TATTI, Jacopo (detto il Sansovino, o Sansavino)
Primogenito di Antonio di Jacopo Tatti (o del Tatta) materassaio e di una non meglio nota Monna Francesca, nacque a Firenze e fu battezzato in S. Giovanni il 2 luglio 1486; all’epoca della nascita la coppia risiedeva nella parrocchia di S. Pier Maggiore, mentre nel 1505, quando il nucleo familiare risulta accresciuto da altri due figli maschi – Giovanni e Piero – e due femmine – Maddalena e Alessandra –, l’abitazione è localizzata nel quartiere di S. Maria Novella, gonfalone del Lione bianco.
Prima delle ricostruzioni moderne la fonte più sistematica di notizie – dopo una breve ma ben informata rassegna edita a Venezia nel 1540 da Bernardino Bindoni – fu la biografia inserita da Giorgio Vasari nell’ultima sezione delle Vite giuntine (1568), riservata a una selezione di artisti viventi: una biografia ex novo, dato che, nell’edizione Torrentiniana (1550), le notizie in merito a Jacopo erano state distribuite nelle vite di altri artisti suoi sodali già scomparsi, e in particolare in quella del suo maestro Andrea Contucci da Monte San Savino. Nel 1568 Vasari si avvalse di nuovi dati raccolti nel corso dei suoi sopralluoghi veneziani, durante i quali, oltre a incontrare Jacopo, approfittò della collaborazione del suo unico figlio maschio Francesco, poligrafo ed editore; fu quest’ultimo, verosimilmente, il responsabile degli accrescimenti a un’ulteriore, successiva e rara versione della biografia vasariana, pubblicata attorno al 1575 in forma autonoma, la Vita di M(esser) Iacopo Sansovino. La Vita sansoviniana di Tommaso Temanza (1752) è ancora fortemente debitrice di quest’ultima.
È probabile che, dimostrando attitudine verso l’intaglio (il nonno paterno Jacopo di Giovanni sarebbe stato legnaiolo), Jacopo imparasse le basi del mestiere in ambito familiare fino al 1501 circa, quando sarebbe approdato nella bottega di Andrea Sansovino, presso il quale avrebbe completato la propria formazione assorbendone la delicata grazia espressiva (che motivò l’adozione, documentata ufficialmente a partire dal 1511 almeno, del soprannome del maestro, al quale lo legò un affetto filiale). Il momento era propizio al rilancio del potenziale civile e identitario della scultura all’antica, dopo la fase eroica di primo Quattrocento: è possibile che Jacopo frequentasse al seguito del Contucci le «raunate d’artefici» che si tenevano d’inverno nella bottega di Baccio d’Agnolo al Canto de’ Bischeri, animate, tra gli altri, dallo stesso Raffaello (Vasari, Vite, 1550, 1976, IV, p. 601, Torrentiniana). Risalirebbe a questa fase l’amicizia con Andrea del Sarto, per il quale Jacopo avrebbe realizzato modelli in terracotta (Vasari, Vite, 1568, 1987, VI, pp. 177 s., oggi assai difficili da identificare) e che lo avrebbe poi ritratto al suo fianco nel Viaggio dei Magi (1511) in una delle campate del chiostrino dei Voti alla SS. Annunziata. La fase d’apprendistato si concluse attorno al 1505, quando il Contucci si spostò a Roma per eseguire la tomba del cardinale Ascanio Sforza (e dal 1507 quella di Gerolamo Basso della Rovere) per il nuovo coro di S. Maria del Popolo promosso da papa Giulio II. Jacopo risulta a quella data proprietario a Firenze (con il fratello Piero) di una casa in via S. Maria e di una bottega in via dei Pellicciai: è possibile che avesse raggiunto nel corso dell’anno l’antico maestro per assisterlo nelle importanti commissioni roveresche, anche se la proposta d’intestargli alcune figure di quelle tombe non ha trovato consenso (un progetto di vasto monumento sepolcrale – il 142 A degli Uffizi, già appartenuto a Vasari e databile al 1515 circa – di discussa attribuzione, mostrerebbe comunque la sua stretta dipendenza da quei modelli). Jacopo sarebbe stato in quei mesi ospite di Giuliano da Sangallo nel Borgo vaticano, quando forse iniziò a praticare anche il rilievo architettonico (ne fa fede il disegno 1760 A degli Uffizi di capitello corinzio «de Santo Lorenzo fuora della mura», unico foglio a oggi riconosciutogli con sicurezza). A questo primo soggiorno romano, probabilmente conclusosi nel 1510-11, risalirebbe la partecipazione di Jacopo (e la sua vittoria, attribuitagli da null’altri che Raffaello) alla famosa competizione tra artisti indetta da Bramante allo scopo di «ritrar di cera grande» il Laocoonte (Vasari, Vite, 1568, 1987, VI, p. 178), dal quale per iniziativa del cardinale veneziano Domenico Grimani sarebbe stato tratto un esemplare in bronzo di cui si persero presto le tracce (un bronzetto di notevole qualità oggi al Museo del Bargello, inv. 427 B dalle collezioni medicee, che riproduce il gruppo antico nello stato frammentario in cui fu ritrovato, gli è tradizionalmente assegnato e connesso a quella vicenda; ancora dibattuta tra Jacopo e Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma è invece l’attribuzione del foglio Uffizi 14535 F, che rappresenta il sacerdote troiano, e di un altro, d’identica mano, che ritrae il figlio morente alla sua sinistra, oggi a Parigi, Louvre, Département des Arts Grapiqhes, inv. 2712). Dopo il ritorno di Giuliano da Sangallo a Firenze verso il 1508, sarebbe toccato a Bramante introdurre Jacopo nel mondo artistico romano, procurandogli un alloggio presso il cardinale Domenico della Rovere su piazza Scossacavalli, dove abitava anche Pietro Perugino: per il maturo pittore umbro Jacopo avrebbe plasmato in cera una drammatica Deposizione «con tante scale e figure» (Vasari, Vite, 1568, 1987, VI, pp. 178 s.), che sarebbe poi entrata nella collezione del ricchissimo Giovanni Gaddi fiorentino con altri suoi fantasiosi modelli (l’opera è oggi al Victoria & Albert Museum di Londra, inv. 7595-1861).
