relazioni interetniche in Iugoslavia.
Ciò nonostante, alla fine del 1988 e, forse, con la speranza di contenere la protesta serba, Slovenia e Croazia accettarono di ridurre l'autonomia delle due regioni, ricondotte pertanto sotto il controllo diretto della Serbia. Parve, allora, che una qualche forma di compromesso potesse essere raggiunta. La stessa crisi del governo federale, seguita alle dimissioni di B. Mikulić il 30 dicembre 1988 e dovuta alla sua palese incapacità di affrontare i nodi strutturali della crisi economica, sfociò in un accordo, raggiunto con fatica, che permise pochi mesi dopo l'ascesa del croato A. Marković alla carica di premier.
Ciò consentì alla I. di rilanciare − per alcuni mesi − la propria immagine all'estero: il dinamismo del nuovo capo dello Stato, lo sloveno J. Drnovšek, migliorò notevolmente le relazioni con la Comunità europea, rendendo più concreta l'eventualità di una qualche forma di collegamento tra la CEE e la Iugoslavia. Contemporaneamente, a seguito anche dei precedenti accordi Goria-Mikulić, si fecero più intensi i legami con l'Italia e, nel 1990, si giunse a un accordo bilaterale che diede vita all'''Iniziativa Adriatica'' e, insieme ad Austria e Ungheria, a un'inedita forma di cooperazione multilaterale definita ''Iniziativa quadrangolare'' (poi Pentagonale ed Esagonale).
La politica regionale balcanica, che nel 1988 aveva dato i suoi primi frutti con la convocazione a Belgrado di un vertice fra i ministri degli Esteri dei sei paesi della penisola, trovò modo di consolidarsi nei mesi successivi: s'intensificarono i contatti e i progetti e, per il 1990, fu convocato un secondo vertice nella capitale albanese. L'attenuarsi progressivo del confronto Est-Ovest grazie alla politica estera del presidente sovietico M. Gorbačëv e alla sua perestrojka sembrarono agevolare i contatti anche tra gli stati balcanici, presso i quali la guerra fredda aveva esercitato un peso considerevole. D'altra parte, proprio i profondi mutamenti in atto in campo internazionale e il moltiplicarsi di crisi e conflitti bellici fra paesi del Terzo Mondo avevano attenuato molte delle ragioni che erano state alla base del non-allineamento. Per rilanciarlo, la I. si assunse una seconda presidenza triennale e organizzò a Belgrado nel settembre 1989 il 9° vertice dei capi di Stato e di governo del Movimento.
Tuttavia, la discussione sul futuro della collocazione internazionale della I. divenne presto motivo di scontro fra le sei repubbliche. La Slovenia, in particolare, mirava a consolidare i legami con la Comunità europea, mentre il governo federale e il ministro degli Esteri, il croato B. Lončar, non intendevano mutare la tradizionale politica del non-allineamento e di amicizia verso il Terzo Mondo. Il rapido crollo del comunismo nell'Europa centro-orientale (autunno 1989) alimentò nuove critiche in I. a proposito dei rapporti con Israele, interrotti da Tito ai tempi della guerra del 1967 per solidarietà con Nasser.
Sul piano interno, i travolgenti eventi del 1989 spinsero il gruppo dirigente sloveno a rompere gli indugi e ad approvare unilateralmente una serie di modifiche costituzionali per consentire la nascita dei partiti e preparare le elezioni, previste per l'aprile 1990. Di fatto, però, tale comportamento contribuì a delegittimare il neonato governo federale di Marković − in procinto di varare un complesso piano di risanamento economico −, mentre riaccese il contenzioso serbo-sloveno concernente l'individuazione di una via d'uscita efficace alla decennale crisi del paese.
Nel dicembre 1989 si verificò un evento che ebbe gravi ripercussioni nella vita politica della I.: la minaccia di una ''marcia'' dei Serbi del Kosovo su Lubiana − anche se successivamente annullata − acuì l'allarme degli Sloveni per l'''egemonismo serbo'' e favorì una "chiusura a riccio" della popolazione e dei suoi dirigenti rafforzando sentimenti antimeridionali, antiugoslavi e antibalcanici. Tale orientamento si riflesse nel modo in cui si giunse alla rottura tra i comunisti durante i lavori del 14° congresso della Lega (gennaio 1990): nonostante, infatti, le proposte miranti a fondare un Partito socialista iugoslavo, gli Sloveni decisero di abbandonare il congresso in quanto delegazione nazionale, facendo in tal modo prevalere tendenze centrifughe e confermando come stesse diventando sempre più problematico trasformare in senso democratico e unitario l'insieme della Iugoslavia.
L'improvvisa scomparsa della Lega e la sua frantumazione in numerosi Partiti comunisti a carattere locale privarono il sistema costituzionale semi-confederale del paese del suo principale cemento unitario. Sicché, proprio perché non aveva conosciuto nel corso della gravissima crisi economica forti proteste politico-sociali, capaci (come per es. nel caso polacco) anche di scardinare il sistema, la I. assistette del tutto impreparata alla caduta del comunismo.
Verso il collasso. − Le elezioni pluripartitiche, svoltesi nelle sei repubbliche nel corso del 1990 (solo gli Albanesi del Kosovo non si recarono alle urne per protesta contro l'abolizione di ogni autonomia e la sospensione del Parlamento regionale a opera del governo serbo nel luglio 1990), accentuarono la disarticolazione.
In Slovenia, le elezioni vennero vinte di misura da un'eterogenea coalizione di partiti denominata Demos (composta da liberali, contadini, democristiani, democratici, socialdemocratici, verdi), il cui successo fu bilanciato dalla conferma del comunista M. Kučan a presidente della repubblica. In Croazia prevalse un composito movimento nazionalista, la Comunità democratica croata (HDZ, Hrvatska Demokratska Zajedcnica), diretta da un ex generale di Tito, F. Tudjman: grazie alla legge elettorale, l'HDZ si assicurò il 57,5% dei seggi, pur avendo ottenuto tra il 30% e il 40% dei voti. All'opposizione furono relegati numerosi partiti con pochi seggi, nonché gli ex comunisti (ai quali andarono più del 30% dei voti e il 20,5% dei seggi). In Bosnia-Erzegovina le elezioni si rivelarono una sorta di censimento: i partiti delle tre etnie maggioritarie (Musulmani, Serbi e Croati) ottennero infatti un risultato quasi pari al peso demografico di ciascuna di esse (rispettivamente, il 43%, 31% e 17%). Deludenti o addirittura insignificanti i risultati delle altre formazioni. In Macedonia si creò una situazione d'ingovernabilità per assenza di una maggioranza definita, in quanto il Partito nazionalista (VMRO-DPMNE, Vnatrešna Makedonska Revolucionerna Organizacija-Demokratska Partija za Makedonsko Edinstvo, Organizzazione rivoluzionaria interna macedone-Partito democratico per l'unità macedone) raggiunse il 31%, la Lega dei comunisti si fermò al 25,8%, il Partito riformista del premier federale Marković ottenne quasi il 10%, ma il Partito nazionalista albanese il 14%: quest'ultimo acquisì in tal modo il ruolo di ''ago della bilancia'' in un contesto etnicamente tanto delicato da impedire a ciascuno degli opposti schieramenti (VMRO-DPMNE e comunisti-riformisti) di contare su una maggioranza stabile. In Serbia, invece, il Partito socialista (ex comunista) di Milošević conquistò ben il 77% dei seggi con il 45,8% dei voti, schiacciando tutte le opposizioni di orientamento più o meno agguerritamente nazionalista. In Montenegro, infine, trionfò la Lega dei comunisti con il 64% dei voti, seguita dai riformisti di Marković con oltre il 13%.
Il quadro frastagliato che venne così emergendo contribuì ad approfondire i contrasti interetnici e ad annullare positivi risultati che nei primi nove mesi del 1990 il governo federale guidato da Marković (in carica dal marzo 1989) aveva ottenuto in campo economico.
Abbandonata l'autogestione, infatti, Marković era riuscito a varare dal 1° gennaio 1990 un pacchetto di provvedimenti che portò a stabilizzare il dinaro e, ancorandolo al marco, a renderlo parzialmente convertibile. L'inflazione fu presto contenuta entro una media dell'1% mensile (nel maggio 1990 il tasso fu addirittura negativo); le riserve in valuta passarono da 4 a oltre 10 miliardi di dollari; il debito estero conobbe una parziale contrazione scendendo da 20 a 16 miliardi di dollari; l'80% dei prezzi (dati OCSE) venne liberalizzato. Perfino gli scambi con l'estero fecero registrare un netto miglioramento e alla fine di luglio del 1990 fu raggiunto un attivo di 550 miliardi di dollari negli scambi con i paesi a valuta convertibile.
Ciò nonostante, la produzione conobbe nel 1990 un rapido calo, pari al 10% e, con esso, aumentò la disoccupazione. Inoltre, una volta tolto il blocco dei salari e dei prezzi, nella seconda metà del 1990 l'inflazione riprese a crescere anche perché l'impennata dei primi fu incoraggiata dai gruppi dirigenti repubblicani desiderosi di mantenere la pace sociale. Poco dopo, le sanzioni imposte dall'ONU all'῾Irāq provocarono alla I. gravi danni fra i quali la perdita di circa 600 milioni di dollari di introiti e un calo delle riserve per 1100-1200 milioni di dollari.
Tuttavia furono i contrasti fra i gruppi dirigenti repubblicani e il crescente boicottaggio delle leggi federali da parte delle singole repubbliche a rendere sempre più ingovernabile il paese, allontanando nel contempo la possibilità d'indire elezioni pluripartitiche a carattere federale. Il timore, infatti, che la sanzione del voto popolare potesse trasformare il Parlamento iugoslavo in una sorta di Costituente del nuovo stato riducendo il potere di contrattazione delle élites repubblicane indusse soprattutto i dirigenti di Slovenia, Croazia e Serbia a rendere impossibile il ricorso alle urne. Si preferì, piuttosto, avviare trattative tra delegazioni delle sei repubbliche e delle massime istanze federali per trovare una soluzione alla crisi istituzionale del paese. Nell'autunno 1990 furono così stilati un progetto a carattere confederale − caldeggiato da Slovenia e Croazia − e uno d'impostazione federale, sostenuto dall'allora presidente della Federazione B. Jović, nonché da Serbia e Montenegro. Tuttavia una vera e propria trattativa non decollò mai: le posizioni, infatti, si mantennero assai distanti in quanto ciascun progetto venne difeso con toni ultimativi che impedivano la ricerca del compromesso. Ripetitività e inconcludenza caratterizzarono, pertanto, gli incontri fra i leaders del paese che si svolsero nella prima metà del 1991. In definitiva, ciascuno sperava d'imporre agli altri il proprio punto di vista, tanto che neppure venne preso in considerazione l'ultimo tentativo di compromesso avanzato dai presidenti di Bosnia e Macedonia all'inizio del giugno 1991.
Nel frattempo, il 23 dicembre 1990 la Slovenia aveva indetto un referendum sull'indipendenza del paese. Il 19 maggio 1991 il suo esempio fu seguito dalla Croazia. Anche se il consenso espresso dalla popolazione ai propri governi fu massiccio, i referendum furono comunque convocati con troppa fretta, senza che il dibattito precedente al voto consentisse all'elettorato di percepire le opzioni in campo, e di comprendere tempi e modi che avrebbero accompagnato la realizzazione della sovranità statale. In Croazia, addirittura, furono proposti due quesiti alternativi, formulati in modo inesatto (attribuendo alla Serbia un progetto di riforma costituzionale che essa aveva presentato in quanto repubblica) e senza prospettare l'eventualità della secessione.
In realtà, tale impostazione dei quesiti si comprendeva solo alla luce del grave deterioramento intervenuto nelle relazioni tra Croati e Serbi di Croazia, da quando Tudjman era salito al potere. Nel luglio 1990, infatti, la Costituzione croata era modificata in modo che le norme relative alle minoranze potessero essere cambiate non più a maggioranza qualificata, bensì a maggioranza semplice. Inoltre, vennero avviati tentativi miranti a svuotare gli arsenali della Difesa territoriale − ossia di un sistema capillarmente diffuso sul territorio e creato da Tito al fine di assicurare le armi alla popolazione in caso di aggressione da parte di una grande potenza − e a ridimensionare la presenza serba nella polizia: l'imperizia e la brutalità con cui furono perseguiti questi obiettivi alimentarono il diffondersi della ''sindrome da genocidio'' tra i Serbi di Croazia, tanto più che il processo di revisione in senso anticomunista dei simboli e della toponomastica incorse in ambigue svalutazioni della lotta al fascismo. In agosto, a Knin, scoppiò il primo conflitto interetnico, aggravando tensioni e diffidenze nella popolazione.
La guerra. − In questo clima, via via acuito dall'intensificarsi di episodi cruenti nell'antica Regione militare (o Krajina) e in Slavonia, si giunse il 15 maggio 1991 al rifiuto serbo di accordare il consenso al croato S. Mesić come nuovo presidente di turno della Federazione, carica che gli sarebbe spettata per rotazione. Priva del capo dello Stato, la I. precipitò rapidamente nel baratro. Di lì a poco, infatti, la Slovenia annunciò che avrebbe unilateralmente posto sotto il proprio controllo le dogane ai confini orientali, stabilendo per il 25 giugno 1991 la proclamazione ufficiale dell'indipendenza. La Croazia, in una situazione interna sempre più difficile e confusa, decise di comportarsi analogamente. Sicché, quando ciò avvenne, rimasto vacante il posto di presidente federale, il premier Marković tentò di ristabilire il controllo sui confini internazionali incaricando l'esercito di stanziarsi ai posti di frontiera muovendo dalle caserme limitrofe. L'esercito, invece, mosse dalla Croazia, attraversando longitudinalmente la Slovenia, che si dichiarò aggredita.
Gli scontri a fuoco che scaturirono da quest'episodio, pur essendosi presto rivelati di lieve entità − nonostante una martellante campagna propagandistica del governo sloveno −, rappresentarono la fine effettiva della I. di Tito e l'inizio di una tragica e sanguinosa guerra civile. Inoltre si cancellava un'esperienza unitaria (Iugoslavia significa ''terra degli slavi del Sud'') che affondava le sue radici nell'età del Risorgimento ed era stata al centro delle aspirazioni dell'intellettualità croata e slovena − più ancora che serba − sin dalla fine del Settecento. A tale processo distruttivo il mondo guardò con apprensione crescente, ma anche con indubbia impreparazione politica e culturale. Da un lato, la maggior parte dei paesi europei occidentali e gli Stati Uniti sostennero − seppur tardivamente − l'unità iugoslava e premettero su Lubiana e Zagabria affinché non assumessero decisioni unilaterali. Dall'altro, Germania e Austria si schierarono apertamente a favore delle due repubbliche ribelli. Le divisioni così insorte minarono sin dall'inizio l'opera di mediazione che la Comunità europea aveva dispiegato nella speranza di fermare quanto prima il conflitto. Soltanto con grande fatica fu possibile imporre a tutte le parti in causa il cessate il fuoco e una moratoria di tre mesi sugli effetti delle dichiarazioni d'indipendenza (Brioni, 10 luglio 1991). Tale periodo avrebbe dovuto esser utilizzato allo scopo d'individuare uno sbocco politico alla crisi. In realtà, non solo mancava un'effettiva intenzione in questo senso nelle élites di Serbia, Croazia e Slovenia, ma la stessa natura della contrapposizione che aveva condotto alla guerra prese presto una piega differente. L'inizio del conflitto, infatti, costituì uno shock per tutti gli Iugoslavi. Il governo federale e l'Armata ne subirono i contraccolpi più vistosi, in seguito alla defezione dei ministri sloveni e al progressivo ritiro delle reclute delle varie repubbliche. Le madri serbe si resero allora protagoniste di un clamoroso episodio di contestazione della guerra, recandosi a Lubiana e al Parlamento serbo per imporre il ritorno a casa dei propri figli.
Contemporaneamente, la leadership serba e, con essa, i vertici dell'Armata si convinsero dell'assoluta inutilità di mantenere l'unità con gli Sloveni, accettandone di fatto la secessione. Ma così si alterava profondamente l'equilibrio interetnico e demografico e si ridimensionava il ruolo del governo federale che, infatti, si disgregò progressivamente fino alle dimissioni di Marković il 20 dicembre 1991.
