Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le realistiche descrizioni della prima raccolta, Gente di Dublino, assumono una prospettiva universale grazie alle epifanie e ai contrappunti simbolici presenti nei racconti. Passando attraverso Dedalus, James Joyce approda al suo capolavoro: Ulisse. Lo sperimentalismo linguistico permea la narrazione di una giornata del protagonista Leopold Bloom. La rivoluzione espressiva porta alla caduta di ogni distinzione tra interno ed esterno, tra dato percepito ed elaborazione che ne fa il personaggio.
Gente di Dublino
James Joyce
La voce di Molly
Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di Montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì e allora mi chiese se volevo sì dire sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio Sì.
J. Joyce, Ulisse, Milano, Mondadori, 1988
Nel 1904 James Joyce lascia l’Irlanda per stabilirsi prima a Pola e poi a Trieste, dove vive con la compagna Nora Barnacle fino al 1915. L’interesse giovanile per la poesia porta alla pubblicazione di Musica da camera (Chamber Music, 1907), raccolta di 36 liriche composte tra il 1902 e il 1904. L’autentica vocazione di Joyce, quella narrativa, non tarda però a manifestarsi: tra il 1904 e il 1907 scrive i 14 racconti di Gente di Dublino (Dubliners, 1914) che, per la presenza di supposte “oscenità”, verranno pubblicati solo nel 1914. In una lettera al fratello Stanislaus, scrive: “La mia intenzione era di scrivere un capitolo della storia morale del mio Paese e ho scelto Dublino come scena perché quella città mi pareva essere il centro della paralisi. Ho cercato di presentarla al pubblico indifferente sotto quattro dei suoi aspetti: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. I racconti sono posti in quest’ordine”. La paralisi, causata dal passivo asservimento alla tradizione, al nazionalismo e alla religione, rende gli Irlandesi incapaci di realizzare se stessi e le proprie aspirazioni. Ecco dunque quello “speciale odore di putrefazione”, “di cenere, di erbe macerate e di immondizie” che, ancora secondo le parole di Joyce stesso, aleggia sopra i racconti. Il principio organizzatore della raccolta, in cui ogni singola parte racchiude le caratteristiche del tutto, non si basa tanto sull’età anagrafica dei personaggi, quanto piuttosto sui diversi modi con cui questi rimpiangono, vivono o sognano le diverse età dell’uomo (infanzia, adolescenza) sullo sfondo dei temi ricorrenti che gravitano intorno alla paralisi (l’apatia, l’ignavia, la morte spirituale, l’incapacità di fuga). Quella di Joyce è una visione pessimistica e a tratti nichilista della società irlandese da cui, sembra, non ci sono né vie d’uscita né possibilità di redenzione: si pensi, ad esempio, ad Eveline, incapace di fuggire con l’amante Frank e costruirsi una nuova vita lontano dal padre alcolizzato (Eveline); alla frustrazione del piccolo Chandler che ascolta i racconti dell’amico Gallagher, da anni emigrato con successo all’estero (Una piccola nube); ancora, alla vita inutile e convenzionale di Duffy, che ha rifiutato l’unico amore della sua vita (Un increscioso incidente). Benché i dialoghi siano resi realisticamente e benché, attraverso l’uso del discorso indiretto libero, ogni personaggio sia caratterizzato secondo individuali peculiarità linguistiche, quello che prevale è tuttavia una sorta di tono monodico (reso con un linguaggio definito da Joyce “scrupolosamente povero”), che tanto più si accorda alla rappresentazione di una società uniformemente impotente e anonima, vero personaggio unico di tutta la raccolta.
La riproduzione realistica e neutra del mondo, sul modello di Henrik Ibsen, è però anche caratterizzata, specialmente negli ultimi racconti, più tecnicamente evoluti, dalla modulazione stilista e tematica dei personaggi e delle atmosfere secondo scarti patetici, ironici, eroicomici e grotteschi. Tali scarti, insieme ai rimandi, alle simmetrie e alle valenze simboliche, testimoniano il coinvolgimento dell’autore e proiettano l’affresco joyciano in una dimensione simbolica, così che esso, sono parole di Ezra Pound, “ci mostra le cose così come sono, non soltanto per Dublino, ma per qualsiasi altra città”. Il valore simbolico di un evento si manifesta attraverso l’epifania, “l’improvvisa rivelazione dell’essenza di una cosa”, adottata come strategia di narrazione: la manifestazione della paralisi dei personaggi e della loro incapacità di riscatto costituisce il punto centrale e culminate di ogni racconto. Nel singolo momento si rivela il significato di un’intera esistenza e di un intero mondo: le speranze frustrate e il fallimento di ogni personaggio diventano quelli di ogni uomo.
Dedalus
La scelta di andarsene dall’Irlanda, che i personaggi di Gente di Dublino non riescono mai a compiere, è invece abbracciata da Stephen Dedalus, il protagonista del romanzo Portrait of the artist as a young man (intitolato Dedalus nella traduzione italiana di Cesare Pavese), uscito a puntate su “The Egoist” nel 1915 e pubblicato in volume l’anno seguente.
