ISOLANI, Jacopo
Nacque a Bologna verso il 1356 primogenito dei quattro figli di Giovanni di Domenico e di Alenia (Alignia) di Gentile Alidosi.
Nel 1378 sposò Bartolomea, figlia postuma del ricco banchiere Ligo Ludovisi, e dal matrimonio nacquero Giovanni, Agostino, Domenico, Marzia e Margherita.
Il 4 sett. 1381, presentato da Bartolomeo da Saliceto e Sante de Dainesi, superò brillantemente l'esame privato di diritto civile e il 25 genn. 1382 ottenne per grazia speciale l'aggregazione al Collegio dei dottori dello Studio con effetto dal superamento dell'esame pubblico, cosa che avvenne il successivo 27 gennaio. Dal marzo 1385 all'agosto 1387 partecipò alle sedute del Collegio e presentò candidati agli esami privati e pubblici, ma non è certo che abbia anche svolto un insegnamento ufficiale.
Appena raggiunta l'età prescritta, l'I. fu chiamato a incarichi pubblici. Membro del Consiglio generale dal 1385, nel maggio e giugno 1386 fu nel Collegio degli anziani che stroncarono il tentativo dei Pepoli e dei loro sostenitori di assumere una posizione di potere in città. Nel gennaio e febbraio 1387 fu ancora degli Anziani e, subito dopo, membro degli Otto di pace, una Balia straordinaria che affiancò nelle decisioni più delicate gli organi di governo. Dall'agosto 1387, inizio della crisi della fazione maltraversa cui per tradizione familiare anche l'I. aderiva, cessò la sua partecipazione al Collegio dei dottori, ed è quindi da presumere che si sia allontanato dalla città. Nel dicembre 1389 quando il padre, arrestato a novembre, accusato di cospirare a favore di Gian Galeazzo Visconti, fu processato, l'I. da Imola, retta dal congiunto Bertrando Alidosi, indirizzò ai massari delle singole arti una lettera per sollecitarne l'intervento a favore del padre, ma l'appello restò inascoltato. Due dei supposti cospiratori, tra i quali il padre dell'I., furono condannati a morte e altri furono banditi e privati dei beni. Il 29 marzo 1390 fu pubblicata la sentenza che confinava l'I. per cinque anni ad Arezzo.
Anche il fratello Battista fu bandito, ma la madre ottenne la revoca del provvedimento dimostrandone l'estraneità ad attività contrarie al regime. Diverso era stato evidentemente il comportamento dell'I. ed è forse per questo motivo che la divisione dei beni del padre dell'I. fra i tre fratelli fu sottoposta al controllo dei Difensori dell'avere: nei registri d'estimo dell'ultimo decennio del XIV secolo Ludovico e Battista risultano titolari di un patrimonio valutato quasi 6500 lire e Bartolomea, moglie dell'I., di immobili acquistati con denaro pervenutole dal padre. Non compare invece l'I., i cui beni erano stati evidentemente già confiscati. Nel frattempo, abbandonata Imola, l'I. aveva raggiunto i domini di Gian Galeazzo Visconti e per incarico di questo tenne, dal 1393 e per diversi anni, un insegnamento di diritto civile nello Studio di Pavia.
Nel giugno 1398 ripresero il potere in Bologna elementi vicini alla fazione maltraversa. Ne seguì l'annullamento dei bandi emessi dopo la congiura del 1389 e la restituzione dei beni confiscati. Alcuni dei banditi rientrarono in città, ma l'I. se ne astenne, forse temendo, a ragione, che i suoi legami col Visconti non fossero in sintonia con l'orientamento allora prevalente nell'oligarchia bolognese. Infatti nel febbraio 1401 Giovanni Bentivoglio, fattosi proclamare signore, si alleò con Firenze e i Carraresi, nemici di Gian Galeazzo. Contro il Bentivoglio si schierarono esponenti delle fazioni scacchese e maltraversa e altri, come Nanne Gozzadini, che già suoi alleati se ne erano presto distaccati. Le sollecitazioni e il sostegno finanziario di questi oppositori indussero Gian Galeazzo ad assoldare un forte contingente di milizie nel quale confluirono non pochi bolognesi da tempo lontani dalla città, come l'I., e altri che ne erano usciti solo da poco. Il 26 giugno 1402 le milizie viscontee riportarono una decisiva vittoria a Casalecchio di Reno e il giorno seguente i capi dell'esercito visconteo e i fuorusciti bolognesi entrarono in città ripristinandovi gli organi dell'autonomia comunale. Ma nella notte, con l'aiuto di seguaci provenienti dalle loro proprietà di Minerbio, l'I. e i suoi fratelli si impadronirono della porta S. Donato, attraverso cui irruppe in città l'intero contingente delle milizie assoldate dal Visconti e lo acclamò signore.