Sembrarono allora aprirsi le porte alla realizzazione di un altro scenario, volto alla creazione di uno stato nazionale serbo, la cosiddetta ''Grande Serbia'' includente Macedonia, Bosnia, Slavonia e Dalmazia. Tale prospettiva tuttavia si scontrava sia con l'aspirazione alla ''Grande Croazia'' delineata dallo stesso Tudjman al momento della fondazione dell'HDZ, sia con le innumerevoli nazioni e minoranze situate nell'ampio spazio culturale serbo-croato. Di fatto, in pochi mesi la crisi iugoslava evolvette da problema connesso alla tenuta di uno stato unitario a scontro per la nascita di stati etnicamente puri. Sicché, messe da poco a tacere le armi in Slovenia, il conflitto militare investì la Croazia: il ricordo dei massacri della seconda guerra mondiale e la sindrome da genocidio indussero i Serbi della Krajina a ''precedere il nemico'', mentre l'esercito scese sempre più apertamente in campo al loro fianco lungo tutto l'arco dell'antica Regione militare, da Zara alla Slavonia orientale. In breve, eccidi e distruzioni furono commessi con pari intensità da tutte le forze in campo, ma gli inutili, sistematici e distruttivi bombardamenti di Vukovar e di Dubrovnik scossero la coscienza del mondo e favorirono l'isolamento internazionale della Serbia. Nel frattempo, si erano venute moltiplicando organizzazioni paramilitari autonome, fra le quali in particolare quelle dei četnici legate a V. Šešelj (che si riallacciavano alle bande monarchiche, divenute filofasciste, che operarono durante la seconda guerra mondiale sotto la guida del gen. D. Mihailović), quelle dei Serbi della Krajina guidate dal capitano Dragan e da Z.R. Arkan, quelle croate denominate HOS (Hrvatske Obrambene Snage, "Forze di difesa croata") e legate al Partito croato del diritto, di orientamento filo-ustaša. Queste ultime − tollerate dal governo di Zagabria − hanno offuscato con la loro attività l'immagine ''democratica'' della Croazia e solo a causa delle pressioni internazionali, in vista del riconoscimento della sovranità, si è giunti all'arresto del leader D. Paraga (peraltro poco più tardi rilasciato), mentre nessun effetto pratico ha avuto il decreto di scioglimento delle milizie private, approvato verso la fine del 1991.
In autunno, mentre infuriava la guerra in Croazia, si accentuò il distacco della Macedonia dalla I., in seguito alla convocazione di un referendum sulla sovranità (8 settembre 1991) e, quindi, all'approvazione di una Costituzione (17 novembre). Queste novità acuirono le preoccupazioni della Grecia spingendola ad avvicinarsi progressivamente alla Serbia e, da allora, a porre il veto al riconoscimento della Macedonia da parte della CEE. In Bosnia apparenti alleanze croato-musulmane vennero sostituite da altrettanto fragili convergenze musulmano-serbe e serbo-croate, mentre emissari di Tudjman e di Milošević cercavano segretamente un accordo per la spartizione della repubblica. Sul piano internazionale, la Bosnia moltiplicava i contatti con la Turchia chiedendo esplicitamente appoggio e protezione.
In questo clima di crescente intervento internazionale e di aspro scontro militare, si giunse il 15 gennaio 1992 − non senza incertezze e divisioni − al riconoscimento dell'indipendenza di Slovenia e Croazia da parte della CEE e, in breve, di tutto il mondo. La Macedonia fu costretta invece a subire il veto greco, nonostante avesse adempiuto a tutti gli obblighi delineati dalla CEE che, a sua volta, condizionò il riconoscimento della Bosnia all'effettuazione di un referendum. Tale scelta, gravida di pericoli per questo paese, venne accolta da Musulmani e Croati e attuata il 29 febbraio 1992. Il giorno successivo, i Serbi di Bosnia dichiararono la nascita di una propria repubblica nelle regioni autonome da tempo da essi costituite. La guerra, mai cessata in Croazia, si estese così tragicamente alla Bosnia. I lutti e la ferocia della guerra civile provocarono anche un'intensificazione rapida dell'ondata dei profughi, giunti in poche settimane a superare il 1.200.000 unità; donne, vecchi e bambini si riversarono sulla costa e ovunque non si combattesse, acuendo tensioni sociali e instabilità. Anche la Slovenia − da tempo in preda a difficoltà politiche interne − ebbe a risentirne: del resto, l'approvazione di una nuova Costituzione nel dicembre 1991 e il sopraggiungere del riconoscimento internazionale avevano svuotato di significato la coalizione Demos, che presto si divise, entrando in una crisi definitiva. Ma la formazione faticosa di un nuovo esecutivo, attorno alla prestigiosa figura di Drnovšek, non riduceva la fragilità politica dell'esecutivo. Il clima di generale incertezza si avvertiva anche in Croazia, dove l'HDZ iniziava a perdere consensi, mentre in Serbia la stanchezza per la guerra e l'imposizione da parte dell'ONU di gravose sanzioni economiche (31 maggio 1992) erano seguite dal moltiplicarsi di pubblici gesti di sfiducia nei confronti di Milošević. Nonostante, tuttavia, la critica della Chiesa ortodossa, di una parte degli intellettuali e dei giovani che già il 9 marzo 1991 erano stati protagonisti di una clamorosa contestazione del leader serbo, Milošević − d'accordo con il montenegrino M. Bulatović − dava vita il 27 aprile a una federazione iugoslava o ''piccola Iugoslavia''.
Si era, in tal modo, operata un'altra complessa manovra che mirava a rendere irreversibile la disgregazione del vecchio stato unitario ormai suddiviso in cinque piccole repubbliche: Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Repubblica federale di I. e Macedonia. In realtà, gli assetti istituzionali e territoriali permanevano altamente incerti senza che si riuscisse a porre termine alla guerra, la cui natura manifestava forme sempre più complesse. Al di là, infatti, della ripartizione geo-cronologica, segnata per il triennio 1991-93 da tre fasi corrispondenti alle guerre in Slovenia, in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, il confronto armato iugoslavo si è presentato come un insieme di conflitti paralleli, ossia come guerra di secessione, di successione e civile.
Se l'elemento della secessione appariva evidente nel conflitto fra la Slovenia e la federazione iugoslava (rappresentata dal governo del croato Marković), già più complesse sono apparse le caratteristiche dello scontro in Croazia, laddove la spinta secessionista della Krajina si è intrecciata − in forme peraltro mai del tutto esplicite − con una sorta di "guerra fra due Stati successori" della I. (ossia Croazia e Serbia) per la definizione dei reciproci confini. Questi fattori sono riemersi in modo ancor più dilaniante in Bosnia, allorché si sono manifestati nei loro aspetti più crudi i tratti tipici della guerra civile, già presenti, del resto, nelle fasi belliche precedenti. Si sono così frantumate le famiglie, armati l'un contro l'altro i loro membri, spezzate le antiche solidarietà, le amicizie, gli affetti, degradati tutti i rapporti personali. Ma negli scantinati delle città bombardate si sono ritrovati insieme cittadini serbi, croati e musulmani, né il cecchino − quando sparava a tradimento − era in grado di distinguere la nazionalità delle sue vittime.
In definitiva, il conflitto iugoslavo si è rivelato in grado di moltiplicare − nel tempo − le motivazioni individuali e collettive che lo hanno alimentato. Lo spettro delle ''ragioni'' si è anarchicamente esteso di giorno in giorno. Inoltre, ha cercato sempre più di radicare la percezione dell'''altro'' come ''nemico''. Ma poiché l'individuazione del nemico non si era ancora cristallizzata, schieramenti interni e alleanze internazionali apparivano ancora incerti, tanto da favorire la volubilità dell'oggetto di inimicizia. Per es., lo scontro frontale tra Belgrado e Lubiana degli anni 1986-91 si era venuto stemperando al punto che, nel novembre 1992, il presidente sloveno M. Kučan aveva lasciato intendere la possibilità di un suo superamento.
Nel frattempo, le relazioni sloveno-croate erano precipitate a un livello assai basso: il ventaglio delle diatribe si era via via allargato dai problemi della pesca nel Golfo di Pirano, ai confini territoriali, alle controversie monetarie, economiche e commerciali fino a provocare una reciproca guerra doganale e a sfiorare un incidente tra motovedette della polizia al largo di Umago l'11 gennaio 1993.
Su un altro versante, l'ostilità militare tra Croati e Musulmani, apparsa evidente sin da quando M. Boban aveva proclamato la nascita della repubblica croato-bosniaca della Herceg-Bosna il 2 luglio 1992, si era progressivamente acuita ed era sfociata in ripetuti scontri armati che fragili tregue avevano stentato a frenare.
Sicché, nonostante l'isolamento internazionale di Belgrado (rivelatosi in realtà più formale che effettivo), il quadro complessivo delle relazioni inter-iugoslave ha visto presto affievolirsi l'immagine unica di nemico aggressore attribuita alla Serbia non tanto per una maggior moderazione dei governanti di Belgrado, quanto per l'aggravarsi dei contrasti fra gli altri soggetti in campo.
Nel frattempo, la tensione era venuta crescendo nel mondo islamico fino a dar vita ad un'accesa concorrenza fra Turchia e Iran, pronte ad offrirsi quali principali protettori della causa dei Musulmani di Bosnia. Le richieste per un intervento militare antiserbo cominciarono così ad infittirsi, mentre Ankara e Tirana stabilivano accordi di cooperazione militare e la Grecia opponeva testardamente il veto al riconoscimento della Macedonia ogni qual volta si svolgeva una riunione della CEE. Il timore di un allargamento del conflitto al Kosovo e alla Macedonia, con un probabile intervento di alcuni paesi confinanti, fino a far prefigurare il rischio di una terza guerra balcanica, indusse gli Stati Uniti (assai più preoccupati che un conflitto interetnico analogo potesse dilagare nell'ex Unione Sovietica) a modificare radicalmente la propria posizione e a collocarsi, nel 1992, fra i più accesi sostenitori di un intervento militare, tramite aviazione, contro la Serbia.
In definitiva, il conflitto in I. anziché attenuarsi, si inaspriva sempre più. L'incremento dei profughi coglieva impreparati i poteri locali e delle singole repubbliche, fra l'altro economicamente disastrate: si innescavano così crescenti tensioni sociali, si rafforzavano nelle popolazioni inclinazioni razziste e intolleranti, mentre il protrarsi del conflitto si rifletteva sui tempi di durata dell'accoglienza della gente in fuga, lasciando intravedere − con la ''stabilizzazione'' di una situazione ''provvisoria'' − l'eventualità di un'alterazione degli equilibri demografico-nazionali anche laddove, come in Slovenia, l'omogeneità etnica aveva fino ad allora costituito una caratteristica dominante. Di conseguenza, si acuiva ovunque il senso di insicurezza, con ripercussioni negative sulla tenuta, già alquanto fragile, dei nuovi poteri.
Ne è scaturita una situazione ancor più dilaniata dalla quale hanno rischiato di emergere altre e assai temibili alleanze, come quelle che nel 1993 parevano profilarsi all'orizzonte nel nome delle solidarietà religiose ortodosse (ossia serbo-russe), islamiche (ossia turco-musulmano-albanesi) e cattoliche (ossia croato-vaticane). Del resto, nonostante la delicatissima situazione in cui si trovava la Macedonia e il senso di equilibrio e di saggezza mostrati dal suo presidente K. Gligorov e dal governo di B. Crvenkovski (a cui partecipavano dal 4 settembre 1992 rappresentanti della minoranza albanese) anche in questa repubblica l'acutizzarsi del contrasto ortodosso-musulmano si era riflesso sulle relazioni macedo-albanesi.
Sicché, in conclusione, all'inizio degli anni Novanta il quadro delle relazioni inter-iugoslave si era venuto via via complicando a causa dell'accumularsi delle tensioni reciproche, lasciando così intendere che, in prospettiva, la conflittualità non sarebbe terminata neppure con la fine della guerra armata e che i mutamenti geo-politici in corso nei Balcani avrebbero richiesto un tempo assai lungo di assestamento.
La ''piccola I.'' nasceva carica di ambiguità. Il nuovo stato, infatti, manteneva la vecchia denominazione di "paese dei popoli slavi meridionali", benché a farne parte si trovassero per lo più Serbi (con l'eccezione degli Albanesi del Kosovo e degli Ungheresi della Vojvodina). In questa scelta vi era, peraltro, il desiderio dei suoi fondatori di presentarsi come unici eredi dei beni e delle rappresentanze all'estero del vecchio stato, nonché il probabile intento di avviare una riunificazione, in un futuro indefinito, dei territori serbi di Krajina e Bosnia, a loro volta dichiaratisi indipendenti.
La reazione della comunità mondiale alla creazione del nuovo stato − che sul piano dei rapporti fra Serbia e Montenegro ricalcava alquanto quelli esistenti nella I. di Tito − fu generalmente negativa: dall'ONU alla CSCE tutti gli organismi internazionali non riconoscevano l'ereditarietà del seggio iugoslavo alla nuova federazione serbo-montenegrina che, pertanto, veniva esclusa o invitata a presentare una nuova domanda di ammissione. L'adozione, di lì a poco, delle sanzioni internazionali (30 maggio) accentuava l'isolamento di Milošević e Bulatović.
All'inizio dell'estate a Belgrado fu formato il primo governo federale guidato dal serbo-americano M. Panić. In breve, divenne manifesta la profonda divisione politica del paese. Da un lato, infatti, Panić tentò di acquistare un credito internazionale moltiplicando i viaggi all'estero, lanciando l'idea di una Comunità economica balcanica, dichiarandosi disponibile a riconoscere Slovenia e Croazia, senza tuttavia ottenere alcun sostegno internazionale; dall'altro, si accentuarono le distanze fra Milošević e il neo-presidente federale D. Čosić, un tempo ispiratore della politica del leader serbo. Infine, l'equilibrio dei poteri nella stessa federazione fu percorso da controversie nazionali serbo-montenegrine. In realtà, le crescenti pressioni internazionali hanno posto la Serbia di fronte a un dramma epocale: abbandonare la prospettiva dell'unità con Bosnia e Krajina vorrebbe dire, per essi, tornare ai confini del 1878 e rinunciare a una tensione nazionale durata 150 anni. Il timore di un tale disastro ha determinato tanto l'accanimento in guerra dei Serbi quanto la fragilità dell'opposizione a Milošević, il quale − sia pure con alcune contestazioni per la regolarità del voto − è riuscito a vincere le presidenziali in Serbia del 20 dicembre 1992, sbaragliando il suo avversario Panić che non era riuscito a spezzare l'isolamento del suo paese. Panić abbandonò poi anche la carica di presidente del consiglio il 29 dicembre 1992.
D'altra parte, il furore della guerra in Bosnia non era parso nuocere agli obiettivi bellici di Belgrado. Certo, le operazioni di ''pulizia etnica'' − drammaticamente coerenti con le ragioni di fondo ormai assunte dalla guerra −, l'istituzione di disumani campi di reclusione, le notizie sempre più frequenti di stupri a danno delle donne musulmane hanno acuito la riprovazione del mondo contro i Serbi. Ciò nonostante, già nel corso della conferenza internazionale svoltasi a Londra il 26-28 agosto 1992 e, quindi, con l'apertura delle trattative ginevrine il 2 gennaio 1993 per la pace in Bosnia-Erzegovina sulla base di un progetto steso dai mediatori internazionali C. Vance e D. Owen, era apparsa evidente la tendenza della diplomazia occidentale di voler andare incontro alle convergenti esigenze di Zagabria e Belgrado anche a costo di sacrificare i Musulmani.
Il piano, che prevedeva la divisione della Bosnia-Erzegovina in dieci province largamente autonome, fu accettato dalle tre parti in conflitto nel febbraio 1993, ma le conquiste militari dei Serbi durante i negoziati lo resero inoperante per l'evoluzione della situazione sul terreno. Inoltre il progetto era stato respinto dai Serbi-bosniaci, nonostante le pressioni operate su di loro dal leader serbo Milošević. Quest'ultimo, infatti, al di là di uno scontato appoggio ai Serbi presenti nelle diverse regioni del paese, doveva fare i conti sia con la posizione degli Stati Uniti, che minacciavano un intervento militare con la copertura dell'ONU, sia con gli effetti dell'embargo che cominciavano a farsi sentire. Un nuovo piano, presentato nel giugno 1993, che prevedeva la divisione della Bosnia-Erzegovina in tre repubbliche etnicamente omogenee (v. oltre: Bosnia), fu accettato dai Croati e dai Serbi, ma suscitò da parte dei Musulmani la richiesta di uno sbocco al mare.
