OBRECHT (Hobrecht, Obreht, Hobertus, Oberto, ecc.), Jakob
Compositore di musica, nato probabilmente circa il 1430 a Utrecht, morto a Ferrara nel 1505. Le vicende della sua felice carriera di maestro di cappella, insegnante, direttore di scholae, ecc., lo condussero di cattedrale in cattedrale, rendendo così anche più agevole e pronta la diffusione del suo stile di compositore. Lo troviamo dapprima, ancor giovanissimo (nel 1456), maestro di cappella presso la cattedrale della sua città nativa, posto ch'egli conserva a lungo, pur assentandosi per qualche tempo in viaggi fuori dei Paesi Bassi: in Italia, p. es., O. si reca nel 1474 (o poco prima?) e da quell'anno giungono documenti (trovati e studiati da E. van der Straeten in La Musique aux Pays-Bas, 1868) che ne provano la presenza in Ferrara, quale cantore della cappella ducale degli Estensi. Al suo ritorno in patria O., ripresa la direzione della cappella d'Utrecht, novera tra i putti di quella cantoria il piccolo Geert Geertszoon (cfr. E. Glareano nel Dodekachordon), cioè Erasmo da Rotterdam. Lascia nel 1483 la cattedrale d'Utrecht per quella di Cambrai, dove rimane per due anni direttore della Schola cantorum. Circa il 1489 lo ritroviamo a Bruges, prima come Kantor (insegnante e responsabile della Schola cantorum) poi, l'anno dopo, come maestro di cappella presso quella chiesa di S. Donato; nel 1491 (o 1492?) succede a J. Barbireau nella direzione della cappella di Notre-Dame ad Anversa, posto assai ricco di risorse artistiche (tra l'altro la mirabile organizzazione della cantoria, che disponeva di circa 70 cantori), che pose l'O. in vista fra tutti i maestri del tempo. Dopo sei anni circa di stabilità in queste funzioni l'O. se ne assenta per breve tempo, riprendendo nel 1498 il suo vecchio posto a S. Donato di Bruges e passando l'anno 1500 a Thourout quale prevosto di quella chiesa di S. Pietro. Dal 1501 egli è nuovamente in carica ad Anversa, nel 1504 parte per l'Italia, dove P. Aron lo trova a Firenze, in quella stessa corte medicea che tra gli altri fiamminghi ospitava allora A. Agricola, H. Isaac e quel Josquin Després che doveva succedere a J. Okeghem e allo stesso O. nell'ideale direzione del movimento musicale europeo. L'anno dopo, passato presso Ercole d'Este, vi è condotto a morte dalla peste allora infuriante in Ferrara. Durante questa varia carriera l'O. poté svolgere una feconda attività di compositore, i cui frutti ci sono conservati (in maggior copia di quello che non sia avvenuto, per varie cause, alla produzione di J. Okeghem) in edizioni e copie manoscritte. E il gran numero di queste testimonia già per conto proprio dell'immensa diffusione della musica dell'O. nel mondo musicale quattro-cinquecentesco.
Citiamo, tra le altre, alcune opere singolarmente significative rispetto all'evoluzione storica della composizione polivocale: nel 1501 O. Petrucci include Chansons dell'O. nei Canti B e nell'Odhecaton e nel 1503, oltre varie Chansons nei Canti C, lo stesso editore dà un volume che sotto il titolo di Missae Obrecht contiene le prime grandi composizioni obrechtiane giunte a noi per le stampe: le cinque messe su Je ne demande, Grecorum (sic), Fortuna desperata, Malheur me bat, Salve Diva parens. Sempre a cura del Petrucci vennero in luce, nelle raccolte dei Mottetti di Passione (1503), dei Motetti Lib. IV (1505) e dei Motetti a 5 Lib. I (1505), molte composizioni obrechtiane nel genere mottettistico, proprio allora cedente la dignità di massimo genere aulico alla Messa (il cui procedimento componistico sviluppava del resto le linee di quello proprio del mottetto). Altre 5 messe erano intanto edite a Neu-Angermünde da G. Mewes nel 1504; la messa Si dedero seguì postuma presso il Petrucci che l'incluse nella sua raccolta Missarum diversorum auct. Lib. I pubblicata nel 1508; altri mottetti nel 1520 nella raccolta Liber selectarum cantionum di C. Peutinger; una Passione a 4 voci nel 1538 nelle Selectae Harmoniae di G. Rhaw; due messe, su Ave Regina coelorum e su Petrus apostolus, nel 1539 tra le Missae XIII del Grafeo; Inni a 4 voci nel 1542 presso il Rhaw, nel Liber primus sacrorum Hymnorum. Pagine varie compaiono nei trattati di S. Heilen e del Glareano. Mutile o prive di alcune voci altre messe i cui resti si conservano a Basilea e a Jena presso quelle biblioteche universitarie. In manoscritto rimangono: messe a Monaco (le due su Scoen lief e Beata viscera) nel n. 3154 della Staatsbibliothek; altre a Milano, Modena e Vienna; frammenti di messe a Roma, presso la Vaticana, e tre Passioni a Ratisbona presso la bibl. Proske. Nel 1870 si è riprodotta in edizione moderna, ad Amsterdam, la bella messa petrucciana del 1503 su Fortuna desperata, poi inclusa nelle pubblicazioni della Maatschappij tot bevordering der Toonkunst, IX (1880). A iniziativa del Vereiniging voor Nederlandsche Muziekgeschiedenis (gruppo entrato dal 1865 nella Maatschappij) e a cura di J. Wolf s'è infine pubblicato in edizione moderna, dal 1908 in poi, l'intero Corpus dell'opera obrechtiana.
