JACOPO MOSTACCI
Gli unici tentativi di identificazione biografica di questo poeta, sicuramente ascrivibile al nucleo storico degli intellettuali della corte federiciana, sono a tutt'oggi quelli esperiti da Francesco Torraca e Francesco Scandone nell'ultimo decennio del sec. XIX: di questi, riteniamo si possa definitivamente accantonare la tesi salentina del primo, che nel 1894, nella "Nuova Antologia", pubblicava documenti riguardanti un Giovanni "Mustaczus", a metà del sec. XII possessore di parte di un feudo a Castellaneta, e un Roberto Mustacze, nella prima metà del sec. XIII titolare di un feudo a Castro, fra Otranto e S. Maria di Leuca.
Più credibile e proficua la direzione imboccata da Scandone, che nel 1900 rendeva pubblici alcuni documenti inediti, nel primo dei quali (24 ottobre 1275) si nomina un "dominus Iacobus Mustacius" come detentore di terre "que fuerunt Bartholomei Mustacii proditoris" e situate "in contrata Sancti Nicolai de alto", in territorio messinese; mentre nei documenti successivi tale personaggio è definito costantemente miles, titolo certamente compatibile con quello di messere che figura in tutte le rubriche di V (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3793) e una volta anche in quella di P (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 217, già Palatino 418) a Umile core e fino e amoroso, anche se scritta a margine e da mano diversa da quella che copia il testo. Una figura, dunque, di rango sociale medio-alto e di origini messinesi, o comunque operante in territorio messinese fino agli anni Settanta del sec. XIII, è l'identikit del nostro poeta che emerge dai documenti di Scandone, e che complessivamente possiamo valutare come molto verosimile, anche perché accrediterebbe ulteriormente il ruolo fondamentale avuto da Messina nella formazione dell'ideologia e del linguaggio poetici dell'epoca federiciana. Alla luce di queste considerazioni crediamo inoltre che si possa definitivamente giudicare come destituita di ogni fondamento, e molto probabilmente frutto di un'erronea sovrapposizione di dati, la rubrica (messerjacopo mostacci dipisa) di P a Poi tanta caunoscença (c. 28r).
Sembra in ogni caso da annoverare tra i pochissimi dati acquisiti (o acquisibili in via definitiva) l'identificazione di J. poeta con il falconiere spedito dall'imperatore, in compagnia di altri diciotto, a Malta nel 1240 ("Cum Guillelmum Rufinum falconerium et fidelem nostrum cum aliis decem et octo falconeriis usque Maltam mictamus pro deferendis inde falconibus ad uniam nostram […]. Espensas autem debent recidere falconarii ipsi sic: […] Iacobus Mustacius pro se, uno nomine et duobus equis […]. Datum Fogie v madii xiii indictionis"; Historia diplomatica, V, 2, pp. 969-970) e con uno dei personaggi incaricati da Manfredi nel 1260 di avviare a Barcellona le trattative per il matrimonio della figlia Costanza con l'infante Pietro d'Aragona, concluse il 28 luglio di quell'anno, e due anni dopo di accompagnare la principessa a Montpellier, dove si svolsero i solenni festeggiamenti per le nozze il 13 giugno 1262.
J. è autore di sei canzoni e un sonetto (in tenzone con Pier della Vigna [v.] e Giacomo da Lentini [v.]); a eccezione del sonetto (Solicitando un poco meo savere), tràdito da Q (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 3953), tutto il resto è presente esclusivamente nei tre canzonieri più importanti della lirica italiana del Duecento: V, L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi 9) e P. L'entità della presenza è, tuttavia, variabile: sei canzoni in V (cc. 11 ss.), quattro in P (passim) e una sola in L (c. 104r).
Allegramente canto è l'unica canzone di J. tramandata da tutti e tre i codici, segno inequivocabile del fatto che venisse percepita come altamente rappresentativa della sua poesia; e in realtà, a ben pensarci, in essa troviamo riflessa tutta intera la poetica del nostro poeta, a partire dal forte legame con la tradizione trobadorica e la più rigorosa ortodossia cortese fino alla sua prossimità tematica e stilematica alla poesia di Giacomo da Lentini. Sono presenti altresì motivi centrali della poesia di J., dall'obbligo di tener celata l'identità della donna amata (cf. 4-6: "ma non ch'io già pertanto / dimostri la cagione / de la mia gioia, che ciò saria fallire") a quello trobadorico e lentiniano dell'impossibilità di amare senza temere (cf. 10-12: "c'omo senza temere / non par che sia amoroso, / c'amar sanza temere non si convene").
Ai dettami dell'ortodossia cortese sembra conformarsi anche Amor, ben veio che mi fa tenere, una canzone che affronta il tema, canonicamente trobadorico, del bon atendre che reca joi e dell'affinamento dell'amante che gli consente di progredire nella considerazione della donna amata, spronandolo al canto.
