JACOB ANATOLI
Jacob (Ja'aqov ben Abba Mari ben Simon ben Anatoli), filosofo, predicatore e medico del XIII sec., è noto soprattutto per la sua attività di traduttore e di divulgatore del sapere filosofico presso la corte dell'imperatore Federico II. Ebbe, infatti, un ruolo chiave, insieme a Michele Scoto (v.), nell'introdurre gli scritti di Averroè nel mondo latino. È autore di un'opera dal titolo Malmad ha-talmidim (Il pungolo dei discepoli), una serie di sermoni (derashot) filosofici, in cui commenta la Torah (la Legge) in chiave allegorico-filosofica, inserendovi temi metafisici, cosmologici e psicologici.
Non si hanno informazioni precise sulla sua vita. Nacque intorno al 1194, nel Sud della Francia, proba-bilmente a Marsiglia. Sposò la figlia di Samuel Ibn Tibbon, celebre traduttore della Guida dei perplessi di Mosè Maimonide. Nell'Introduzione al Malmad ha-talmidim egli menziona due figli; ebbe anche una figlia, Malkah, in occasione del cui matrimonio compose una delle derashot del Malmad ha-talmidim (Parashat Hayye Sarah). La sua educazione seguì il modello tradizionale: come tutti i suoi contemporanei compì inizialmente studi talmudici. In Provenza, tra l'altro, tali studi erano molto fiorenti, infatti vi erano varie scuole e famosi talmudisti. Entrò poi in contatto con i circoli razionalisti di Béziers e Narbona, che curavano soprattutto gli studi scientifici. A Lunel, dal maestro Samuel Ibn Tibbon apprese le scienze, la matematica e la medicina; studiò filosofia, in particolare la Guida dei perplessi di Mosè Maimonide, e iniziò a tradurre dall'arabo all'ebraico opere scientifiche, di logica e astronomia. La famiglia dei Tibbonidi (v. Ibn Tibbon, famiglia), di cui Samuel è il maggior rappresentante, ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo degli studi filosofici in Provenza. Qui, infatti, sebbene fossero fiorenti gli studi talmudici e la letteratura midrashica, non vi era una vera e propria tradizione filosofica.
Gli ebrei di Provenza, a differenza di quelli di Spagna, non conoscevano l'arabo, lingua in cui erano redatte le maggiori opere filosofiche. La famiglia dei Tibbonidi curò il complesso lavoro di traduzione ‒ dall'arabo all'ebraico ‒ che rese accessibile agli ebrei quasi tutte le opere della cultura greca, le opere scientifiche e filosofiche degli autori musulmani e anche le opere ebraiche che erano state redatte in arabo.
Grazie a tali traduzioni si diffusero in Provenza la conoscenza e lo studio dei testi filosofici. Testi basati essenzialmente sulla filosofia greco-araba, in particolare su Aristotele e Platone, con i loro commentatori: Alessandro di Afrodisia e Temistio, al-Fārābī, Avicenna, Ibn Baǧǧa (Avempace), Averroè. Soprattutto la traduzione ebraica di Samuel Ibn Tibbon della Guida dei perplessi segnò per gli ebrei provenzali una tappa culturale estremamente significativa. Maimonide, inserendo nel testo biblico la filosofia aristotelica, fondò un metodo esegetico che impresse una svolta decisiva allo sviluppo del pensiero. L'esegesi filosofica del testo biblico da lui delineata, integrando temi concettuali propri del pensiero aristotelico con il testo rivelato, ne permetteva, infatti, una lettura razionale. Grazie a questa lettura molti passi biblici, fino ad allora incomprensibili sul piano razionale, divennero chiari.
Nel XIII sec. nacque così in Provenza una vera e propria scuola di esegesi maimonidea che ritenne compito 'sacro' trasmettere le 'verità filosofiche' contenute nella Guida dei perplessi. I filosofi ebrei provenzali ‒ rifacendosi, oltre che a Maimonide, anche ad Averroè e ad Abraham Ibn Ezra ‒ si dedicarono all'interpretazione filosofica del testo biblico e dei testi tradizionali (Talmud e Midrashim) nella convinzione che la filosofia fosse il senso profondo della rivelazione divina e della stessa tradizione rabbinica. In questo contesto si inseriscono la formazione e l'attività di Anatoli. Nella seconda decade del XIII sec., la Guida dei perplessi, nella traduzione di Samuel Ibn Tibbon, circolò in molte città della Provenza e fu apprezzata e studiata nei circoli razionalisti, trovando però numerose opposizioni in quelli antirazionalisti. I tradizionalisti, oltre a criticare in toto la lettura razionalista del testo biblico, accusarono Maimonide di aver negato la resurrezione dei morti e di aver svelato molti dei segreti della Torah. Il contrasto fra i cosiddetti tradizionalisti e i razionalisti sfociò in aperto conflitto dopo l'inizio della grande controversia maimonidea del 1232. Non sappiamo se J. abbia preso attivamente posizione nella controversia o se venne coinvolto negli eventi che seguirono al 1232, ma nel Malmad ha-talmidim, riguardo alla dottrina della resurrezione, scrisse che era falsamente attribuita all'"uomo di Dio, il Rabbi, nostro maestro, Mosè bar Maimon, la non credenza nella resurrezione dei morti" (Jacob Anatoli, 1866, c. 52v).
