JAINISMO (pron. giainismo)
Religione affermatasi nel NordEst dell'India nel secolo VI a. C. e così denominata dall'appellativo Jina "vincitore", col quale vengono designati generalmente i suoi ventiquattro maestri, chiamati Tīrthamkara o Tīrthakara, "preparatori della via [fatta per attraversare l'oceano dell'esistenza]", o Arhat "venerandi", già vissuti su questa terra (di altri 24 che dovranno apparire in età future vengono pur dati i nomi) e particolarmente l'ultimo di essi, Vardhamāna o Mahāvīra. Nell'irrefrenata fantasia dei jaina, quasi tutti questi maestri hanno avuto una lunghissima storia: le più meravigliose vicende accompagnano la loro nascita, la loro vita e la loro morte; essi vivono un numero iperbolico di anni, che vien, tuttavia, gradatamente diminuendo, fino a raggiungere negli ultimi due, Pārśva e Vardhamāna, il limite rispettivo di cento e di settantadue anni.
Sul primo, Ṛṣabha, e sui seguenti ventuno, i quali tutti, come i due ultimi, vengono contraddistinti nelle immagini da un simbolo speciale consistente per lo più in un animale, vana sarebbe la ricerca di qualsiasi elemento storico. Basti ricordare che Ṛṣabha sarebbe vissuto 8.400.000 anni e che avrebbe avuto per figlio Bharata, il primo mitico re dell'India, il quale avrebbe composto i quattro Veda di fede jaina, che poi Vyāsa (v.) avrebbe a sua volta denaturati nell'empia dottrina brahmanica e ridotti quali ci sono giunti. Gli ultimi due appartengono invece alla storia; Pārśava risulterebbe nato a Benares o a Śrāvastī (Sahet Mahet) nell'850 circa a. C., in quel periodo di tempo nel quale praticamente si manifestano idee avverse al dominio brahmanico. Egli, come il suo successore Mahāvīra, sarebbe uscito da stirpe di re (kṣatriya), e avrebbe fondato quella dottrina di cui poi l'ultimo Jina non sarebbe stato che il riformatore.
Mahāvīra nacque nel 599 a. C. a Kundagrāma (od. Basukund), presso Vaiśālī (od. Besahr), al nord di Pāṭaliputra (od. Patna, Bengala). Il padre suo era Siddhārtha, capo, a quanto pare, della tribù degli Jnāṭr, la madre, Triśalā, pure ella di stirpe reale. A trent'anni decise di abbandonare la famiglia e il mondo e, distribuite tutte le ricchezze ai poveri, si fece asceta. Dopo un anno e un mese dall'inizio della sua penitenza, volle gittare ogni specie di veste e rimanere ignudo, quasi parendogli di render troppo onore al corpo usando d' un abbigliamento qualsiasi. Per dodici anni interi si sottopose alla più tremenda ascesi, mentre intanto vagava ininterrottamente per molti luoghi del Bengala occidentale. Il suo alto spirito ascetico e l'incessante ricerca della verità lo persuasero dell'insufficienza dei mezzi adottati dalla dottrina di Pārśva (detta dei Nirgrantha o "liberati dai legami", al cui culto egli, come i suoi, dovette certo appartenere), per l'ottenimento della via di salvazione. Quattro erano i voti già sanciti da essa:1. non uccidere essere alcuno (ahiṃsā); 2. non mentire (sunṛta); 3. non far propria cosa alcuna che non sia stata offerta (asteya); 4. non commettere fornicazione (brahmacarya). A questi egli ne aggiunse un quinto: rinuncia al possesso di qualsiasi cosa (aparigraha). Con l'abbandono d ogni utensile, sin della ciotola, in cui egli soleva raccogliere il cibo che gli veniva offerto in elemosina, ma per il quale sarebbe dovuto bastare il cavo della mano, e del vestito, egli dava il primo esempio dell applicazione del nuovo dovere. Ma ciò non era ancora sufficiente. Con i voti doveva accogliersi come obbligo pure la confessione (pratikramaṇa), facoltativa invece presso i seguaci di Pārśva) dei peccati maggiori e l'aperto biasimo di essi. Per i nuovi elementi introdotti, per le modificazioni apportate alle regole monastiche, Mahāvīra va ritenuto dunque vero riformatore più che fondatore del jainismo.
