Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Jacques Arcadelt è, insieme a Philippe Verdelot e Costanzo Festa, il creatore del madrigale cinquecentesco. La sua musica rimane un esempio che tutti i giovani compositori devono conoscere e studiare, fino a metà Seicento, vale a dire fino all’esaurimento creativo del madrigale stesso.
Jacques Arcadelt compone musica di buona qualità in tutti i generi (messe, mottetti, magnificat, lamentazioni, chansons, madrigali), tuttavia il suo nome è legato, come quello dei più anziani colleghi Philippe Verdelot e Costanzo Festa, all’invenzione del genere del madrigale.
Per l’esemplarità della sua musica, egli ha duratura fama quale modello per i madrigalisti: la sua prima silloge a stampa, il Primo libro di madrigali a quattro voci (prima edizione nota 1539) avrà, infatti, non meno di 40 ristampe per più di un secolo, fino al 1654 (una di esse perfino a cura di Claudio Monteverdi). Questo è veramente un dato eccezionale per un’epoca in cui buona parte delle composizioni diventano obsolete nel giro di pochi anni.
Gli scarni dati biografici disponibili su Arcadelt possono essere riassunti in brevi tratti. Incerti sono sia il luogo di nascita (forse Liegi) sia la data (1505?). Neanche i suoi studi musicali sono documentati con certezza; tuttavia in un testo del 1560 il poeta Pierre de Ronsard annovera Arcadelt fra i discepoli del grande Josquin Desprez (morto nel 1521), ed è ragionevole pensare che a Firenze egli abbia potuto, se non proprio studiare, comunque usufruire dei consigli e dell’esempio di Philippe Verdelot.
Nella metà degli anni Trenta Arcadelt è sicuramente a Firenze; ma dal 1537 sembra si trasferisca a Venezia, dove in stretta successione (e comunque entro il 1539) vengono pubblicati i primi quattro libri di Madrigali a quattro voci; un quinto seguirà nel 1544.
Dal 1540 al 1551 è a Roma, cantore presso la cappella Giulia, dove riceve diversi benefici ecclesiastici. Nel 1552 ritorna in Francia, come maestro di cappella di Carlo, cardinale di Lorena, e come musico del re. A Parigi pubblica raccolte di messe, mottetti, lamentazioni (ma molta sua musica sacra è comparsa precedentemente in volumi collettivi); in antologie vedono la luce numerose chansons (ce ne sono pervenute circa 120). Arcadelt muore nel 1568 sempre a Parigi.
Al di là di questi dati che, comunque, tratteggiano un’interessante personalità di musico attivo e cosmopolita, il significato storico della musica di Arcadelt si coglie in relazione al singolare favore di cui gode. E la natura di questo favore si può rilevare in un passo delle Cene, raccolta di novelle del fiorentino Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca.
Nell’introduzione alle Cene viene presentato un gruppo di quattro giovani fiorentini mentre, in un pomeriggio invernale, si recano a casa di un amico, che “per lettere e per cortesia aveva pochi pari (...) percioché, oltre l’altre sue vertù, era musico perfetto, e una camera teneva fornita di canzonieri scelti e d’ogni sorte di strumenti lodevoli, sappiendo tutti quei gioveni, chi più e chi meno, cantare e sonare”. Riunitisi, i cinque amici “si diedero a cantare certi madrigali a cinque voci di Verdelotto e d’Arcadelte”. In una stanza accanto stanno la sorella del padrone di casa e quattro sue amiche (in numero speculare quindi ai cinque giovani) intente a intrattenersi amichevolmente, mentre si scaldano davanti a un bel fuoco acceso. Esse “udirono per ventura i giovani cantare, ma non discernevano altro che un poco di armonia; onde, disiderose d’intender le parole, e massimamente alcune di loro che se ne intendevano e se ne dilettavano, deliberarono (...) che i giovani si chiamassero (...). La qual cosa i gioveni accettarono più che volentieri (...). E, poi che essi ebbero cantati sei od otto madrigali con soddisfacimento e piacere non piccolo di tutta la brigata, si misero a sedere al fuoco”.
Questo felice quadretto del Lasca ci offre preziose informazioni. Vi si vede intanto il madrigale fruito secondo le modalità della musica da camera, eseguito a scopo di autointrattenimento da giovani di buona famiglia, tutti, “chi più e chi meno”, dilettanti di musica. È quindi nella borghesia cittadina che va cercato il principale sostegno sociale del madrigale degli inizi (e si noti che anche le giovani si intendono e si dilettano di musica). Questo godimento collettivo del madrigale (che è polifonico e richiede quindi il contributo di più esecutori), evidenzia i termini del suo successo.
C’è poi un altro aspetto interessante del testo del Lasca: i fruitori del madrigale riservano molta attenzione al testo poetico che viene intonato. Le ragazze, che stanno in un’altra camera, chiamano a sé i ragazzi perché sentono solo i suoni, mentre vogliono partecipare alla comprensione e al commento delle parole. Il madrigale, insomma (e sta qui la sua affascinante novità), è la recitazione sonora di una poesia; una recitazione armonica, attenta e discreta, e priva degli automatismi strofici della precedente musica profana. Similmente ai protagonisti delle Cene, la piccola combriccola di amici, che costituisce gli interlocutori del Dialogo della musica di Anton Francesco Doni (1544), esegue estemporaneamente diversi madrigali e ne commenta animatamente i testi.