J. nei suoi scritti difende Maimonide, sostenendo molte delle sue idee, come l'importanza dello studio della filosofia, il carattere intellettuale dell'immortalità, l'indispensabilità dell'interpretazione allegorica della Scrittura. La tensione che generò la controversia maimonidea e il diffondersi dell'antirazionalismo furono certamente le cause che spinsero J. a lasciare la Provenza. Nel Malmad ha-talmidim fa riferimento all'antirazionalismo di "molti dei rabbini" del suo tempo e nell'Introduzione scrive che dovette interrompere le omelie filosofiche che usava tenere il sabato in sinagoga per l'opposizione di alcuni membri della comunità (ibid., c. 12). J., infatti, in Provenza esercitava l'attività di predicatore. Leggeva pubblicamente la Torah proponendone un'interpretazione filosofico-razionale, il che molto probabilmente gli procurò nemici.
Spinto da questi avvenimenti e in cerca di un clima più tranquillo, nel 1231 lasciò la Provenza per recarsi a Napoli presso la corte di Federico II. Mantenne, però, ancora a lungo i contatti con la Provenza e con i circoli razionalisti di Narbona e Béziers, dove aveva iniziato i suoi studi filosofici. J. fu invitato a corte dallo stesso imperatore in qualità di medico e traduttore. Federico II, interessato alla conoscenza del pensiero aristotelico, sostenne sia la diffusione delle traduzioni dall'arabo in latino e in ebraico dei testi aristotelici e dei commenti averroistici, sia la divulgazione del pensiero di Mosè Maimonide, il maggior rappresentante della corrente aristotelica della filosofia ebraica medievale, che, a differenza dell'Italia, era studiato in Spagna e in Provenza. Invitò quindi presso la sua corte filosofi e traduttori di origine spagnola o provenzale proprio per diffondere il pensiero di Maimonide e la sua interpretazione dell'aristotelismo. Tra questi il primo sapiente ebreo chiamato a corte fu proprio Rabbi Jacob Anatoli.
In Italia, J. creò una sorta di scuola maimonidea: una nuova corrente filosofica che sarà caratteristica degli ebrei italiani e che si esprimerà principalmente nell'interpretazione e nello sviluppo del pensiero di Mosè Maimonide e di Samuel Ibn Tibbon. Come fa notare Giuseppe Sermoneta (1969, p. 34), con J. la tradizione maimonidea si affermò saldamente nell'Italia meridionale. La Guida deiperplessi avrà enorme diffusione e sarà oggetto di studi approfonditi e sistematici. Presso la corte di Federico II prese corpo la collaborazione tra studiosi ebrei e cristiani, con un ruolo non indifferente svolto dai Domenicani e dai Francescani, che avevano un evidente interesse ideologico e dottrinale alla diffusione dell'opera di Maimonide in cui trovavano soprattutto argomenti per giungere a una possibile conciliazione tra filosofia e fede su basi aristoteliche.
Probabilmente J. visse presso la corte di Federico II dal 1231 al 1240; qui collaborò con Michele Scoto nel lavoro di traduzione, dall'arabo all'ebraico, di parte del Commento di Averroè alle opere di Aristotele, contribuendo in tal modo al complesso movimento culturale che ebbe come risultato la diffusione in Occidente di una più approfondita conoscenza del pensiero aristotelico. Egli iniziò a Napoli tali traduzioni, che sono datate dal 1231 (anno in cui giunse alla corte di Federico) al 1235. Tradusse, dall'arabo all'ebraico, i Commenti di Averroè ad alcuni trattati della logica aristotelica (Isagoge di Porfirio, Categorie, De interpretatione, Primi e Secondi Analitici). Nel colophon di questo corpus di traduzioni (datate marzo 1232) egli scrisse di compiacere il desiderio dell'imperatore Federico, "l'amante delle scienze, che mi sostiene". Nella Prefazione sottolineava la necessità di studiare la logica sia per comprendere il Talmud, sia, soprattutto, per affrontare le controversie religiose: "per rispondere alle obiezioni, alle critiche, cui gli ebrei sono sottoposti". Come nell'Introduzione del Malmad ha-talmidim, anche in questo caso ribadì che i maestri del Talmud non avevano incoraggiato lo studio della filosofia. Tradusse poi l'Almagesto di Tolomeo, completato a Napoli nel 1235; il Compendio dell'Almagesto di Averroè; gli Elementi di astronomia di al-Fargānī, quest'ultimo sulla base di una traduzione latina utilizzando in parallelo il testo originale arabo. Sicuramente tali traduzioni furono determinanti per la formazione del filosofo, così come lo fu la conoscenza dell'interpretazione averroistica di Aristotele.