Al giungere del tredicesimo anno, la mente di Vardhamāna, ora veramente Mahāvīra "grande eroe", giacché il suo corpo era passato - senza ch'egli se ne ritraesse - fra i più aspri tormenti, salì al grado supremo della conoscenza, cioè al sapere assoluto (kevalajñāna). Egli divenne così un Jina, un "trionfatore" [delle umane passioni]. Come il Buddha, M. ricevette il lume mentre meditava sotto un albero. Ma, diversamente da quello, che era rimasto dubitoso se divulgare o no la dottrina raggiunta con tanto sacrificio, il Jina si dedicò subito al suo apostolato, che esercitò per ben trent'anni percorrendo nuovamente il Bihar sett. e merid. (i reami di Magadha, di Videha e di Aṅga) e spingendosi a nord sino al Nepal, a Śrāvastī e a sud sino al monte Pareśnath. E molte meravigliose conversioni operò; fu liberale anche con quelli che non avrebbero potuto darsi alla severa dottrina dei monaci (yati), con l'accoglierli nella comunità come "laici" o "auditori" (śrāvaka). Dai libri sacri (Kalpasūtra, 189 sgg.) siamo informati che tale comunità, alla morte del suo fondatore, avvenuta in Pāvā nel 527 a. C. (anno dal quale ricorre l'inizio dell'era jainica, giunta oggi al 2460) contava 14.000 asceti, 36.000 monache, 159.000 laici, 318.000 laiche, ecc.
Fieri che il loro maestro Mahāvīra si sia rivolto ad Arii e non Arii nella predicazione della dottrina (Aupūpatika-Sūtra 56), giacché l'amore e la rettitudine sono universali, i jaina, certi delle verità della loro religione, ripongono in lui e in tutti i suoi predecessori la loro fede, quella fede che è una delle "tre gemme" (triratna: samyagdarśana "retta fede, samyagjñāna "retta conoscenza", samyakcaritra "retta condotta"), che costituiscono l'essenza della loro dottrina. Di tutte tre deve essere in possesso colui che vuol giungere alla liberazione finale (mokṣa, mukti, nirvāṇa), a quello stato cioè di felicità suprema che pone fine al turbinare delle esistenze prodotte dall'effetto delle azioni (karman) (dottrina questa già sancita dal brahmanesimo (v.), e dal jainismo accolta in tutte le sue più minute particolarità), assicurando all'anima la dimora al di sopra dell'universo, in eterna beatitudine.
I jaina ammettono, inoltre, l'universo eterno e increato. La gran ruota del tempo, che incessantemente gira, si divide in due grandi età che, di conseguenza, senza posa s'inseguono: l'Avasarpiṇī, quella che scende, la Utsarpiṇī, quella che sale. Ambedue hanno rispettivamente sei raggi (ara). Caratteristica dell'Avasarpiṇī, l'età attuale, è il graduale scomparire in essa delle cose buone, per dar luogo alle cattive; l'opposto dell'Utsarpiṇī.
La misura del tempo di cui consta ciascuna di queste due grandi età, e ciascuna delle parti che rispettivamente le compongono, è espressa con cifre e con frasi iperboliche, le quali superano di gran lunga qualsiasi esagerata concezione della nostra fantasia occidentale. Basti pensare che i jaina considerano undici misure di tempo determinabili (saṃkhyeya) di cui l'ultima (hūhū) si esprime con un numero di 22 cifre seguite da 55 zeri. Oltre alle grandezze determinabili ve ne sono altre anche maggiori, espresse per similitudine. A queste misure d'inconcepibile grandezza, altre si contrappongono di piccolezza ben difficile a essere percepita: il giorno è suddiviso in tante parti, ciascuna a sua volta ripartita in varie altre, così che si arriva a ciò che si può chiamare l'atomo del tempo.
