Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’attività di Jacopo Barozzi vede in sé compendiate le conquiste e gli sviluppi della teoria e della pratica architettonica del Cinquecento: dalle frequentazioni dell’ambiente di Sebastiano Serlio in Francia, agli studi romani su Vitruvio e le rovine classiche, per giungere alla sistematizzazione degli ordini architettonici con la trattazione della Regola e, quindi, con la messa a punto del modello per gli edifici religiosi – di gran lunga il più fortunato in tutta la cattolicità – cioè la tipologia delle chiese controriformate.
La formazione e le opere di Vignola tra Roma, Fontainebleau e Bologna
Trasferitosi in giovane età da Vignola a Bologna, Jacopo Barozzi inizia il proprio apprendistato artistico come pittore, dedicandosi anche allo studio dell’architettura e soprattutto della prospettiva: Vasari ricorda come il governatore Francesco Guicciardini giudicando di alta qualità alcuni suoi studi, li faccia tradurre in tarsie lignee per la chiesa di San Domenico.
Intorno al 1536 il giovane Vignola muove alla volta di Roma dove, affiliato all’Accademia Vitruviana di Claudio Tolomei e all’entourage del cardinale Alessandro Farnese (il futuro Paolo III), inizia una campagna di rilevamento dei monumenti antichi che sarebbe dovuta confluire in una nuova edizione commentata, ma mai venuta in luce, del trattato di Vitruvio. Quell’esperienza consolida comunque le amicizie di Jacopo, ad esempio con i fiorentini allora nell’Urbe – Vasari e Ammannati in particolare –, e gli permette di approfondire la propria preparazione culturale, facendo anche della teoria architettonica uno dei suoi ambiti d’interesse.
Tra il 1541 e il 1545, Vignola è alla reggia di Fontainebleau, centro assai vitale del manierismo, dove lavora con Primaticcio come fonditore di grandi bronzi su modello di pezzi antichi, specializzandosi anche nelle quadrature prospettiche degli ambienti interni; a quel soggiorno, se non prima, dovrebbe risalire il contatto personale con Sebastiano Serlio e, quindi, con le sue riflessioni sull’architettura.
Il 1543 è l’anno in cui il Vignola torna in Italia: a Bologna, la seconda città dello Stato Pontificio, ottiene, sempre grazie alle amicizie maturate a Roma presso i Farnese, l’incarico assai prestigioso di direttore della Fabbrica di San Petronio. Con i soprastanti alla chiesa, però, ha un rapporto assai burrascoso che culmina nel 1547 con la sua liquidazione, addirittura dopo una difesa del suo operato. L’attività vignolesca nell’edificio bolognese si apre, in prosecuzione di lavori già eseguiti fin dal XIV secolo, con una Relazione sopra gli errori compiuti dai suoi predecessori; in essa egli denuncia una sostanziale mancanza di gerarchia tra le porte minori e la porta maggiore, i cui piedritti spiccano da un unico basamento continuo, per poi passare alla redazione di un suo progetto del quale ci restano due elaborati, non molto dissimili tra loro, esemplati sulla volontà di modificare, ma nello stesso tempo di non stravolgere quanto era già stato impostato in epoca gotica. L’architetto cerca infatti di mantenere i ritmi compositivi propri del gusto tardogotico e, pur proponendo una complessiva tripartizione orizzontale della facciata in più livelli scanditi dagli ordini, accentua lo slancio verticale degli elementi portanti, adottando sottili pilastri allungati fino ai pinnacoli; mentre, ancora un dichiarato omaggio alla Bologna trecentesca è costituito dalle trifore gotiche che egli propone nella parte alta.
Durante i sette anni a Bologna Vignola redige anche altri progetti, tra i quali realizza il baldacchino del Corpus Domini, sempre per San Petronio, con una cupoletta su tamburo ottagono posta al di sopra di un’edicola a colonne architravate frontonate. In seguito si dedica alla realizzazione di progetti commissionati dalla famiglia Boncompagni (in città e in residenze di campagna) che però – non essendo attestate dal suo biografo Egnazio Danti – costituiscono da decenni una vera e propria crux storiografica. È probabile che il cantiere del Palazzo urbano, iniziato da Peruzzi, venga in seguito ereditato da Vignola: agli anni tra il 1544 e il 1545, e all’ideazione o comunque al controllo vignolesco, sarebbero in particolare da ricondurre alcune parti della scala elicoidale.