Rientrato a Firenze, Jacopo dimostrò di aver assimilato creativamente la nuova maniera realizzando un originale Bacco per il giardino di Giovanni Battista Bartolini a Gualfonda (primo pagamento nel marzo del 1510, saldo nel 1512; nel 1519 venne innalzato su una base policroma di Benedetto da Rovezzano).
Eseguito in marmo di Carrara a scala leggermente minore del vero, il giovane dio nudo avanza sciolto e sorridente alzando con gesto invitante il braccio sinistro: il virtuosismo tecnico dell’esecuzione e la serena naturalezza della posa rivelano una magica consentaneità con la contemporanea Galatea raffaellesca. Entrato nel 1550 circa nelle collezioni di Cosimo I, dal 1879 è conservato presso il Museo del Bargello.
Al giugno del 1511 risale il contratto con l’Opera del duomo di Firenze per la realizzazione del paludato S. Giacomo Maggiore che oggi si vede in una nicchia nella testata del pilone nordoccidentale della tribuna, rivolta verso la navata: la prestigiosa commissione (condotta a termine a inizio 1518) s’inquadrava in un ciclo di dodici statue d’Apostoli inaugurato nel 1503 da Michelangelo (ma interrotto dalla sua partenza per Roma poco dopo e mai da lui ripreso), e rilanciato nel secondo decennio del Cinquecento per concludersi solo parzialmente negli anni Sessanta con il concorso di diversi artisti. Mentre attendeva a questo compito, nel dicembre del 1515 Jacopo veniva pagato, con Andrea del Sarto, per la facciata effimera della stessa cattedrale e per un «cavallo facto in sulla piazza di Santa Maria Novella» nell’ambito delle recenti festività per l’ingresso di papa Leone X a Firenze (Boucher 1991, I, p. 180, doc. 33): verosimilmente a seguito di quell’occasione, tra la fine del 1515 e la primavera successiva, avrebbe partecipato alla gara per la nuova facciata della basilica di S. Lorenzo con un suo progetto, testimoniato da un’incisione settecentesca, ottenendo, dopo l’attribuzione definitiva dell’incarico a Michelangelo, la commissione per parte del corredo scultoreo previsto (poi tuttavia sottrattagli dallo stesso Buonarroti nel corso del 1517, circostanza che guastò temporaneamente i loro rapporti). Jacopo avrebbe inoltre progettato importanti arredi architettonici, tra i quali un monumentale camino per Bindo Altoviti, eseguito da Benedetto da Rovezzano e celebrato da Vasari (Vite, 1568, 1987, VI, pp. 178 s.; oggi perduto). In questo periodo fiorentino denso d’impegni s’inserisce anche il contratto, stipulato il 20 maggio 1516 tra Jacopo e il «prochuratore delli heredi di Giovan Francesco Martelli» Ludovico Capponi (garante Bindo Altoviti), per l’esecuzione, entro due anni, di una «figura di Nostra Donna, alta braccia 3 in circa, con un puttino o dua» (Corti, 1971) dentro un tabernacolo di suo stesso disegno nella chiesa di S. Agostino a Roma, da collocarsi in controfacciata presso la sepoltura di famiglia. Lo scultore vi si sarebbe dedicato solo dopo il suo rientro nell’Urbe, a partire dalla fine del 1518, quando venne cooptato anche per un nuovo colossale S. Giacomo, destinato all’altare della cappella del cardinale spagnolo Giacomo Serra, progettata da Antonio da Sangallo il Giovane nella chiesa della nazione castigliana su piazza Navona (oggi Nostra Signora del Sacro Cuore, ma il S. Giacomo è stato trasferito a S. Maria in Monserrato). Entrambe le statue risultano compiute entro il 1521.
Il raffinato S. Giacomo del duomo fiorentino, fissato in un momento di meditazione e il cui lieve hanchement tradisce il retaggio quattrocentesco, lascia il posto a Roma a due figure che paiono appartenere ormai a una diversa umanità, risolutamente moderna: un fiero colosso, patrono della Spagna cristiana, colto nell’attimo che precede la partenza per la sua missione evangelizzatrice e forse ispirato a un modello michelangiolesco (Antonio Canova, che lo vide nel 1779, ancora lo reputava di mano del Buonarroti), e una giovane matrona, le cui volumetria e posa appaiono improntate su una statua porfiretica di Apollo allora nella collezione Sassi (oggi a Napoli, Museo Archeologico): un libro nella mano destra come un’Annunziata, Maria sorregge il Bambino sul suo ginocchio sinistro, volgendosi con assorta sicurezza verso il gruppo della Vergine e s. Anna scolpito da Andrea Contucci solo pochi anni prima per il protonotario apostolico Johan Goritz, e confrontandosi nel contempo con l’intenso Isaia raffaellesco soprastante.