Il 1° giugno 1993 l'Assemblea federale rimosse dal suo incarico il presidente Čosić accusato, fra l'altro, di aver condotto una politica estera, in particolare nei confronti della Croazia, senza il consenso del Parlamento. Il suo allontanamento fu seguito da imponenti manifestazioni di protesta a Belgrado. Il presidente del Parlamento federale M. Radulovič assunse temporaneamente le funzioni presidenziali. Il 25 giugno fu eletto al suo posto Z. Lilic, già presidente del Parlamento serbo fin dal gennaio del 1993. Sempre nel giugno 1993 si inasprirono i rapporti con la Croazia (v. oltre) per il referendum indetto dalla maggioranza serba in Krajina che chiedeva la riunificazione della regione agli altri territori serbi.
Nel frattempo la situazione economica e politica della ''piccola I.'' si faceva disastrosa. Alla caduta del tenore di vita si era aggiunta un'iperinflazione che già a quell'epoca superava il 20.000% annuo; la criminalità comune (ma con risvolti politici) aveva intensificato i propri traffici illegali, i furti e gli omicidi; le relazioni serbo-montenegrine si erano fatte sempre più difficili per il timore dei secondi di essere investiti direttamente dal conflitto armato; le banche private dopo aver compiuto numerose speculazioni avevano iniziato a fallire, con ripercussioni disastrose sui risparmi in valuta della popolazione; la disoccupazione era cresciuta e, con essa, gli scioperi.
Bibl.: S. Clissold, Storia della Jugoslavia, Torino 1969; B. Salvi, Il movimento nazionale e politico degli Sloveni e dei Croati, Trieste 1971; S. Bianchini, Nazionalismo croato e autogestione, Milano 1983; Id., La diversità socialista in Jugoslavia, Trieste 1984; J. Pleterski, Nacije, Jugoslavija, revolucija ("Nazioni, Iugoslavia, rivoluzione"), Belgrado 1985; S. Bianchini, Tito, Stalin e i contadini, Milano 1988; AA.VV., L'Enigma jugoslavo. Le ragioni della crisi, ivi 1988; Z. Golubović, Kriza identiteta jugoslovenskog društva ("La crisi d'identità della società iugoslava"), Belgrado 1988; H.F. Lydall, Yugoslavia in crisis, Oxford 1989; B. Horvat, Kosovsko pitanje ("La questione del Kosovo"), Zagabria 1989; V. Goati, Jugoslavija na prekretnici. Od monizma do gradjanskog rata ("La Iugoslavia alla svolta. Dal monismo alla guerra civile"), Belgrado 1990; L. Székely, Jugoslavija: struktura raspadanja ("La Iugoslavia. Struttura della disgregazione"), ivi 1990; J. Pirjevec, Il gran rifiuto, Trieste 1990; M. Dogo, Kosovo. Albanesi e Serbi: le radici del conflitto, Cosenza 1992; S. Bianchini, Sarajevo, le radici dell'odio. Identità e destino dei popoli balcanici, Roma 1993.
Bosnia-Erzegovina (v. bosnia, VII, p. 551; erzegovina, XIV, p. 282; bosnia-erzegovina, App. II, i, p. 441; III, i, p. 255; iugoslavia, App. IV, ii, p. 275). − Già repubblica della Federazione iugoslava, si è costituita in stato indipendente, riconosciuto dalla Comunità europea e dagli Stati Uniti, il 6 aprile 1992. Secondo i dati del censimento del 1991, contava 4.364.574 ab. (dei quali il 43,7% Musulmani, il 31,4% Serbi, e il 17,3% Croati) su un territorio di 51.129 km2, virtualmente senza sbocco al mare, con un tratto costiero di soli 20 km privo di porti. Capitale è Sarajevo (448.000 ab. nel 1981).
La guerra civile, infuriata fra Serbi, Croati e componente musulmana a partire dal giugno 1991, ha devastato il paese, ha provocato decine di migliaia di morti, ha raso al suolo città (la stessa Sarajevo è stata gravemente danneggiata) e borghi rurali, ha distrutto strade, ponti e ferrovie e ha causato l'arresto di ogni forma di produzione economica organizzata. Più dei due terzi dell'apparato industriale sono andati distrutti e la produzione di energia elettrica è stata praticamente azzerata. La popolazione vive di una magra agricoltura e viene largamente approvvigionata dagli aiuti internazionali. Antecedentemente ai fatti bellici l'economia della Bosnia-Erzegovina era basata sull'agricoltura, sull'allevamento e sullo sfruttamento delle risorse forestali (7 milioni di m3 di legname nel 1989). La politica del governo federale iugoslavo aveva incentivato lo sviluppo industriale e nel corso degli anni Settanta e Ottanta gli investimenti erano stati prevalentemente concentrati nella valle della Sava, lungo il confine settentrionale della repubblica. Fra le attività sorte si ricordano la produzione di armamenti, autoveicoli e tessuti. Industria siderurgica a Zenica.
Storia. − La Bosnia-Erzegovina entrò nel 1918 a far parte del nuovo regno dei Serbi, Croati e Sloveni, mentre ancora esistevano nelle campagne rapporti sociali di tipo feudale, divenuti presto fonte di ribellioni da parte di contadini serbi e croati contro i proprietari terrieri musulmani. Tale situazione favorì nel tempo l'identificazione culturale e nazionale dei Musulmani (indipendentemente dallo stato sociale di appartenenza). Grazie soprattutto all'attività dell'Organizzazione musulmana iugoslava (JMO, Jugoslavenska Muslimanska Organizacija), diretta da M. Spaho, si radicò inoltre l'aspirazione a una collocazione autonoma della Bosnia-Erzegovina nel regno iugoslavo. In quegli anni − sia per il dilagare della corruzione, sia per le promesse di Belgrado in favore della tutela dei diritti religiosi islamici − la JMO costituì il più solido supporto non serbo alla monarchia e fu determinante nell'assicurare l'approvazione della costituzione centralista del 1921. Ciò nonostante, il colpo di stato del 1929 costrinse anche il movimento musulmano a entrare nella illegalità. Poco dopo, una radicale riforma amministrativa introdusse le banovine (provincie) e spezzò l'integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina, suddividendola in quattro parti, di cui due aggregate alla Dalmazia e al Montenegro. Con il compromesso serbo-croato del 1939 altri territori della Bosnia-Erzegovina vennero assegnati alla Croazia.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale e la rapida disgregazione della I. nel 1941 comportò poi l'inserimento di tutta la Bosnia-Erzegovina nello stato fascista croato di A. Pavelić. La regione fu teatro di terribili eccidi a sfondo etnico perpetrati soprattutto dagli ustaša contro i Serbi e, quando le circostanze lo consentivano, anche da četnici serbi contro i Croati, nonché dai Musulmani contro gli altri gruppi. D'altra parte la Bosnia-Erzegovina, grazie anche alla favorevole struttura morfologica del territorio, divenne il cuore della resistenza antinazista guidata da Tito. La liberazione di vasti territori rese possibile nel 1943, a Jajce, la riunione del Consiglio antifascista che decise la rinascita della I. come stato federale, in cui la Bosnia-Erzegovina avrebbe ottenuto lo status di repubblica. Dopo il 1945, l'esercizio della dittatura comunista si rivelò particolarmente pesante in Bosnia-Erzegovina, e nel 1949 un gruppo illegale denominato "Giovani musulmani" (fra i quali si trovava A. Izetbegović) fu scoperto e condannato per propaganda nazionalista e anticomunista. Sotto il profilo economico-sociale la regione conobbe da allora una profonda trasformazione: urbanizzazione, alfabetizzazione, laicizzazione divennero caratteristiche visibili di una società in grande fermento.
Negli anni Sessanta i Musulmani ottennero il riconoscimento di nazione, mentre fra loro emergevano nuove tendenze liberali. Nel 1972, però, tali tendenze furono travolte dalla più ampia crisi nazionale e di élites politiche scoppiata a Zagabria, a Belgrado e a Lubiana. Anche a Sarajevo dirigenti come O. Karabegović e A. Humo furono costretti da Tito alle dimissioni. Salì allora al potere un gruppo dirigente affarista e inadeguato, che fu presto travolto dalla crisi degli anni Ottanta, rivelatasi particolarmente devastante per la Bosnia-Erzegovina anche a causa del grave scandalo finanziario legato all'impresa Agrokomerc (1987). La scomparsa della Lega dei comunisti e le elezioni pluripartitiche del novembre 1990 ebbero per la Bosnia-Erzegovina conseguenze fatali a causa del forte intreccio etnico della repubblica: nel 1992 solo 18 comuni su 110 erano etnicamente puri all'80% in un contesto in cui vivevano il 43,7% di Musulmani, il 31,4% di Serbi, il 17,3% di Croati, oltre a ''iugoslavi'', ebrei e altri gruppi etnici. Di conseguenza la vittoria di ''rappresentanze etniche'' dei Musulmani, dei Serbi e dei Croati rese la repubblica ingovernabile, mentre l'unità iugoslava veniva rapidamente meno. La decisione del nuovo presidente della Repubblica, Izetbegović, di puntare sull'indipendenza del paese nella speranza di mantenerlo unito ma, al tempo stesso, di rifiutare qualsiasi forma confederativa con Belgrado si scontrò con l'opposizione dei Serbi di Bosnia, che non presero parte al referendum sulla sovranità della repubblica indetto il 29 febbraio 1992.
Nei giorni successivi si moltiplicarono gli scontri e gruppi di Serbi eressero barricate a Sarajevo. Il 6 aprile la CEE riconobbe la sovranità della Bosnia, mentre a Sarajevo migliaia di manifestanti inneggiavano alla pace, a Tito e ad A. Marković. Per tutta risposta, il 7 aprile R. Karadžić, il leader dei Serbi di Bosnia, proclamava la costituzione di una distinta Repubblica serba. Il paese precipitava così in una spaventosa guerra civile, a cui presero parte le truppe dell'ex-esercito iugoslavo (ora pro serbo) ancora stanziate in Bosnia, mercenari di ogni tipo, truppe regolari e volontari provenienti dalla Croazia, bande di criminali comuni e truppe bosniaco-musulmane costituite sul momento.
Il 2 luglio M. Boban, leader dell'HDZ per la Bosnia, proclamava a sua volta, nell'Erzegovina occidentale, la nascita di una nuova repubblica croata (l'Herceg-Bosna): il pericolo di una spartizione serbo-croata − per la quale da mesi erano iniziate trattative segrete fra Zagabria e Belgrado − parve delinearsi concretamente all'orizzonte. Del resto, sui campi di battaglia i Musulmani vennero presto travolti dai Serbi, assai meglio armati, e che in pochi mesi riuscirono a prendere il controllo di quasi il 70% del territorio. A loro volta i Croati, formalmente alleati dei Musulmani, si attestarono nell'Erzegovina occidentale dove introdussero la loro moneta e, poco dopo, si trovarono in conflitto militare con i Musulmani.
Numerosi campi di concentramento vennero allestiti da tutte le parti in causa e ciascuna fu protagonista di episodi truci, benché una maggior determinazione e una decisa propensione a realizzare la ''pulizia etnica'' con la distruzione, lo sterminio o la costrizione alla fuga della popolazione non serba fu dimostrata proprio dalle truppe serbe. La devastazione della Bosnia, delle sue città e del suo complesso tessuto etnico non si è mai attenuata nel corso del 1992, nonostante ripetuti tentativi di mediazione diplomatica e l'infittirsi di minacce d'intervento militare antiserbo da parte dei paesi occidentali e di quelli islamici.
In realtà, la diplomazia occidentale − conscia degli enormi pericoli che avrebbe potuto riservare un intervento militare − preferì insistere sulle trattative. Gli Inglesi si fecero promotori di una conferenza internazionale, convocata a Londra il 26-28 agosto 1992, dove peraltro prevalse la tendenza ad accettare la spartizione serbo-croata della Bosnia-Erzegovina. Ai Musulmani non restava, così, che continuare la guerra, mentre i Croati consolidavano le proprie posizioni e i Serbi lanciavano numerose offensive volte ad aprire dei corridoi in modo da mettere in comunicazione diretta tutti i territori sotto il loro controlo. Ancora una volta la comunità internazionale alzava impotente la voce: l'ONU minacciava di inasprire le sanzioni alla Serbia e il 9 ottobre 1992 impose il divieto di volo nello spazio aereo della Bosnia-Erzegovina.
In un clima sempre più confuso, il 2 gennaio 1993 si aprì a Ginevra una nuova trattativa sul futuro della Bosnia, tenacemente voluta dal segretario generale dell'ONU B. Boutros Ghali e con la mediazione di C. Vance e D. Owen. Fu allora sottoposto alle parti in conflitto un progetto di organizzazione statuale della Bosnia, articolato in dieci cantoni ai quali sarebbero state attribuite ampie autonomie. I cantoni obbedivano per lo più a criteri etnici e rispecchiavano in parte i mutamenti apportati dalla guerra: svantaggiavano così i Musulmani, mentre favorivano i Serbi e soprattutto i Croati. Questi ultimi decidevano, infatti, di firmare l'accordo, mentre − per opposte ragioni − si opponevano a esso tanto i Musulmani (favorevoli a uno stato unitario e accentrato), quanto i Serbi (orientati ad accrescere le autonomie dei cantoni in vista di una successiva secessione).
Data la lontananza delle posizioni, le trattative si trascinavano per mesi, mentre la ferocia della guerra in Bosnia non diminuiva: eccidi, migrazioni di profughi, stupri di massa soprattutto contro le donne musulmane inducevano allora l'ONU a istituire il 22 febbraio 1993 un tribunale sui crimini di guerra nella ex I., mentre gli Stati Uniti iniziavano un ponte aereo per rifornire di cibo e medicinali − sia pure con alterne fortune − la popolazione civile assediata dai Serbi e, in genere, quanti erano ormai giunti al limite della sopravvivenza a causa della rigidità dell'inverno e della fame. Nel maggio 1993 C. Vance fu sostituito dal diplomatico norvegese T. Stoltenberg, già ministro degli Esteri del suo paese, che insieme a D. Owen mise a punto un nuovo piano che teneva conto delle conquiste territoriali dei Serbi-bosniaci. Questo piano prevedeva la divisione della Bosnia-Erzegovina in tre repubbliche confederate in un'Unione, ciascuna delle quali risultava omogenea dal punto di vista etnico. Sotto il profilo costituzionale, per ogni repubblica il piano prevedeva un diritto di veto al Parlamento dell'Unione, composto di 120 deputati provenienti per un terzo da ciascuna delle tre repubbliche. L'Unione sarebbe stata diretta da una presidenza collegiale composta dai presidenti delle tre repubbliche. Accettato dai Croati e dai Serbi il piano suscitò le proteste dei Musulmani per l'esiguità del territorio loro accordato e per la mancanza di uno sbocco al mare. Alla fine di settembre 1993 i Croati accettarono di cedere ai Musulmani la sovranità sul porto fluviale di Celjevo e il libero uso parziale del porto di Ploce per 99 anni. Il presidente bosniaco A. Izetbegović, che si dichiarava personalmente insoddisfatto, accettava di portare la proposta al Parlamento bosniaco.
Bibl.: A. Purivatra, Jugoslovenska muslimanska Organizacija u političkom životu kraljevine Srba, Hrvata i Slovenaca ("L'Organizzazione musulmana iugoslava nella vita politica del regno dei Serbi, Croati e Sloveni"), Sarajevo 1977; A. Isaković, O ''nacionaliziranju'' muslimana ("Sul farsi nazione dei Musulmani"), Zagabria 1990; S. Trhulj, Mladi Muslimani ("I giovani musulmani"), ivi 1991.
Croazia (v. croazia-slavonia, XI, p. 990; croazia, App. II, I, p. 731; III, I, p. 455; iugoslavia, App. IV, II, p. 275). - Già repubblica socialista della Federazione iugoslava, la Croazia costituisce una repubblica indipendente dal 26 giugno 1991, data in cui ha ufficialmente dichiarato l'avvio del processo di dissociazione dalla Federazione. Su una superficie di 56.538 km2 la Croazia contava, nel 1991, 4.763.941 ab. (84,3 ab./km2). Secondo i risultati provvisori del censimento 1991 il 77,9% della popolazione era composto da Croati. Un'importante minoranza serba (12,2%) si trova prevalentemente concentrata in aree di confine con la Bosnia-Erzegovina. La capitale, Zagabria, contava 706.700 ab. nel 1991.