La suprema forza moderatrice degli uomini e delle cose non è accolta dal jainismo, il quale perciò, al pari del buddhismo, non considera il Dio personale, il Dio creatore, del quale e l'universo e l'uomo sono diretta emanazione. Il suo ateismo non gl'impedisce, tuttavia, di concepire alcuni esseri che temporaneamente trascendono la natura umana, di accogliere, anzi, gli dei brahmanici e di giovarsi di essi e di altri nuovamente ideati, a indicare creature, che, per avere bene meritato nel loro operare mondano, godono attualmente di una condizione migliore di quella concessa agli uomini e sono più di questi vicini alla liberazione finale. Ma come gli uomini, essi dei sono soggetti nel futuro all'effetto delle loro opere presenti, il quale può loro ritardare il graduale procedimento nella via della salute. Come per ogni altro elemento di fede, così per gli dei, i jaina sono tratti a enumerazioni, descrizioni, determinazioni. Vediamo difatti gli dei distinti in quattro grandi ordini, suddivisi ciascuno in numerose classi (10, 8, 5, 12), e le classi di alcuni di questi ordini, nelle quali sono determinati tutti i gradi di gerarchia dei componenti, ripartite alla lor volta in sottoclassi, con particolari ufficio e proprietà.
Stabilite sono, oltre a ciò, le singole sedi dei beati e la durata del tempo assegnata ai vari dei per passare, procedendo nella via della salvazione, dall'una all'altra sede. Per naturale contrapposto vediamo non meno esattamente determinati i luoghi degl'inferni sotto la crosta terrestre, con i loro varî tormenti. Fra le due sedi ultraterrene sta il mondo degli uomini e degli animali, il cui luogo centrale è costituito da una superficie tonda, il Jambudvīpa, che un oceano circonda tutto ad anello, il quale, a sua volta, è cinto da un continente circolare di doppia grandezza. Abbiamo così, e in numero infinito, continenti (traversati tutti da est a ovest da catene di montagne) e oceani che, rispettivamente, di grandezza doppia, costituiscono un sistema di circoli concentrici.
Strettamente connessa con la "retta fede" è la "retta conoscenza". Non è possibile possedere la prima, senza che sia stata acquistata la seconda, e questa a sua volta, per essere tale, dev'essere quella insegnata dal Jina. Per quanto concerne la logica, e particolarmente la teoria della conoscenza, il sistema dei jaina, quale si fa risalire a Mahāvīra, costituisce veramente tutta la loro originalità. Cinque sono i gradi della conoscenza (pramāṇa), la quale può essere indiretta (pmokṣa) o diretta (pratyakṣa). Appartengono all'indiretta o mediata e perciò imperfetta:1. la percezione (mati) o nozione che noi acquistiamo d'una data cosa per mezzo dei sensi; 2. la conoscenza chiara (Sruta): quella che di una cosa noi riceviamo per ragionamenti, e per inferenza, tratta da altri elementi della conoscenza. Appartengono invece alla conoscenza diretta, direttamente cioè acquisita dall'anima, senza l'aiuto dei sensi e perciò perfetta: 3. la conoscenza determinativa o trascendentale di obietti materiali (avadhi); per essa conoscono i saggi ciò che lungi o in futuro o in presente o nel passato possa compiersi o siasi già compiuto; 4. la conoscenza trascendentale del pensiero altrui (manaḥparyāya); 5. l'onniscienza o conoscenza assoluta, perfetta, infinita (kevalajñāna), senza limite, cioè, di obietto, di tempo, o di spazio. Questo grado di conoscenza è proprio soltanto dei jina, di coloro cui nulla più manca, morti che siano, a toccare la liberazione finale (mukti).
