DAVID, Jacques-Louis
Pittore, nato a Parigi il 30 agosto 1748, morto a Bruxelles il 29 dicembre 1825. Allievo del Vien, appartenne anche alla scuola degli Elèves protégés, ma tardò a distinguersi. Ambizioso, ostinato e balbuziente, il giovane artista non ebbe mai facile vena. I suoi primi lavori, il Combattimento di Minerva contro Marte (Louvre, 1771), Niobe (1772), Antioco e Stratonice (1774), che gli valse il premio di Roma, non si differenziano dalla produzione corrente. Dal 1775 al 1780 egli soggiornò a Roma, soggiorno che fu della massima importanza per la sua formazione artistica. La scoperta di Ercolano, i primi scavi di Pompei, avevano portato nuovo fervore negli studî dell'antichità; le nuove teorie, in completo contrasto coi principî dell'arte barocca e che rimettevano in onore il senso del bello, la naturalezza, la semplicità degli antichi, erano state formulate dal Caylus, dal Winckelmann, dal Lessing (il Laocoonte è del 1772). Era una seconda scoperta dell'antichità. Il D. s'impregnò di questa atmosfera, se ne ubriacò con la fede di un fanatico. Ma soltanto al ritorno a Parigi, le sue tendenze presero forma definitiva. La Rivoluzione era vicina, il pubblico era imbevuto delle idee di Gian Giacomo Rousseau, le virtù, i grandi uomini di Plutarco, i sentimenti repubblicani erano nelle menti e nei discorsi di tutti. Questi sentimenti determinarono il grande successo di Belisario (1781, museo di Lilla), vasta tela di stile severo, volutamente freddo, dal disegno virile e duro. La gloria dell'autore crebbe ancora più nel 1784, dopo un secondo viaggio a Roma, con il Giuramento degli Orazi (Louvre), con la Morte di Socrate (1787), ampia composizione di un'austerità addirittura agghiacciante, ma che fu salutata come il manifesto di un'arte eroica, grandiosa e "morale", che ripudiava le seduzioni della sensualità. A quarant'anni, il D. prendeva il posto di capo indiscusso della scuola francese. La Rivoluzione trovò l'artista fra i suoi più ardenti partigiani. Si consacrò sulle prime a glorificare gli eroi della libertà, che gli sembravano eguagliare quelli di Roma e di Sparta. Intraprese una vasta composizione, rimasta incompiuta, sul Giuramento nella Sala della Pallacorda, ma presto, sopraffatto dagli avvenimenti, rinunciò quasi alla pittura. Nominato membro della Convenzione nazionale nel 1792, poi del Comitato di Salute Pubblica, amico di Robespierre, entusiasta di Saint-Just, votò la morte di Luigi XVI e prese parte al governo durante il Terrore. Sua prima cura fu di sopprimere l'antica Accademia, alla quale apparteneva lui stesso dal 1783. Si occupò della riorganizzazione delle arti su basi nazionali e cercò di metterle al servizio della Repubblica, come avevano servito per l'addietro la monarchia e la "superstizione"; fu il grande impresario delle feste repubblicane. In questa epoca riuscì a fatica ad eseguire qualche quadro, che ci testimonia le passioni del tempo: Il pellicciaio di Saint-Fargeau (1793, ora perduto), Marat (1793, museo di Bruxelles), Joseph Bara (1794, museo d'Avignone), stupendo abbozzo, forse il più affascinante dei suoi lavori. Gli avvenimenti del 9 Termidoro lo strapparono dall'ubriacatura giacobina; ma ebbe la fortuna di sfuggire alla susseguente reazione. Infatti se la cavò con qualche mese di prigione. Ritiratosi dalla vita pubblica, riacquistò un immenso prestigio. Nominato membro dell'Institut fino dalla creazione di questo (1798) riaprì uno studio al quale cominciarono ad afluire tutti i giovani pittori d'Europa. Il quadro delle Sabine (1799) portò al colmo la sua nomea. È un'opera assai più serena di tutte le precedenti, non scevra di particolari pieni di