Contemporaneamente è in costruzione Palazzo Bocchi, proprietà di un amico di Alessandro Manzuoli, un bolognese membro dell’ entourage farnesiano a Roma e protettore di Vignola. Si tratta di un palazzo le cui novità formali, decenni dopo, inquietano a tal punto Danti, da indurlo ad attribuire le scelte più eterodosse di Vignola alla scelta di “seguire gli umori del padrone” e non la propria vena progettuale. Barozzi vi realizza, ancora una volta, una scala elicoidale, oltre all’edicola prospettica nel cortile; ma è nella facciata che le sperimentazioni del linguaggio manieristico vignolesco si dispiegano con maggiore enfasi e novità per l’ambiente bolognese.
La fronte “di bona architectura toscana” (come sottolinea il cronachista Pietro Lamio nel 1560) mostra una spiccata attenzione per la diversa natura delle bozze di pietra rustica: una scarpa bugnata in basso – la scarpatura del basamento rimane un elemento ricorrente nelle architetture vignolesche, da Caprarola al Palazzo Comunale di Velletri, a Piacenza – si associa alle bugne del portale e dei piedritti delle finestre, che appaiono in questo caso cinghiate e alternate, fino alla sommità delle finestre stesse, dove i conci vengono invece dispiegati a ventaglio e il fregio appare fortemente incassato, facendo quasi levitare il frontone.
A Bologna Barozzi è investito anche di vitali incarichi di natura idraulica, come quelli per il Canale navile e per gli attraversamenti (il ponte sul Samoggia), fino all’impianto del complesso delle Moline per i mugnai, caso singolare di unità artigiane pianificate e specializzate nel sistema protoindustriale della “città d’acque” bolognese.
Anni dopo, Vignola è coinvolto in un’altra importantissima iniziativa cittadina: tra il 1562 e il 1568, anche se il progetto risale ad alcuni anni prima, viene infatti incaricato di progettare il portico dei Banchi, opera che si pone come fulcro del generale riassetto previsto per la parte orientale della piazza Maggiore, a fianco del lungo porticato dell’Archiginnasio, realizzato invece dal Terribilia. L’intervento, aperto al centro da uno svettante arcone, allude a un arco di trionfo antico e si pone come un collegamento con l’antico tessuto urbano retrostante: ricucitura ideale che si sarebbe dovuta realizzare pienamente con la monumentalizzazione di questo accesso attraverso due torrette laterali concluse da volute e pinnacoli. Piazza Maggiore, come antico foro dei Romani, rinverdisce così i fasti della latina Bononia, seguendo l’esemplare intervento fiorentino degli Uffizi e la rinnovata fortuna della trattatistica sulle piazze di Alberti.
Quest ’intervento sancisce il ritorno a Bologna di Vignola dopo anni di assenza.
Le opere della maturità: architetture papali e farnesiane
Nel 1550 Barozzi viene richiamato a Roma da papa Giulio III e, insieme alle committenze farnesiane, ottiene incarichi sempre più prestigiosi. Del 1551-1553 è la realizzazione, per volere del papa, del tempietto di Sant’Andrea in via Flaminia, impostato su una planimetria rettangolare, con annesso sacello – un impianto riferibile, dunque, alla Sagrestia Nuova di Michelangelo – e copertura a cupola ellittica su pennacchi; una cupola esemplata a un gusto per le forme policentriche tipico della sensibilità manieristica e in linea con quella descrizione vasariana che vuole Vignola dotato di “capriccioso ingegno e invenzione”. In questo primo intervento la mediazione vignolesca si presenta però ancora molto spiccata: è come se il tempietto costituisse un tradizionalistico edificio centrale, con chiari rimandi formali alle soluzioni presenti nel Pantheon (come nella facciata), poi “tirato” e deformato solo in alto, lungo un asse, mentre l’interno risulta scandito da un rigoroso sistema di fasce e paraste che si susseguono con ritmi molto serrati.