La signoria viscontea significò per l'I. la reintegrazione nella società bolognese in un ruolo di alto prestigio. Già il 2 luglio 1402 riprese il suo posto nel Collegio dei dottori dello Studio e alla fine del mese uno studente che si avvaleva della sua presentazione poté superare l'esame privato, nonostante l'accertata pessima preparazione. Nel gennaio 1403 i meriti acquisiti dall'I. e dai suoi fratelli nella conquista della città da parte di Gian Galeazzo valsero loro un riconoscimento ufficiale. Caterina Visconti, reggente dopo la morte (13 genn. 1402) di Gian Galeazzo per il figlio Giovanni Maria la signoria su Bologna, investì l'I. e i fratelli del feudo della Riva del Savena, una circoscrizione comprendente un centinaio di fuochi del Comune di Minerbio. Fedele ai Visconti, l'I. non esitò a opporsi nell'estate 1403 ai disegni di Facino Cane, capo delle milizie assoldate da Caterina per la difesa della città ma propenso a usarle per giungere a una sua personale signoria. Contrastato dall'I., da Guido Pepoli e da altri esponenti dell'oligarchia vicina ai Visconti, Facino Cane reagì provocando scontri sanguinosi all'interno della città, ma i suoi progetti vennero vanificati dall'accordo con cui il 25 agosto Caterina Visconti riconobbe i diritti della S. Sede su Bologna. Le milizie viscontee dovettero abbandonare la città e il 3 settembre Baldassarre Cossa, energico e ambizioso legato pontificio, ne assunse saldamente il controllo.
Poco si conosce della successiva vicenda dell'I.: la morte della moglie Bartolomea nel 1405 e la partecipazione alle attività del Collegio dei dottori limitata al periodo del suo priorato nel settembre e ottobre 1406. Sembra comunque che egli stesse via via acquisendo la fiducia di Baldassarre Cossa. Il registro della Tesoreria comunale del 1406 riporta nel giugno una sua missione a Cesena; nell'ottobre un incarico, non meglio specificato, da parte del legato; nel dicembre il rimborso della somma di 90 lire per "certe spese segrete". Nei mesi di settembre e ottobre 1408, priore del Collegio dei dottori, venne sostituito perché assente dalla città per un incarico pubblico, anch'esso segreto. Nel febbraio 1409 fu inviato a Pisa ove il 25 marzo si aprì il concilio che portò alla deposizione di Gregorio XII e di Benedetto XIII e infine all'elezione di Alessandro V. L'opera dell'I. si limitò peraltro ai preparativi e alle prime fasi del concilio e il 18 aprile era già ritornato a Bologna. Nel maggio 1410, morto Alessandro V, il conclave adunato in Bologna elesse Baldassarre Cossa, che fu papa col nome di Giovanni XXIII. Nell'I. il papa riponeva ampia fiducia e lo dimostrò il 13 agosto inviandolo con pieni poteri a Forlì per comporre le vertenze in atto nella città e ricondurla all'obbedienza della Sede apostolica.
Nel maggio 1411, avendo Giovanni XXIII lasciato Bologna per Roma, le organizzazioni popolari, sotto la guida di Piero Cossolini, cacciarono il legato pontificio e ripristinarono le strutture dell'autonomia comunale. Le scelte del nuovo regime ebbero toni decisamente antimagnatizi, culminati agli inizi nel 1412 in una serie di condanne capitali e di bandi ai danni di esponenti dell'oligarchia accusati di sedizione. Il papa che aveva inviato milizie per recuperare il dominio della città sollecitò l'I. ad assumere la guida dell'opposizione interna, e questi nella notte del 14 agosto con un colpo di mano s'impadronì del palazzo pubblico. La reazione dei popolari in breve si esaurì e un nuovo Collegio dei riformatori dello Stato di libertà, tra i quali lo stesso I., sancì il ritorno della città al dominio pontificio.