Non si hanno informazioni precise sulla vita di J. dopo il 1236. Non sappiamo se rimase in Italia o meno. Morì probabilmente nel 1256.
Il Malmad ha-talmidim fu certamente scritto dopo la collaborazione con Scoto. Quando J. parlava di lui, infatti, usava sempre il passato: "il sapiente con il quale collaborai". Scoto muore intorno al 1236, ed è probabile che il testo sia stato scritto tra il 1237 e il 1240. Il trattato è composto da quarantotto derashot (sermoni) ‒ ordinati secondo la successione settimanale dei brani che venivano letti nella sinagoga nell'arco di un anno ‒ e da un'introduzione. Il testo, scritto originariamente in ebraico, ha una vasta tradizione manoscritta. È stato edito una sola volta dalla società Mekize Nirdamim, nel 1866, sulla base di due manoscritti (quello di Londra, British Library, ms. Margoliout 376, datato 1404, e una copia redatta ad Ancona nel 1683). Nell'Introduzione al Malmad ha-talmidim, J. dichiara che lo scopo principale dell'opera è incitare allo studio, alla profonda comprensione della Torah e ritiene che solo una lettura filosofica ne possa cogliere il significato profondo.
Per questo, nel trattato, critica ripetutamente la lettura superficiale della Torah e la sua mera osservanza priva di comprensione e riflessione. Attacca duramente il culto formale e il lassismo delle pratiche religiose. Sebbene non faccia nomi, nel Malmad ha-talmidim riferisce di maestri del Talmud che promuovono l'analisi e l'applicazione dei testi legali, mentre scoraggiano qualsiasi forma di speculazione e ostacolano lo studio della filosofia. È molto critico verso questi talmudisti, che considerano sufficienti gli studi halakici (legali-normativi) e l'osservanza pratica della Legge (l'aspetto rituale) ma trascurano l'aspetto teoretico gnoseologico. Secondo J. non basta la semplice osservanza senza comprensione intellettuale. L'atto rituale è importante per il suo insegnamento, e ha valore solo quando è associato all'attività intellettuale-contemplativa. Il fine supremo degli atti religiosi è stimolare la contemplazione di alcune verità teoretiche. L'intento principale del filosofo consiste nel dare una spiegazione razionale delle verità di fede e a questo scopo, nel Malmad ha-talmidim, J. interpreta filosoficamente il testo biblico, per mezzo dell'allegoria, traducendolo soprattutto in termini aristotelici.
Il tentativo di J. s'inscrive nel più ampio sforzo, proprio di questi secoli, di reinterpretazione delle tradizionali fonti ebraiche antiche alla luce della cultura medievale che integrava la filosofia e la scienza di origine greca, trasmessa e interpretata dai filosofi arabi, con la tradizione monoteistica. J., inoltre, che aveva appreso direttamente dal noto traduttore della Guida dei perplessi, Samuel Ibn Tibbon, il pensiero di Maimonide, vide se stesso come autentico depositario della dottrina di quest'ultimo. E il Malmad ha-talmidim può essere considerato il primo commento alla Guida dei perplessi, inaugurando così una consuetudine che sarà seguita da tutti i più importanti filosofi ebrei medievali. La Guida dei perplessi è ritenuta il vero commento alla Scrittura e l'interpretazione filosofico-allegorica, in essa contenuta, l'unica capace di cogliere il senso profondo e nascosto della Parola rivelata. I sermoni di J. si basano, così, sul tipo di esegesi filosofica di Maimonide, esegesi che distingue tra il significato letterale, chiaro (galuy), che è comprensibile a tutti, e il significato nascosto (nistar), conosciuto solo dai filosofi. Solo leggendo filosoficamente la Scrittura, traducendola in termini filosofici, in particolare aristotelici, è possibile comprendere razionalmente le verità di fede.