Del 1551-1558 è l’intervento di Vignola in Villa Giulia. Nel cantiere, nel quale sono coinvolti anche Vasari e Ammannati, Barozzi si interessa principalmente alla progettazione della residenza. Mentre lo spazio dei cortili retrostanti, a più livelli e con esedre, è caratterizzato da un’articolazione piuttosto complessa, in facciata l’edificio vignolesco appare assai più bloccato, scandito dal solo rilievo della zona centrale d’accesso con le due gradi colonne rustiche e poi dalla loggia trifora in alto. La parte retrostante, aperta verso la natura, non rinuncia invece a un puntuale legame con le fonti classiche, riferite ai modelli della villa rustica, attraverso il grande emiciclo porticato che ricorda il complesso del Laurentino di Plinio il Giovane. In quel vasto porticato è molto interessante anche la strutturazione delle colonne ioniche che reggono una trabeazione rettilinea; lo stesso motivo ritorna - non a caso - nella parte inferiore del loggiato dorico degli Uffizi di Vasari, che rivendica come suo anche questo intervento in Villa Giulia; tuttavia, in entrambi i casi, si tratta piuttosto di un suggerimento michelangiolesco derivante dalle quinte del Campidoglio a Roma.
Nello stesso periodo, il legame sempre più stretto di Vignola con il cardinale Alessandro Farnese porta all’architetto ulteriori incarichi di grande rinomanza professionale. Tra questi – a partire dal 1556 – la progettazione della villa di Caprarola. Fondato su un basamento fortificato pentagonale, ideato da Peruzzi e realizzato da Antonio da Sangallo, il nuovo edificio vignolesco ne sfrutta l’articolazione dei bastioni, per ricavarvi delle terrazze incentrate su raccordi a rampe ancora una volta ellittiche; il complesso, inoltre, chiude scenograficamente la via principale di Caprarola: la villa diviene così il centro prospettico, assumendo una spiccata rilevanza urbanistica. Il grande prisma della residenza, aperto su tutti i lati da numerose finestre che contraddicono del tutto l’origine del luogo forte, appare poi addirittura traforato sulla fronte principale, scandita in due registri da una sovrapposizione di ordini (dorico, ionico e corinzio) e addirittura aperta, tra le lesene ioniche, dagli archi di una galleria. Il “capriccioso ingegno” di Vignola emerge anche in questa realizzazione: quelle arcate rinunciano infatti a spiccare da un’aletta laterale a ogni pilastro, com’era divenuto canonico dopo Bramante e Serlio, e nella loro continuità si connettono piuttosto alle imposte utilizzate nell’architettura quattrocentesca fiorentina (e, ancora una volta, albertiana). All’interno del prisma della residenza, infine, viene scavato un singolare cortile di forma circolare, l’ennesima e chiara allusione antiquaria al racconto che Plinio il Giovane fa sulla villa, in questo caso con la corte centrica, dato che i codici delle Epistulae non concordano nel tramandare se quel cortile fosse a forma di D, come riproposto a Villa Giulia, oppure di O. Sul lato, alla sinistra dell’ingresso, si apre la famosa scala elicoidale, che richiama quella bramantesca del Belvedere, anch’essa realizzata in un edificio di ambiente semiagreste com’era in origine la palazzina di papa Innocenzo VIII in Vaticano. La realizzazione della scala vignolesca, inoltre, ha il pregio di occupare uno degli angoli del pentagono; nonostante, di lì a pochi anni, l’intervento susciti delle perplessità nello stesso committente che a questo proposito chiede una perizia – risultata poi favorevole – a un vecchio amico di Vignola, Bartolomeo Ammannati.
Un capitolo particolare è costituito dagli interventi di Vignola nei territori farnesiani del Ducato di Parma e Piacenza.
