JACOMETTO Veneziano
Ignoti sono il luogo e la data di nascita di questo artista, il cui nome è stato tramandato da due sole fonti: la lettera di Michele de Placiola a Ermolao Bardelino del 1497 (Luzio) e il diario cinquecentesco di Marcantonio Michiel, in cui sono segnalate le opere di J. in alcune case patrizie di Padova e Venezia.
Nulla si conosce di J. prima del 1472, anno in cui eseguì un ritratto, da considerarsi perduto, del neonato Carlo Bembo, figlio di Bernardo (Michiel, p. 31). A quella data J. doveva essere un pittore già formato: sue caratteristiche erano il ritratto di piccole dimensioni, dipinto a olio su tavola secondo la maniera fiamminga, e la miniatura, tecnica in cui, secondo Michele de Placiola, "fo el primo homo del mondo" (Luzio). In più occasioni Marcantonio Michiel (pp. 31, 52, 55, 57) segnala con ammirazione i suoi lavori in miniatura e i suoi disegni.
Su queste testimonianze si basa l'attribuzione a J. delle splendide iniziali che aprono i trentasette libri della Naturalishistoria di Plinio il Vecchio della collezione di Holkham Hall (ms. 394), tradotta in italiano da Cristoforo Landino e stampata a Venezia nel 1476 da Nicolas Jenson.
L'assegnazione a J. di questo prezioso incunabolo, già suggerita da Otto Pächt, è stata riproposta da Mariani Canova e Hassal, ma senza ottenere unanime consenso, visto che in studi più recenti si preferisce riferire il Plinio di Holkham Hall alla cerchia del Maestro dei Putti (Dillon Bussi, p. 29). Ugualmente difficili sono altre assegnazioni, tra cui spicca quella dell'importante Psalterium della Bodleian Library di Oxford (Can. Lit., 410), che secondo Pächt e Armstrong (pp. 32-34) potrebbe essere identificato con "li quattro principii di uno officiolo in capretto inminiati sottilissimamente et perfettamente", visto da Michiel (p. 55) in casa di Francesco Zio a Venezia nel 1512. Il breviario di Oxford, che invece Mariani Canova (p. 155) attribuisce a Girolamo da Cremona, è in ogni caso vicino alle miniature che ornano il manoscritto di Aristotele M.1483 della Pierpont Morgan Library di New York, per il cui anonimo autore è stato avanzato il nome di J. (Pächt - Alexander, pp. 45 s.). Non è invece sua la miniatura con David nello studio, già nella Fondazione Cini di Venezia, che sembra essere piuttosto opera del Maestro degli Uffici di Montecassino (Dillon Bussi, p. 31).
Nel 1481 J. ritrasse di profilo Pietro Bembo, "che l'era di anni undici" (Michiel, p. 31). Anche questo ritratto, come quello di Carlo, si trovava nella collezione di Pietro Bembo a Padova, insieme con un quadretto con "scene di vita di un santo", tutte opere finora non identificate.
A partire da Frimmel, la maggior parte della critica è invece concorde, con l'eccezione di A. Dillon Bussi, nel riconoscere nelle due tavolette della collezione Robert Lehman (New York, Metropolitan Museum of art) i due ritratti visti da Michiel nel 1543 in casa di Michele Contarini a Venezia, raffiguranti Alvise Contarini e una Monaca di S. Secondo (Michiel, p. 58).
È possibile, anche se tutt'altro che certo, che le due tavole, dipinte a olio, di piccole dimensioni (rispettivamente cm 11,8 x 8,4 e cm 10,2 x 7,1), fossero in origine unite, secondo l'uso quattrocentesco dei ritratti matrimoniali (Brown, p. 154). L'ipotesi è sostenibile ammettendo che il ritratto femminile non rappresenti una religiosa, ma una dama veneziana (come forse conferma il fatto che, nonostante il velo, le spalle della donna sono scoperte), e che di conseguenza Michiel abbia commesso un errore. La funzione matrimoniale è suffragata dal retro del ritratto di Alvise, dove alla figura di un cerbiatto in catene si accompagna la scritta "AIEI", in greco "per sempre": la fedeltà in amore è dunque legata (letteralmente, perché la scritta compare sul medaglione da cui parte la catena) alla virtù della continenza. Ben poco si vede purtroppo nel retro del ritratto muliebre: forse una figura maschile seduta sullo sfondo di un paesaggio lacustre o fluviale, che la Dülberg (p. 228) ha messo a confronto con una medaglia di Giulio Della Torre, dove un'immagine simile è abbinata all'iscrizione "Vita incerta". Tuttavia A. Dillon Bussi (pp. 34 s.), basandosi sul fatto che le due tavole non sono perfettamente uguali e riscontrando dissonanze con la descrizione del memorialista veneziano, ha proposto di attribuire i due ritratti ad Alvise Vivarini. Così facendo la studiosa è stata obbligata a rigettare in toto la produzione pittorica di J., il cui catalogo in effetti si fonda solo sulle tavole Lehman: J. sarebbe allora esclusivamente miniatore, forse lo stesso che si nasconde sotto il nome di Maestro delle Sette Virtù, uno dei maggiori decoratori di libri attivi a Venezia tra ottavo e nono decennio del Quattrocento. Comunque stiano le cose, i due dipinti di New York, datati generalmente intorno al 1485-90, mostrano un'abilità non comune nella definizione dei profili, ricostruiti con puntualità fiamminga, secondo il magistero di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini, cui si unisce una minuzia descrittiva e colori vivaci e limpidi che tradiscono un lungo esercizio da enlumineur. Di più, le due tavole offrono una preziosa testimonianza dell'uso del ritratto-emblema, frutto di stretti rapporti con la cultura umanistica veneta, come del resto confermano i ritratti dei fratelli Bembo: proprio questi ultimi sarebbero, secondo una suggestiva ipotesi (Brown, p. 145), il prototipo della tipologia del doppio ritratto - dipinto sul dritto e sul verso - che fu utilizzata anche da Leonardo nella Ginevra Benci di Washington, commissionata forse dallo stesso Bernardo Bembo.