Nel trattato è presente sia il riferimento a Maimonide e ad Aristotele ‒ come era tramandato nelle scuole arabe, con i commenti di Averroè e Avicenna ‒ sia ad elementi neoplatonici, ma vi è anche l'eco della cultura della corte di Federico II nonché della Scolastica cristiana. J., infatti, come tutti i filosofi ebrei medievali vissuti in Italia, da un lato mantenne pienamente l'identità ebraica, dall'altro visse in perfetta simbiosi culturale con l'ambiente circostante. Proprio tale simbiosi tra ebrei e cristiani, l'affinità e la vicinanza ideologica, la comunanza di interessi teologici e filosofici, determinerà un'intensa collaborazione culturale. Così nel Malmad ha-talmidim si trovano, accanto alle interpretazioni bibliche di Mosè Maimonide o di altre fonti della tradizione ebraica, quelle del cristiano Michele Scoto e dello stesso imperatore Federico II. Probabilmente J. è il primo filosofo ebreo che, nell'interpretazione del testo biblico, si avvalse dell'esegesi di un commentatore cristiano.
Il Malmad ha-talmidim, inoltre, in quanto principale opera di transizione dal pensiero di Maimonide all'estensione postmaimonidea, include importanti mutamenti e deviazioni dagli insegnamenti del grande filosofo. In un certo senso, J. si spinse oltre l'insegnamento maimonideo sia per l'ampio uso del metodo allegorico che per la diversa visione di alcuni temi. Il Malmad ha-talmidim è stato visto da alcuni studiosi come fonte preziosa di testimonianze storiche sia per i passi che trattano dell'imperatore Federico II e di Michele Scoto, sia per gli attacchi al culto formale, all'ipocrisia del popolo ebraico e ad alcune usanze dei cristiani, come per esempio la vita monastica. Infatti J., vivendo in un ambiente di intellettuali cristiani, ebbe l'opportunità di apprendere direttamente dai cristiani il loro pensiero e le loro dottrine. Nel trattato, egli fa riferimento anche alle dottrine dualistiche che la Chiesa considerava eretiche: a coloro che credono che il mondo fisico sia una creazione di Satana (Jacob Anatoli, 1866, c. 118v) e a coloro che sostengono che vi siano due dei, uno buono e uno malvagio (ibid., cc. 173v e 183v). Nomina esplicitamente i patarini (ibid., c. 115r), attribuendo loro l'idea che la creazione del mondo fisico sia opera non di Dio ma della decima intelligenza celeste. Fornisce importanti informazioni sulle correnti di pensiero che si sviluppano nel XIII sec., in particolare sulle tendenze hassidiche e cabbalistiche che iniziavano a diffondersi proprio in quel periodo. J. ‒ che fa riferimento più agli insegnamenti pratici di tali movimenti mistico-ascetici, che alle loro idee e ai principi teorici ‒ è molto critico soprattutto verso le pratiche del movimento hassidico, che insegnavano l'ascetismo, il rifiuto del mondo materiale, l'automortificazione. Egli ritiene del tutto inammissibile l'ascetismo fine a se stesso: può avere un senso solo se è inserito nel processo di perfezionamento dell'essere umano, come mezzo per distaccarsi dal mondo fisico al fine di giungere allo stato contemplativo proprio del perfetto (shalem).
Il Malmad ha-talmidim è un testo interessante e ricco di spunti filosofici. In esso vengono affrontati alcuni grandi temi propri della filosofia medievale: l'esistenza di Dio, le prove della sua esistenza, la creazione del mondo ex nihilo, il rapporto tra Dio e il mondo, la provvidenza divina, il rapporto fede-filosofia, la ricompensa, la profezia, la visione dell'uomo, la sua perfezione, l'anima, la sapienza, i limiti della conoscenza umana e della possibile conoscenza di Dio. L'uomo, ultimo nella creazione delle cose composte, è unione di materia e forma: per il suo corpo è legato alla materia, per la sua anima alla forma. Nella descrizione della sua duplice composizione J. si sofferma più sull'aspetto morale che su quello ontologico e in particolare affronta il problema dell'istinto del male (yeser ha-ra') insito nell'individuo, legato alla sua parte materiale. Ogni soggetto vive una lotta interiore tra il bene e il male, tra l'intelletto e i cattivi istinti. Il filosofo, con un fine evidentemente educativo, descrive nei minimi dettagli questa lotta e la difficoltà di dominare l'inclinazione al male. Egli, infatti, sente come uno dei suoi compiti principali quello di mostrare la "giusta strada" e di insegnare come seguirla. Nessuno può giungere alla sapienza, alla perfezione da solo, ma ha bisogno di un maestro, di una guida: sono necessari l'insegnamento e lo studio.