Il catalogo dell’artista si popolava, nel biennio 1518-20, anche di commissioni architettoniche di grande prestigio e di diretta iniziativa pontificia: secondo Vasari, infatti, proprio il progetto di Jacopo sarebbe stato prescelto da Leone X, tra il 1518 e il 1519, per la ricostruzione di S. Giovanni dei Fiorentini all’estremità settentrionale di via Giulia, a risarcimento dell’omonimo oratorio smantellato da Bramante all’apertura della strada dieci anni prima. All’ottobre del 1519 risale invece la bolla papale che affidava a Jacopo la progettazione della chiesa servita di S. Marcello al Corso, dopo il devastante incendio del maggio di quell’anno.
In entrambi i casi il contributo di Jacopo rimane difficile da precisare, essendo le vicende costruttive segnate da improvvise discontinuità di non chiara interpretazione: il progetto sansoviniano per un S. Giovanni a pianta centrale, avviato il 31 ottobre 1519, non è stato rintracciato con certezza, e Jacopo risulta esser lontano dal cantiere già nell’ottobre del 1520 (secondo Vasari a causa di una caduta e di un periodo di convalescenza a Firenze; sarebbe stato sostituito da Antonio da Sangallo il Giovane, che sulla base di un progetto longitudinale portò avanti i lavori fino alla metà degli anni Trenta). Nel caso di S. Marcello, le intenzioni di Jacopo si possono ricostruire attraverso almeno tre disegni di Antonio da Sangallo (soprattutto il 869 A degli Uffizi): essi delineano una basilica a navata unica con cinque cappelle per lato e profondo coro, soluzioni che vennero, almeno in parte, rapidamente messe in atto, se entro il 1521 si avviò la decorazione pittorica di una cappella per mano di Perino del Vaga, e malgrado tra il 1521 e il 1524 Jacopo mancasse da Roma, lasciando immaginare che fosse ancora una volta proprio Sangallo a condurre la costruzione.
Più fortunato sarebbe stato l’incarico per il palazzo romano del banchiere fiorentino Luigi Gaddi, fratello del più noto collezionista Giovanni, sebbene l’attribuzione a Jacopo, inaugurata dalle parole di Vasari (Vite, 1568, 1987, VI, p. 180), sia stata talvolta messa in dubbio (da ultimo in favore di Giulio Romano, che solo dal 1524 avrebbe lasciato a Sansovino le redini del cantiere).
Il palazzo (oggi Gaddi Niccolini) si affaccia sull’attuale via del Banco di S. Spirito con un semplice prospetto privo di ordini architettonici tra cantonali di bugne rustiche. Un complicato processo di acquisizioni di lotti edificabili, avviato dal committente nel 1518-19 e recentemente ricostruito nel dettaglio, suggerisce che l’edificio sia stato realizzato per parti, ma sulla base di un progetto unitario che sfrutta con intelligenza il sito stretto e allungato. La planimetria prevedeva un blocco anteriore di sale e camere sopra alle botteghe del piano terra e un’articolazione attorno a ben due cortili: il primo, vero peristilio all’antica, di libere e allungate proporzioni e arricchito da una sontuosa decorazione memore di modelli di Peruzzi, di Raffaello e dei suoi allievi.
Al 1519-21 dovrebbero risalire anche i progetti (attestati da Vasari, ma perduti) per una «gran fabbrica» di villa a nord di porta del Popolo (nella posizione in seguito occupata da villa Giulia) per il potente cardinale Antonio Maria del Monte, già suo committente nella cappella Serra (in qualità di esecutore testamentario del titolare del sacello) e che forse propiziò anche la commissione di una loggia per il nobile Marco Coscia lungo la via Flaminia, della quale rimarrebbero pochi resti inglobati nel palazzetto in seguito realizzato da Pirro Ligorio per papa Pio IV, che ancor oggi si vede.