Posti questi principî elementari e fondamentali del graduale procedimento della conoscenza, i jaina hanno elaborato sulla teoria della conoscenza stessa tutto il loro sistema estremamente complesso. Per tale sistema il jainismo si mise fra le due correnti che si combattevano principalmente al momento del suo sorgere, quella del nityavāda "permanenza", animatrice del brahmanesimo e quella del vināśavāda "transitorietà", fondamento del buddhismo, e sancì il principio dell'"indefinitudine" (anekāntavāda) dell'Essere. E difatti, osservato che le cose nascono, vivono e periscono, i jaina riconobbero che sono permanenti per ciò che concerne la loro sostanza, e transitorie invece per ciò che riguarda la loro qualità e i loro accidenti; che ogni cosa materiale continua, cioè, a esistere sempre come materia, materia tuttavia che può assumere forme e qualità transeunti. Da tale premessa veniva di conseguenza un sistema che potremmo chiamare di metafisica della conoscenza, tutto fondato sul può essere (syādvāda), il quale avrebbe dovuto opporsi al dogmatismo assoluto, "dottrina dell'è" (astivāda), dei brahmani ( che affermano l'assoluta unità dell'Essere e la sua eguaglianza in tutte le cose), ma pure al principio del nulla, del vuoto (śūnyavāda) o dell'eterno divenire dei buddhisti. Per l'indeterminatezza o indefinitudine dell'Essere noi possiamo affermare la realtà d'una cosa sotto un certo aspetto, mentre sotto un altro la possiamo negare; e ambedue le affermazioni, pur essendo contrarie, sono giuste. Sette forme d'asserzione (saptabhaṅgīnaya "settemplice paralogismo") sono perciò possibili sopra ogni cosa: 1. si può dire che una cosa esista, considerata che sia sotto un certo aspetto (syād asti): es., il vaso di creta è, quando lo si consideri come tale; 2. si può dire che la stessa cosa non esista, considerata che sia sotto un altro aspetto (syād āsti): es., il vaso di creta non è, quando lo si consideri una bottiglia; 3. si può affermare l'esistenza d'una cosa in rispetto alla sua sostanza, luogo, tempo e attributi, ma negarla successivamente in rapporto a sostanza, luogo, età di un'altra cosa; (syād asti nā' sti): es., il vaso di creta è (in un certo momento, e come fatto di creta), ma non è, se lo si considera in altro momento o fatto di. altra materia da quella che lo compone, ecc.; 4. non è possibile affermare e negare al tempo istesso l'esistenza di una cosa (syād avaktavya), giacché le qualità ciò che essa è e ciò che essa non è, pur esistendo simultaneamente, vengono successivamente alla nostra conoscenza; 5. non è possibile in casi determinati affermare (descrivere) l'esistenza di una cosa (syād asti cā'vaktavya), o: 6. l'inesistenza (syād asti syān nā'sti cà'vaktavya), o: 7. l'esistenza e l'inesistenza (syād asti syān nā' sti cā'vaktavya). E anche altre più sottili distinzioni diedero i jaina atte a determinare tutte le singole possibili vie di definizione della qualità delle cose (naya).
Raggiunta la via sicura della conoscenza, possibile è al jaina la soluzione d'ogni problema metafisico. Non esiste una forza creatrice e regolatrice suprema degli uomini e delle cose (Dio). Il supremo stato dell'uomo è l'onniscienza e questa ognuno può ottenere che si comporti secondo i dettami dei jina, che appunto essa hanno ottenuta. Di conseguenza l'universo esiste di per sé, reggendosi per leggi che trovano ragione solo nella sua propria natura, ed è eterno. Solo nelle sue parti esso può dirsi mutevole e perituro.
L'anima (jīva), il principio vivente per eccellenza cui si contrappongono gli altri cinque elementi cosmici inanimati (ajīva: il principio determinante il moto, dharma; l'elemento essenziale dello stato, adharma; lo spazio, ākāśa; il tempo, kāla; la materia, pugdala), è sparsa in tutto l'universo, è in perenne movimento, è libera e ha come attributo caratteristico la conoscenza assoluta (che è suprema felicità), la quale invece è limitata negli esseri in cui essa anima risiede. Massima, nella sua relatività, è così la conoscenza degli esseri superiori (dei, uomini), più offuscata o velata invece negli animali e negli enti materiali immobili (come terra, acqua), mobili (come fuoco e vento) i quali ultimi, risultato come i primi degli elementi cosmici, ci appaiono, pur senza esserlo, incoscienti. Nulla può sopprimere l'anima, la quale insiste - nelle sue varie manifestazioni relative ai corpi in cui entra - nel "mondo" (loka), mentre nel "non mondo" (aloka) dimorano solo esseri inanimati. In conseguenza dei meriti e dei demeriti di ciascun essere, l'anima, che ha tendenza a salire, entra in contatto con la materia (i corpi). Ma non appena tale combinazione sia avvenuta, essa è assoggettata, per il sorgere di pensiero, parola od opera da noi stessi compiuti o in altri ispirati, al karman ("effetto dell'azione"). Pure il karman i jaina riconoscono fatto di materia (paugdalaṃ karma), giacché costituito, essi dicono, di atomi di forma peculiare e sottile, i quali nella loro combinazione agiscono come varî ingredienti, che, messi in un vaso, dànno luogo a una bevanda spiritosa. Essi atomi invadono l'anima e la riempiono e la imbrattano, velandone le qualità innate, che sono in tal modo impotenti ad apparire in tutta la loro purezza, e sono cagione alla creatura di tutte le sventure che la perseguitano nelle varie esistenze, sin che questa, osservate le regole peculiari di condotta e soprattutto per effetto della compiuta ascesi (tapas), riescirà a prevenire (saṃvara) l'opera del karman, a rimuoverlo gradatamente e a distruggerlo, facendo così ottenere all'anima la liberazione finale e rendendole possibile la salita al nirvāṇa, "al di sopra dell'universo, il domicilio delle anime libere".