Il 17 nov. 1413 Giovanni XXIII, in evidente segno di riconoscenza, nominò l'I. cardinale diacono di S. Eustachio, titolo già portato dallo stesso Cossa.
Ai primi di agosto 1414 la morte di Ladislao d'Angiò Durazzo offrì a Giovanni XXIII l'occasione per riprendere il controllo dello Stato pontificio che il re di Napoli aveva in buona parte sottomesso. Affidata Bologna ad Andrea Fortebracci (Braccio da Montone), il 9 settembre il papa nominò l'I. vicario generale con le prerogative di legato a latere per Roma, il suo distretto e l'intero Stato, esclusa la Romagna, con pieni poteri spirituali e temporali su tutti gli abitanti, autorità ed enti, e gli assegnò un reddito mensile di 500 fiorini d'oro dai proventi della Camera apostolica. Il 12 settembre gli attribuì con distinti brevi le facoltà di procedere in via straordinaria ad assoluzioni, promozioni agli ordini sacri, decisioni in via sommaria.
L'impresa affidata all'I. ebbe un avvio favorevole. Il 19 ottobre era già in Roma; con l'appoggio dei nobili esautorò il governo popolare e ne assunse il controllo. In mano alle milizie di Giovanna II d'Angiò Durazzo, succeduta al fratello sul trono di Napoli, restavano i porti di Ostia e Civitavecchia, alcuni castelli della Campagna romana e Castel Sant'Angelo. L'I., appoggiato da Firenze, avviò trattative, concluse il 19 novembre con una tregua; ma le milizie di Giovanna non lasciarono le posizioni, né l'I. disponeva di mezzi idonei a un loro assedio. Difficile gli risultò anche estendere l'autorità sui baroni di Roma, tanto più che il 24 dic. 1414, da Costanza, Giovanni XXIII ingiunse all'I. di non emettere sentenze nelle cause in cui fossero implicati nobili romani che egli riservava alla sua cognizione.
Grazie alle milizie di Angelo Broglio (il Tartaglia) all'inizio del 1415 l'I. poté ridurre all'obbedienza Corneto (Tarquinia) e quindi Viterbo; ma non poté piegare né i baroni romani né i difensori di Castel Sant'Angelo. Il 25 luglio i padri del concilio, che l'I. aveva informato del proprio operato, gli espressero il loro apprezzamento; lo esortarono a proseguire e gli dissero di avere ammonito, come da lui richiesto, la regina Giovanna affinché ritirasse le sue milizie; ma l'ammonizione non ebbe effetto. Le milizie napoletane continuarono a occupare saldamente Castel Sant'Angelo e con il loro comandante, Paolo Orsini, l'I. dovette di fatto condividere il potere su Roma. La morte dell'Orsini indusse l'I. nell'agosto 1416 a cercare l'appoggio delle forze popolari e, con il loro avallo, a siglare il 16 settembre un accordo, molto gravoso, con il Tartaglia per stornarne le minacciose ambizioni sulla città. L'apertura ai popolari ebbe breve durata. L'uccisione di Giovanni Cenci, uno dei capi dei popolari, ordita l'11 dicembre da Giovanni Alidosi, congiunto dell'I. e senatore di Roma, fu il segno evidente che l'I. riteneva di doversi sostenere solo con l'appoggio dei nobili. Fu una scelta forse inevitabile ma poco felice. Anche per essa nei mesi seguenti tra la popolazione di Roma e nella stessa Curia si estesero i consensi al progetto, ormai chiaro, di Braccio di impadronirsi della città. Il 3 giugno le sue milizie si accostarono alle mura. L'I. cercò di negoziare un accordo ma la penuria di viveri gli impedì di trattare, e mentre Braccio, proclamatosi defensor urbis, s'impadroniva di Roma, l'I. si rifugiò in Castel Sant'Angelo, difeso dalle milizie napoletane. In loro aiuto Giovanna inviò Muzio Attendolo Sforza che, unite le sue milizie a quelle degli Orsini, il 10 agosto si accampò di fronte alla città. Braccio evitò allora il confronto col rivale e lasciò la città. Il 27 agosto vi entrarono le milizie dello Sforza e l'I. ne riebbe il governo, ma sotto una ancora più evidente tutela napoletana.