Prima della guerra civile, la Croazia poteva contare su un'economia relativamente prospera, e contribuiva a produrre il 25% circa del prodotto interno lordo della I., secondo stime occidentali. Determinante era l'apporto del turismo (82% del movimento turistico totale dell'ex Federazione), prevalentemente concentrato sulla costa dalmata. I rilevanti danni subiti dalle infrastrutture turistiche e dalle vie di comunicazione e il protrarsi del conflitto hanno precipitato questo settore in una crisi profonda. La guerra civile ha accentuato drammaticamente la crisi degli altri settori dell'economia, già da diversi anni affetti da stagnazione e produzioni in declino, in conseguenza delle difficoltà connesse con la transizione a un'economia orientata verso il mercato e, più in generale, della mancanza di una coerente politica economica da parte del governo centrale.
La Croazia può contare su una produzione di fonti energetiche interne di modesta entità (2,7 milioni di t di petrolio e 2 miliardi di m3 di gas naturale). Il più importante distretto industriale è imperniato su Zagabria (industrie alimentari, elettriche, metalmeccaniche, tessili, chimiche, farmaceutiche), mentre l'industria di base è presente a Sisak (siderurgia, raffinazione del petrolio), Slavonski Brod (siderurgia), Spalato e Fiume (chimica e petrolchimica). La rete ferroviaria ha uno sviluppo di 2425 km, elettrificati per il 35%. Nel corso del 1990 per gli otto aeroporti internazionali della Croazia erano transitati 4,6 milioni di passeggeri.Paolo Migliorini
Storia. - La resistenza partigiana, diretta da Tito e a cui partecipò una crescente schiera di Croati, specie dopo il 1942-43, permise un radicale mutamento della posizione internazionale della Croazia alla fine del conflitto, impedendole di trovarsi tra i paesi sconfitti a causa del peraltro effimero stato croato di A. Pavelić. Il ritorno, dunque, della Croazia come repubblica autonoma in una rinata I. federale − che, al tempo stesso, permetteva ai Serbi di ritrovarsi in un medesimo stato − attenuò il tragico ricordo dei sistematici eccidi compiuti dagli ustaša soprattutto in Krajina e Bosnia contro gli stessi Serbi. Tuttavia, già negli anni Trenta e Quaranta, fra gli stessi comunisti croati, si erano venute formando un'ala più esplicitamente unitaria e ''iugoslava'' (impersonata da Tito) e un'altra, assai meno percepibile al tempo, ma che si riprometteva l'obiettivo primario di costituire una Croazia comunista. Ciò spiega l'iniziale fedeltà (incoraggiata dal Comintern e durata dall'aprile al giugno 1941) di parte dei comunisti croati nei confronti dello stato ustaša di Pavelić, così come spiega il successivo attivismo, fra i partigiani croati comunisti, di esponenti ''nazionali'' quali A. Hebrang e F. Tudjman. La preponderante personalità di Tito assicurò, comunque, la vittoria ai primi, impedendo a lungo ai secondi di emergere.
Negli anni Sessanta, il rinnovamento dell'autogestione spinse V. Bakarić, un croato molto vicino a Tito, a ingaggiare una dura battaglia con le correnti ortodosse del partito per promuovere una profonda riforma economica che aprisse le porte all'economia di mercato. La sua vittoria, nel 1965, favorì un rinnovamento profondo in tutto il paese e la Croazia non tardò a trarne vantaggi grazie al turismo, alle rimesse degli emigrati e alle commesse per costruzioni navali provenienti dal Terzo Mondo. I massimi dirigenti di Zagabria, M. Tripalo e S. Dabčević-Kučar, insistettero allora a favore del decentramento e dell'espansione della democrazia, mentre gli squilibri sociali e interetnici provocavano crescenti tensioni. Nel 1966, la scoperta di gravi abusi di potere commessi dal serbo A. Ranković, poi allontanato dal potere, riaprì ferite che si credevano ormai sanate. Alcuni intellettuali legati all'associazione Matica Hrvatska, fra questi F. Tudjman, S. Djogan, V. Gotovac, M. Veselica, iniziarono a sollevare problemi relativi alla lingua, alla storia, alla cultura e agli interessi economici della Croazia, dando presto vita a un movimento di carattere nazionalista, denominato Maspok. Nel 1971, in occasione anche di una revisione della Costituzione federale, la pressione di costoro si accentuò, provocando reazioni allarmate presso i Serbi della Krajina che tornarono ad armarsi.
I fantasmi della seconda guerra mondiale erano riapparsi e ciò spinse Tito a intervenire con la forza, imponendo le dimissioni a Tripalo e alla Dabčević-Kučar, nonché lo scioglimento del Maspok e l'arresto dei suoi maggiori esponenti. Questa crisi costituì un vero shock per la Croazia, nonostante larghissime autonomie fossero state concesse alle repubbliche nel 1974. Una rigida cortina di silenzio si abbatté su quelle vicende, e proprio il loro ricordo indusse a un lungo, imbarazzato silenzio i dirigenti croati di fronte al progressivo affermarsi dei nazionalismi negli anni Ottanta. Solo nel 1989 essi avviarono processi di democratizzazione analoghi a quelli da tempo in atto in Slovenia. La dissoluzione del comunismo nel gennaio 1990 e le elezioni libere di aprile li colsero, però, ancora impreparati e in ritardo, facilitando la vittoria alla Comunità indipendente croata guidata da Tudjman. Questi rilanciò il nazionalismo separatista, ricorrendo a ripetuti gesti unilaterali, fino alla dichiarazione d'indipendenza del 25 giugno 1991. Come nel 1971, ma in forme assai più gravi per l'affermazione nazionalista in Serbia, i Serbi della Krajina avviarono a loro volta un processo di distacco da Zagabria. Lo scoppio della guerra civile alla fine di giugno aprì un nuovo baratro nei rapporti serbo-croati e provocò a Zagabria immensi danni, nonché la perdita della Krajina, nonostante il riconoscimento internazionale (15 gennaio 1992) della sovranità statuale croata avesse riguardato l'intero territorio delineato ai tempi di Tito. Lo spirito di rivalsa e di vendetta si è da allora ulteriormente potenziato e se la guerra, nella prima metà del 1992, si è ridotta d'intensità ciò non vuol dire che i Croati abbiano rinunciato alla Krajina. Al contrario, essi hanno mantenuto viva l'aspirazione a riconquistarla. Nel frattempo, l'economia del paese è precipitata, le industrie hanno ridotto la produzione al 40% delle proprie capacità, l'inflazione si è mantenuta sul 150-170% annuo, la criminalità comune è risultata in netto aumento. Tuttavia, il clima di guerra ha favorito il partito di Tudjman che, alle elezioni politiche convocate in tutta fretta per il 2 agosto 1992, è stato premiato con la rielezione del proprio leader e con il 42% dei voti e il 67% dei seggi.
Da allora, un nuovo giro di vite è stato imposto al paese che ha sofferto di una drastica riduzione della libertà di stampa, mentre non si è attenuato lo stato generale di anarchia, il clima di odio e il senso di insicurezza nella popolazione. Tali tendenze si sono trovate a convivere, sul piano amministrativo, con le spinte centralizzatrici espresse dal partito al governo e che si sono tradotte in una riforma dei poteri locali imperniata sulla costituzione di contee prive di reale autonomia.
Tuttavia, nonostante il prevalere di tale orientamento, il regionalismo ha iniziato a diffondersi in varie parti del paese, in Dalmazia, nel Fiumano e nel Medjimurje, ma soprattutto in Istria. Qui, la presenza di un tessuto sociale multietnico ha permesso la nascita di un raggruppamento, la Dieta democratica istriana, in cui hanno trovato modo di esprimersi anche le esigenze della piccola minoranza italiana, nei confronti della quale il partito di Tudjman è venuto assumendo un atteggiamento sempre più aggressivo e dettato da un insieme complesso di ragioni.
In effetti, l'HDZ aveva visto crescere, nel tempo, le sue difficoltà, non tanto per il peggioramento dell'economia (in parte imputabile al perdurare dello stato di guerra nel paese), quanto per la perdita della Krajina, dove dal marzo 1992 erano stati dislocati 14.000 caschi blu. Ciò aveva impedito i collegamenti via terra fra Zagabria e Spalato e trasformato la Dalmazia in una sorta di isola. Nel frattempo, le relazioni con la Slovenia erano venute rapidamente peggiorando, sia per i conflitti di natura economica e doganale, sia a causa di richieste territoriali avanzate da Lubiana. Il sostegno, anche militare, che il governo di Zagabria aveva accordato ai Croati dell'Erzegovina e il malcelato desiderio di annettere parte della Bosnia gli avevano inoltre alienato in buona misura le simpatie internazionali ottenute l'anno precedente, allorché era sottoposto alla pressione militare serba.
Sicché, la polemica contro gli Italiani d'Istria, e in favore della ''croatizzazione'' della penisola, aveva assunto, in questo contesto, un significato prevalentemente ''interno'', volto a placare − con un nazionalismo sempre più esasperato − il pericolo che una parte dell'elettorato dell'HDZ si spostasse ancora più a destra in favore del Partito croato del diritto, diretto da D. Paraga e di orientamento filo-ustaša. Fu così che, alla vigilia delle elezioni amministrative del 7 febbraio 1993, Tudjman scatenò un attacco nella Krajina meridionale che gli permise di riprendere il controllo del ponte di Maslenica e della diga di Peruča: l'iniziativa, però, non ottenne il risultato sperato sul piano interno e proprio in Istria l'HDZ subì alle elezioni una cocente sconfitta a vantaggio della Dieta democratica. Sul piano internazionale, inoltre, quell'atto di guerra ha offerto il destro alla Russia per modificare in parte il proprio atteggiamento chiedendo l'applicazione delle sanzioni anche alla Croazia e la riduzione di quelle alla Serbia.
Di fatto, agli occhi del mondo, quell'impresa militare ha compromesso l'immagine del piccolo paese slavo, rendendo evidenti tanto la sua instabilità, quanto i profondi limiti democratici che ne condizionavano la transizione al post-comunismo.
Il 19-20 giugno 1993 si svolse in Krajina un referendum, già dichiarato non valido dalla Corte costituzionale croata fin dal 16 giugno, indetto dall'autoproclamatasi ''Repubblica della Krajina serba'' per la riunificazione con la vicina ''Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina'' e gli altri territori serbi. Nel settembre 1993 i Croati di Bosnia-Erzegovina, appoggiati da Zagabria, rifiutarono di cedere ai Musulmani una città della costa dalmata che avrebbe rappresentato lo sbocco al mare richiesto da questi ultimi. Il loro rifiuto rischiava di far fallire anche il piano Owen-Stoltenberg, ormai accettato dai Musulmani e dai Serbi.
Bibl.: S. Bianchini, Nazionalismo croato e autogestione, Milano 1983; M. Tripalo, Hrvatsko proljeće ("Primavera croata"), Zagabria 1989; Z. Yuković, Od deformacije SDB do Maspoka i liberalizma ("Dalle deformazioni dell'SDB al Maspok e al liberalismo"), Belgrado 1989; F. Tudjman, Bespuća povijesne zbiljnosti ("Assurdità della realtà storica"), Zagabria 1990.
Per le altre repubbliche già appartenenti alla federazione iugoslava e proclamatesi indipendenti, v. macedonia e slovenia, in questa Appendice.
Letteratura. - Presso gli Sloveni, gli anni Ottanta sono contrassegnati in poesia da una notevole varietà di orientamenti sia di gruppi che di singole individualità poetiche.
Dopo l'affermazione dei rappresentanti della neoavanguardia negli anni Sessanta e Settanta (G. Strniša, V. Taufer, D. Zajc, T. Šalamun, N. Grafenauer, J. Snoj, M. Jesih), il decennio attuale segna un forte recupero dei valori della tradizione. Tra le diverse correnti, particolare rilievo assumono quella del neorealismo, che si avvale altresì delle esperienze modernistiche del periodo precedente (E. Fritz, T. Kuntner, A. Brvar), e quella caratterizzata da una ripresa in chiave moderna di stili storici: I. Svetina (n. 1948), B.A. Novak (n. 1953) e altri. Nelle ultime leve, si affermano poeti con fisionomie particolari, che non permettono d'inserirli nei due orientamenti maggiori: A. Ihan, dall'ampia scelta tematica, A. Debeljak, dall'ispirazione di carattere esistenziale, J. Potokar, B. Muzetić, M. Haderlap.
La prosa è caratterizzata da un forte atteggiamento di rifiuto nei confronti delle vecchie concezioni tanto della letteratura che della vita. Temi dominanti sono la guerra e la rivoluzione, rappresentate attraverso il prisma di esperienze personali, con un rapporto più sottile tra il singolo e la storia.
Negli anni Ottanta si conclude il trapasso, iniziato nella seconda metà del decennio precedente, tra i rappresentanti della narrativa d'impianto critico − B. Hofman (n. 1929), V. Kavčič (n. 1932), R. Šeligo (n. 1935), D. Jančar (n. 1948), F. Lipuš (n. 1957) − e la nuova generazione degli scrittori nati intorno agli inizi degli anni Sessanta che inaugura una stagione innovativa, radicalizzando gli ideali della generazione precedente, con un chiaro e insistito orientamento antirealistico e una voluta commistione di stili e di generi: A. Blatnik, F. Lainšček, F. Frančič, A. Morovič, I. Zabel, L. Gačnik, B. Seliškar, J. Virk, V. Žabot, L.B. Njatin, I. Bratož e altri.
In area croata, due sono attualmente le correnti poetiche di maggior rilievo: da un lato, quella dei cosiddetti concretisti semantici, rappresentata dalla generazione dei poeti che esordisce a metà degli anni Settanta, riprendendo gli sperimentalismi verbali e costruttivi dei poeti precedenti, e che ha tra i suoi rappresentanti maggiori M. Valent (n. 1948), B. Maleš (n. 1949), A. Žagar (n. 1954), J. Zamoda (n. 1954), B. Čegec (n. 1957); dall'altro, quella che costruisce i suoi testi su freddure legate a giochi di parole: D. Mazur (n. 1951), R. Igrić (n. 1951). Accanto a queste due correnti maggiori comincia a delinearsene una terza, formata da poeti di orientamento spiritualistico: D. Štambuk (n. 1950), N. Jurica (n. 1952) e altri.
Nel campo della prosa, la narrativa croata mostra un particolare interesse a integrare le tecniche della produzione di più immediato consumo (come per es. il genere poliziesco) nelle forme più alte della letteratura, oscillando tra un orientamento fantastico e uno diretto all'analisi di precise situazioni storiche e sociali.
Così P. Pavličić (n. 1946), dopo aver esordito come scrittore sperimentale, si afferma come autore di largo successo con romanzi costruiti sui principi del genere poliziesco. Analoga evoluzione seguono D. Kekanović (n. 1947) e G. Tribuson (n. 1948). Modernamente ispirati nell'uso delle più diverse tecniche compositive sono inoltre D. Ugrešić (n. 1949), V. Barbieri (n. 1950), P. Kvesić (n. 1950), D. Slamnig (n. 1956) e numerosi altri.
Presso i Serbi, la produzione poetica si mostra ricca di tensioni interne, con orientamenti diversi, in parte non ancora ben definiti.
Infatti poeti come S. Rakitić (n. 1940) e D. Brajković (n. 1947) proseguono, con altri, la tradizione lirica, mentre autori come Z. Kostić (n. 1950) sviluppano una linea d'interpretazione parodistica del mito, e poeti come R. Livada (n. 1948) coltivano una poesia tutta rivolta verso la realtà. Negli anni più recenti, si è presentata un'ultima leva di poeti che non hanno però ancora delineato chiaramente la propria fisionomia.
Nell'ambito della prosa, l'orientamento maggiore degli anni Settanta e della prima metà del decennio Ottanta è caratterizzato da una decisa attenzione rivolta alla realtà umana, con un accentuato interesse per i temi regionali, le situazioni locali, le periferie urbane. Tra i rappresentanti maggiori: B. Ćosić (n. 1932), S. Selenić (n. 1933), V. Stojšin (n. 1935), V. Stefanović (n. 1942), R. Adamović (n. 1942), M. Dimić (n. 1944), M. Savić (n. 1946), R. Bratić (n. 1948), J. Radulović (n. 1951).