La retta condotta, terzo elemento essenziale della dottrina jainica, si può brevemente riassumere nelle seguenti nozioni: due sono le grandi categorie in cui vengono raccolti i religiosi jaina: quella degli asceti (yati), cui sono, come alla seguente, ammesse pure le donne, e quella dei laici (śrāvaka). A quest'ultima appartengono tutti coloro, i quali, pur sentendosi animati da grande fervore per la fede del jina, non sono in grado di sottomettersi alle ben gravi prove cui lo spirito e il corpo dei monaci debbono soggiacere. Essi per conseguenza, pur accogliendo i cinque grandi voti, che sono fondamento della morale jainica ("non uccidere alcun essere, non rubare, non mentire, esser puri, rinunciare a ogni cosa"), li conciliano con opportune modificazioni (aṇuvrata) alle esigenze della vita pratica. La vita del monaco è, invece, assai più dura. Egli è strettamente ligio a tutte le prescrizioni, che si accumulano straordinariamente le une sulle altre, affinché possa compiersi in modo perfetto l'applicazione dei voti tutti. Oltre alle pratiche dirette - nell'incessante preoccupazione della pervasione universale dell'anima - a che non sia violato il primo voto (ahiṃsā) "il non nuocere", oltre alla cura cioè, di non offendere non solo gli animali, (anzi di giovar loro), ma pur le piante e quant'altro gli sembri avere vita, il monaco usa della massima sua diligenza a non dire, per qualsiasi ragione, menzogna; nulla mai chiede per sé e solo tocca il cibo che gli sia stato offerto; rifugge da ogni azione o pur pensiero che violi la castità, e, nell'abbandono dei proprî averi, della famiglia, della terra natale, in cambio d'una vita randagia di mendicante (interrotta solo durante la stagione delle piogge), applica strettamente pure il quinto dei grandi voti. E a innumerevoli precetti si sottopone, atti a regolargli la condotta, distinti in categorie, sottocategorie ecc., e ben determinanti, per contrapposto, tutte le vie per le quali si possa trasgredire la rettitudine della vita. E si abbandona a un'intensa meditazione (dhyāna) e a tutte le più severe pene corporali; sinché, trascorsi molti anni attraverso le più terribili espiazioni materiali e spirituali, e ottenuta l'onniscienza, egli, sentendosi degno della liberazioue finale, l'affretta, con l'attendere per fame serenamente la morte.