L'uomo ha bisogno dell'educazione per elevarsi dallo stato animale a quello propriamente umano e avvicinarsi al divino e J., in modo incisivo e profondo, illustra che l'essere umano può divenire perfetto solo con l'insegnamento della Torah. Fine ultimo della Torah è, a suo avviso, insegnare l'amore di Dio e l'osservanza dei comandamenti. Questi sono i principi fondamentali della fede e della corretta condotta morale. La maggior parte dei precetti della rivelazione mira a disciplinare l'uomo, sia sotto il profilo sociale che sotto quello religioso, e in tal modo a plasmare un individuo moderato, equilibrato e, di conseguenza, una società giusta. J. propone un sistema etico di equilibrio e moderazione caratterizzato dal rifiuto di ogni forma di eccesso nel comportamento umano, rielaborando così la dottrina della "via di mezzo". L'etica, a sua volta, è concepita come strumento: tramite un giusto comportamento morale si compie un'ascesi spirituale che progressivamente avvicina a Dio. Il filosofo, seguendo la visione aristotelico-maimonidea, afferma che l'anima è la forma del corpo. Essa è costituita da tre parti (o potenze): anima nutritiva o vegetativa, anima sensitiva, anima razionale o intellettiva. Tra le varie parti dell'anima quella superiore è l'intelletto (sekhel) ‒ o anima intellettiva ‒ che costituisce la peculiarità dell'essere umano. L'intelletto è ciò che rende l'uomo simile a Dio. Così, nella frase biblica "facciamo l'uomo a nostra immagine" (Genesi 1, 27), l'espressione "a nostra immagine", secondo l'esegeta, si riferisce alla forma dell'uomo, ossia all'intelletto. Solo per l'intelletto e la conoscenza (da'at) l'essere umano è simile a Dio.
A proposito delle tre potenze dell'anima, J. propone un'interessante interpretazione allegorica in analogia con i tre figli del primo uomo (Caino, Abele e Set) e le tre classi sociali. Caino (che lavorava la terra) rappresenta la potenza nutritiva e la classe dei lavoratori, di coloro, cioè, che provvedono ai bisogni materiali; Abele (che era pastore) simboleggia la potenza sensitiva e la classe dei governanti che si occupano di organizzare la società; Set simboleggia la potenza razionale e la classe dei sapienti e dei profeti. J., in tale interpretazione allegorica, che aveva una lunga tradizione (già da Filone di Alessandria), sembra il primo dei filosofi ebrei medievali a stabilire un'analogia tra le potenze dell'anima, i tre figli del primo uomo e le tre classi sociali dello stato platonico. Precedentemente l'esegesi era legata soltanto a Caino e Abele: Caino rappresentava l'uomo politico (sociale) e Abele l'uomo spirituale. In J., invece, Caino rappresenta l'uomo bestiale (behemy), Abele l'uomo politico (mediny) e Set l'uomo spirituale (ruhany). È interessante vedere, inoltre, come il filosofo associ la teoria dell'anima aristotelica e la divisione delle classi sociali dello stato platonico con il pensiero di Averroè. J., come già Maimonide, insiste molto sul carattere sociale dell'uomo, che definisce, infatti, "sociale per natura". L'uomo non può provvedere da solo alle esigenze materiali, alla sussistenza del corpo, ma ha bisogno della collaborazione degli altri.
Abraham Melamed (1988, pp. 100-110) ha messo bene in luce che, rispetto agli altri commentatori ebrei, J. si sofferma maggiormente sull'interpretazione politica che è influenzata dalla cultura della corte di Federico II. Le esegesi allegoriche di J. alla Torah e in particolare al Libro dei Proverbi, in effetti, abbondano di commenti di natura politico-sociale. A tal proposito è utile ricordare che, per l'esegeta, compito del predicatore (darshan) è indirizzare la moltitudine al giusto comportamento sociale e alla fede, mettendo in atto gli insegnamenti della Torah. Il predicatore, inoltre, deve guidare ogni uomo alla perfezione. J. sostiene che la vera perfezione è quella intellettuale, che passa attraverso la perfezione morale. Spiegando il pensiero maimonideo, egli distingue due perfezioni: del corpo e dell'anima. La prima è necessaria in quanto strumentale per giungere alla seconda. Per pervenire alla perfezione del corpo è indispensabile l'adempimento dei bisogni (materiali) primari, ricercando solo ciò che è necessario, senza indulgere al superfluo. Per raggiungere la perfezione dell'anima è necessaria l'acquisizione della sapienza, della conoscenza. Tale perfezione è essenzialmente di ordine contemplativo, realizzabile tramite l'intelletto, concentrandosi sulle verità metafisiche e su Dio.