Intorno ai ritrattini Lehman la critica (Heinemann, 1962 e 1991; Fredericksen - Zeri) ha raccolto un piccolo catalogo, composto quasi solo di ritratti, in genere di modeste dimensioni, a volte accompagnati nel retro da motti e/o emblemi.
Tra questi spicca il Ritratto virile della National Gallery di Londra (n. 3121), una tavola dipinta a olio e tempera databile pure al nono decennio, sul cui retro corre un'iscrizione: "Felices ter et amplius / quos / irrupta tenet copula", che è un verso tratto dalle Odi di Orazio (I, 13, vv. 17-18). Una simile ostentazione di cultura umanistica si riscontra anche nel retro del Ritratto di donna del Museum of art di Filadelfia (collezione Johnson), pure degli anni 1480-90, dove un'iscrizione recita: "VLLLLF / delitiis animum / exple / post mortem / nulla volup/tas", che è un classico epigramma sulla vanitas della vita umana, i cui piaceri vanno assaporati in fretta. La tavola ritrae una donna non più giovane, dal doppio mento e il lungo naso appuntito, e proprio l'accentuato verismo ha fatto anche pensare alla mano di Jacopo de' Barbari (Aikema - Brown, p. 326). Vicino a queste opere, forse antecedente, è il Ritratto di giovane del Metropolitan Museum of art di New York (n. 49.7.3), che sembra essere stato direttamente esemplato su quello di Antonello da Messina conservato a Washington. Non presenta invece alcuna iscrizione il Ritratto di giovane della National Gallery di Londra (n. 2509), una piccola tavola dipinta a tecnica mista, olio e tempera. Pure di J. è il bel Ritratto di donna del Museum of art di Cleveland, un olio su tavola che raffigura una figura femminile abbigliata in modo simile alla Monaca di S. Secondo. Degli ultimi anni dovrebbe essere il Ritratto di giovane in veste di s. Sebastiano (New York, Museum of fine arts), una piccola tavola, probabilmente decurtata, un tempo attribuita a Giovanni Battista Cima da Conegliano, ma riconsegnata a J. da Fredericksen e Zeri. Deboli opere tarde sono anche il Ritratto di donna del Rijksmuseum di Amsterdam, un tempo ritenuto di V. Carpaccio (Heinemann, 1991, p. 80), e il Ritratto di donna di Filadelfia (Museum of art, collezione Johnson, n. 243).
Nell'ipotetico catalogo di J. l'unica opera non ritrattistica potrebbe essere il S. Sebastiano dell'Accademia Carrara di Bergamo, un olio su tavola di piccole dimensioni, sulla cui attribuzione si discute ancora molto (Rossi). Si tende invece a escludere un suo intervento nella celebre Caccia in laguna del John Paul Getty Museum di Malibu, California, oggi riconosciuta unanimemente come opera di Carpaccio, ma che Michelangelo Muraro pensava di avvicinare al nome di J. in virtù del famoso trompe-l'oeil con il porta-lettere sul retro della tavola.
Non sono state rintracciate le altre opere di J. viste da Marcantonio Michiel: "el quadretto delli animali di chiaro et scuro" in casa di Zuanantonio Venier (p. 55); "el retratto de Francesco Zanco, de chiaro et scuro d'acquarella negra", "el libretto in cavretto in ottavo con li anemali et candelabri de pena", entrambi in casa di Gabriele Vendramin (p. 57), nonché "li molti dissegni" in casa di Antonio Pasqualino (p. 51). Sempre Michiel, ricordando in casa dello stesso Pasqualino il S. Girolamo nello studio, oggi alla National Gallery di Londra, sulla cui paternità è incerto tra Jan van Eyck, Hans Memling e Antonello da Messina, riferisce l'opinione di alcuni che "credono che la figura sii stata rifatta da Jacometto Veneziano" (p. 56): una notizia quasi sempre poco accreditata, ma che è stata riproposta da A. Dillon Bussi per avvalorare l'identificazione di J. col Maestro delle Sette Virtù (pp. 36 s.).
J. morì sicuramente prima del 10 sett. 1497, data della lettera di Michele de Placiola (Luzio), in cui l'umanista tessendo le lodi di Giulio Campagnola affermava che le sue miniature non erano inferiori a quelle del quondam Jacometto.
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