Alcune lettere inviategli nell’autunno del 1521 dal banchiere Buonaccorso Rucellai rivelano che Jacopo in quei mesi era fuori Roma: se i suoi spostamenti a Firenze e in altre città (Venezia?) sono verosimili ma ipotetici, egli è invece documentato nella Parigi di re Francesco I (a testimonianza della sua crescente reputazione; non chiare rimangono tuttavia le ragioni e gli esiti del viaggio); una missiva gli annunciava la nascita a Roma di un figlio (Francesco, da una non altrimenti nota Caterina). Jacopo rientrò nell’Urbe nella primavera del 1524, verosimilmente a seguito dell’elezione papale di Clemente VII de’ Medici: Pietro Aretino a inizio 1525 scriveva che il pontefice si recava spesso in Belvedere a vederlo lavorare (a una nuova copia del Laocoonte in stucco, da inviare al Duca di Mantova). Tuttavia nel maggio del 1527 l’artista fu nuovamente costretto a lasciare la città a causa del Sacco: ospitato nel palazzo del cardinale Andrea della Valle con la ‘famiglia’ (di cui faceva parte l’amico pittore Rosso), Jacopo partì verso nord: dopo una sosta a Firenze (dove lasciò il figlio Francesco, che lo raggiunse solo all’inizio degli anni Trenta), il 5 agosto risulta a Venezia; il 7 ottobre Lorenzo Lotto informava che Jacopo alloggia presso Giovanni Gaddi, anch’egli riparato in laguna; nella stessa lettera il pittore accenna a progetti lasciati sospesi da Jacopo al momento della fuga da Roma: quelli per la tomba di Leonardo Grosso della Rovere, del cardinale Domenico Grimani e «per el re de Ingelterra» (a cui andrebbe aggiunto quello per il cardinale Luigi d’Aragona, citato da Vasari), e altri intrapresi in quelle settimane «per fuzir ocio e per piacere», ma piuttosto per accreditarsi presso i competitivi circoli artistici locali che si andavano rianimando fin dall’avvio del dogado di Andrea Gritti (1523-38): una Venere da gettare in bronzo e «un modello di certo pallacio ch’è per un homo da ben rico», che è stato proposto d’identificare con la pianta di palazzo «a S. Samuel» oggi al Museo Correr (Disegni Cl. III, 6038) per un lotto che nel marzo del 1528 fu acquistato da Vettore Grimani. La strategia, grazie all’appoggio di membri del patriziato veneziano più legati tradizionalmente alle corti pontificie e che quindi già ne conoscevano la reputazione (oltre ai Grimani, i Giustinian e i Correr), ebbe successo, se meno di due anni dopo, il 7 aprile 1529, Jacopo venne nominato proto della Procuratia di S. Marco de supra, ambita carica che mantenne per più di quarant’anni (nell’occasione gli venne assegnata gratuitamente nelle Procuratie vecchie – di cui assunse il cantiere, avviato nel 1513 e che lui stesso concluse nel 1538 – una casa affacciata su piazza S. Marco, in cui certamente dal 1537, e per almeno un decennio, risiedette con Paola, madre della secondogenita Alessandra, e dove continuò ad abitare il figlio Francesco dopo la morte del padre).
Fu probabilmente tramite Lotto che Jacopo entrò in contatto con Sebastiano Serlio (in città almeno dal febbraio 1528) e con lo stesso Tiziano, ritrovando a Venezia anche Pietro Aretino, giuntovi da Mantova sin dal marzo del 1527: si stringeva così un durevole e proficuo sodalizio personale e culturale che lo sostenne in tutte le fasi della sua carriera, alimentato anche da un condiviso sentire in materia religiosa, sensibile al richiamo dell’evangelismo. Le prime commissioni importanti confermarono il suo radicarsi in città nel ruolo, non esclusivo ma via via prevalente, di architetto: risale al luglio 1531 l’approvazione del suo modello per la monumentale Scuola Nuova di S. Maria della Misericordia (la costruzione procedette a rilento e rimase comunque incompiuta alla sua morte); dopo l’incendio che lo devastò nell’estate del 1532, Jacopo venne coinvolto dai fratelli Corner per il loro nuovo, maestoso palazzo direttamente affacciato sul Canal Grande a S. Maurizio (che iniziò a esser costruito solo nel 1545), e nel 1534 fu chiamato a farsi carico della ricostruzione della chiesa dei minori osservanti di S. Francesco della Vigna, posta al margine settentrionale della città, connotata simbolicamente in quanto prossima al luogo del leggendario approdo di s. Marco in città e per questo tradizionalmente oggetto della devozione delle più influenti famiglie del patriziato, quasi architettura ‘di Stato’.
L’incarico gli fu assegnato dallo stesso doge Gritti: un primo progetto prevedeva una chiesa a unica navata coperta da una cupola estradossata in muratura (estranea alla tradizione veneziana, poi in effetti espunta), che venne fondata il 15 agosto. L’acquisizione di terreni confinanti, con la conseguente possibilità di espansione, e il cedimento delle fondazioni di un pilastro d’imposta provocarono nei primi mesi del 1535 una profonda revisione proporzionale dell’impianto guidata dal Memoriale di fra Francesco Zorzi, filosofo neoplatonico e dotto membro della comunità francescana, che impose alla fabbrica la sua «dittatura armonica» (Morresi, 2000, p. 138), condivisa, oltre che da Jacopo, dagli umanisti e artisti che sottoscrissero il documento, tra cui Sebastiano Serlio e Tiziano. Lo spazio interno, solenne ed elementare nel linguaggio, è fortemente indebitato con il pauperismo delle chiese mendicanti fiorentine e, a parte la modifica del sistema di copertura (volte a botte anziché soffitto piano a cassettoni), necessaria dopo i danni provocati da un’esplosione nel vicino Arsenale nel settembre del 1569, rimane sostanzialmente quello stabilito tra il frate e l’architetto (per la realizzazione della facciata, concessa nel 1542 dai francescani ai fratelli Vettore e Marino Grimani per la celebrazione della famiglia, esautorato Jacopo, subentrò dal 1563 Andrea Palladio per volontà di Giovanni Grimani). Per un altro illustre francescano osservante che conosceva lo Zorzi – il cardinale spagnolo Francisco Quiñones – Jacopo progettò l’altare sacramentale in S. Croce in Gerusalemme a Roma con il suo corredo scultoreo in marmo e in bronzo, che reca la data 1536 (Quiñones vi fu tumulato ai piedi nel 1540). Ancora priva di riscontri è invece l’intestazione a Jacopo del progetto per l’altare sacramentale del duomo di Vicenza, commissionato dal cavaliere Aurelio dell’Acqua, anch’egli in contatto con il frate veneziano, ed eseguito dalla locale bottega dei Pedemuro, come stabilito dal contratto del 1534.