L’architetto è a Parmain varie occasioni tra il 1559 e il 1564 e, comunque, dovendo tornare a Roma o Caprarola, lascia sempre il proprio figlio Giacinto, o suoi collaboratori, a seguire i vari cantieri. Tra gli interventi principali va certamente annoverato il Palazzo Ducale di Piacenza: Vignola giunge a Piacenza nel 1560, su richiesta del duca Ottavio Farnese, fratello del cardinale Alessandro, per occuparsi del palazzo, iniziato poco prima da Francesco Paciotto, e per il quale egli redige una serie di disegni di progetto. Vengono poi demoliti vecchi fabbricati, ma ben presto i soprastanti al cantiere lamentano il costo della nuova versione, troppo ricca di ordini, finestre e cornici, con una scala a lumaca e addirittura un antiquario teatro di forma ellittica con loggiato superiore (mai eseguito). La tensione si acuisce con il ritorno di Francesco Paciotto, e nel 1564 Vignola deve recarsi di nuovo a Piacenza per rimettere a punto il proprio progetto (nell’occasione viene anche incaricato di altre realizzazioni nei domini farnesiani minori, come quelle per il palazzo di Cittaducale in Abruzzo). A Piacenza, dopo la realizzazione del sotterraneo e del pianterreno, Vignola fa realizzare il “salotto”, un appartamento destinato al ricevimento di ospiti illustri cui fa seguito l’impianto del loggiato a L, a cinque arcate, con piedritti continui in altezza scavati da aperture (ora purtroppo trasformate in nicchie) e grandi absidi di raccordo agli angoli; absidi che introflettono quegli andamenti convessi, tanto cari alla progettazione vignolesca, e che saranno invece fragorosamente denunciati nella Chiesa dell’Annunziata a Parma.
Nella seconda fase costruttiva del palazzo, dopo anni di stasi (dal 1569 al 1588), il progetto di Vignola – morto ormai da tempo – viene ripreso e in parte modificato. Da notare è la costruzione dell’ottagonale Cappella Palatina che denuncia ancora un chiaro sapore vignolesco, riecheggiandone gli studi sugli spazi centrici e, in particolare, quelli affrontati per la progettazione, sempre per conto del cardinale Farnese, di Santa Maria Scala Coeli presso San Paolo alle Tre Fontane a Roma (opera anch’essa realizzata nel 1583 da Giacomo Della Porta.
Le opere di Vignola a Parma, secondo i documenti, riguardano principalmente lavori idraulici, eseguiti a partire dal 1560 per il Canale Naviglio, e poi un ponte di pietra; ma non manca anche un progetto per rinforzare la torre del Comune e, pare, anche per il Giardino farnesiano e per la residenza del Giardino (1561). In quest’ultimo edificio l’aspetto della parte mediana della facciata, che presenta una loggia con arco centrale rialzato e travate ritmiche, si sarebbe dovuto collegare alla facciata di Villa Giulia a Roma.
In quegli stessi anni Vignola attende alla redazione di due importantissime opere di teoria architettonica: la Regola delli cinque ordini del 1562 e la Regola della prospettiva pratica, edita postuma nel 1583 con il commento di Egnazio Danti. Si tratta di due volumi che compendiano l’esperienza vignolesca, dando ad essa – specie con la Regola – una grande notorietà che durerà fino all’Ottocento, grazie a un approccio alla materia estremamente pragmatico.
Oltre al completamento della fronte posteriore di Palazzo Farnese, alla direzione della Fabbrica della basilica di San Pietro (dal 1564, ma è un momento di stasi per il cantiere petriano, per i grossi problemi legati alla costruzione della cupola michelangiolesca) e forse alla progettazione della distesa facciata di Santa Maria dell’Orto (del 1564-1567), Vignola ottiene anche una serie di interventi negli Orti farnesiani sul Palatino, che saranno poi continuati nel Seicento. Il colle, sede mitica della nascita di Roma e luogo di residenza degli imperatori con sicuro significato simbolico per la dinastia dei Farnese, viene movimentato da rampe e terrazze scenografiche, alle quali si accede attraverso un grande portale monumentale (ora rimontato nei pressi dell’Arco di Costantino), fino a giungere ai grandi Ninfei, sulla cima, edificati su antichi criptoportici e, quindi, alle Uccelliere (il giardino circostante è stato demolito nell’Ottocento).