Accanto a questo che resta il maggiore, si precisano altresì orientamenti diversi: per es., il genere del romanzo storico, con temi tratti dal passato nazionale, conosce una nuova fioritura che vede affiancarsi a quelli già consacrati autori come M. Savičević (n. 1934), P. Sarić (n. 1937), D. Nenadić (n. 1940). Si afferma la prosa ispirata alle suggestioni dell'opera di Borges, giocata su temi fantastici, grotteschi, parodistici, con D. Kiš (1935-1989) e M. Pavić (n. 1929). E ancora una narrativa di moderna sensibilità urbana, con M. Kapor (n. 1937), M. Oklopdžić (n. 1948) e altri.
L'orientamento della generazione più recente dei prosatori serbi è diretto verso un tipo di narrativa che abbandona le convenzioni del realismo, con una commistione di elementi saggistici, parodistici, metanarrativi, e ha come capostipite D. Albahari (n. 1948).
In area macedone, gli anni Ottanta consolidano le posizioni conquistate da questa giovane letteratura. Tra gli autori già affermati e sempre produttivi (K. Čašule, B. Koneski, M. Matevski), S. Janevski conferma con numerose opere di grande impegno la sua fama di romanziere di eccezionale fecondità.
In poesia si afferma una generazione di poeti che si esaltano in un ardito gioco di metafore e di innovazioni formali (R. Pavlovski, Č. Jakimovski, A. Vangelov), mentre s'impongono come narratori I. Čapovski, passato con successo al romanzo dopo un esordio poetico, T. Petrovski, attivo anche come poeta, e, nel teatro, T. Arsovski e G. Stefanovski.
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Archeologia. - L'impostazione della ricerca archeologica in I. si orienta verso due indirizzi metodologici, che accomunano gli archeologi delle culture ''illetterate'' della preistoria e dell'età medievale e gli studiosi delle testimonianze della civiltà classica, i primi particolarmente attenti alla definizione etnico-culturale dei complessi archeologici e alla delineazione di sequenze comparate di cronologia relativa, i secondi coinvolti nelle tradizionali problematiche dell'archeologia provinciale del mondo classico, con i fenomeni di influenze, irradiazioni, resistenze, attardamenti culturali e vistose manifestazioni di sincretismo religioso. In seguito all'accumulo dei dati, negli ultimi vent'anni, è divenuta più agile e immediata l'informazione attraverso nuove riviste e pubblicazioni periodiche, mostre e convegni dedicati all'archeologia di specifici ambiti territoriali.
In campo preistorico e protostorico le nuove acquisizioni e la rielaborazione dei vecchi dati hanno consentito, negli anni tra il 1979 e il 1987, di comporre organicamente i quadri archeologici locali in opere monumentali che fungono oggi da fondamentale punto di riferimento alla ricerca. Per quanto riguarda Paleolitico e Mesolitico, un ampio settore delle indagini riguarda aspetti paleontologici grazie alla ricchezza dei resti fossili umani, che hanno consentito la proposta della nuova ipotesi secondo la quale i Neandertaliani si sarebbero sviluppati nella specie umana attuale senza aspetti intermedi. Si continuano a raccogliere abbondanti testimonianze delle industrie musteriana per il Paleolitico Medio, aurignaziana, gravettiana ed epigravettiana per il Paleolitico Superiore.
Elaborazioni di sintesi sono state condotte soprattutto sui dati della Slovenia e delle regioni adriatiche: le evidenze del Paleolitico Inferiore si confrontano con le testimonianze di Šandalja i; del Paleolitico Medio con quelle premusteriane e musteriane di Crvena stijena; del Paleolitico Superiore con Crvena stijena, Badanj, Šandalja ii, Vela spilja, Gospodska pećina; dell'Epipaleolitico con Crvena stijena e Badanj. Sul litorale croato si segnalano i siti paleolitici e mesolitici nelle isole di Cres (Cherso) e Lošinij (Lussino); in Slovenia le recenti acquisizioni della grotta Mamula, di Lozi, di Divje Babe; in Bosnia Erzegovina Badanj si distingue soprattutto per le espressioni figurative delle immagini rupestri, classificate nello stile paleolitico mediterraneo. Tra i più importanti siti mesolitici si profila il complesso di Kula in Serbia.
Allo stato attuale i gruppi neolitici, classificati in diverse sequenze caratterizzanti quattro distinti blocchi territoriali (area centrobalcanica, area adriatica, area di transizione e regioni settentrionali), presentano rapporti diretti e non traumatici con le facies mesolitiche; gli aspetti più interessanti della neolitizzazione si colgono nella cultura di Lepena (da Lepenski Vir), definita oggi protoneolitica, e nelle fasi iniziali di Starčevo (Protostarčevo i), mentre consistenti apporti culturali esterni si colgono solo nel Neolitico Recente.
La pubblicazione dei cospicui dati di Devostin ha arricchito la conoscenza del Neolitico in Serbia, frequentata soprattutto durante il Neolitico Antico (Starčevo) e nel Neolitico Recente (Vinča). Nuovi contributi sulle fasi neolitiche iniziali sono stati apportati in Macedonia, dove si è chiarita l'evoluzione del gruppo Anzabegovo-Vršnik, stabilendo la priorità cronologica della fase Velušina-Porodin: il sito neolitico più antico della Pelagonia, quello di Pešterica, ha motivato la nuova definizione della cultura omonima. Notevoli le evidenze delle strutture abitative neolitiche, con case interrate e seminterrate; lo scavo del ''tell'' di Tumba ha portato alla luce un edificio quadrato (m 9 × 9), interpretato come un tempio medioneolitico. Il Neolitico Antico è ancora ben rappresentato dalla ceramica impressa cardiale del Montenegro (ricerche intensive nelle grotte di Odmut, di Spila e a Beran Krs), che rivela rapporti con le facies antico-neolitiche della ceramica impressa dell'area adriatica (per es., in Istria, Medulin/Medolino); rapporti che continuano nelle fasi più avanzate del Neolitico, come è confermato dalle espressioni della sottofase del gruppo tardoneolitico di Hvar-Lisičici, attestato nelle isole dalmate (importante il sito pluristratificato di Vela spilja a Korčula, dove si è riconosciuta tra l'altro la facies neolitica locale di Vela Luka) e anche a Ravlić in Erzegovina. Le ricerche preistoriche in Dalmazia, condotte negli ultimi anni con il contributo di missioni anglosassoni, rivelano ampie prospettive nella programmazione di progetti d'indagine sul territorio, volti alla comprensione dei modelli insediativi e di gestione territoriale utili al chiarimento di problematiche economico-sociali: il modello d'insediamento stabile ebbe avvio in Dalmazia nel 5°-4° millennio a.C. Nella sequenza cronologico-culturale adriatica, comprendente le culture di Danilo (Neolitico Medio) e di Hvar (Neolitico Recente), s'inseriscono via via nuove evidenze, come quella di Buković (Dalmazia settentrionale), che testimonia una presenza culturale estranea ai contesti locali. Soprattutto nelle fasi recenti del Neolitico, si assiste a fenomeni d'irradiamento dalla costa verso l'interno (si vedano i siti lungo la valle della Neretva). Nelle regioni settentrionali si distinguono le evidenze del Neolitico più evoluto, tra cui quelle delle grotte Trhlovca (Neolitico Medio e Recente) e Ajdovska Jama (Neolitico Recente) in Slovenia, regione in cui è stata riconosciuta una variante della cultura medioneolitica di Sopot nel sito di Podgorač-Ražište.
Tanto per il Neolitico quanto per l'Eneolitico si pongono più chiaramente in evidenza i contatti con diverse aree geografico-culturali, in particolare relazioni egee con il bacino danubiano durante l'Eneolitico. Questa età, caratterizzata in maniera sensibile e precoce dall'attività di estrazione e lavorazione del rame (come è stato dimostrato dagli scavi nella zona mineraria di Rudna Glava), è considerata cruciale per l'origine dei grandi cambiamenti culturali ed etnici in I. e per il fenomeno dell'indoeuropeizzazione (si riconoscono ora quattro cicli di migrazioni nell'ambito del 3° millennio). I legami culturali dei territori orientali della I. con la regione pannonica e di quelli occidentali con l'area alpina emergono chiaramente dall'approfondimento della conoscenza delle più importanti culture eneolitiche, come quella di Lasinja, sviluppata dalla cultura di Lengyel nella I. nordoccidentale, quella di Nakovana sul litorale adriatico, di Baden nella regione danubiano-pannonica, di Kostolac nell'area carpatica, di Vučedol nei bacini di Morava, Sava e Danubio (si veda la precisazione della cronologia di Kostolac sulla base dei dati di Gomolava); tra gli aggiornamenti si segnalano la definizione della cultura di Seče per l'Eneolitico Antico nella Croazia nordoccidentale, la distinzione di varianti locali di Vučedol, il riconoscimento di una facies eneolitica subalpina tra territori sloveni e bosniaci e di una facies caratterizzata dalla ceramica di Odmut per l'Eneolitico evoluto di area centroadriatica.
Tra le prime espressioni dell'età del Bronzo, eredi di culture eneolitiche, si distinguono il gruppo culturale di Vinkovci, successivo alle manifestazioni di Vučedol nella Croazia settentrionale, e le tombe di Varoš in Macedonia, che restituiscono svariate tipologie funerarie; nel corso degli anni Settanta è stata definita la cultura di Cetina sulla base delle tombe a tumulo che caratterizzano le fasi del Bronzo Antico e del Bronzo Medio in ampie regioni, soprattutto litoranee. La media età del Bronzo è rappresentata, in particolare in Istria, Croazia, Bosnia e sulla costa dalmata, dagli insediamenti a castelliere, censiti oggi in iniziative d'indagine sistematica sul territorio, che permettono di constatare frequentazioni continue, dal Bronzo Antico al Ferro evoluto (per es. Velika Gradina presso Varvara) e successive rioccupazioni. Nella regione danubiana delle Porte di Ferro sono stati definiti alcuni aspetti culturali specifici (cultura di Verbicioara, tra 1500 e 1300, e le fasi successive, fino alla più complessa cultura di Gava). Tra le fasi culturali che scandiscono il passaggio tra Bronzo Medio e Tardo si distinguono le culture di Virovitica, in Croazia settentrionale, e di Belegiš, erede di quella di Vatin.
Il maggiore incremento alla ricerca sull'età del Bronzo ha avuto luogo in Slovenia: oltre a una più approfondita comprensione della facies di Ljubljansko Barije, le cui manifestazioni culturali si estenderebbero fino alla fase contraddistinta dalla Litzenkeramik (1750-1600 ca.), le acquisizioni più recenti sono pertinenti alla tarda età del Bronzo e in particolare alle manifestazioni dei Campi d'Urne, grazie alla pubblicazione di materiali di insediamenti già noti (Brinjeva Gora), alla ricerca in nuovi siti, come Oloris (Bronzo Medio e Tardo), Ormož (i-iii = Ha B-C), Ptuj, e alla revisione di sequenze cronologiche (per es. gruppo di Ruše). Gli apporti della cultura dei Campi d'Urne sul territorio iugoslavo sono particolarmente significativi per comprendere i fenomeni di spostamenti di popolazioni che hanno esito negli assetti etnico-culturali riconoscibili nell'età del Ferro (come si constata nel caso dello sviluppo culturale dei Dalmati, dovuto alle diverse influenze dei Campi d'Urne, del gruppo di Glasinac e del sostrato locale durante la tarda età del Bronzo nella Dalmazia centrale, distinta in due fasi: 13°-10° e 10°-8° secolo a.C.).
Nell'età del Ferro si riconoscono raggruppamenti etnico-culturali o più genericamente geografico-culturali divisi tra le diverse regioni: alpina sudorientale e pannonica occidentale (gruppi della Dolenjska, S. Lucia, Notranjska, Ljubljanska, Martijanec-Kaptol, Donja Dolina-Sanski Most); balcanica occidentale e adriatica (gruppi istriano, liburnico, iapodico, della Dalmazia e della Bosnia centrale); danubiana centrale (gruppi di Dalj, Bosut, Srem; Tracocimmeri, Sciti e Tracogeti); balcanica centrale, dove, oltre alla nota cultura di Glasinac, si prendono in considerazione vari distretti territoriali, spesso caratterizzati dall'influenza greca o contraddistinti da un centro d'irradiazione (per es. Ohrid).
Il periodo di transizione tra età del Bronzo ed età del Ferro è ben documentato in Slovenia, dove molti abitati con eredità culturali dei Campi d'Urne vengono oggi datati all'inizio dell'età del Ferro (Ha B2-B3: 9°-8° secolo), e negli insediamenti danubiani delle Porte di Ferro, tra i quali è diffusa la ceramica del cosiddetto stile ''Bassarabi''. Accurate sequenze di cronologia assoluta sono state approntate per alcune regioni, come la Serbia, la Slovenia (si veda la recentissima suddivisione in cinque fasi dell'età del Ferro della Stiria slovena) e per l'Istria (castelliere del Canale di Leme/Limska Gradina e necropoli di Vermo/Beram). Tra le manifestazioni più uniformi del Ferro Antico risultano le necropoli di tumuli, diffuse soprattutto nel 7° e 6° secolo, e i molti insediamenti a castelliere, che fanno luce sulla vita delle tribù distinte su base etnico-territoriale. Per il Ferro Tardo si registrano recenti acquisizioni in Istria (scavo nell'area templare di Nesazio/Nezakcij), mentre si delineano ovunque rigorose sequenze cronologico-culturali (in Serbia si distinguono le fasi £Curug - Beograd i-ii-iii) e si definisce meglio il fenomeno della celtizzazione: infuenze celtiche sono percepibili nella cultura materiale a partire dal 6° secolo e, nel Ferro Tardo, si rende plausibile la definizione culturale celtica di La Tène per le popolazioni della I. settentrionale (Scordisci, Tauri, Daci, gruppo di Idria), mentre si riconosce lo sviluppo di gruppi culturali su basi etniche di tradizione illirica nelle regioni centrali, compresa l'area adriatica (Istri, Iapodi, Autariati, Liburni, Dalmati) e spicca l'importanza della penetrazione ellenistica nella I. meridionale (Daorsi), dove cospicue informazioni sono fornite dalle necropoli macedoni di età ellenistica (per es. Stobi).
L'influenza della cultura greca − oggi rintracciata sin dalla preistoria grazie alla conoscenza della ceramica medioelladica e soprattutto micenea, nel bacino del Vardar e, da ultimo, a Debelo Brdo − risulta determinante nell'organizzazione delle città e delle zecche illiriche (notevoli i contributi delle discipline numismatiche ed epigrafiche alla ricerca). Mentre si è ipotizzato che la prima fase di fortificazione con mura e torri a Narona possa risalire al 4° secolo a.C. (le fasi successive si collocano nel 1° secolo a.C. e nel 2° d.C.), la prosecuzione delle indagini nelle colonie elleniche ha consentito di verificare l'origine greca del sistema di partizione agraria del territorio di Pharos e di raccogliere l'evidenza dei modelli insediativi rurali di età ellenistica e greco-romana, contrapposti alla struttura estesa della villa schiavistica, testimoniata in età romana.
Il fenomeno della romanizzazione del territorio iugoslavo e del contatto con le culture autoctone è illuminato dall'evidenza di continuità abitative in alcuni insediamenti a castelliere, recanti talora tracce della resistenza locale (così per es. a Gradina Crkvina in Croazia) e in villaggi abitati da etnie che subirono l'espansione romana all'interno (insediamento dacico a Zbradila- Korbovo); un aspetto particolare della vita delle popolazioni autoctone è inoltre rivelato dalle numerose testimonianze della sopravvivenza dei culti illirici.
Notevole sviluppo hanno avuto negli ultimi anni le ricerche sull'Adriatico antico: le indagini sul territorio hanno contribuito alla conoscenza di ville rustiche e di impianti produttivi (importanti esempi in Istria, tra i quali la villa di Červac/Cervera e l'officina di Fasana, proprietà della famiglia dei Laecanii), e quelle sottomarine hanno valorizzato le emergenze degli impianti portuali (per es. Aenona/Nin, Nona) e delle imbarcazioni naufragate.