L'11 nov. 1417, da Costanza, appena eletto papa, Martino V ne informò l'I. confermandogli titoli e poteri di vicario generale per la città di Roma e per le altre terre. Avvenuta la consacrazione, ai primi di dicembre, gli rinnovò la nomina ma non sembra che l'I. abbia collaborato a lungo alla ricostituzione dello Stato pontificio condotta da Martino V. Assai per tempo il papa lo inviò invece a Milano, con lo scopo di favorire la sua intesa con il Ducato visconteo, come si evince da una lettera scritta da Mantova il 5 febbr. 1419.
In essa Martino V, sollecitato dai rettori milanesi, dava incarico all'I., residente in Milano, di eliminare gli abusi in materia di registrazione dei contratti immobiliari, resi possibili dalla esenzione accordata ai chierici. Altri documenti del papa ne provano l'attenzione per vicende private dell'I., connesse col suo soggiorno a Milano. Il 28 ag. 1420 Martino V gli creò una rendita annua di 200 fiorini d'oro sui redditi del vescovado di Cremona e il 14 aprile successivo ordinò ai vescovi di Pavia e di Novara e all'abate di S. Ambrogio di sollecitarne l'attuazione.
La residenza dell'I. in Milano è confermata da altre fonti che attestano anche l'avvio della sua collaborazione con Filippo Maria Visconti. Il 16 apr. 1420 per incarico del duca l'I. procedeva a un'investitura feudale nel territorio di Alessandria e il 15 genn. 1421 in quello di Genova. Alla fine dello stesso mese, in base all'autorizzazione concessagli da Martino V, l'I. annullava le esenzioni di cui godevano i chierici in materia di registrazione dei contratti immobiliari. Nel 1422 l'I. mostrava di aver ormai raggiunto posizioni di tutto rilievo nella corte ducale. Il 4 marzo, alla testa di uno stuolo di dignitari, ricevette a nome di Filippo Maria Visconti la dedizione della città di Genova e il 1° ottobre, in qualità di consigliere ducale, accolse i rappresentanti della città di Asti che ne recavano l'atto di assoggettamento.
La conquista di Genova e di Asti concludeva un decennio di lotte durante il quale Filippo Maria, i suoi consiglieri e capitani di milizie avevano ricostituito in una compatta struttura territoriale il Ducato milanese. Prese allora avvio una fase di espansione, e uno dei tradizionali obiettivi era Bologna. Nonostante il trattato dell'8 febbr. 1420 tra il duca e Firenze avesse assegnato Bologna e la Romagna all'influenza fiorentina, nel marzo 1422 il Visconti strinse un accordo col legato pontificio a Bologna, nel maggio 1423 si assicurò il controllo di Forlì e nel giugno fece di Anton Galeazzo Bentivoglio, figura emergente in Bologna, un suo alleato. Il rischio che la città fosse inserita nel dominio visconteo divenne concreto e Rinaldo degli Albizzi, ambasciatore fiorentino a Bologna, ne dette preoccupato avviso al proprio governo, citando come fonte o, forse, come ispiratore dei disegni viscontei l'I., "provisionato" del duca. L'interesse e le risorse del duca furono però presto rivolte ad altri obiettivi; si attenuò quindi la minaccia su Bologna e anche l'impegno dell'I. fu indirizzato ad altri fini.
Tra il luglio e l'ottobre 1424 l'I. fu presso la Curia pontificia in occasione di un convegno di pace promosso da Martino V. Ai colloqui preparatori, interessanti lo scontro tra Firenze e Milano, partecipò anche l'I. in veste, sembrerebbe, più di collaboratore del papa che di rappresentante visconteo. Ma il suo legame con il duca non era venuto meno, tanto che nell'ottobre 1424, quando già si profilava il fallimento dell'iniziativa di Martino V, si dava per certa la sua assunzione a un alto incarico nella amministrazione viscontea. Infatti, ai primi di novembre, sollevato Francesco Bussone (il Carmagnola) dall'incarico di governatore di Genova, in vista del comando di una spedizione militare contro il Regno di Napoli, il Visconti nominò a succedergli l'I., che il 15 novembre entrò a Genova come governatore.
