JACOPO DA BENEVENTO
La commedia intitolata De uxore cerdonis si conclude con questo di-stico (vv. 435-436): "Iacobus istud opus metrice conscripsit ut omnis / qui leget hic, discat spernere vile lucrum [Iacopo ha esposto questa vicenda in versi perché chiunque legga impari a disprezzare il guadagno ignobile]". Tali versi d'explicit pongono il problema dell'identificazione dell'autore, questione di cui si è occupato per primo Charles Homer Haskins nel 1928. Lo studioso inglese avanzò con cautela la proposta di identificare questo "Iacobus" con il coevo autore dei Carmina moralia, ovvero J., che aveva tradotto in latino, rielaborandola ampiamente in settecentoventiquattro versi, la raccolta di Proverbi che constava di settantasette lasse in sirventese (per un totale di trecentootto versi) compilata da Schiavo da Bari anteriormente al 1235.
Haskins si basava sull'incipit in esametri dei Carmina moralia ("Incipiunt Sclavi de Baro consona dicta / a Beneventano Iacopo per Carmina ficta") e sull'explicit in distici ("Excipiunt Sclavi huius proverbia Bari / que Beneventanus composuit Iacopus"). Questo Iacopo da Benevento, sempre secondo Haskins, va distinto dal più noto frate domenicano omonimo, attivo intorno al 1360 ‒ al quale Giulio Bertoni (Comunicazioni ed appunti, "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 58, 1911, pp. 271-272) attribuiva, invece, oltre ai Carmina moralia, il più celebre Viridarium consolationis ‒ e va identificato con lo "Iacobus" autore di una commedia elegiaca allora inedita, ovvero il De cerdone.
Nello stesso 1928 Hans Niewöhner pubblica l'editioprinceps della commedia, basata sul manoscritto più antico P (Pavia, Biblioteca Universitaria, Aldina 42, sec. XIII ex., cc. 1r-5v) e su due manoscritti tedeschi, E (Erfurt, Stadtbibliothek, Amplonianus Q 21, saec. XIV1, cc. 140v-147r) e M (München, Staatsbibliothek, Clm 443, trascritto da Hartmann Schedel tra il 1479 e il 1496, cc. 152-159). Dieci anni dopo Ezio Franceschini (1937-1938) pubblica il De uxore cerdonis. Non conoscendo l'edizione di Niewöhner, Franceschini ritiene ancora inedita questa commedia, che colloca verso la metà del sec. XIII; si basa anch'egli su P, il già noto codice di Pavia, e su due manoscritti italiani, A (Milano, Biblioteca Ambrosiana, O 63 sup., saec. XV2, cc. 194-202) e B (ivi, E 43sup., compilato da Antonio Veneto da Monterubbiano, negli anni 1475-1476, cc. 105-114).
Nell'edizione più recente (Jacopo da Benevento, 1998) si sostiene l'impossibilità di delineare uno stemma soddisfacente, vista l'esistenza di contaminazioni nei rami alti della tradizione e, più in generale, di trivializzazioni poligenetiche tanto estese da oscurare i reali rapporti tra i testimoni. Già Ludovico Antonio Muratori (1740, col. 916) aveva proposto l'identificazione tra l'autore dei Carmina moralia e quello del De uxorecerdonis, oggi corroborata da una trentina di passi paralleli.
Ora non sussistono più dubbi in merito all'identificazione: l'autore del De uxore cerdonis e dei Carmina moralia fu il giudice J., al quale papa Innocenzo IV aveva affidato nel 1247 l'ufficio di cancelliere del tribunale della sua città. Nella seconda metà del sec. XIII, dunque, il giudice beneventano J. compose un poemetto in distici elegiaci, che alterna parti dialogate a sezioni narrative, in parte affine alla commedia elegiaca De Paulino et Polla, che un altro giudice meridionale, Riccardo da Venosa (v.), aveva dedicato tra il 1228 e il 1229 a Federico II di Svevia.