Nelle Cene i nomi di Arcadelt e di Verdelot (morto anteriormente al 1552) sono dunque presentati come un tutt’uno, e intesi quasi a emblema del madrigale.
Lo stretto connubio dei due compositori è confermato da numerosi altri documenti, fra i quali spicca un passo dei Ragionamenti accademici del matematico fiorentino Cosimo Bartoli, pubblicati nel 1567, ma concepiti già una decina d’anni prima: “già sapete che qui in Firenze Verdelotto era mio amicissimo, del quale io ardirei di dire […] che ci fussino, come invero ci sono, infinite composizioni di musica che […] hanno del facile, del grave, del gentile, del compassionevole, del presto, del tardo, del benigno, dello adirato, del fugato seconda la proprietà delle parole sopra delle quali egli si metteva a comporre. […] Dietro alle pedate del quale caminando poi Archadel, si andava in quei tempi che egli stette in Firenze assai bene accomendando”.
Dunque, nelle parole di Bartoli, Arcadelt è discepolo e degno continuatore di Verdelot. E per avere un’idea di cosa significhi il madrigale nelle mani di Verdelot basta ascoltare una delle sue migliori realizzazioni, Fuggi, fuggi, cor mio, dal primo libro di Madrigali a quattro voci (stampato nel 1533 ma concepito già almeno un decennio prima). Un breve testo in forma di ballata (ABBA) viene intonato da quattro voci omofonicamente, cioè con quella recitazione armonica del testo di cui si è detto. Le frasi musicali corrispondono fedelmente alla divisione in versi; ma allo stesso tempo ogni minima inflessione affettiva del testo si proietta in efficaci articolazioni del discorso musicale (cadenza, sincope, dialettica armonica ecc.), creando così quel ricco ventaglio espressivo giustamente esaltato da Bartoli. Il pezzo è insomma una miniatura musicale (dura circa un minuto e mezzo) densa di sfumature emozionali, di velocissime accensioni e subiti cedimenti, articolata però con mezzi tecnici poco complessi, alla portata anche di musici non professionisti.
Arcadelt assume i fondamenti di questo procedimento. Ma, consapevole del fatto che una semplicità troppo a lungo reiterata diventa presto maniera, reintroduce con grande misura la “gravità” e lo spessore dell’articolazione propri a generi musicali tradizionalmente più austeri (come la messa e il mottetto); mantenendo comunque la sobrietà formale della lezione di Verdelot. Il bianco e dolce cigno, venerato capolavoro del primo libro dei Madrigali a quattro voci, esemplifica la maturazione dello stile di Arcadelt.
Jacques Arcadelt
Il bianco e dolce cigno
Madrigale
Il bianco e dolce cigno
Cantando more, et io
Piangendo giungo al fin del viver mio.
Strana e diversa sorte!
Ch’ei more sconsolato,
Et io moro beato.
Morte che nel morire
M’empie di gioia tutto e di desire.
Se nel morir altro dolor non sento,
Di mille morti il dì sarei contento.
La poesia presenta quattro parti: i versi 1-3, dove viene impostata l’analogia fra il cigno e il poeta; i versi 4-6, dove, all’interno dell’analogia, vengono evidenziate le differenze; i versi 7-8, che colgono l’assurda condizione dell’amante; il distico finale, dove il poeta abbraccia contento questa sua condizione.
A esse corrisponde un’attenta disposizione delle sezioni musicali. Un’affettuosa declamazione armonica del testo intona fluidamente la prima parte, evidenziandone così la funzione introduttiva, più che espressiva.
Segue un crescendo sonoro caratterizzato dalla salita di tutte le voci nel registro acuto e dall’utilizzo di una cadenza sospensiva, che carica il pezzo di contenuto patetico, mettendo al centro dell’attenzione il poeta. Il declamato armonico che segue, in registro più grave, ritorna alla fluidità narrativa della prima sezione. Per il distico finale Arcadelt ricorre invece a raffinati artifici del contrappunto. Con l’antica nobiltà dei mezzi tecnici utilizzati, egli esalta così il nocciolo concettuale della poesia, in cui il poeta si identifica contento nella sua paradossale contraddittorietà.
È questa, dunque, la grande arte del madrigale: un calibrato gioco oppositivo o combinatorio di imitazione e omofonia, di registri vocali gravi e acuti, di valori delle note lunghi o brevi, di ritmi regolari e di sincopi e accenti. È una policroma traduzione sonora delle modulazioni affettive del testo, attraverso un fitto gioco di analogie: fiumi e venti resi con cascatelle di note brevi; sofferenza e languore resi con dissonanze e cromatismi; solitudine e deserti resi con intervalli ampi e ritmi tardi.