L'autore torna numerose volte nel Malmad ha-talmidim sulla necessità che l'individuo raggiunga le due perfezioni: quella morale e quella intellettuale. Entrambe, inoltre, per il filosofo, coincidono con la santità. La santità consiste, infatti, nel tenersi lontani dagli eccessi e dal superfluo e nell'imitatio Dei, che si attua seguendo l'insegnamento della Torah. Così, commentando il versetto 19 di Levitico 2 "siate santi perché Io sono santo", illustra che la santità si basa sull'imitatio Dei.
Riguardo al processo gnoseologico J. ribadisce la necessità di procedere per gradi nell'acquisizione della sapienza. Prima si studieranno le cose più semplici, poi quelle più complesse. La sapienza, comunque, non si può trasmettere a tutti ma solo a chi è in grado di recepirla. Il filosofo insiste molto sulla necessità di esprimere in "modo nascosto" o ambiguo le verità, iscrivendosi, così, in una lunga tradizione di esoterismo filosofico, iniziato già con Socrate, Aristotele e Platone. In questa tradizione esoterica, le verità possono essere comprese solo da un numero limitato di uomini, preparati a riceverle, e devono, quindi, essere trasmesse nel rapporto diretto da maestro a discepolo. Qualora le verità non possano essere trasmesse oralmente, devono essere scritte tra le righe, di modo che solo quanti ne sono capaci possano recepirle. Ciò vale anche per la conoscenza della Torah e di Dio. J., in sintonia con la concezione divina propria dell'ebraismo, è profondamente convinto che l'essenza di Dio sia imperscrutabile. Nonostante ciò, tutta la sua opera è pervasa dalla meditazione su Dio, dal desiderio di conoscerlo: anche se l'essenza propria di Dio rimane inconoscibile, l'essere umano deve sforzarsi di avvicinarsi a lui. Dio è assolutamente trascendente, altro, rispetto al mondo sensibile, ma se la sua comprensione speculativa è impossibile, è invece possibile conoscere le sue azioni.
Per questo motivo J., come già Maimonide, afferma che gli attributi di azione, tra quelli positivi, sono gli unici che possono essere predicati di Dio. E riallacciandosi alla teologia negativa propria della tradizione neoplatonica, di Filone di Alessandria e di Maimonide, egli afferma che, oltre quelli di azione, gli altri attributi predicabili di Dio sono quelli negativi. J., come molti dei filosofi a lui contemporanei, unisce le radici della sapienza ebraica con la tradizione filosofica greca, che gli giunge mediata da quella araba. Per quanto riguarda le fonti filosofiche è molto difficile tener separate all'interno dei suoi scritti la tradizione neoplatonica da quella aristotelica. Studia Aristotele, Averroè, che conosce molto bene avendone tradotto i testi, e Maimonide, ma nello stesso tempo subisce l'influenza degli scritti neoplatonici. Nel Malmad ha-talmidim cita il filosofo neoplatonico Abraham Ibn Ezra e probabilmente conosce anche il pensiero di altri filosofi ebrei neoplatonici quali Judah ha-Cohen e Yisac Ibn Latif. Come ha evidenziato Aviezer Ravitzky (1982, pp. 32-37), nel Malmad ha-talmidim sono presenti vari temi neoplatonici, quali il concetto di numeri, il loro sviluppo progressivo in analogia con la gerarchia dell'essere, la teoria dell'emanazione graduale dallo spirituale al materiale. Tre figure hanno comunque un ruolo fondamentale nella formazione del filosofo: Mosè Maimonide, Samuel Ibn Tibbon, suocero e maestro di J., e Michele Scoto.
Ma è l'influenza di Maimonide quella determinante. Le citazioni dalla Guida dei perplessi sono innumerevoli; non bisogna, infatti, dimenticare che J. sente come uno dei suoi compiti fondamentali la lettura e la diffusione dei testi di Maimonide. Le idee filosofiche, etiche, cosmologiche del grande filosofo sono citate costantemente nel Malmad ha-talmidim. Ma più che singole idee, ciò che J. acquisisce dal maestro è il metodo di interpretazione della Scrittura e delle fonti rabbiniche. Nel Malmad ha-talmidim, in riferimento alla classificazione dei termini della Scrittura (termini metaforici, equivoci, anfibologici), vengono citati il Milot ha-Higgayon (Scritto di logica) di Maimonide e l'Introduzione alla Guida dei perplessi. Anche se J. non cita espressamente il Mishneh Torah e Gli Otto Capitoli, vi sono numerosi passi del Malmad ha-talmidim che ricordano molto da vicino questi testi maimonidei. Vi sono anche alcuni punti di divergenza tra i due che è utile ricordare. Per esempio, mentre Maimonide rifiuta l'astrologia, J., sicuramente influenzato da Michele Scoto, si sofferma invece su alcune dottrine astrologiche; inoltre dà un'interpretazione diversa del significato dei precetti e fa un uso più ampio dell'esegesi allegorica.