La commedia, che consta di due parti, si può riassumere in questo modo: la bellissima moglie di un povero calzolaio accende i sensi di un prete, brutto ma ricco, suscitando in lui una passione incontenibile (vv. 1-36). Nella figura del presbiter confluiscono due tópoi della casistica amorosa medievale: il motivo dell'incurabile ferita d'amore e l'opposizione fra l'elemento inibitorio del pudor / timor e quello di sprone costituito dalla pulsione del desiderio, che si innesta sul primo in chiave parodica, perché di solito questo contrasto sconvolge il cuore della fanciulla innamorata, mentre qui si lega alla figura del seduttore (cf. i vv. 41-42). Non potendo avvicinare la donna di persona, il prete si rivolge a una vecchia ruffiana, detentrice indiscussa dell'arsrhetorica e delle sue subdole strategie di persuasione. Costei, dietro lauto compenso, si presenta in casa della donna per indurla, con varie lusinghe, a cedere alle voglie del prete; ma la giovane la respinge sdegnosamente, intimandole di non farsi mai più vedere (vv. 37-172). La vecchia, sconsolata e impaurita, esorta il prete a mettersi il cuore in pace, ma poi, vedendolo disperato e pronto al suicidio, decide di ritentare la sorte e di ripresentarsi in casa della giovane, carica di doni (vv. 173-228). Questa volta la parlantina della ruffiana e, soprattutto, i ricchi regali fanno breccia nel cuore della giovane, inducendola a cedere (vv. 229-274). Ribaltando l'etica vigente, la vecchia afferma che, per la giovane, l'accondiscendere ai desideri del prete equivarrebbe non solo a salvargli la vita, ma anche a ottenere subito, data la veste dell'innamorato, la remissione del peccato, mentre resistergli significherebbe la morte di dolore per l'uomo e la conseguente dannazione eterna per lei: anche qui, come sempre, la ruffiana dà prova di sottile penetrazione psicologica e d'indubbia abilità dialettica, in grado di far breccia nella corazza morale della giovane, approfittando con astuzia della sua ingenua ignoranza.
Informato del felice esito della missione, il prete si abbandona all'esultanza e promette alla vecchia riconoscenza eterna (vv. 275-302). Intanto, però, la giovane riferisce tutto al marito, delegandogli di fatto la difesa del proprio onore minacciato, ma costui, dopo averla lodata per il suo comportamento, decide di tendere una trappola al prete, sorprendendolo all'improvviso per ricattarlo, dopo avergli fissato un appuntamento con l'amata (vv. 303-366). La donna, colta di sorpresa dalla squallida reazione del suo improbabile paladino, non può far altro che prestarsi, benché malvolentieri, al gioco avvilente che la tramuta in oggetto di ricatto.
Così, sia pure con una certa riluttanza, ella acconsente a mettere in opera il piano del marito e convoca il prete. Costui accorre al convegno amoroso, ma, per prudenza, si arma; poi, entrato nella casa della sua bella, chiude la porta a chiave. Così, nel finale il piano venale del cerdo fallisce, ritorcendosi contro di lui, mentre il presbiter riesce ad appagare i propri desideri con la donna, che, lungi dal subire effettivamente violenza, benché all'inizio tenti di respingere l'adultero, finisce per partecipare all'amplesso, ansimando (anxiat) ed emettendo lunghi sospiri di piacere. Su questo abbandono ha certamente pesato il compiacimento di sentirsi oggetto di un desiderio intenso e violento, quel desiderio che nel rapporto coniugale era ormai spento, ammesso che fosse mai esistito. Così il prete, dopo aver trascorso l'intera notte tra le braccia dell'amata, al mattino, si allontana allegro, sbeffeggiando l'ingenuo calzolaio (vv. 367-410). A questo punto la commedia si chiude con una lunga (e posticcia) tirata moralistica dell'autore contro l'avidità di turpe guadagno (vv. 411-436): ventisei versi di carattere gnomico posti in coda a un componimento che di morale ha ben poco e che, anzi, si può definire il trionfo dell'immoralità. È l'amore illecito, delle cui tentazioni è portavoce la ruffiana, a vincere sulla fedeltà coniugale, dipinta come una realtà sordida e meschina.
Il racconto, il cui inizio, come la contemporanea commedia Asinarius, ha il tono di una favola ("Uxor erat quedam cerdonis pauperis olim"), trascorre ben presto nel realismo, per poi passare al cinismo e concludersi moralisticamente. I quattro personaggi che danno vita all'intreccio, assumendo a turno il ruolo di protagonista, benché risultino modellati in parte sui loro antecedenti franco-britannici del sec. XII, paiono tuttavia prefigurare alcuni tipi classici della commedia umanistica e rinascimentale: il marito tonto della Mandragola di Machiavelli, la quintessenza della ruffiana immortalata nella Celestina da Fernando de Rojas, i giovani e le giovani di tante commedie che si amano e si lasciano senza problemi (come certi loro prototipi boccacciani), e, soprattutto, il prete corrotto e seduttore.