Il romanzo, scritto in terza persona, segue gli sviluppi della coscienza di Stephen attraverso cui vengono filtrati i sentimenti, le sensazioni e gli eventi. Lo stile si adegua, imitandolo, al processo di crescita del protagonista: dal linguaggio semplice, disarticolato e ripetitivo dell’infanzia, si passa a quello esagitato e farraginoso dell’adolescenza, fino alla compostezza e alla severità del giovane intellettuale. Mentre nei primi due capitoli sono descritti l’infanzia di Stephen e, qualche anno dopo, la contrapposizione tra doveri morali e pulsioni sessuali (che trovano il loro soddisfacimento nell’incontro con una prostituta), il terzo capitolo è quasi interamente occupato dal terribile sermone di Padre Arnall sulle pene infernali, a seguito del quale Stephen decide di condurre una vita di rettitudine. Il quarto capitolo vede l’affievolirsi degli slanci religiosi, fiaccati dalla routine e dal vuoto formalismo del rito. La visione epifanica di una ragazza lungo la spiaggia di Sandycove rivela al ragazzo, “in un traboccare di gioia pagana”, la propria vocazione: “Vivere, sviarsi, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita! Un angelo focoso gli era apparso, l’angelo della gioventù e della bellezza mortali, un messo dei giusti tribunali della vita, a spalancare dinanzi a lui in un attimo d’estasi le porte d’ogni via dell’errore e della gloria. Sempre e sempre più oltre”. Nel quinto capitolo, quello degli anni universitari, Stephen compie la sua scelta: “Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la Chiesa; e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente”. Il protagonista decide così di partire in un esilio volontario a Parigi per conquistare la libertà spirituale e realizzare la sua vocazione artistica.
Il Dedalus non è un autoritratto di Joyce nella sua giovinezza, piuttosto uno sguardo retrospettivo con cui l’autore maturo vede l’artista – se stesso – quand’era giovane. La mancanza di una piena identificazione fra lo scrittore e Stephen è alla base degli scarti di pungente ironia che, insieme alla ricchezza delle implicazioni simboliche di personaggi e situazioni, evitano che il libro sia solo un’elogiativa autobiografia. Del resto già il nome e il cognome del protagonista hanno un valore particolare: Stefano è il primo martire cristiano (Stephen diverrà martire per la letteratura), mentre il patronimico Dedalus rimanda al mitico Icaro che volò verso la libertà (identificata dal protagonista con l’arte dello scrivere). Il romanzo è una sorta di “ritratto dell’artista sul nascere”, come riferisce lo stesso Joyce all’amico Frank Budget: l’esperienza di Stephen è caratterizzata non solo da egocentrismo, megalomania e presunzione, ma anche da ingenuità, sofferenze e sconfitte, momenti tutti necessari ma non definitivi per la formazione dell’artista.
L’Ulisse e La veglia di Finnegann
Anche il soggiorno francese di Stephen Dedalus è provvisorio, come apprendiamo nell’Ulisse (Ulysses) uscito a puntate sulla rivista newyorkese “Little Review” e pubblicato poi in volume il 2 febbraio 1922 a Parigi, dove lo scrittore si trasferisce nel 1920. Il romanzo, ambientato a Dublino il 16 giugno 1904, narra la giornata dei tre personaggi principali: Stephen appunto, tornato in patria dal volontario – e fallimentare – esilio a Parigi; Leopold Bloom, ebreo di origine ungherese, “uomo medio sensuale” (così definito da Italo Svevo), timido ma curioso di esperienze, umiliato per le sue origini semite e tuttavia buono e compassionevole; Molly, moglie infedele di Bloom, espressione della natura femminile e proiezione della Madre Terra fecondatrice. Sia Bloom sia Stephen hanno in comune l’incapacità di realizzare le loro più alte aspirazioni e di riconoscere – e accettare – la loro natura fisica di uomini: sul piano tematico-narrativo mentre il primo vorrebbe un figlio spirituale che sostituisse quello naturale Rudy, morto prematuramente, Stephen ha rinnegato suo padre ed è alla ricerca di una figura paterna che ne prenda il posto. Quando i due finalmente si incontrano, dopo essersi solo sfiorati qualche volta durante la giornata, realizzano però la loro sostanziale diversità, benché non ci sia detto se in futuro si rivedranno o meno. La figura risolutiva è comunque Molly, il cui monologo finale assume il valore di una conciliazione, di una celebrazione della vita e del mondo in tutti i suoi aspetti contraddittori. Il metodo di composizione o meglio il sistema di lavoro utilizzato da Joyce per conferire ordine e senso al panorama di “immensa futilità e anarchia della storia contemporanea” – nella definizione di Eliot – è il “metodo mitico”, cioè la sovrapposizione al realismo narrativo di costanti paralleli con l’Odissea omerica (l’autore stesso definì il romanzo “un’Odissea moderna”).