Nella vasta produzione dell'O. si avvicendano ispirazioni felici e momenti di ricerca stilistica non sempre illuminata da vera e fervida intuizione lirica. Va in ogni caso tenuto presente, nella lettura di questi mottetti e di queste messe, che la scrittura obrectiana - come quella del coevo Okeghem cui essa quasi sempre s'intona, e come in genere quelle di tutti i Franco-Fiamminghi della 2ª scuola (2° Quattrocento) - è diretta per propria intima natura, e per necessità lirica, verso la complessità contrappuntistica, che non potrebbe quindi essere valutata come segno d'intenzionale e cerebrale artifizio tecnicistico. Presso l'O. come presso i suoi coevi si sviluppa un desiderio di ampie e serene costruzioni sonore, nella cui architettura tutti i singoli elementi concordemente si risolvono. Risoluzione che, nell'effetto immediato come anche nella funzionalità dei detti elementi, può apparire e senz'altro dirsi dissolvimento. Questo nuovo e decisivo sviluppo si compie attraverso un rinnovamento della scrittura a parti, che dalla libertà della melodia tendenzialmente monodico-accompagnata di G. Dufay (premessa dialettica della personalità di Okeghem e di O.) passa alla concezione di un concerto inter pares, vera essenza dello stile polifonico, ove ogni voce avrà pari funzioni e pari diritti. Di qui il ripudio delle libere e venuste volute melodiche di molta musica primo-fiamminga, innervate di individualistica sensualità canora, che dal concerto inevitabilmente emergono e su di esse stesse attraggono e polarizzano la commozione, e delle versioni vocali-strumentali, di tale emersione coefficienti. Le voci ora svolgono invece in trasparente atmosfera le loro olimpiche linee e, a definitivo trionfo della loro unione, queste linee stesse sono tratte a virtuale identità di temi e sostanze: l'imitazione (v.), svincolata dalle vecchie funzioni canoniche, è qui chiamata a intessere il vario tessuto plurivocale, che si svolge così da una sola idea musicale: premessa non solo ma anche continua direttiva del concerto.
Nella quale stilistica è certo possibile (e non di rado si produce) una distrazione dell'artista nel tecnico: il lavoro vi diventa spesso ricerca formalistica, e dà nell'astratto giuoco di musaici sonori. E non per nulla nei secondi Fiamminghi gli assalti degli anti-polifonisti tardo-cinquecenteschi e secenteschi trovarono più facile mira.
Ma non va dimenticato, a questo proposito, che le pagine più significative dell'O., come quelle dell'Okeghem, non hanno, delle proprietà dello stile polifonico, soltanto le negative: ariosa ampiezza di campo sonoro, sovrana proporzione di struttura, nobile calma di linee ne distinguono la figura. Quest'arte, certo un poco fredda, contribuiva intanto alla formazione d'una coscienza veramente polivocale capace di svilupparsi dialetticamente, e senza dover rinunziare ai suoi attributi generali, nel nuovo soggettivismo di Josquin Després e poi - in ulteriore rinnovamento di sensi - nell'arte, per esteriore figura similissima a quella dell'O., nell'impersonalità, che potrebbe dirsi impersonalità per superamento, di G. Pierluigi da Palestrina. E infatti specialmente l'O., in paragone con l'Okeghem, all'aura musicale d'Italia sapeva ispirarsi non troppo raramente, conducendo nel seno dei suoi ampî edifici aulici alcunché delle linee melodiche del popolo nostro. Né, per distenderle in disegni "eleganti", si può dire ch'egli ne rendesse inutile l'apporto: il fraseggio obrechtiano è spesso infatti, forse anche in grazia di tale respiro, più mosso e vivente di quello dell'Okeghem. Oggi, superate le fasi di negazione anti-polifonica e anti-fiamminga, si può dire che il valore storico dell'O. sia universalmente riconosciuto, come quello di un'arte nel tempo stesso classica, per il tempo suo, e dialetticamente feconda.
Bibl.: Oltre i cenni, di solito non troppo ristretti, dedicati all'O. nelle opere storiche di carattere generale, v. specialmente la citata pubbl. del Van der Straeten, e poi: R. Münnich, Auf O.s Spuren, in Tijdschrift der Vereeniging voor Nord-Nederlandsche Muziekgeschiedenis, 1903; P. Wagner, Gesch. der Messe, Lipsia 1913; pp. 114-139; O. J. Gombosi, J. O. Eine stilkrit. Studie, ivi 1925.