Condotto nella sua forma definbtiva da Mahāvīra, il jainismo, di poco anteriore nel suo sorgere al buddhismo, ma contemporaneo a esso nel suo svolgimento, non soffrì nel tempo alterazioni notevoli, pur essendo stato, come ogni altra religione storica, travagliato da scismi. Di tutti il più importante è quello avvenuto tra il 79 o 82 d. c., l'8 ° e ultimo, il quale trae le sue origini da un avvenimento del sec. IV a. C. Nel 360, mentre era signore del Magadha (Bihar merid.) il celebre re Maurya Candragupta, una parte della comunità jainica, capitanata dal monaco Bhadrabāhu, emigrò nel sud, nella regione Karṇāta (od. Mysore), per una grande carestia, durata dodici anni. Quando gli emigrati tornarono, non vollero riconoscere la codificazione che dei testi sacri era stata fatta nel concilio di Pāṭaliputra, tenutosi nel frattempo dagli antichi compagni rimasti in patria. Né vollero i rimpatriati adattarsi ad abbandonare la nudità che Mahāvīra aveva loro imposto e che essi, favoriti dal clima meridionale, avevano mantenuto, contrariamente agli altri, abituatisi a una veste bianca. Di qui lo scisma che divise i "vestiti di aria" (Digambara) dai vestiti di bianco (Śvetāmbara). Col tempo anche la redazione compiutasi nel concilio di Pāṭaliputra, che i Digambara avevano disconosciuta, venne, decadendo e si sarebbe pur essa perduta, se alla metà del sec. V d. C (990 anni circa dopo la morte di Mahāvīra) nel concilio di Valabhī, nel Gujarat, non si fosse, particolarmente per opera del monaco Devarddhigani, nuovamente elaborata e fissata nella forma in cui ci è giunta.
E così il canone Śvetāmbara che possediamo sotto il nome di Siddhānta o Āgama (dottrina") in Ardhamāgadhī, una delle principali forme di medio-indiano (v. india: Lingue) delle quali, secondo la tradizione, Mahāvīra avrebbe usato nella predicazione, abbraccia, oltre ai 12 Anga "membra, parti", molti altri testi, raggruppati, alla lor volta, in quattro diverse classi: 12 Uvaṅga (sanscrito Upāṅga) "sotto-anga", 10 Païṇṇa (scr. Prakīrṅa o Prakīrṇaka) "trattati sparsi; miscellanea ū", Chedasutta (scr. osū Éra) prop. "sezioni, brani", 2 sutta (scr. sūtra), 6 Mūlasutta (scr. Mūlasūtra) "trattati originali". Tutti questi testi, i più antichi dei quali risalgono al IV sec. a. C., ci palesano non solo la dottrina religiosa, filosofica, morale, escatologica dei jaina e la disciplina, ma pure lo stato scientifico, per così dire, del tempo, con nozioni di cosmologia, astronomia, geografia, fisiologia (formazione del feto, nascita, crescita del bimbo), patologia, etnologia (distinzione degli uomini arii dai mleccha "barbari") e ci offrono larga copia di leggende, novelle, nozioni mitologiche, ecc. Molto meno antico e meno noto dello Śvetāmbara è il canone digambara. Incomparabilmente più vasta è la letteratura extracanonica con la quale i jaina, servendosi particolarmente di un'altra forma, più elaborata, di medio indiano la Māharāṣṭri, e del sanscrito (v. india: Lingue), lasciarono manifestazioni in ogni campo dell'umano sapere, superando, inoltre, per fantasia e per fecondità, nella novellistica i seguaci di ogni altra religione dell'India (v. india: Letteratura jainica).