Nel suo primo decennio veneziano Jacopo continuò a ricevere anche commissioni di scultura: sin dal 1529 era stato coinvolto dagli operai dell’Arca del Santo di Padova per portare a termine un rilievo lasciato incompiuto da Antonio Minello, morto l’anno prima (nel 1536 Jacopo sottoscrisse un ulteriore contratto, che anche in questo caso comportava la conclusione di un lavoro iniziato da altri: il Miracolo della Vergine Carrilla, firmato, venne tuttavia montato nella cappella padovana solo nel 1563). Se discussa è l’attribuzione del monumento di Galesio Nichesola, vescovo di Belluno, nel duomo di Verona (1530-32), firmati sono sia la Madonna dell’Arsenale (1533-34) sia l’ispirato S. Giovanni Battista marmoreo eseguito nel 1534-37 per Daniele Giustinian ai Frari, e montato su una raffinata acquasantiera all’antica. Al 1536 circa risalirebbe l’ideazione della prima serie di rilievi bronzei con scene della vita di s. Marco, di travolgente e caratteristico «pittoricismo plastico» (Davis, 1999, p. 210), per il pergolo meridionale del coro dell’omonima basilica (della cui cupola maggiore Jacopo tra il 1536 e il 1538 curò il consolidamento; il secondo pulpito venne gettato in bronzo tra il 1541 e il 1542 e montato entro il 1544). Nell’inverno 1536-37 Jacopo affidò infine ad aiuti l’inizio della lavorazione di una grande Madonna con Bambino e angeli in marmo da collocarsi sopra il principale portale marciano, che rimase in effetti presso l’artista e che venne completata dalla bottega (Vincenzo Scamozzi nel 1593 ne curò l’allestimento nella cappella del palazzo ducale).
La congiuntura politica era comunque maturata e favorevole alla realizzazione di grandi e moderne fabbriche pubbliche che sostituissero la ‘ragione vitruviana’ alla paratassi del tessuto medievale, compimento anche simbolico di quel processo di renovatio – istituzionale, legislativa, militare – promosso da Gritti per riparare i guasti dei traumi bellici d’inizio secolo: con di fronte a sé l’esempio di Michele Sanmicheli – perfetto interprete, nel nuovo sistema territoriale di difesa, di quelle aspirazioni – Jacopo, sostenuto dai procuratori de supra Vettore Grimani e Antonio Cappello, a partire dal 1536 divenne l’artefice della monumentalizzazione del versante meridionale di piazza S. Marco, che prese avvio dalla ricostruzione della Zecca, decisa dal Consiglio dei dieci nel dicembre del 1535, e fu presto seguita dalla Libreria e dalla Loggetta.
Il progetto della Zecca, presentato nel marzo del 1536, prevedeva un edificio a due piani affacciato sul bacino di S. Marco, con un corpo anteriore adibito a uffici e alle lavorazioni di materiali preziosi e un cortile posteriore circondato da botteghe artigiane, fonderie e magazzini. L’ingresso di terra non era previsto in facciata, bensì lateralmente, rivolto verso la Piazzetta (il portale fu affiancato da possenti erme maschili, sempre su disegno sansoviniano, solo tra il 1554 e il 1556). I lavori progredirono velocemente: nel 1539 il cantiere raggiungeva il molo, ma fu necessario aspettare il 1548 per la chiusura delle opere. L’edificio elaborava, con l’espressività del bugnato, il tema della firmitas, appropriato alla ‘cassaforte’ dello Stato, in particolare nella facciata interamente in pietra d’Istria, con arcate rustiche al primo livello e semicolonne doriche incatenate al secondo, coronate da una poderosa trabeazione, completa di modiglioni (il terzo ordine, ionico, venne aggiunto dopo il 1558, non su suo disegno). La realizzazione della Libreria, deliberata, grazie anche all’insistenza del bibliotecario Pietro Bembo, nel marzo del 1537, cioè a quasi settant’anni esatti dal lascito alla Serenissima della collezione di manoscritti greci e latini del cardinale Giovanni Bessarione, che ne rappresentava la ragione costitutiva (1468), s’intrecciò inevitabilmente con il cantiere della Zecca, correndo il sito prescelto parallelo al fianco orientale di quella, separata solo da una stretta calle. Il progetto prefigurava un edificio isolato, allungato e poco profondo, rivolto verso il palazzo ducale e la Piazzetta, con un sontuoso fronte in pietra d’Istria a doppio ordine – dorico e ionico – come una basilica romana antica affacciata sul foro e una galleria inferiore di grandi arcate (inizialmente forse solo diciassette, l’ultima delle quali in asse con l’ingresso alla Zecca) aperte su botteghe; all’altezza dell’undicesima campata era collocato l’accesso, tramite una sontuosa scala, alle sale di lettura del piano superiore. Il cantiere si avviò dalla testata rivolta alla piazza e al campanile e nel 1539 raggiunse lo spigolo nordorientale, dove Jacopo risolse abilmente il rompicapo angolare, connaturato alla logica dell’alternanza di triglifi e metope del fregio dorico, con «l’invenzione del cantonale» (Sansovino, 1581, p. 103), ampiamente celebrata. Tuttavia, quando il portico, svoltato l’angolo, ebbe raggiunto la sesta campata, la notte del 18 