Il proseguimento degli scavi e dell'analisi nei centri urbani della Dalmazia romana ha recato nuovi risultati a Issa (Vis, Lissa), dove la necropoli testimonia la presenza romana dalla metà del 1° secolo a.C.; a Narona (Vid: necropoli, insulae, rete viaria); a Salona (Solin: horreum, necropoli occidentale, strade, complesso termale con ambienti mosaicati dal 2° al 6° secolo); ad Aequum (Čitluk: abitazioni, fortificazione, strutture suburbane); a Scardona (Skradin), a Tragurium (Trogir, Traù), a Iader (Zadar, Zara: necropoli a incinerazione); a Varvaria (Bribir), ad Apsorus (Osor, Ossero), a Fulfinium (Fulfin, Fulfino: foro con portico e basilica di 1° secolo e complesso tardoimperiale). Per la Pannonia, si è approfondita la conoscenza di Andautonia/Šćitarjevo, presso Zagabria (terme). In Istria varie iniziative di scavo sono state indirizzate, oltre che alla perlustrazione di siti noti (per es. nel foro di Nesazio), all'indagine di necropoli, come quelle di Pola (Pula) e di Fontana sotto Pinguente (dal 1° secolo) e di Burle presso Medolino (tardoantica).
Nuovi dati riguardano la capillare rete viaria impiantata dai Romani (in particolare in Slovenia), con le stazioni disseminate lungo i percorsi (per es. Iovia/Ludbreg e Botivo sulla Poetovio-Mursa) e, nelle aree interne e soprattutto lungo il limes danubiano, i complessi fortificati. Un progetto d'indagine intensiva è stato realizzato nella regione serba delle Porte di Ferro; la stratigrafia dei sistemi difensivi illustra la dinamica dell'espansione romana, nel 1° secolo con l'impianto di campi di legionari, in età traianea con la costruzione di fortezze, riutilizzate in età tetrarchica e per lo più in epoca paleobizantina (5°-6° secolo) dopo una fase di distruzioni diffuse: tra le evidenze recenti più significative, la fortezza di Sapaja (forse avamposto di Lederata); il castrum di Čezava (Castrum Novae: 1°-6° secolo); la fortezza di Glamija presso Rtkovo (4°-5° secolo, con cinta esterna del 6° secolo); il campo di Karataš (corrispondente alla statio cataractarum Dianae, con diverse fasi costruttive dal 1° al 6° secolo e con resti delle strutture in legno e terra della prima fase); l'edificio dei principia nella fortezza di Castrum Pontes (Kostol); inoltre diverse fortificazioni tardoantiche e paleobizantine, che testimoniano le attività dell'epoca da Diocleziano a Costantino e poi di Giustiniano.
In Serbia sono stati riportati notevoli risultati a Gamzigrad, identificata con la residenza costruita da Galerio e chiamata (dal nome della madre di questo, Romula) Felix Romuliana (complesso palazzo-mausoleo); si ricordano inoltre gli ampliamenti degli scavi a Singidunum (Belgrado: castrum, necropoli e recentissime testimonianze epigrafiche di un agglomerato tipo vicus nel suburbio); Ulpiana (Gračanica: tumulo funerario del 3° secolo), Viminacium (Svetinja: necropoli, 1°-4° secolo); Mediana presso Naissus (Niš: castellum aquae); Sirmium (Sremska Mitrovica: necropoli, abitazioni di lusso del 2°-3° secolo, impianti produttivi e artigianali del 3°-4° secolo, acquedotto); Siscia (Sisak). Attività di scavo sono proseguite nei centri della Macedonia romana, a Heraclea (villa urbana, suburbium tardoantico); Stobi (imponente teatro di età adrianea), Styberra (Bedem: struttura altoimperiale); Isar-Marvinci (forse la macedone Idomena: con strutture architettoniche e mura romane datate al 181 d.C.).
L'ingente quantità di testimonianze dei periodi paleocristiano e paleobizantino ha favorito iniziative di scavo in numerosissimi complessi basilicali (per es. Stobi, Scupi, Heraclea, Iustiniana Prima/Caričin Grad, Salvium/Urba, Mostar, Mogorjelo, Salona, Zara, Bettica, ecc.) e lo studio finalizzato all'aspetto paleocristiano dei centri urbani (Salona, Emona, con quattro fasi costruttive rappresentate dai complessi delle terme, dell'oratorio, del battistero, della basilica). Accanto alle numerose fortezze, sono stati indagati alcuni insediamenti paleobizantini (Viminacium).
Fervida e intensa, la ricerca in ambito medievale (v. oltre) affronta problematiche di rilievo: l'imbarbarimento delle popolazioni autoctone e romanizzate (sono documentate dalle necropoli le presenze di Goti, Longobardi, Ostrogoti, Gepidi, Alemanni, Avari); la comparsa dell'etnia slava, il movimento di cristianizzazione degli Slavi − testimoniato dalle cospicue evidenze di complessi monasteriali ed ecclesiali − e la diffusione, tra 9° e 11° secolo, dei gruppi culturali slavi (per es. Carantani, gruppi di Köttlach, di Bjelo Brdo, di Žuto Brdo) nell'evidenza di cimiteri e insediamenti (notevoli le necropoli slovene e istriane di Kranj, Predloka, Pinguente, e gli abitati di Boljetin, di Hajdučka Vodenika e di Kostol sul Danubio, di Mačvanska Mitrovica presso Sirmium, di Markovi Kuli e Varoš in Macedonia); infine la continuità della crescita urbana in epoca romanica, tardomedievale, rinascimentale, moderna, testimoniata dall'architettura di diversi centri (Trogir, Dubrovnik). Vedi tav. f.t.
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Archeologia medievale. - Dopo la pausa imposta dalla seconda guerra mondiale e dalla successiva fase di ricostruzione, l'attività archeologica nel territorio della I. ha segnato una considerevole ripresa a partire dalla fine degli anni Cinquanta, particolarmente per quanto concerne lo scavo e lo studio di siti antichi che in epoca altomedievale e paleoslava presentarono una sostanziale continuità d'insediamento. In questo quadro rientra l'indagine archeologica estensiva condotta su oltre quaranta siti di epoca preistorica, romana, bizantina e medievale presenti lungo la sponda destra del Danubio all'altezza delle gole dette ''Porte di ferro''.
In occasione della costruzione della grande diga rumeno-iugoslava del Djerdap, fin dal 1956 fu avviata un'indagine archeologica su vasta scala volta a censire, scavare e documentare tutti i siti antichi che sarebbero stati sommersi dalle acque al momento della chiusura della diga, avvenuta nel 1970 (Stare kulture, 1969; Bošković 1982-83; Kondić 1984). Il contributo offerto da questo enorme cantiere archeologico internazionale è stato di grande rilevanza per lo studio del paesaggio altomedievale in quella regione; è stato infatti possibile documentare nella sua interezza un tratto del sistema fortificato del limes romano e bizantino della sponda danubiana, identificando per ogni singolo insediamento le diverse fasi di occupazione romana, tardoantica e bizantina, e riconoscendo sul terreno il tracciato degli assi stradali che del limes stesso costituivano parte integrante (Zanini 1988). L'indagine sui singoli siti ha poi permesso di approfondire il delicato nodo della continuità degli insediamenti e della cultura materiale nella fase di passaggio dall'epoca classica e bizantina a quella dell'insediamento delle popolazioni slave a sud del Danubio, contribuendo a chiarire alcuni degli aspetti di quello che rimane uno dei passaggi fondamentali per comprendere la genesi e lo sviluppo degli stati medievali nei territori balcanici (Bošković 1981).
Legate per molti versi alle stesse tematiche sono le indagini archeologiche sul sito di Caričin Grad (nel distretto di Leskovać, Serbia meridionale), identificato con l'antica Iustiniana Prima, città fondata dall'imperatore Giustiniano per celebrare il suo villaggio natale e destinata a divenire capitale della rinnovata provincia dell'Illirico, nonché centro direzionale di rilevante interesse proprio in relazione con l'entità difensiva e amministrativa costituita dal rinnovato limes danubiano (Mano-Zisi 1976; Kondić, Popović, 1977). Lo scavo integrale della città venne avviato già negli anni Venti e prosegue ancora oggi a opera di équipes franco-iugoslave, apportando dati e informazioni della massima importanza per lo studio della cultura materiale e artistica delle province occidentali dell'impero bizantino (Caričin Grad I, 1984; Caričin Grad II, 1990). Gli interventi di restauro e di ripianificazione dei centri abitati hanno inoltre offerto preziose occasioni di indagini archeologiche in aree urbane di piccole e grandi dimensioni: esemplari a questo proposito risultano i casi di Kruševac, località nella quale alcuni degli edifici pubblici civili e religiosi pertinenti a una fiorente città commerciale del secolo 14° sono stati liberati dalle superfetazioni di epoca moderna e restaurati (Kovačević 1979), e di Zara, in cui un articolato intervento urbanistico ha previsto la tutela e valorizzazione di un complesso architettonico e monumentale di grande valore (Petricioli 1983).
Occorre infine ricordare gli interventi di restauro condotti, anche sotto l'egida di organismi internazionali, sui cicli pittorici e sulle strutture architettoniche dei grandi complessi monastici della Serbia, della Macedonia e del Montenegro, interventi che hanno costituito spesso occasioni di indagini archeologiche sul terreno e sugli elevati, volte a una migliore conoscenza di una delle tipologie insediative più caratteristiche di questa regione.
Bibl.: Stare kulture u Djerdapu ["Antiche culture del Djerdap"], catalogo, Belgrado 1969; Dj. Mano-Zisi, Justiniana Prima (Caričin Grad), in Reallexikon zur byzantinischen Kunst, Stoccarda 1976, col. 687-717; V. Kondić, V. Popović, Caričin Grad, utvrdjeno naselje u vizantijskom Iliriku ["Caričin Grad, sito fortificato nell'Illirico bizantino"], Belgrado 1977; M. Kovačević, Profana arhitektura srednjovekovnog Krusevac, in Starinar, n.s., 30 (1979), pp. 13-29; Dj. Bošković, La culture médiévale sur le territoire de la Yougoslavie entre l'orient et l'occident, ibid., 32 (1981), pp. 87-90; Id., Arheološka istraživania Djerdapa, 1956-1970 ["Ricerche archeologiche nell'area del Djerdap, 1956-1970"], ibid., 33-34 (1982-83), pp. 9-17; I. Petricioli, L'archeologia medievale nella Jugoslavia occidentale e costiera: cento anni di attività, in Archeologia Medievale, 10 (1983), pp. 233-56; Caričin Grad I, a cura di N. Duval, V. Popović, Belgrado-Roma 1984; V. Kondić, Les formes des fortifications protobyzantines dans la région des Portes de Fer, in Villes et peuplement dans l'Illyricum protobyzantin, Actes du colloque organisé par l'Ecole française de Rome (Rome, 12-14 mai 1982), Roma 1984, pp. 131-61; E. Zanini, Confine e frontiera: il limes danubiano nel VI secolo, in Milion - Studi e ricerche d'arte bizantina, i, Roma 1988, pp. 257-73; AA.VV., Recent developments in Jugoslav archaeology, Oxford 1988; H.M.A. Ivans, De early mediaeval archaeology of Croatia. A.D. 600-900, ivi 1989; Caričin Grad II, a cura di B. Bavant, V. Kondić, J.M. Spieser, Belgrado-Roma 1990.
Arte. - Dopo il 1979, l'arte iugoslava si è sviluppata stilisticamente in concomitanza soprattutto con quanto avvenuto nell'arte dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti. Il passaggio agli anni Ottanta ha significato anche per essa, almeno in apparenza, la fine del modernismo, che tuttavia fino al termine degli anni Settanta ha continuato a manifestarsi in tutte le sue forme, dal concettualismo alle strutture primarie. Un'influenza importante al riguardo hanno avuto, in particolare, la mostra La pittura americana degli anni Settanta, che nel 1979 fece conoscere per la prima volta, nelle principali città iugoslave, esempi del new image painting, del bad painting e del pattern painting; la sezione Aperto '80 della Biennale di Venezia; la diffusione della critica militante europea; l'affermarsi della teoria della transavanguardia e, infine, del pensiero postmoderno occidentale, specialmente francese. Tuttavia, la situazione culturale e intellettuale in I. all'inizio degli anni Ottanta era lungi dall'aver raggiunto quel livello di civiltà postindustriale che avrebbe comportato e stimolato una produzione artistica analoga a quella dei paesi occidentali. I gravi sconvolgimenti di carattere economico, politico e nazionalistico succedutisi in questo decennio hanno dato corpo a quell'impoverimento materiale e culturale che verso la fine degli anni Ottanta si è tradotto in una profonda crisi in tutti i campi della vita sociale. Una delle conseguenze di tale crisi è stato il progressivo estendersi nella sfera culturale del populismo, propugnato negli anni Settanta come antitesi alla concezione elitaria dell'arte, in base al principio dell'autogestione della cultura. L'inasprirsi della crisi economica ha portato al risveglio dei sentimenti nazionalistici, con il risultato che il dogma, fino ad allora inattaccabile, della fratellanza e dell'unità tra le varie nazionalità iugoslave, capaci perciò di convivere nel quadro di uno stato federale e in un giusto ordine sociale, ha dimostrato di costituire una mera utopia; questo ha comportato una netta diminuzione delle relazioni, fino ad allora soddisfacenti, instaurate tra artisti delle singole repubbliche, che si manifestavano sia attraverso lo scambio di mostre sia mediante una politica coordinata di queste ultime, tanto all'interno del paese quanto all'estero, nella presentazione della produzione artistica iugoslava.
È quindi difficile parlare in termini di unità dell'arte iugoslava di questo periodo; sarebbe più esatto, vista l'attuale situazione, presentare la produzione artistica secondo le singole repubbliche se non addirittura per unità territoriali ancora minori, tendenza peraltro conforme all'attuale valorizzazione del genius loci.
Già all'inizio degli anni Settanta si è affermata decisamente la corrente della ''nuova immagine'' in cui non è affatto difficile rinvenire l'influsso di modelli stranieri. La ''nuova immagine'' è stata sostenuta in modo programmatico soprattutto dalla Galleria del Litorale di Pirano, che, in particolare, ha esposto opere degli artisti del Litorale sloveno, di Lubiana e di Zagabria. Benché questa produzione sia oggi quasi dimenticata, essa ha avuto un ruolo specifico nel ridefinire l'atteggiamento della società nei confronti dell'arte. Infatti, mentre tutto il periodo postbellico era stato caratterizzato dal fatto che le gallerie (di stato, in quanto non esistevano quelle private) favorivano gli artisti più affermati e, tra essi, specialmente quelli che avevano raggiunto tale posizione per meriti extra-artistici, negli anni Ottanta, con il rifiuto di tutti i valori fino ad allora dominanti, la situazione si è radicalizzata e i criteri si sono modificati, il che ha promosso l'affermazione di un altro filone − non più ufficiale − dell'arte moderna iugoslava, vale a dire quello tracciato, nei primi anni postbellici, da alcuni artisti d'avanguardia, fino a quel momento meno noti e seguiti. La rivalutazione di questi contributi alla produzione artistica delle singole nazionalità da un lato ha stimolato in particolare gli artisti più giovani a riflettere in modo nuovo sulla propria attività; dall'altro, alcuni artisti della generazione precedente, sotto l'impatto dei grandi mutamenti nell'arte mondiale degli inizi degli anni Ottanta, sono stati indotti a trasformare radicalmente la loro ricerca.