Anche in A pena pare ch'io saccia cantare si conferma la propensione di J. all'ortodossia tematica e ideologica trobadorica; è anzi altamente probabile che la canzone sia stata scritta per 'correggere' le posizioni cortesi, evidentemente considerate devianti, espresse in Venuto m'è in talento di Rinaldo d'Aquino (v.): la necessità di essere allegri e di cantare d'allegranza anche in situazioni dolorose perché "piagere vol che l'omo allegro sia" (v. 14). J., in piena consonanza con l'opinione di trovatori accreditati in area siciliana (cf. soprattutto Gaucelm Faidit, De solatz e de chan [P.-C. 167.20] 10-12: "mas puois m'esforz, car ditz hom que cove, / e chant forsatz, e fatz de joi semblanssa / ad altrui ops […]"; 'ma poi mi sforzo, perché si dice che sia conveniente, e canto per forza, e fingo di essere gioioso per il bene altrui'), sostiene, diversamente, che, a norma di codice cortese, la gioia si può e si deve solo simulare, e solo per non dispiacere alla donna amata, comportandosi come la candela che, bruciando (così come il locutore 'brucia' nel suo dolore), "dona altrui vedere" (v. 20). Un altro tema portante della canzone, trobadorico e lentiniano insieme, è quello della surrogabilità della presenza fisica con accorgimenti o stratagemmi mentalistici pararudelliani; il tutto sintetizzato nell'immagine della lancia di Peleo che guarisce riferendo colui che ha già piagato (derivata dalla leggenda di origine ovidiana [Metamorfosi, XIII, 171-172; Remedia Amoris, 44-48; Tristia, V ii, 15-16] della lancia fatata di Peleo ricevuta in dono da Chirone al momento delle nozze con Tetide e poi passata ad Achille, che aveva questo particolare potere; immagine, però, che in A pena pare 48-54 sembra quasi certamente mutuata da Bernart de Ventadorn, Ab joi mou lo vers [P.-C. 70.1] 45-48).
In Di sì fina ragione ritornano, sia pur variati, alcuni dei temi incontrati in A pena pare: la necessità di nascondere la propria condizione di smarrimento e di sconforto, dovuta all'azione devastante dei lauzengiers (la falsa gente) che ostacolano la relazione dei due amanti, e insieme quella solita di riversare nel canto un'apparente gioia amorosa per depistare i malparlieri (cf. 40-44: "ed io in gioco e ridendo / canto amorosamente / per quella falsa gente / che mi vanno incherendo / la gioia ond'io son fino benvolente"). Non mancano richiami più o meno espliciti alle poesie di Giacomo da Lentini.
Una particolare importanza riveste Mostrar voria in parvenza proprio per il ruolo di stabilizzatore dell'ortodossia cortese che questa canzone molto probabilmente ebbe nel vasto dibattito di area siciliana, e poi anche toscana, sulla quaestio del celar e del servire e meritare, che coinvolse poeti come Ruggero de Amicis, Rinaldo d'Aquino e Guido delle Colonne (v.), oltre a J. (con propaggini siculo-toscane e toscane nelle persone di Neri Poponi e Guittone): in Mostrar voria J. cerca di porre un argine fermo e intransigente alle spinte 'eversive' che provenivano da Ruggero de Amicis (con Sovente Amore n'à ricuto manti) e Rinaldo d'Aquino (con Per fin amore vao sì allegramente) che predicavano l'opportunità e la quasi necessità di non celare il dono d'Amore, e quindi in pratica di rivelare l'identità della donna tessendone le dovute lodi; la sua fermezza è almeno pari alla sua scrupolosa osservanza della precettistica cortese.
Nel sonetto Solicitando un poco meo savere, che avvia la tenzone de amore con Pier della Vigna (Però c'Amore no si po' vedere) e Giacomo da Lentini (Amore è uno desio che ven da core), si propone l'argomento da dibattere (la natura del sentimento amoroso) prospettando contemporaneamente le due soluzioni possibili, secondo le procedure dei partimens occitani: amore può essere considerato sostanza o accidente. Diversamente dai partimens, però, J., prima di lasciare la parola ai suoi 'risponditori', rende esplicita la sua preferenza (l'amore è un accidente), sostenendo che esso è "una amorosetate / la quale par che nassa de plazere" (vv. 9-10), vale a dire appunto una qualità e non una sostanza. Da sottolineare l'uso massiccio di una terminologia propria delle disputationes filosofiche e teologiche (cf. 3 dubio, 4 determinare, 7 consentere, 12 qualitate, 14 sentençatore).