dicembre 1545 crollò una parte della pesante volta in muratura retrostante (che venne più tradizionalmente ricostruita, dopo le sanzioni a carico dell’architetto, a capriate lignee e soffitto curvo incannucciato). I lavori, attestati nella primavera del 1556 alla sedicesima campata, mentre già fervevano le opere di finitura, vennero nuovamente interrotti per attendere le decisioni in merito allo spostamento della Beccheria: la fase di stallo si protrasse oltre la morte di Jacopo, fino al 1580, quando, liberata l’area dal pubblico macello, si decise di proseguire la fabbrica fino al molo per ventuno campate (con inevitabile saldatura alla facciata della Zecca). Il trittico sansoviniano si compì con la scenografica Loggetta dei nobili, applicata al versante orientale del campanile, a sostituzione della precedente tardogotica: forse in origine pensata per circondare la torre sui quattro lati (come farebbe pensare un disegno oggi a Londra, Victoria & Albert Museum, 610), venne eseguita come arco di trionfo composito a tre fornici sollevato su un podio, fondale adeguato al cerimoniale di accesso al palazzo ducale. La costruzione si avviò nel febbraio del 1538 e le opere murarie si conclusero nel gennaio del 1541, mentre si procedeva all’approvvigionamento dei marmi colorati per il rivestimento, in particolare le colonne di spoglio in brecce africane e asiatiche. Jacopo ne diresse anche il cantiere decorativo, con ampia collaborazione di aiuti: autografi sono considerati i quattro longilinei bronzi delle nicchie (tre divinità pagane e la Pace) saldati all’artista nel 1546 (per la Loggetta Jacopo eseguì infine, nei primissimi anni Quaranta, anche una squisita terracotta della Madonna col Bambino e s. Giovannino, gravemente danneggiata dal crollo del campanile nel 1902).
In aggiunta ai cantieri pubblici di altissimo prestigio (non è da escludere l’elaborazione di un progetto per il nuovo palazzo ducale, di cui rimane qualche accenno nelle fonti), vennero ad affollarsi nella bottega sansovinana anche commissioni private di patrizi organici all’entourage grittiano: per il ricco Giovanni Dolfin, nel 1532 podestà di Verona e membro del Consiglio dei dieci, Jacopo realizzò dopo la metà degli anni Trenta il nuovo palazzo di famiglia presso Rialto, nel quale il telaio strutturale e il linguaggio antichizzante degli edifici marciani venne, non senza difficoltà, applicato al tradizionale modello abitativo veneziano, come poi, e con ambizioni ancora più esplicite, nella Ca’ Granda di Marco Corner. Non si può escludere, pur in assenza di riscontri documentari incontestabili, la consulenza di Jacopo per la trasformazione in domus all’antica di palazzo Grimani a S. Maria Formosa, dal 1532 occupato al secondo piano dal procuratore Vettore. Qui l’architetto potrebbe aver incontrato Giovanni da Udine, forse già noto dagli anni romani e dal 1537 impegnato nella decorazione di alcune camere al primo piano nell’appartamento di Giovanni Grimani, fratello di Vettore (l’Udinese approfittò insistentemente dei consigli dell’ormai consacrato proto quando in patria intraprese opere d’architettura).
Nel marzo del 1538, dopo esser stato consultato in merito alle nuove logge da costruirsi attorno al palazzo della Ragione di Vicenza, Jacopo accompagnò il vescovo Giovanni Rossi nella città berica per verificare lo stato della cattedrale in vista della probabile apertura del Concilio. Alla fine del decennio si può collocare il suo impegno per la ricostruzione della chiesa di S. Spirito in Isola (perduta, per la quale realizzò anche il candelabro pasquale bronzeo e l’altare maggiore di marmi mischi, dove venne installata attorno al 1545 la Pentecoste di Tiziano, oggi in S. Maria della Salute). Al 1540 circa dovrebbe risalire il progetto della villa di Alvise Garzoni a Pontecasale, a sud di Padova, che risultava in parte già eseguita nel 1543.
La vasta fabbrica, ricordata anche da Vasari, è elevata su un basamento parzialmente interrato per preservare gli ambienti residenziali dalle abbondanti acque del sottosuolo. Il fronte è traforato al centro da un doppio porticato a cinque fornici, inquadrati da semicolonne, che dà accesso a una corte pensile, circondata a sua volta su tre lati da un giro di logge, e schermata a nord da un muro su cui si rispecchiano le arcate, con aperture verso la campagna. Due ali identiche di sale e camere, tutte voltate come le logge, serrano su entrambi i lati il blocco di rappresentanza centrale: la coerenza dell’impianto e la finezza delle soluzioni di dettaglio, di astratta semplicità, configurano l’edificio come un apice dell’attività progettuale sansoviniana, anche per ciò che riguarda gli arredi – pavimentazione, vera da pozzo, camini –, certamente realizzati su suo disegno. Dalla villa proviene l’autografa Madonna col Bambino a rilievo, in legno e stucco, oggi al Museo civico di Vicenza (inv. S 269), esemplare di una produzione seriale di grande fortuna.