Samuel Ibn Tibbon ebbe un ruolo molto importante nella vita di J. ed è citato nell'Introduzione al Malmad ha-talmidim come colui che aprì i suoi occhi alla comprensione della Guida dei perplessi di Maimonide. Samuel, che aveva fatto propria l'esegesi filosofico-allegorica e la usava diffusamente nei suoi scritti, insegnò all'allievo come applicarla. L'autore, nell'Introduzione al Malmad ha-talmidim, cita il Commento a Qoelet di Tibbon e, con un tono che esprime grande stima e rispetto, consiglia a tutti coloro che cercano Dio e i suoi segreti di leggere quel libro. Spesso, inoltre, lo menziona nel trattato ma senza rendere esplicito il riferimento.
Michele Scoto, che era filosofo, traduttore e astrologo alla corte di Federico II, fu collaboratore di J. e suo maestro. L'esegeta, nell'Introduzione al Malmad ha-talmidim, dichiara di aver ricevuto "saggi insegnamenti" dal "sapiente Michele", da lui chiamato ha-hakham shehithaabarti 'immo ("il sapiente con il quale collaborai o al quale mi associai"). Puntualizzando che questo sapiente non faceva parte del suo popolo (ossia non era ebreo), sottolineava che non per questo si dovevano disprezzare i suoi insegnamenti. È interessante notare che J., spiegando perché accetta le interpretazioni di un commentatore cristiano, dichiara apertamente che la scienza, nonché l'esegesi biblica, sono o vere o false a prescindere dalla religione di chi le enuncia. Nel Malmad ha-talmidim Scoto è citato sempre con espressioni di rispetto che rivelano un rapporto da maestro a discepolo piuttosto che di parità. J. lo presenta come un profondo conoscitore della filosofia (anche di quella maimonidea) e delle scienze naturali. Le esegesi bibliche del sapiente cristiano sono citate venti volte nel Malmad ha-talmidim e riflettono le sue conoscenze scientifiche. Scoto, infatti, nella lettura allegorica fa spesso uso di osservazioni sulla natura. Le sue interpretazioni riportate nel Malmad ha-talmidim riguardano alcuni importanti temi, quali la nozione intellettuale di immortalità, lo studio progressivo delle scienze fino a giungere a quella più alta, la metafisica, la negazione della dottrina dualistica, la provvidenza divina. J. ci informa anche del fatto che Scoto gli chiedeva spiegazioni riguardo al significato di alcuni termini ebraici e al loro uso nel testo biblico (Jacob Anatoli, 1866, c. 170r). Come si può desumere da quanto l'autore scrive nell'Introduzione al Malmad ha-talmidim, i due erano soliti leggere insieme il testo biblico e confrontare le loro diverse esegesi: "[…] presentandosi davanti a noi un versetto [biblico], egli lo interpretava dottamente, io ne accettavo l'interpretazione e la scrivevo, riferendola in suo nome, non intendendo gloriarmi di vesti prese in prestito, per farmi fama di sapiente. Né mi si critichi, né mi si disprezzi per quanto ho riferito a suo nome, non appartenendo egli al nostro popolo. Le cose vanno analizzate in se stesse, e non ha importanza se le abbia dette questi o un altro".
J., nel Malmad ha-talmidim, riporta anche alcune interpretazioni bibliche di Federico II. L'imperatore è descritto come perfetto conoscitore del pensiero maimonideo e del testo biblico. Molto interessante è la citazione di Federico riguardo all'interpretazione della materia prima. J. ci parla di una conversazione con l'imperatore in persona, nella quale si discuteva se vi fosse o meno un'unica materia comune al cielo e alla terra. L'imperatore fa un'analogia tra la materia prima così come era concepita da Aristotele e la neve che sta sotto il trono di Gloria. Commentando il versetto di Esodo 24, 10: "quando i saggi di Israele videro il 'biancore di zaffiro' (livnath ha-sappir) che è sotto il trono di gloria", J. spiega: "Mosè con la parola biancore (livnath) voleva indicare la materia prima (ha-homer ha-rishon). Il Maestro (Maimonide, Guida dei perplessi, II, 26) mettendo in relazione con questo versetto il passo rabbinico: 'Dio crea la terra prendendo la neve che è sotto il trono di gloria' faceva un'analogia tra il termine 'neve', 'biancore' e la 'materia prima' come la concepiva Aristotele [...]. E il nostro signore, il re Federico, ha spiegato il perché dell'uso della parola 'neve' al posto di 'materia prima'. La neve è bianca e ciò che è bianco può ricevere qualsiasi forma di colore […] parimenti la materia prima può ricevere tutte le forme" (Jacob Anatoli, 1866, c. 53v). Ci troviamo chiaramente di fronte ad una metodica esegetica che, volendo dichiaratamente restare fedele alla fisica e alla metafisica aristoteliche, ne inserisce i principi nel testo rivelato, leggendo ogni singolo termine in chiave allegorica. Nel Malmad ha-talmidim Federico è ricordato anche a proposito della spiegazione razionalistica che aveva dato al precetto di sacrificare animali nel santuario, spiegazione che era frutto della lettura di analoghe interpretazioni fornite da Maimonide nella Guida deiperplessi. Si tratta del motivo per cui certi animali sono stati preferiti per i sacrifici, piuttosto che altri. Federico spiega che occorreva portare come offerta al tempio di Gerusalemme soltanto animali domestici, che fossero di proprietà del donatore. Secondo l'imperatore il sacrificio non ha valore in se stesso, ma dimostra la volontà di chi lo offre, che deve sacrificare qualcosa di proprio; se offrisse animali non domestici che non gli appartengono, per definizione l'offerta perderebbe il suo significato.