E veniamo infine a Umile core e fino e amoroso, le cui prime tre stanze sono una traduzione puntuale delle prime tre coblas di Longa sazon ai estat (P.-C. 276.1), una canzone di congedo (comjat) attestata in quattordici manoscritti con ben nove diverse indicazioni di paternità (ma i nomi che ricorrono con maggiore frequenza sono quelli di Jordan de l'Isla de Venessi, Rostaing de Mergas, Peire de Maensac e Cadenet). Nel confronto tra il testo siciliano e quello occitano, colpiscono due cose in particolare: 1) la presenza di lezioni che attengono a varianti di Longa sazon documentate in codici diversi; 2) il determinarsi di evidenti perturbazioni testuali in corrispondenza di lezioni alternative che non paiono addossabili a iniziative del copista. Senza entrare nei dettagli (per i quali rinviamo alla nostra edizione delle poesie di J.), l'analisi combinata dei due fenomeni indicati ci ha permesso di considerare come altamente verosimile l'ipotesi che J. abbia utilizzato per la sua traduzione un testo di Longa sazon con varianti, forse ottenuto collazionando più codici (tra questi certamente affini di f [Parigi, Bibliothèque Nationale, fr. 12472] e P [Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. XLI.42]), e che egli stesso abbia tradotto proponendo in qualche punto soluzioni alternative, per indecisione linguistica o stilistica, o, più semplicemente, per scrupolo documentario: la tradizione manoscritta si sarebbe fatta carico autonomamente di scegliere tra le varianti proposte, in qualche caso con modalità che hanno prodotto risultati lacunosi o privi di senso. Sul versante dei contenuti è importante notare che anche in questo esercizio traduttorio trovano conferma tutti gli aspetti poetici e ideologici che si sono considerati peculiari di J.: la fedeltà ai dettami cortesi e alla fin'amor, ribadita, nella parte finale della canzone, con l'inserimento di un motivo assente nel testo occitano, vale a dire la protesta del proprio assoggettamento a una signoria (l'amore fino) che non tradisce mai il ben servente: "ma no mispero, c'a tal signoria / son servato, che buono guiderdone / averagio, perzò che no obria / lo ben servent'e merita a stagione" (vv. 36-40); la ripresa di motivi e stilemi lentiniani, soprattutto da Poi no mi val merzé né ben servire (cf. in particolare il v. 10 ["lo quạle avea cangiato lo talento"] con Poi no mi val ["per nente mi cangiao lo suo talento"]).
Fonti e Bibl.: un'edizione completa delle poesie di J., se si escludono le edizioni semidiplomatiche e interpretative di A. D'Ancona e D. Comparetti (Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, I, Bologna 1875, pp. 124 ss.) e di Clpio (Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, a cura di d'A.S. Avalle, I, Milano-Napoli 1992, passim), che comunque non comprendono il sonetto, si trova solo in B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 145-153, 419, 421 e 646 e in La poesia lirica del Duecento, a cura di C. Salinari, Torino 1968, pp. 173-184; una sola canzone (A pena pare), invece, e il sonetto sono editi in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, pp. 88 e 142. Una nuova edizione critica e commentata dell'opera poetica di J., a cura di A. Fratta, è stata approntata per l'edizione nazionale dei poeti della Scuola siciliana e dei siculo-toscani, coordinata da R. Coluccia e C. Di Girolamo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, in corso di pubblicazione: da essa sono tratte le citazioni contenute nel testo. J. Zurita y Castro, Anales de la Corona de Aragón, Zaragoza 1562-1569; Historia diplomatica Friderici secundi, V, 2, pp. 969-970; B. Capasso, Historia diplomatica Regni Siciliae (1250-1266), Napoli 1874, pp. 217 e 369. A. Zenatti, Arrigo Testa e i primordi della lirica italiana, Firenze 1896, pp. 7-11; F. Scandone, Ricerche novissime sulla Scuola poetica siciliana del sec. XIII, Avellino 1900, pp. 13-20; F. Torraca, Studi su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 138-139 e 214-219; G. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in Storia della letteratura italiana. Le Origini e il Duecento, Milano 1965, pp. 304-305; F. Bruni, La cultura alla corte di Federico II e la lirica siciliana, in Storia della civiltà letteraria italiana, I, Dalle origini al Trecento, Torino 1990, pp. 241-242; A. Fratta, Correlazioni testuali nella poesia dei Siciliani, "Medioevo Romanzo", 16, 1991, pp. 189-206; F. Brugnolo, La Scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, I, Dalle origini a Dante, Roma 1995, pp. 302-303; A. Fratta, Le fonti provenzali dei poeti della Scuola siciliana. I postillati del Torraca e altri contributi, Firenze 1996, pp. 55-59; R. Antonelli, Traduzione-tradizione. La tradizione manoscritta provenzale e la Scuola siciliana, in E vós, tágides minhas. Miscellanea in onore di Luciana Stegagno Picchio, Viareggio-Lucca 1999, pp. 55-56; F. Brugnolo, I siciliani e l'arte dell'imitazione: Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino e Iacopo Mostacci, "La Parola del Testo", 3, 1999, pp. 65-74; M. Picone, La tenzone 'de amore' fra Iacopo Mostacci, Pier della Vigna e il Notaio, in Il genere 'tenzone' nelle letterature romanze delle origini, Ravenna 1999, pp. 13-31; F. Brugnolo, Due schede per l'ornitologia poetica duecentesca (Iacopo Mostacci, Cino da Pistoia), in Carmina semper et citharae cordi. Études de philologie et de métrique offertes à Aldo Menichetti, a cura di M.-C. Gérard Zai-P. Gresti-S. Perrin-Ph. Vernay-M. Zenari, Genève 2000, pp. 189-198; P. Squillacioti, BdT 276,1 'Longa sazon ai estat vas Amor', "Rivista di Studi Testuali", 2, 2000, pp. 185-215.