È merito di H. Jacobi l'aver dimostrato, contrariamente all'opinione di altri illustri indianisti (Colebroocke, Wilson, Lassen, Weber), come tutto ciò che appare di comune al jainismo e al buddhismo (la teoria della trasmigrazione dell'anima, la dottrina del karman, gli appellattivi dati ai jina e al Buddha - per quanto diversi nel loro rispettivo, essenziale valore -, il numero dei jina (24) e dei buddha (25) apparsi sulla terra, particolari biografici di Mahāvīra e del Buddha, il culto reso ai jina analogo a quello reso al Buddha, il computo fatto dai jaina e dai buddhisti del tempo in misure enormi e piccolissime e, finalmente, alcuni particolari fondamentali della morale delle due religioni) trovi la sua fonte diretta nel brahmanesimo (donde jainismo e buddhismo erano usciti e dal quale il primo meno s'allontanò dell'altro nelle sue ultime finalità) e non da reciproci nessi. D'altra parte, le differenze tra le due dottrine sono assai più profonde e vitali delle somiglianze. Il jainismo varia difatti radicalmente dal buddhismo per ammettere l'anima (jīva), ch'egli concepisce, inoltre, come sostanza e come principio individuale eterno e immutabile e dotato delle qualità già descritte (concezione questa che rende il jainismo una delle più vigorose religioni animistiche) per la peculiarissima teoria della conoscenza coi suoi cinque gradi fondamentali; per la concezione dell "indefinitudine" dell'Essere; per l'aggiunta di un quinto voto (rinunzia a ogni bene mondano), e per l'accettazione dell'ascesi più crudele - dal buddhismo condannata -, quale mezzo efficace al raggiungimento della via di salvazione. Grande differenza si ha pure nell'idea del nirvāṇa, indeterminato, oscuro, enigmatico presso il buddhismo, chiaramente definito dal jainismo (Uttarādhyayana Sūtra, XXIII, 81): "È un luogo sicuro, ma difficile a raggiungersi, nel quale non si trovano vecchiezza, morte, dolore, malattie"; 82: "Liberazione da dolore o perfezione è ciò che chiamiamo nirvāṇa. Esso è il luogo felice, pacifico, che ottengono i grandi saggi"; 84: "è il luogo eterno ma difficile a toccarsi. Liberi da pene sono i saggi che vi arrivano: eglino con esso hanno toccato il termine del corso della loro esistenza".
I jaina, nel pur esiguo numero di 1.178.596 (1921), sono oggi sparsi particolarmente, nel Panjab, nel Gujarat, nel Rajputana, nel Bengala, e in generale, nelle principali città dell'India, anche delle regioni meridionali (di lingue dravidiche) fra cui il Kanara. I loro templi, che specialmente nell'lndia settentrionale s'innalzano su monti (Girnar e Śatruñjaya nella penisola del Kathiawar; Abūnel Rajputana, Paresnath nel Bengala) e che pure si contano numerosi nell'India meridionale, sono tra le migliori opere architettoniche dell'India. Notevolissimi i due di monte Ābū (v.) rispettivamente dei secoli XI e XIII. I jaina si occupano di banca e di altre professioni e commerci che non richiedano tuttavia uccisione di animali o distruzione di vegetali. Sono naturalmente vegetariani. Sono animati da alto spirito filantropico, che li muove a grandi opere di beneficenza e godono inoltre, chiedendo all'uopo la collaborazione degli studiosi occidentali, di promuovere, con speciali società e con grande liberalità, edizioni, traduzioni e dichiarazioni dei loro testi canonici e della sterminata letteratura extra-canonica.
Come il movimento buddhistico, così quello spirituale jaina non è sfuggito all'Europa. A Londra, sin dal 1909, s'è costituita, per opera d'indigeni e di europei (alcuni dei quali ardenti seguaci del jainismo) la Jain Literature Society per promuovere, con trattazioni speciali e versioni di testi, la conoscenza e diffusione del jainismo in Occidente.
Bibl.: H. Jacobi, The Metaphysics and Ethics of the Jainas, Oxford 1908; id., G'aina Sūtras, Sacred Books of the East, XXII (1884), XLV (1895); id., Jainism, in Encycl. of Religion and Ethics; id., Eine Jaina Dogmatik. Umāsvāti's Tattvārthādhigamsutra; übers, and erläut. (in Zeitschrift d. deutschere morgenländ. Ges., LXV, 1906); A. Guérinot, Essai de bibl. Jaina. Répert. analyt. et métod. des travaux relatifs au Jainisme, Parigi 1906; con suppl. in Journal Asiat., II 1909), pp. 47-148; id., Rép. d'épigr. Jaina précédé d'une esquisse de l'hist. du Jainisme d'après les inscriptions, Parigi 1908; A. Ballini, Bollet. bibl., in Riv. degli Studi orient., 1907 segg. e in Aevu.n, 1927; id., Il Jainismo, Venezia 1915; 2ª ed., Lanciano 1922; H. v. Glasenapp,Der Jainismus. Eine indische Erlösungsreligion, Berlino 1925; A. Guérinot, La religion Djaina, histoire, doctrine, culte, coutumes, institutions, Parigi 1926; M. Winternitz, Geschichte der indischen Litteratür, II, Lipsia 1920 (Die heiligen Texte der Jainas, pp. 289-356 e 381).