Scrive J.: "Il nostro signore e gran re, l'imperatore Federico, voglia il Cielo farlo vivere e gli prolunghi i giorni, spiegò la ragione all'aver Dio comandato di offrire sacrifici delle specie bovina e ovina, e non di altri animali. Egli disse che scopo del sacrificio è il compiere la volontà di Dio; non sarebbe dunque possibile appagarlo, facendo uso di un qualcosa che non ci appartiene. Ma i buoi e le pecore sono specie domestiche e proprietà dei loro padroni […] mentre gli altri animali sono selvatici, e non hanno padrone […] quindi sono come non nostri: perciò furono esclusi dagli altari" (ibid, c. 92v). Come mette in luce Giuseppe Sermoneta, Federico nelle testimonianze di J. appare come un razionalista, sostenitore di un aristotelismo moderato, ossia di un aristotelismo tutt'altro che in contrasto con la fede. L'imperatore viene descritto come un uomo colto e di buon senso, le cui convinzioni si basano sempre sulla ragione (Sermoneta, 1980, pp. 187-192).
L'influenza del Malmad ha-talmidim fu preminente in Italia e in Provenza. In Italia J. diede impulso allo sviluppo degli studi filosofici, insegnò e diffuse l'esegesi razionalista dei testi tradizionali. La sua opera sicuramente influenzò suo figlio Anatolio, Mosè da Salerno, Zerahiah Hen e Immanuel Romano, tutti autori che spesso lo citano esplicitamente nelle loro opere. In Provenza fu seguito da Mosè Ibn Tibbon e da Menahem Meiri. È importante infine ribadire il valore dell'apertura di J. al mondo cristiano e del suo rapporto con Michele Scoto; inoltre la capacità con cui egli riuscì a conciliare dottrine e interpretazioni diverse, spinto da un profondo amore per la sapienza, dal desiderio di incitare alla ricerca, e dalla volontà di comprendere fino in fondo le verità contenute nel testo biblico. Ciò è chiaramente espresso dallo stesso J. in un passo dell'Introduzione, dove, specificando i due significati del titolo Malmad ha-talmidim, scrive con grande umiltà: "Scopo del mio trattato è incitare alla ricerca, e l'ho intitolato Malmad ha-talmidim sia perché la parola Malmad significa nello stesso tempo insegnamento e pungolo-stimolo, sia perché non ho preteso di aver composto un libro di sapienza (sefer ha-hokmah), ma un testo che possa essere 'stimolo' per la ricerca della verità".
Fonti e Bibl.: Jacob Anatoli, Malmad ha-talmidim, Lick 1866 (rist. Gerusalemme 1965; le traduzioni riportate nel testo sono dell'autrice); The Guide of the Perplexed. Moses Maimonides, a cura di S. Pines, Chicago 1963. M. Steinschneider, La letteratura italiana dei Giudei, "Il Buonarroti", ser. II, 8, 1873, p. 133; M. Güdemann, Geschichte des Erziehungswesens und der Cultur abendländischen der Juden in Italien während des Mittelalters, Wien 1884, trad. ebraica di S. Fredberg, Varsavia 1899, pp. 126-128, 161-167; E. Renan-A. Neubauer, Les rabbins français du commencement du quatorzième siècle, in Histoire littéraire de la France, XXVII, Paris 1887, pp. 580-589; M. Steinschneider, Die hebräischen Übersetzungen des Mittelalters und die Juden als Dolmetscher, Berlin 1893, pp. 56, 58, 481-482, 523, 555; C.H. Haskins, Studies in the History of Medieval Science, New York 1927 (rist. 1960), pp. 272-298; R. 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