Fonti e Bibl.: edizioni del De uxore cerdonis: H. Niewöhner, De uxore cerdonis, "Zeitschrift für Deutsches Altertum und Deutsche Literatur", 53, 1928, pp. 65-92; E. Franceschini, Due testi latini inediti del basso Medioevo, "Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Padova", 54, 1937-1938, pp. 61-88 (ora in Id., Scritti di filologia latina medievale, I, Padova 1976, pp. 205-229); Jacopo da Benevento, De uxore cerdonis, a cura di F. Bertini, in Commedie latine del XII e XIII secolo, a cura di Id., VI, Genova 1998, pp. 429-503 (Notizie introduttive, pp. 431-454, in partic. sulla tradizione manoscritta cf. pp. 443-447, Bibliografia, pp. 525-526). Dei Carmina moralia esistono due edizioni: quella in Studi di filologia medievale e umanistica, a cura di A. Altamura, Napoli 1954, pp. 47-80 (basata su un solo manoscritto: Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. Lat. XII 15 [4088], cc. 52v-63v), e quella, inedita, di A. Martoriello (Proverbia Iacobi Beneventani, tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, a.a. 1936-1937), il cui testo critico si basa sul ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana, 357 (M. III 4), del sec. XIII-XIV, cc. 67v-92. L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, III, Mediolani 1740; W. Wattenbach, Hartmann Schedel als Humanist, "Forschungen zur Deutschen Geschichte", 11, 1871, pp. 351-374; É. Berger, Les registres d'Innocence IV, Paris 1884; R. Stauber, Die Schedelsche Bibliothek, Freising 1906; S. Debenedetti, Il 'Sollazzo' e il 'Saporetto'con altre rime di Simone Prudenzani di Orvieto, "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 1913, suppl. 15; C.H. Haskins, Latin Literature under Frederick II, "Speculum", 3, 1928, pp. 129-151 (anche in Id., Studies inMediaeval Culture, Oxford 1929); A. Martoriello, Iacopo da Benevento, "Archivum Romanicum", 23, 1939, pp. 62-78; T. Kaeppeli, Iacopo da Benevento O.P., "Archivio Italiano per la Storia della Pietà", 1, 1951, pp. 465-479; F. Babudri, Jacopo da Benevento e Schiavo da Bari, "Archivio Storico Pugliese", 11, 1958, pp. 88-107; S.L. Wailes, Role-playing in Medieval Comediae andFabliaux, "Neuphilologische Mitteilungen", 75, 1974, pp. 640-649, in partic. pp. 645-646; F. Bertini, Il 'De uxore cerdonis', commedia latina del XIII secolo, "Schede Medievali", 6-7, 1984, pp. 9-18; Id., Letteratura latina medievalein Italia, Busto Arsizio 1988, pp. 112-113; Id., Le 'Commedie elegiache' del XIII secolo, in Tredici secoli di elegia latina. Atti del Convegno internazionale (Assisi, 22-24 aprile 1988), Assisi 1989, pp. 249-263, in partic. sul De uxore cerdonis cf. pp. 256-263; A. Bisanti, 'Fabliaux' antico-francesi e 'commedie' latine: alcuni sondaggi esemplificativi, "Schede Medievali", 18-19, 1990, pp. 5-22; F. Doglio, Rapporti fra le diverse esperienze drammatiche europee nel Medio Evo: la commedia elegiaca, ambito italiano, in Id., Il teatro scomparso. Testi e spettacoli fra ilX e il XVIII secolo, Roma 1990, pp. 161-181; A. Bisanti, A proposito del'De uxore cerdonis'di Iacopo da Benevento, "Filologia Mediolatina", 6-7, 1999-2000, pp. 295-309; F. Bertini, Postilla all'edizione del 'De uxore cerdonis' di Iacopo da Benevento, in La traditionvive. Mélanges d'histoire des textes en l'honneur de Louis Holtz, a cura di P. Lardet, Paris-Turnhout 2003, pp. 433-440 (con 5 tavv. fotografiche).