Tra gli artisti della generazione precedente, che hanno modificato solo marginalmente il proprio stile, in prevalenza ispirato all'informale, e che nella loro attività si sono uniformati a una visione conseguente del modernismo, sono da menzionare, in particolare, la scultrice O. Jevrić (n. 1922) e il pittore F. Filipović (n. 1924), entrambi di Belgrado, il pittore P. Mazev (n. 1927) di Skopje, lo scultore I. Kožarić (n. 1921) e il pittore J. Knifer (n. 1924) di Zagabria. Quanto agli artisti che, sotto l'influsso della ''nuova immagine'', hanno acuito la propria sensibilità artistica, cercando di realizzare una sintesi tra espressività della figura e studio analitico degli elementi non mimetici dell'immagine, un posto importante occupano -D. Seder (n. 1927) di Zagabria e J. Bernik (n. 1933) di Lubiana. Un forte accento espressivo prevale tra gli artisti della generazione intermedia, particolarmente in Slovenia, con pittori come E. Bernard (n. 1937), H. Gvardjančič (n. 1943) e L. Logar (n. 1944), mentre il contributo personale di maggior qualità alla nuova geometria, ''neo-geo'', si deve all'opera di B. Ilijovski (n. 1942) di Belgrado e di E. Schubert (n. 1947) di Zagabria. Happenings con forti connotazioni di critica sociale produce T. Gotovac (n. 1937) di Zagabria, mentre il gruppo dei concettualisti belgradesi degli anni Settanta continua a portare avanti, con alcune modifiche, i propri ideali d'origine. Tra gli artisti della generazione più giovane sono presenti tutti gli indirizzi e le tecniche espressive caratteristici dell'arte mondiale contemporanea: particolare importanza assumono la nuova scultura, in particolare a Zagabria (S. Drinković, n. 1951) e a Lubiana (M. Počivavšek, n. 1955); le installazioni e azioni a Zagabria (G. Petercol, n. 1949, e B. Beban, n. 1952) e altrove (per es. I. Šokić, n. 1934, nel Montenegro); il ritorno ad alcune varianti dell'espressionismo astratto (N. Alavanja, n. 1952, di Belgrado; E. Numankadić, n. 1948, di Sarajevo; A. Jerković, n. 1958, di Zagabria; A. Burić, n. 1956, nel Montenegro); e le esperienze di tutta una schiera di artisti della generazione più giovane, che si richiamano all'estetica dell'informale. Molti artisti di questa generazione vivono e lavorano all'estero: M. Abramović (n. 1946), B. Dimitrijević (n. 1948) e altri.
Tra le grandi mostre d'arte, a carattere periodico, vanno menzionate la Biennale internazionale di arte grafica (19ª edizione nel 1991), presso la Galleria d'arte moderna di Lubiana, con la partecipazione di circa 500 artisti provenienti da oltre 50 paesi, e la Mostra internazionale del disegno artistico, allestita per la dodicesima volta nel 1990 presso la Galleria d'arte moderna di Fiume. Nel 1988, dopo un'interruzione di diversi anni, è stata riproposta la Triennale dell'arte iugoslava (con il titolo di VI Triennale di Belgrado), che però, con la nuova impostazione organizzativa, non è riuscita a uguagliare le rassegne precedenti. L'ultima delle grandi mostre d'arte internazionali è stata la mostra Belgrado 80 al Museo d'arte contemporanea di Belgrado. Durante questo periodo importanti rassegne d'arte iugoslava contemporanea sono state le mostre Critica e arte della metà degli anni Ottanta, svoltasi a Sarajevo nel 1986, e Documenta iugoslavi II, tenutasi nella stessa città nel 1989.
Tra le mostre storiche di maggior rilievo, di carattere pan-iugoslavo, sono da ricordare le seguenti: nel 1980, La pittura iugoslava del sesto decennio al Museo d'arte contemporanea di Belgrado; nel 1983, La rivista Zenit e l'arte d'avanguardia degli anni Venti al Museo Nazionale di Belgrado; nel 1985, La grafica iugoslava 1950-1980 al Museo d'arte contemporanea di Belgrado; e infine, nel 1989, La Biennale di Venezia e l'arte iugoslava alla Galleria d'arte contemporanea di Zagabria, in occasione del novantesimo anniversario della prima partecipazione degli artisti iugoslavi alla Biennale. Tra le rassegne storiche approfondite dell'arte delle singole repubbliche vanno annoverate: tra il 1978 e il 1987, una serie di quattro mostre organizzate dalla Galleria d'arte della Bosnia ed Erzegovina che, anche con cataloghi molto esaurienti, hanno illustrato l'arte e l'architettura in Bosnia ed Erzegovina tra il 1878 e il 1984; nel 1986, la mostra Incontro al Museo d'arte contemporanea, allestita nello Spazio museale di Zagabria, che ha presentato le opere raccolte in trent'anni d'esistenza dal Museo d'arte contemporanea di Zagabria; e nel 1987, allestita nello stesso Spazio museale di Zagabria, la mostra L'età d'oro di Ragusa (Dubrovnik), con un ampio panorama dell'arte ragusea del 15° e 16° secolo.
Per quanto riguarda l'arte in Slovenia, la Galleria d'arte moderna di Lubiana ha presentato nel 1979 una mostra sull'arte del periodo 1948-78; nel 1986, la stessa Galleria ha allestito una mostra dedicata agli anni Venti dal titolo Espressionismo e nuova realtà. Tra le presentazioni dell'arte iugoslava all'estero ne vanno citate due in particolare: nel 1987, le Gallerie della città di Zagabria hanno allestito, in collaborazione con la Nationalgalerie di Berlino, con il Kunsthaus di Zurigo e infine con il Museum des 20. Jahrhunderts di Vienna, una mostra delle opere del croato I. Meštrović (1883-1962), che si prefiggeva una rivalutazione critica di questo artista, il più importante scultore iugoslavo di questo secolo. Se tale mostra non ha raggiunto pienamente le aspettative, queste si realizzarono, invece, con la grande rassegna dedicata all'architetto sloveno J. Plečnik (1872-1957), allestita dal Centre Pompidou a Parigi nel 1986 e trasferita in seguito a Lubiana, Monaco, Barcellona, Milano e Chicago. La mostra ha suscitato una vasta eco di giudizi e interpretazioni, che hanno riconosciuto in Plečnik uno dei più importanti precursori dell'architettura europea postmoderna.
Gli ultimi decenni non sono stati particolarmente favorevoli alla costruzione di nuovi edifici, destinati a gallerie e musei. In occasione delle Olimpiadi invernali (1984), Sarajevo si è arricchita di un nuovo Museo delle Olimpiadi, mentre a Zagabria, per opera del collezionista A. Topić-Mimara (1898-1987), si è realizzato un grande Spazio museale e poi un ancor più grande Museo di Topić-Mimara, che però, a causa delle troppe attribuzioni dilettantesche del defunto collezionista, ha acceso aspre discussioni fra gli specialisti. Vedi tav. f.t.
Bibl.: Likovna enciklopedija Jugoslavije ["Enciclopedia iugoslava dell'arte"], finora 2 voll. (A-J, K-Ren), Zagabria 1984 e 1987; Cataloghi di mostre: Junge Kunst aus Jugoslawien, Graz 1986; Avant-gardes yougoslaves, Carcassonne 1989; Jugoslovenska dokumenta '89 ["Documenta iugoslavi '89"], Sarajevo 1989. Riviste: Čovjek i prostor ["Uomo e spazio"]; Život umjetnosti ["Vita dell'arte"], Zagabria; Umetnost ["L'arte"] (n. s.); Moment ["Momento"], Belgrado; Sinteza ["Sintesi"]; AB; M'ARS, Lubiana.
Architettura. - La recente produzione architettonica iugoslava ha visto l'affievolirsi delle posizioni ufficiali, ferme a una rigida interpretazione del razionalismo, a favore delle scuole delle varie repubbliche; queste, invece, appaiono tese a una feconda continuazione di tradizioni locali depurate, in generale, da accenti vernacolari. La I. rappresenterebbe dunque un momento positivo della stagione del regionalismo − per usare la nota categoria interpretativa di K. Frampton − quale alternativa all'omologazione internazionale.
In Serbia si è sempre manifestata con maggiore evidenza la volontà del governo centrale di esprimere e celebrare l'identità nazionale. In passato, si erano utilizzati a tal fine il linguaggio accademico centroeuropeo o le forme architettoniche autoctone, fino allo stabilirsi dei principi razionalisti, che trovarono una consacrazione ufficiale, nel secondo dopoguerra, con il grande piano per Novi Beograd (1945-50) e il notevole impulso dato alla pianificazione territoriale. Si venivano precisando, nel contempo, le peculiarità dell'architettura serba: vigorosa sottolineatura dei volumi con forti accenti chiaroscurali, nitida conformazione prismatica delle masse, frequenti accenti brutalisti (I. Antić, M. Pantović).
Tale tendenza prosegue negli anni Settanta nell'opera di M. Mitrović (n. 1922), esemplificata dal centro Genex a Belgrado (1980), caratterizzato da due torri e animato dall'integrazione tra funzioni diverse. Rappresentativa è la produzione di S. Maksimović (n. 1934) nel Centro Congressi Sava a Belgrado, un edificio lineare a sezione trapezia articolato in terrazze sfalsate, o nell'isolato in Bulvar Crvene Armije, angolo M. Gorki, segnato dai risalti dei balconi e degli ascensori. A esiti originali pervengono A. Dokić e M. Čanak nella centrale elettrica di trasformazione a Belgrado (1977-79), che interpreta con evidenza plastica motivi funzionali evocando reminiscenze futuriste. Per le ricerche sull'edilizia residenziale, sempre attuali in Serbia, vanno ricordati i nomi di M. Lojanica, P. Cagić, B. Jovanović e B. Janković, B. Karadžić, A. Stjepanović.
Gli anni Ottanta vedono l'affermazione, inizialmente in mostre, poi in realizzazioni edilizie, di giovani architetti impegnati in ricerche volte a superare il modello razionalista consolidato. Alcuni procedono a un'opera di smontaggio e riduzione della tradizione moderna, con evidenti influenze straniere, pur nell'attenzione alle tematiche sociali (v. per es. il progetto per il centro Dom Omladine a Niš, di M. Mirković, Z. Tirnanić, B. Stojanović, S. Tadić, L. Mangov). Altri invece (P. Ristić, M. Musić, M. Čehovin, gruppo Meč) s'indirizzano alla ripresa di forme del passato, con declinazioni locali del post-modern internazionale (centro studentesco di Novi Sad, M. Jovanović, 1987).
In Slovenia, la cultura architettonica ha le sue radici in quella austriaca, grazie all'opera di J. Plečnik (1872-1957), allievo di O. Wagner. Maestri come E. Ravnikar (n. 1908, studi con Plečnik e Le Corbusier) e, in seguito, M. Mihelič (n. 1925) hanno definito una tradizione di rigore costruttivo, che esalta le capacità espressive dell'architettura tramite la tecnologia sofisticata e lo studio del dettaglio.
Su tale linea è collocabile S. Sever, fortemente influenzato dai processi d'industrializzazione e interprete della tendenza funzionalista (edifici industriali a Nova Gorica, 1978-81, e a Lubiana, 1980-81); a tale filone si ricollegano anche C. Oblak (n. 1934) e F. Klavora (n. 1940). La fine degli anni Settanta ha visto la progressiva affermazione di gruppi di progettazione attivi nel territorio sloveno grazie a un'accorta politica edilizia basata sul decentramento, sullo sviluppo di piccole comunità dai caratteri definiti, e su una buona organizzazione del sistema produttivo. Lo Studio 7 (J. Princes, S. Kacin, B. Spindler, M. Uršič, R. Popović) progetta opere fortemente connotate da segni macroscopici (i tetti concavi nel gerontocomio di Domžale, 1977) o dalla dinamica articolazione di masse (teatro dell'Opera di Skopje, 1972-81). In questa linea si collocano J. Bizjak, M. Cotič, D. Engelsberger (centro culturale a Bohinjska Bistrica, 1978-79) e M. Mušič, che usa geometrie complesse e frammentate con effetti spaziali elaborati (chiesa a Dravlje, Lubiana, 1985). Il gruppo Kras (V. Ravnikar, M. Dekleva, M. Garzarolli, E. Vatovec) riprende temi dell'architettura tradizionale, ma senza utopie regressive, manifestando invece grande interesse per i bisogni della collettività e per l'integrazione con il contesto. Dopo l'ufficio postale di Vremski Britof (1978), operazione di sostituzione all'interno di un villaggio carsico, spiccano la scuola di Dutovlje (1980) e soprattutto il Municipio a Sežana (1977-79). La geometria strutturale della pianta, l'uso della diagonale nella distribuzione degli ambienti, le volumetrie regolari sono gli indizi di un'architettura positiva, espressione della matrice più profonda del regionalismo. Più colti i riferimenti presenti nelle opere di V. Ravnikar come autore indipendente (abitazioni a Sežana, 1988) o di M. Bonča (edificio per uffici a Celje, 1985-86), opere nelle quali è più palese il richiamo alle radici mitteleuropee della scuola slovena; fino al recupero di forme monumentali della tradizione in alcuni progetti di J. Kobe e A. Vodopivec (ampliamento del municipio, 1978-79, e crematorio, 1982, di Novo Mesto). Altri progettisti rappresentativi sono O. Jugovec (centro culturale Španski borci a Lubiana, 1979-81), A. Železnik, P. Zupan.
In Croazia, la produzione architettonica è fondata su una tradizione che ha fuso una pluralità di apporti, dall'accademismo e dallo Jugendstil austriaci, all'espressionismo, al razionalismo internazionale. Questa solida base culturale ha permesso, negli anni Trenta, la formazione di una vera e propria ''scuola di Zagabria'' (A. Albini, D. Ibler, M. Kauzlarić, V. Turina, I. Zemljak), non marginale nell'ambito del funzionalismo europeo, fondata sulla sicura padronanza della tecnologia e del disegno e capace di un rapporto sereno con la tradizione. Fra i validi risultati di tale scuola sono anche, negli anni Cinquanta e Sessanta, l'attenta gestione urbanistica (piani per Zagabria) e lo sviluppo dell'edilizia industrializzata. Nel decennio successivo, le influenze provenienti dall'estero (K. Tange, P. Rudolph, J. Stirling) e i mutamenti del dibattito architettonico internazionale hanno avuto ripercussioni anche in Croazia, ma sempre nell'ambito di un saldo equilibrio formale.
Fra i progettisti più rappresentativi, M. Vodička (Clinica d'ostetricia a Osijek, 1977-80), A. Marinović-Uzelac, B. Krstulović (sede della Elektra a Varaždin, 1974-77). Un tema particolare è rappresentato dai grandi alberghi lungo la costa dalmata, che solo nei casi migliori, tuttavia, offrono esempi di armonico inserimento nel contesto (opere di L. Perković). Risonanza internazionale ha riscosso B. Magaš (n. 1930), che rinnova il purismo strutturale della scuola croata senza rinnegare il linguaggio razionalista, né l'apporto della tecnologia, in configurazioni che cristallizzano lo spazio in geometrie complesse (giardino d'infanzia a Zagabria, 1975); l'opera più rappresentativa, per chiarezza formale e padronanza tecnologica, è certo lo stadio di Spalato-Poljud (1979). Alla fine degli anni Settanta, i progettisti più giovani proseguono tali ricerche, in un tentativo di rimeditazione e superamento dell'eredità del movimento moderno: M. Šosterić (sede della Elektra a Zagabria, 1975-81), M. Mitevski (centro sociale a Osijek, 1977-80), N. e I. Filipović (hotel Dubrovnik a Zagabria, 1979-82), V. Cimić e -D. Romić, F. Gotovac, G. Knežević, B. Žnidarec, B. Kincl (abitazioni a Zagabria, 1980-83), T. Odak (abitazioni a Zagabria-Jarun, 1981-84). Gli esiti più interessanti si colgono nelle opere di D. Posavec (ufficio postale a Sebenico, 1980-83) e A. Uglešić (porto turistico di Zara, 1982-85). I. Crnković ha invece privilegiato i temi ridotti (giardino d'infanzia a Samobor, 1972-75) e la produzione disegnata, nota anche all'estero. Su queste linee si muovono altri architetti che manifestano interesse per le forme del passato, talora con cadenze vernacolari (N. Pecotić, centro commerciale a Curzola, 1977-79; E. Šmit, casa a Brezje, 1975-81; I. Prtenjak, chiesa a Boninovo, Dubrovnik, 1977-80). Un deciso orientamento retrospettivo è presente nelle opere di B. Sila·din (villa Zrno a Ičići, 1980-84; Museo archeologico lapidario di Zagabria, 1986-87), R. Tajder (casa a Zagabria, 1978-83, e Centro di riabilitazione per l'infanzia a Zagabria-Slobostina, 1980-84) e del gruppo M. Hržić, Z. Krznarić, D. Mance (crematorio di Zagabria, 1981-85).
Nelle repubbliche meridionali, le tradizioni locali hanno mantenuto, e in qualche caso rafforzato, la loro incidenza. Si tratta, nel complesso, di regioni influenzate dall'elemento orientale e da situazioni geografiche particolari; negli anni recenti si è comunque intensificata l'attività di progettisti croati, sloveni e serbi, oltre a quella di significative presenze internazionali.