Assieme alla Scuola Grande della Misericordia (il cui cantiere dal 1540, raggiunto il primo solaio, rimase interrotto per più di un decennio) e a palazzo Corner a S. Maurizio, finalmente avviato nel 1545, villa Garzoni rappresenta uno degli ultimi ‘esperimenti vitruviani’ di Jacopo, dopo i fasti delle fabbriche marciane: infatti a partire dal quinto decennio del secolo la sua architettura, salvo motivate eccezioni celebrative, progressivamente si disimpegnò dalla componente linguistica più magniloquente, perseguendo piuttosto, assimilate definitivamente le logiche costruttive della tradizione lagunare, effetti di estremo nitore spaziale e aderenza alle esigenze funzionali.
Negli edifici di culto questa austerità, già peraltro manifesta in S. Francesco della Vigna, è stata messa in relazione con la supposta vicinanza di Jacopo alla spiritualità riformata ed è particolarmente evidente nella chiesa parrocchiale di S. Martino, in costruzione dal 1553 (sebbene forse progettata sin dal 1540, a pianta centrale), nell’ampio spazio quasi cubico di S. Giuliano (dal 1559 circa) e nell’invaso ovato della chiesa del SS. Salvatore presso l’ospedale degli Incurabili (post 1565; demolita nell’Ottocento). Nel caso di edifici come la Ca’ di Dio sulla riva degli Schiavoni (progettata nel 1545), sede di un’istituzione caritatevole per nobildonne decadute la cui gestione era sottoposta al controllo diretto dello Stato (così come il complesso di case per marinai poveri a S. Ternita, 1541-44, e più tardi anche le case Moro e le case d’Anna, per quanto quest’ultime frutto di iniziative private), il ricorso alle forme dell’edilizia minore e la rinuncia a ogni tratto di eloquenza all’antica rivelano, oltre che i limiti di natura economica imposti dalla committenza, anche l’interesse del proto nella ricerca di tipi residenziali razionali ed efficienti per «tutti li gradi degli huomini» (Serlio, 1994, Libro VI, c. 1r), temi frequentati già dalla trattatistica quattrocentesca e che occuparono largo spazio nella riflessione architettonica d’età moderna. Ancora diverse le motivazioni alla base delle semplificazioni morfologiche e sintattiche messe in campo da Jacopo nelle Fabbriche Nuove del mercato di Rialto, per le quali presentò un modello nel 1554 e di cui condusse la realizzazione (dopo la soluzione di una delicata vertenza tra le magistrature incaricate della gestione del cantiere): qui la necessaria interazione con gli edifici precedenti e i vincoli posti dal sito suggerirono infatti soluzioni flessibili e di notevole impegno strutturale sotto l’aspetto seriale e ordinario dei prospetti.
Intanto nella primavera del 1546 Jacopo, con la collaborazione del trentino Alessandro Vittoria e altri aiuti, predisponeva i modelli in cera per il getto della porta bronzea della sacrestia di S. Marco, inserita nel lato sinistro dell’abside della basilica, di cui segue la curvatura con la sua elegante cornice marmorea (ma solo nel 1553 veniva pagata la fusione dei due pannelli maggiori raffiguranti la Deposizione e la Resurrezione di Cristo; l’opera venne saldata completamente dopo a morte dell’artista): sontuoso tour-de-force tecnologico, il battente, che rendeva omaggio ai modelli fiorentini di Ghiberti e Donatello, accoglieva i ritratti di Jacopo stesso e del figlio Francesco (nonché di Tiziano e Pietro Aretino) e ne consacrava la fama nel cuore del tempio marciano (per il quale realizzò anche, tra il 1550 e il 1552, quattro statuette bronzee di Evangelisti – firmate – per la balaustra del coro). Sulla porta il longilineo Cristo della Resurrezione, circondato da una concitata folla di cherubini, rielaborava un’invenzione in piccolo formato, più volte replicata, di qualche anno prima (un Cristo in gloria, tanto apprezzato da Lorenzo Lotto, che lo volle tradurre in pittura nel 1542), tipico oggetto per la devozione privata, che rimase presso gli eredi di Jacopo per due generazioni e che nel 1664 pervenne a Firenze, allestito in una montatura lignea, nelle collezioni dei Medici (oggi al Bargello, inv. 446 b).
La condizione sociale di artista di Stato ormai consolidata – turbata ma certo non compromessa dall’incidente della Libreria – e la conseguente agiatezza economica raggiunta sono rivelate dagli acquisti immobiliari di Jacopo, in particolare una casa da reddito a S. Trovaso (1552). Punto di riferimento per committenti e giovani artisti, Jacopo continuò a essere coinvolto in consulenze a Venezia e in Terraferma, ad esempio a Brescia nel 1554 per dare un parere circa il completamento della Loggia (a causa dell’età gli viene concesso l’uso di una carrozza per recarsi al cantiere). Un notevole impegno di quei primi anni Cinquanta, affrontato con la collaborazione sempre più determinante di Vittoria, fu l’allestimento della facciata della chiesa di S. Giuliano, finanziata dal 1553 dal colto medico ravennate Tommaso Rangone a condizione di potervi porre la propria statua in bronzo, onore riservato a Venezia in pochi, selezionatissimi casi (possibile modello il monumento all’ammiraglio Vincenzo Cappello sulla fronte verso il rio della chiesa di S. Maria Formosa, di cui Jacopo fu forse regista negli anni Quaranta). Al nuovo prospetto fece seguito la ricostruzione dell’intera chiesa medievale, sempre con il sostegno economico di Rangone (cui fu concessa per la propria sepoltura la cappella maggiore).