A Genova gli ultimi avvenimenti, culminati nello scarso successo della spedizione contro Napoli della flotta genovese, affidata dal Visconti non a un ammiraglio genovese ma a Guido Torelli, avevano rinfocolato il dissenso nei confronti del duca di Milano. L'opposizione interna trovava crescente attenzione da parte dell'arcivescovo Pileo De Marini e rafforzava i legami con i fuorusciti guidati dal deposto doge Tommaso Fregoso cui si erano uniti i Fieschi. Navi degli Aragonesi, alleati di Firenze, incrociavano nei mari di Genova. La minaccia di un'azione militare non tardò a concretarsi. Nella notte del 10 apr. 1425 Tommaso Fregoso assalì il porto di Genova con il sostegno degli Aragonesi. I Genovesi si opposero all'attacco e per impulso dell'I. e degli Anziani organizzarono una decisa reazione. Venne allestita una flotta e vennero inviate milizie di terra a riconquistare i centri della Riviera di Levante che gli avversari avevano occupato. A capo di queste milizie fu posto, per concorde decisione dell'I. e degli Anziani, Antonio Fieschi, rimasto, a differenza dei congiunti, fedele al Visconti. Nel giugno le milizie di Genova sconfissero a Rapallo quelle dei fuorusciti, ma subito dopo Antonio Fieschi, abbandonata Genova, passò al campo avverso e a Sestri Tommaso Fregoso sbaragliò le milizie inviate da Genova e da Milano. Filippo Maria affiancò allora all'I., quale capitano di guerra, Opizzino da Alzate, la cui energia e capacità militare rialzarono le sorti viscontee. Ma i suoi modi autoritari e prevaricatori dettero nuova esca alla dissidenza interna e l'arcivescovo Pileo non risparmiò all'operato dell'I. e di Opizzino aspre critiche, che il duca tuttavia non raccolse.
Nel novembre 1425 l'I. fu raggiunto a Genova dal figlio naturale Cattaneo che nel successivo febbraio a Milano, a nome del padre e degli zii Ludovico e Battista, rinunciò ai diritti feudali (di cui, per investitura viscontea, essi godevano) sui dazi di Trezzano sul Naviglio, che il duca attribuì quindi a Raffaele Visconti. Non sembra che i tre fratelli abbiano ricevuto un'altra investitura, ma non per questo il rapporto dell'I. col duca ebbe a soffrirne.
Nel 1426 riprese vigore l'azione dei fuorusciti favoriti dalla guerra scatenata da Venezia contro Milano e dal malcontento diffusosi tra i Genovesi per il sacrificio dei loro interessi imposto dal trattato di pace di Filippo Maria Visconti con Alfonso d'Aragona. Nel settembre un gruppo al comando di Abramo Fregoso penetrò in città, sperando di provocarvi una rivolta, ma fu costretto a ritirarsi. Nel 1427 Genova intensificò i preparativi di difesa, rivelatisi efficaci quando tra luglio e agosto la città fu ripetutamente attaccata. Il 28 dicembre, infine, dopo aver rintuzzato nuove iniziative dei fuorusciti, le milizie assoldate da Genova inflissero una grave sconfitta ai Fregoso.
L'azione del governo di Genova fu dunque uno dei pochi successi viscontei nella guerra iniziata nel marzo 1426, ma la sua conclusione lasciava in molti cittadini una forte sete di rivalsa e pressoché esauste le finanze del Comune. Cessate le ostilità, la sostituzione dell'I. con un nuovo governatore, l'arcivescovo di Milano Bartolomeo della Capra, fu il segnale di una più sollecita attenzione da parte del duca per i problemi della città. L'I. lasciò Genova il 2 marzo 1428, accompagnato da manifestazioni di ossequio degli ufficiali cittadini, ma anche dal sospetto, avanzato da più voci, che egli recasse con sé buona provvista di danari tratti dalle casse cittadine. Cronache familiari segnalano, dopo il governatorato di Genova, una sua missione in Francia, per incarico di Martino V, ma la data e i motivi sono incerti.
L'I. trascorse l'ultimo periodo della sua vita a Milano dove si spense il 9 febbr. 1431.
Presso giuristi di poco successivi l'I. ebbe fama di ottimo legista. Lo dissero autore di vari trattati, ma di questi si era già perduta traccia nel XVI secolo. Restano invece tuttora diversi consilia, prodotti dall'I. all'epoca del suo insegnamento a Pavia e della reintegrazione nel Collegio bolognese nel luglio 1402. Alcuni, emessi insieme con altri giuristi, tra cui Baldo degli Ubaldi, appaiono nelle edizioni a stampa delle opere di questo; pochi altri sono conservati in ampie raccolte manoscritte delle biblioteche di Ravenna, Lucca, El Escorial (cfr. Dolezalek).
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