In Bosnia-Erzegovina, l'aggiornamento dei canoni razionalisti, penetrati con J. Neidhardt, si approfondisce con i croati R. Delalle e N. Mufti, e soprattutto con l'opera di I. Štraus (edificio per la Elektroprivreda, 1978); più vicini a tematiche internazionali V. Dobrović e S. Jamaković, mentre gli edifici costruiti per i Giochi Olimpici invernali di Sarajevo (1984) si allineano alle tendenze high-tech (stadio di Alikalfić, Dapa, Morankić). Un cosciente rinnovamento della tradizione balcanica caratterizza le opere di Z. Ugljen, come la moschea a Visoko (1970-80), in cui le esigenze funzionali della religione islamica sono reinterpretate in un linguaggio moderno. Forti motivazioni nazionalistiche rendono ancor più evidente il richiamo alla cultura orientale nel Kosovo-Metohija: un esempio è la Biblioteca nazionale e universitaria di Priština (A. Mutnjaković, 1980), i cui volumi sono intelaiati da motivi geometrici e coronati da cupole con evidenti allusioni alla tradizione islamica. La Macedonia ha conosciuto un momento di apertura internazionale con il progetto per la ricostruzione di Skopje, affidato al giapponese K. Tange con R. Miščević e F. Wenzler (1965). L'esempio del maestro nipponico, che a Skopje, come altrove, usa megastrutture fortemente caratterizzate, ha certo infuito sulla produzione di molti architetti, come J. Konstantinov (già allievo di P. Rudolph e I.M. Pei) nell'ufficio per le telecomunicazioni di Skopje (1968-81), un complesso aggregato di masse curvilinee; i progetti più recenti mostrano invece forme più controllate (Archivio municipale, centro studentesco Goce Delčev, Istituto IZIIS a Skopje). Nel Montenegro, dopo gli esiti incerti del progetto della nuova capitale Titograd, si punta a una maggiore caratterizzazione locale; tipico è il caso di R. Zeković, che da un linguaggio basato su forme elementari desunte dal codice international style (centro amministrativo della Repubblica, Titograd 1965-78), perviene a un'architettura radicata nella geografia del paesaggio montenegrino (hotel Bjelasica a Kolašin, 1976-79).
Bibl.: A. Mambriani, L'architettura moderna nei paesi balcanici, Bologna 1970; E. Goldzamt, Urbanistyka krajów socjalistycznych, Varsavia 1971 (trad. it., L'urbanistica nei paesi socialisti, Milano 1977); I. Štraus, Nova bosanskohercegovačka arhitektura, "Nuova architettura in Bosnia ed Erzegovina", Sarajevo 1977; S. Bernik, Slovenska arhitektura, urbanizem, oblikovanje in fotografija. 1945-1978, "Architettura, urbanistica, design e fotografia in Slovenia. 1945-1978", Lubiana 1979; Grupni portret. Nova beogradska arhitektura, "Ritratto di gruppo. Nuova architettura belgradese", catalogo della mostra, Belgrado 1982; G. Vragnaz, Gruppo Kras. Due opere in Slovenia, in Casabella, 503 (1984), pp. 56-63; U. Kultermann, Zeitgenössische Architektur in Osteuropa: Sowjetunion, Polen, Deutsche Demokrate Republik, Tschechoslowakei, Ungarn, Rumänien, Bulgarien, Jugoslawien, Colonia 1985; annate delle riviste Sinteza, "Sintesi" (Lubiana), Arhitektura (Zagabria, in particolare num.mon. Arhitektura u Hrvatskoj 1945-1985, "Architettura in Croazia 1945-1985"), 1986; Čovjek i prostor ("Uomo e spazio", ivi), Arhitektura urbanizam ("Architettura Urbanistica", Belgrado); Arhitektura ("Architettura", Sarajevo).
Musica. - Dopo un periodo d'isolamento durante la seconda guerra mondiale, la I. tornò ad aprirsi alle influenze più avanzate della musica europea, secondo un'opera di rinnovamento già avviata negli anni Venti e Trenta, grazie soprattutto a compositori come M. Kogoi (1895-1956), allievo a Vienna di Schönberg, e S. Osterc (1895-1941), allievo di A. Hába a Praga intorno alla metà degli anni Venti, e studioso in particolare dell'opera di Hindemith, oltre che dello stesso Schönberg. Fu attraverso l'opera di questi due compositori sloveni che si diffusero il sistema dodecafonico e la tecnica seriale e puntillistica nonché, più tardi, la musica elettronica e sperimentale.
Al superamento del tradizionalismo musicale contribuirono ancora, nel secondo dopoguerra, sia un gruppo di compositori già affermatisi durante gli anni Trenta, fra i quali in particolare gli sloveni M. Bravničar (n. 1897), L.M. Škerjanc (1900-1973), D. Švara (1902-1981), V. Ukmar (n. 1905), P. Šivic (n. 1908), M. Lipovšek (n. 1910), sia una nuova generazione di compositori che, proprio a partire dai primi anni Cinquanta, faceva le sue prime prove con un'accurata attenzione nei confronti delle avanguardie europee.
A questa generazione appartengono in particolare i compositori sloveni P. Ramovš (n. 1921), Z. Ciglič (n. 1921), U. Krek (n. 1922), e ancora, sebbene meno interessati alle correnti di avanguardia, i serbi M. Radenković (n. 1921), D. Gostuški (n. 1923), V. Mokranjak (n. 1923), D. Kostić (n. 1925), V. Pericic (n. 1927), il macedone T. Prosev (n. 1931), i croati B. Sakač (n. 1918), M. Kelemen (n. 1924), I. Malec (n. 1925).
Contributi più originali alla Nuova Musica vennero da un più giovane gruppo di compositori sloveni, come D. Skerl (n. 1931), J. Matičič (n. 1931), A. Srebotnjak (n. 1931), e ancora P. Merkù (n. 1927), M. Stibilj (n. 1929), I. Petric (n. 1931), I. Štuhec (n. 1932), D. Božic (n. 1933). Fra questi una menzione particolare merita V. Globokar (n. 1934), una delle figure più rappresentative dell'attuale musica iugoslava, allievo di R. Leibovitz a Parigi e di L. Berio a Berlino.
Improntata all'atonalismo weberniano è una delle prime composizioni di Globokar, 6 pièces brèves per quartetto (1962), che prelude a una totale adesione alla dodecafonia con l'opera successiva, Vibone, per trombone e vibrafono (1963). Nella seconda metà degli anni Settanta il suo interesse si sposta su due compositori, pur così diversi fra loro, come I. Xenakis e L. Berio, in particolare con un'opera del 1965, Plan, per zarb, clarinetto, sassofono, cornetta e trombone. Agli anni Settanta appartengono fra l'altro il lavoro strumentale La Ronde (1970) e Laboratorium per 11 strumenti (1973); un più accentuato sperimentalismo si manifesta nelle ultime composizioni, fra cui To whom it may concern per 5 strumentisti, nastro magnetico e musica elettronica (1979) e Tribadabum extensif sur rhytme fantôme per trio di percussioni (1981).
La generazione operante negli anni Settanta e Ottanta fa ormai parte attiva dei più recenti sviluppi della musica europea e mondiale, per quanto non sia riducibile entro schemi unitari; in particolare, V. Tošić, che risente in alcune composizioni della musica minimalistica, N. Štakć, interessato a una contaminazione con la musica jazz, M. Ruždjak, B. Turel e F. Parać, rivolti anche a indirizzi diversi dello sperimentalismo.
Un impegno particolare lo stato ha dedicato fin dal secondo dopoguerra alla riorganizzazione della vita musicale: tra gli enti di maggior rilievo vanno ricordati il Teatro stabile dell'Opera di Sarajevo (1946), l'Orchestra filarmonica di Sarajevo (1948), oltre alla Filarmonica slovena (1909), nonché l'Orchestra sinfonica della Radio-Tv di Sarajevo (1962) e l'Orchestra e il Coro da camera di Radio Lubiana. Un ruolo notevole a livello internazionale viene svolto dai festival musicali di Zagabria e Dubrovnik.
Bibl.: D. Cvetko, Histoire de la musique slovène, Maribor 1967, pp. 314 ss.; Id., Die Entwicklungstendenzen der modernen slowenischen musik, in Festschrift Walter Senn zum 70. Geburtstag, Monaco-Salisburgo 1975, pp. 13-18; M. Blagojevic, Die Einflüsse der europäischen Avantgarde auf die jugoslawische Musik der dreissiger Jahre, in Kongress-Bericht, Bayreuth 1981, pp. 471-75; P. Derossi, Jugoslavia, in Dizionario Enciclopedico Musica e Musicisti, Il lessico, ii, Torino 1983, pp. 607-24.
Cinema. - Pionieri del cinema iugoslavo sono considerati il cineamatore sloveno K. Grossmann e soprattutto il fotografo macedone M. Manaki (autore di numerosi documentari nel primo decennio del secolo), mentre è a un attore di teatro, I. Stanojević, che si deve nel 1911 il primo lungometraggio, Život i delo besmortnog vožda Karadjordja ("La vita e l'opera dell'immortale condottiero K."). L'anno successivo fu realizzato Jadna majka ("Povera madre") da K. Freund, che diventerà presto uno dei massimi direttori di fotografia della storia del cinema; ma di una vera cinematografia iugoslava si può parlare solo a partire dalla seconda guerra mondiale: tra il 1920 e il 1940, infatti, vennero prodotti sul territorio del futuro stato iugoslavo appena venti film, mentre le 400 sale esistenti erano monopolizzate dai distributori stranieri, soprattutto hollywoodiani.
Due noti fotografi, R. Vavpotič e Ž. Skrigin, danno vita nei primi anni Quaranta alla sezione cinematografica del Quartier generale dell'esercito di liberazione nazionale e del Distaccamento partigiano della Iugoslavia, realizzando documentari sulla resistenza all'occupazione nazifascista. È a Skrigin che si deve, nel 1947, la fotografia di Slavica (regista V. Afrić), primo lungometraggio della cinematografia del nuovo stato, cui segue nello stesso anno Živjet će ovaj narod ("Questo popolo vivrà"), diretto da N. Popović e fotografato da O. Miletić, attivo fin dagli anni Trenta anche come regista di film d'amatore.
Negli anni Cinquanta la nascita di case di produzione e distribuzione nei principali centri del paese e l'intervento economico dello stato favoriscono lo sviluppo di una cinematografia attenta anche al mercato internazionale e aperta alle coproduzioni (per es., con i film Die letzte Brücke, L'ultimo ponte, girato da H. Käutner nel 1951, e La strada lunga un anno, realizzato da G. De Santis nel 1958). Dal 1945 al 1955 vengono girati una quarantina di lungometraggi e moltissimi cortometraggi da registi che s'ispirano talora a opere letterarie o teatrali, tra i quali ricordiamo F. Hanžeković e V. Pogačić.
È però alla scuola di Zagabria specializzata nel cinema d'animazione che si deve la maggiore notorietà del cinema iugoslavo di questi anni. Nel 1951 esce il satirico e umoristico Veliki miting ("Il grande incontro"), disegnato magistralmente da W. Neugebauer, del gruppo redazionale di Kerempuh, settimanale umoristico zagabrese.
Il successo del breve film consente la fondazione della casa di produzione Duga, che verrà liquidata dopo un solo anno (nel periodo del rigido blocco economico staliniano) ma al cui interno hanno modo di mettersi in luce, accanto a Neugebauer, tre disegnatori che daranno vita successivamente alla Zagreb Film, primo nucleo dell'odierno studio: A. Marks, N. Kostelac e soprattutto D. Vukotić, uno dei massimi disegnatori mondiali di film d'animazione. Il lavoro di questi autori, superando lo stile disneyano dei film Duga, dà luogo a una produzione ispirata al cecoslovacco Trnka e al canadese Bosustow, nonché all'affermazione internazionale della nuova scuola, che dalla fine degli anni Cinquanta ottiene una quantità di riconoscimenti internazionali: Cowboy Jimmy e Surogat ("Il surrogato") di Vukotić, Premijera ("La prima") di Kostelac, Samac, happy end ("Un uomo solo, lieto fine") di V. Mimica.
A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, film come Vlak bez voznog reda (Treno senza orario, 1959) e Uzavreli grad (La città in fermento, 1961), entrambi di V. Bulajić, segnano l'inizio di un rinnovamento: al tema della guerra si sovrappongono motivi psicologici e intimistici prima sconosciuti, che vedono emergere una ''nuova ondata'' di autori, tra i quali: B. Hladnik (Ples v dežju, "Una danza sotto la pioggia", 1961), F. Štiglic (Deveti krug, "Il nono cerchio", 1960; Balada o trobenti in oblaku, "La ballata di una tromba e di una nube", 1961), A. Petrović (Dvoje, Due, 1961; Dani, Giorni, 1963; Tri, Tre, 1965; Skupljaci perja, Ho incontrato anche zingari felici, 1967).
Mentre prosegue il processo di destalinizzazione e decentramento delle strutture e si rafforza il mercato interno, esordiscono nel lungometraggio nuovi cineasti, molti dei quali provenienti dal documentario (oltre a Petrović, P. Djordjević, A. Babaja e M. Klopčič), dall'animazione (Vukotić, Mimica e il capo-redattore del Kerempuh, F. Hadžic, già direttore della Duga Film), e dallo sperimentalismo del cinema d'amatore (D. Makavejev, Z. Pavlović, L. Zafranović).
Dalla seconda metà degli anni Sessanta la migliore cinematografia iugoslava si fa interprete delle antinomie sociali del paese, in un mélange di politica, erotismo, psicologia, nonsense.
I desideri e le pulsioni più profonde dell'uomo e l'incapacità della società di realizzarli sono i temi del cinema di Makavejev, fortemente polemico anche nello stile, che rompe le narrazioni tradizionali e fonde documentario e finzione, satira e parodia, commedia macabra e saggio filosofico (Ljubavni slučaj, Un affare di cuore, 1967; Nevinost bez zasite, Verginità indifesa, 1968; W.R. Misterije organisma, W.R. o i misteri dell'organismo, 1971). Negli anni Settanta e Ottanta, Makavejev sarà costretto a realizzare i suoi film troppo audaci all'estero: Sweet movie (1974) è girato in Francia; Montenegro or Pigs and Pearls (Montenegro tango - Perle e porci, 1981) in Svezia; The Coca Cola Kid (1985) in Australia.
Desolazione e disadattamento sono i motivi che affronta Pavlović con il suo stile scarno e lontano dagli psicologismi (Crveno klasje, "Grano rosso", 1971; Let mrtve ptice, "Il volo dell'uccello morto", 1973; Hajka, "La caccia", 1977; Dovidjenja u sledécem ratu, "Arrivederci alla prossima guerra", 1980; Zadah tela, "L'odore del corpo", 1983); mentre Zafranović ripropone la guerra e le sue crudeltà in film come Okupacija u 26 slika ("Occupazione in 26 immagini", 1978) e Pad Italije ("La caduta dell'Italia", 1981).
Negli anni Settanta e Ottanta, tra gli autori più giovani di un cinema che conosce un ulteriore considerevole impulso, sono da ricordare G. Paskaljević (Čuvar plaze u zimskon periodu, "Il bagnino d'inverno", 1976; Vrene čuda, "Il tempo dei miracoli", 1990), G. Marković (Specijalno vaspitanije, "Educazione speciale", 1977), S. Karanović (Petrijn venac, "La corona di Petrja", 1980; Jagodde u grlu, "Le fragole di traverso", 1985; Vec Vidjeno, "Déjà vu", 1987), K. Godina (Splav meduze, "La zattera della medusa", 1980; Rdeči boogie ali kaj ti je deklica, "Si ama una volta sola", 1981), Z. Tadić (Ritam zlocina, "Il ritmo del crimine", 1981), e soprattutto E. Kusturica, che s'impone internazionalmente con tre film pieni di umorismo e di calore umano, in cui la critica di alcuni aspetti dell'animo iugoslavo si accompagna ora alle intriganti memorie dell'infanzia e dell'adolescenza (Sjećaš li se Dolly Bell, Ti ricordi di Dolly Bell?, 1981; Otac na službenom putu, Papà è in viaggio d'affari, 1985), ora a un piglio da commedia grottesca, più acre e disperato (Dom za vešanje, Una casa da appendere, 1989).
Bibl.: AA.VV., Iugoslavia: il cinema dell'autogestione, Venezia 1982; E.G. Laura, L. Lazić, Il film jugoslavo, Lecce 1982; Settimana del cinema jugoslavo, a c. di G. De Vincenti, Roma 1986.