Ulisse viene così parodicamente accostato all’agente di commercio Bloom, Telemaco all’artista squattrinato e ribelle Stephen, la fedele Penelope alla fedifraga Molly; i personaggi contemporanei, per converso, sono innalzati dai loro corrispettivi eroi epici. Il libro, composto da 18 episodi pressocché indipendenti, è diviso in tre parti: Telemachia (Telemaco, Nestore, Proteo), Odissea (Calipso, I lotofagi, Ade, Eolo, I lestrigoni, Scilla e Cariddi, Le simplegadi, Le sirene, Il ciclope, Nausicaa, Le mandrie del sole, Circe) e Nostos (Eumeo, Itaca, Penelope). Mondo mitico e mondo contemporaneo si fondono nella prospettiva di un significato universale: Ulisse- Bloom diventa Ognuno, l’Uomo nella sua completezza di padre, figlio, amante, e marito che si destreggia nelle difficoltà della vita quotidiana. Del resto, come Joyce stesso spiega in una lettera all’amico Carlo Linati, “[l’Ulisse ] è l’epopea di due razze (Israele-Irlanda) e nel medesimo tempo il ciclo del corpo umano ed anche la storiella d’una giornata (vita)”. Il valore simbolico di ogni episodio va dunque ben al di là del solo riferimento omerico, e alla minuziosa riproduzione della Dublino del 16 giugno 1904 si affianca la fitta rete di temi secondari, contenuti simbolici e riferimenti letterari che ambiscono a fare di Ulisse una summa non solo dell’esperienza fisica della condizione umana, ma di tutto l’universo (tentativo che si realizzerà pienamente nel libro successivo, La Veglia di Finnegan). Joyce fa uso del cosiddetto flusso di coscienza (stream of consciousness), basato sul monologo interiore. I pensieri, i sentimenti, i ricordi, le emozioni e i desideri dei personaggi (che, come commenta Svevo, “camminano col teschio scoperchiato”) vengono immediatamente resi, “tradotti” in linguaggio, nel momento stesso in cui essi affiorano dalle loro menti. Mentre nei primi tre episodi le tecniche utilizzate sono la narrazione obiettiva, i dialoghi e il monologo interiore, nei successivi il contenuto condiziona le forme espressive, cosicché ogni situazione e “avventura” – come scrisse Joyce stesso – “creano la propria tecnica”: ad esempio, l’episodio del giornale, Eolo, è scritto secondo lo stile retorico del linguaggio giornalistico; ne Gli armenti del sole, ambientato nell’ospedale della Maternità in Holles Street, sono ricreati con intento parodico la nascita e lo sviluppo della lingua inglese dalle origini anglosassoni fino al contemporaneo americano.
Se, come ha detto l’anglista Giorgio Melchiori, l’Ulisse “è l’epica del linguaggio, un’esplorazione attenta e accanita di ogni sua possibilità”, lo sperimentalismo semantico e fonico raggiunge i suoi estremi sviluppi nella Veglia di Finnegan (Finnegans Wake) a cui Joyce comincia a lavorare nel 1923 e che viene pubblicato, dopo 16 anni di gestazione, il 2 febbraio 1939. I protagonisti del libro sono il taverniere Humphrey Chimpden Earwicker e sua moglie Anna Livia Plurabelle. Earwicker, come tutte le notti, va a letto, dorme, sogna e al mattino ricomincia la solita vita. Su questa esile traccia si innestano, attraverso digressioni sistematiche, innumerevoli narrazioni che, nel sovrapporsi delle prospettive simboliche e nella trasfigurazione dal particolare all’universale, portano alle metamorfosi dei personaggi e dei punti di riferimento spazio-temporali, tanto che è praticamente impossibile delineare una trama ben precisa. I molteplici e ambigui significati del mondo, dell’esperienza e della storia sono espressi e si realizzano attraverso le infinite metamorfosi e le estreme manipolazioni della parola che diventa essa stessa significato. Come dice Samuel Beckett, “la scrittura di Joyce non è un componimento su qualcosa: è quel Qualcosa”.
Tuttavia, Joyce non crea una nuova lingua, arriva piuttosto – sono parole sue – “au bout de l’anglais” (“al limite dell’inglese”): la lingua madre non è abolita, ma rimane la struttura portante di un’operazione che lavora sul valore semantico e soprattutto fonico delle parole, inglobando parodicamente tutte le formule linguistiche della tradizione. La Veglia di Finnegan, concepita da Joyce come “storia universale”, è, insomma, il tentativo di trasporre verbalmente tutto il patrimonio storico e sociale della storia umana nel corso dei secoli: la panepiphanal, come la definisce Joyce stesso, la creazione cioè di un’epifania totale, in cui word (“parola”) si metamorfosizza in world (“mondo”) e viceversa.