Ancora del 1565 sono le opere per Sant’Anna dei Palafrenieri, dove ritorna il tema dell’intersecazione tra il rettangolo e la forma ellittica che questa volta viene estesa a tutta la parete inscritta; parete che all’interno è articolata dalla presenza di colonne annicchiate, poste ad interassi diseguali per marcare i due assi compositivi principali dell’ellisse. Tale realizzazione avviene pressoché in contemporanea con la costruzione della chiesa della Santissima Annunziata a Parma, i cui lavori, iniziati nel 1566, vengono seguiti da Giovan Battista Fornovo (collaboratore del Vignola a Caprarola), al quale le fonti locali hanno sempre attribuito l’edificio. Non vi sono documenti che attestino l’ideazione del complesso da parte di Jacopo Barozzi ma la planimetria ellittica, così in linea con le ricerche vignolesche, la presenza delle cappelle radiali estroflesse, che formano un serrato ritmo concavo-convesso (e non è difficile immaginare che anche la cupola seicentesca ricalchi l’idea iniziale), oltre a un linguaggio degli ordini architettonici che mostra una grande dimestichezza con il loro montaggio (vi sono anche qui le colonne annicchiate, anche se sulla fronte) rappresentano caratteri che orientano fortemente verso un orizzonte d’ideazione vignolesco.
Nel 1568 l’architetto progetta per il cardinale Farnese, e per i Gesuiti, la Chiesa del Gesù a Roma. I lavori per questo cantiere portano a un raffreddamento dei rapporti tra Barozzi e il suo tradizionale committente per un sostanziale disaccordo, cui si aggiunge anche quello dei religiosi in merito alla facciata (realizzata poi da Giacomo della Porta). Dopo un primo progetto, ancora una volta di forma ellittica – secondo quanto attesta il Codice Biringucci a Siena – la realizzazione richiama i modelli dell’umanesimo albertiano, in linea con una più ampia tendenza culturale di recupero degli ideali quattrocenteschi: lo spazio viene scandito in una navata voltata a botte, sulla quale si aprono tre cappelle laterali per lato, e crociera presbiteriale coperta da una grande cupola, con evidente richiamo ad esempi albertiani, quali il Tempio Malatestiano di Rimini e, soprattutto, Sant’Andrea di Mantova. Un modello, questo, messo a punto per la Chiesa del Gesù, che viene poi utilizzato in gran parte degli edifici degli ordini religiosi controriformati, diffondendosi in tutta la cattolicità.
Dal 1568 fino alla sua morte, Vignola è impegnato anche nella costruzione di Villa Lante a Bagnaia (1568-1578), per conto del cardinale Giovanni Francesco Gambara che, imparentato con i Farnese, ha seguito la costruzione della villa di Caprarola. La villa è un esempio fortemente innovativo per l’epoca dal momento che la strutturazione del giardino prende il sopravvento rispetto all’architettura costruita: per la prima volta l’asse centrale dell’intero complesso non risulta occupato da un volume pieno, ma da elementi paesaggistici – come rivoli d’acqua, scalinate e fontane – mentre i casini residenziali di forma cubica (quello di sinistra è addirittura del 1590-1612) vengono dislocati ai lati di tale asse proprio per non occuparlo.
Le opere di Vignola finiscono per diventare così celebri – il suo ultimo progetto è addirittura per la basilica di San Lorenzo all’Escorial in Spagna, per la quale gli viene chiesto un parere – che già a pochi anni dalla sua morte ne vengono pubblicate descrizioni (come quella di Francesco Villamena del 1617), dopo che Egnazio Danti, già nel 1583, traccia un profilo biografico dell’architetto, storiograficamente venato da un netto taglio critico che ne vuole affievolire proprio l’“ingegnoso capriccio ed inventione”.