femminile dolcezza. Con essa il D. si fece interprete dei sentimenti, e delle aspirazioni nazionali. Si levava intanto la stella di Bonaparte. Il pittore ammirava in buona fede l'eroe, e gli rimase fedele. Nel 1800 dipinse di lui un primo ritratto, ora al museo di Versailles, per glorificare il passaggio delle Alpi prima della battaglia di Marengo, e un secondo (1805) rappresentandolo nel costume imperiale. Napoleone lo nominò suo primo pittore nel 1804 e cavaliere della Legion d'Onore; poi gli affidò l'incarico di illustrare i grandi avvenimenti del regno: quattro tele immense destinate a Versailles, dovevano commemorare l'Incoronazione, l'Intronizzazione, l'Arrivo dei sovrani al Palazzo di città, la Distribuzione delle Aquile. Solo la prima e l'ultima furono eseguite (1805-1810). La prima, ora al Louvre, è una delle opere più significative della pittura franeese; il quadro delle Aquile è rimasto a Versailles e non vale l'Incoronazione. Però l'artista era insofferente di questo incarico di cronista; si struggeva di tornare alla "pittura pura", alla sua prediletta antichità, essa sola degna degli sforzi di un pittore, l'unica, eterna fonte di bellezza, che gli dava modo di applicare la sua dottrina del "bello ideale", della forma assoluta. In questo periodo il talento del D. si spiritualizza, arriva quasi alla soglia della più alta bellezza. L'Impero declinava. La grande avventura si avvicinava alla fine. Allora l'artista concepì il grande quadro Leonida alle Termopili (1812). È la veglia che precede il sacrificio: la devozione alla patria ha, in questo gruppo di uomini, in questo bel fregio eroico, una gravità religiosa: ma l'esecuzione si rivela molle e fuligginosa. Dopo i Cento giorni il D. si rifugiò a Bruxelles, ove aprì uno studio frequentato da una gioventù deferente e fedele; ma la sua mano s'indeboliva, il suo genio si raffreddava. Amore e Psiche, Telemaco ed Eucarite, Marte disarmato da Venere, ultime sue opere (1824, museo di Bruxelles) sono gelide, porcellanose mitologie galanti.
Pochi uomini hanno esercitato nell'arte un'influenza eguale a quella del D.; durante mezzo secolo la sua personalità dominò l'Europa. Fu una vera dittatura, che si prolungò per lungo tempo dopo la sua morte, anche fuori della Francia: solo l'Inghilterra e la Spagna ne rimasero immuni. Fin quasi al 1850 la sua arte impose al mondo uno stile che penetrando ovunque influì persino sull'arredamento, sulla moda femminile, sull'insegnamento artistico nelle scuole. Nonostante ciò, il D. non si può porre fra i massimi pittori: ha pochissime idee, ristretta fantasia, povero senso della forma, niente potenza di sogno, niente poesia. Ma le sue idee sono chiare e perfettamente coerenti, s'impongono con la forza del dogma, formano un sistema e un blocco. Ha una personalità di levatura elementare, con un cervello e una retorica d'operaio, ma sostenuta da una passione caparbia, e una volontà di ferro. Il suo temperamento d'artista è in contraddizione con tutto il suo sistema, e costituisce, a volta a volta, un impedimento e una condizione della sua forza.
Dottrinario solo per raziocinio, il D. osserva e studia con occhi attenti la realtà. Davanti al modello, questo pittore senza immaginazione fa delle meraviglie; è ritrattista insigne ed è qui il meglio della sua attività pittorica. La serie dei ritratti del Louvre (Madame Récamier, 1800; M. et Mme Seriziat; M. et Mnte. Pécoul; Mme de Verninac; Pio VIII, ecc.), la famiglia di Michele Gerard (Mans, museo); le Figlie di Giuseppe Bonaparte (Roma, museo Primoli) sono fra i capolavori della pittura moderna. (V. tav. CXVI).
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