Completata nel 1559 (anche se forse solo al rustico, mentre si dovette aspettare il 1566 per la messa in esecuzione), interamente in bianca pietra di Rovigno, la facciata a due livelli e timpano di coronamento probabilmente subì aggiustamenti dopo che la struttura retrostante, già a tre navate, divenne un unico, alto ambiente. L’autografia di Jacopo è considerata sicura per il registro inferiore, specie il portale architravato inquadrato da un arco, e fiancheggiato da coppie di semicolonne doriche scanalate modellate su quelle della basilica Aemilia a Roma, e innalzate su un basamento continuo in un’aggregazione apertamente trionfale. Corrispondono alla stessa logica celebrativa, con il dispiegamento di un linguaggio aulico particolarmente sontuoso, alcuni monumenti funebri dei quali Jacopo elaborò verosimilmente il progetto, eseguendo con aiuti anche gli inserti scultorei, come avviene in particolare in quello del doge Francesco Venier in S. Salvador (1555 circa: la Speranza e la Carità sono firmate), quello di Livio Podocataro in S. Sebastiano (1557) e quello del procuratore di S. Marco Giovanni a Lezze ai Crociferi (anni Sessanta).
Nell’ambito delle commissioni pubbliche degli anni Cinquanta Jacopo risultò impegnato in palazzo ducale sia nella progettazione (assieme a Sanmicheli, con Vittoria per gli stucchi e Battista Franco per le pitture) della Scala d’oro (il collegamento a due rampe che dal piano delle logge conduceva all’appartamento ducale e all’antica sala del Collegio, dal 1554), sia con l’incarico per il Marte e il Nettuno colossali, in marmo di Carrara, posti liberi nello spazio al culmine della scalinata realizzata circa settant’anni prima da Antonio Rizzo all’incontro dell’arco Foscari, luogo di altissimo valore cerimoniale.
Il contratto, stipulato nel luglio del 1554, stabiliva che il lavoro si sarebbe dovuto concludere nel giro di un anno, ma nonostante il largo concorso della bottega le due statue furono collocate sulla ringhiera della piattaforma d’arrivo solo nel 1566. L’occasione di misurarsi con il genere colossale, dopo le parziali esperienze romane degli anni Dieci e alla luce dei nuovi modelli di Bartolomeo Ammannati e di Baccio Bandinelli, era stata anticipata da un Ercole, eseguito su mandato del duca Ercole II d’Este nel 1550 per l’omonima porta urbica di Modena e consegnato nell’estate del 1553 (quando venne tuttavia destinato alla piazzaforte di Brescello). Rispetto a quel precedente, le due statue veneziane, peraltro condizionate dalle dimensioni dei blocchi, risultano più dinamiche ed energiche pur nelle pose stanti.
Nel marzo del 1557 si avviarono, sempre nel contesto marciano, i lavori per il completo rifacimento della fronte della chiesa di S. Geminiano, dal XII secolo affacciata sulla piazza al centro del lato opposto alla Basilica e ricostruita a inizio Cinquecento a pianta centrica (fu demolita nel 1807). A promuovere l’operazione, a fianco del pievano Benedetto Manzini, Tommaso Rangone, che probabilmente era intenzionato in un primo momento a collocare qui la sua sepoltura (poi deviata su S. Giuliano), e conservava disegni della nuova facciata nella sua biblioteca.
Come in altre occasioni, Jacopo fu costretto ad accettare i vincoli delle preesistenze, particolarmente cogenti per la saldatura con le Procuratie vecchie. Il confronto indiretto con S. Marco imponeva l’impiego di un ricco rivestimento (materiali di spoglio vennero condotti allo scopo da Pola), spartito in due ordini sovrapposti di semicolonne binate in aggetto, più un attico coronato da timpano e volute laterali di raccordo: i colori dei marmi e l’originalità di alcune soluzioni decorative attenuavano il rigore antichizzante dell’impaginato.
Nella cappella del Crocefisso, da Jacopo stesso annessa nel 1566 al lato settentrionale di S. Geminiano chiudendo l’ultima arcata al piano terreno delle Procuratie, gli venne concesso nel giugno del 1570, come da sua richiesta, di collocare il proprio monumento funebre (disperso in seguito alla distruzione della chiesa): si annullava così una precedente disposizione testamentaria (del 16 settembre 1568) in favore dei Frari, presso la cappella dei Fiorentini. Il nuovo testamento stabiliva che la sepoltura, ora a pochi passi da casa, fosse ornata da un busto in marmo (non rintracciato; l’aspetto dell’anziano artista ci è noto soprattutto grazie al ritratto di Tintoretto agli Uffizi, datato 1566 circa).
Pochi mesi dopo, il 27 novembre 1570, Jacopo moriva a Venezia all’età di ottantaquattro anni (l’epitaffio, secondo un costume tipicamente veneziano, lo dice novantatreenne).
Il figlio ne ereditò le carte, e – così nel testamento del 1568 – alcuni tra i collaboratori i disegni architettonici, non rintracciati. Francesco rivelava, sin dal suo volume L’edificio del corpo umano (Venezia 1550, c. 4r), di possedere «bellissime anatomie di mano di m. I. Sansovino, mio honoratissimo padre», che non risultano esser mai state date alle stampe; Scamozzi accennò all’esistenza di un’Opera d’architettura sansoviniana, tuttavia «non ancora venuta in luce» (Idea dell’Architettura universale, Venezia 1615, l, 1°, cap. VI, p. 18), e anch’essa da considerarsi perduta.
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