ARANY [pr. òrogn], János
Nato il 2 marzo 1817 a Nagyszalonta, oggi Salonta-Mare (Romenia), morto il 22 ottobre 1882 a Budapest. Insieme col romanziere Jókai e col Petöfi è il maggior poeta classico della letteratura ungherese. Nato da famiglia povera, di religione calvinista, ebbe come prime letture la Bibbia e i Salmi, e, proclive com'era alla solitudine e alla meditazione, ne subì una influenza decisiva per tutta la vita. Frequemtò regolarmente le scuole, ma cercò da sé il nutrimento adatto al suo spirito. Conobbe così e studiò tutti i classici delle varie letterature europee, e tanto ne fu soggiogato che, più tardi, quando prese contatto con la poesia del suo tempo, ci si sentì come un estraneo. Continuò perciò ad occuparsi dei suoi classici; curò una traduzione di Shakespeare, la migliore che si possegga in Ungheria, e vi tradusse egli stesso l'Amleto, Il sogno di una notte di mezza estate, il Re Giovanni; tradusse nel metro dell'originale, Aristofane e inoltre Milton, Burns, i tragici greci, e numerosi frammenti del Tasso, dell'Ariosto e di Dante. Nel 1835 si trasferì a Debreczen, costretto, per procacciarsi da vivere, a fare il maestro. Frequentò colà per alcun tempo anche la facoltà di filosofia all'Università, ma la miseria gl'impedì di continuare. Diventò allora attore, e, nel febbraio del 1836, insieme ad una compagnia girovaga, percorse buona parte della Transilvania: ma non riuscì a farsi strada, e fu un nuovo periodo di grandi sofferenze. Un giorno si addormentò in una foresta e vide in sogno morire sua madre. Immediatamente abbandonò la compagnia e, a piedi, fece ritorno a Nagyszalonta, dove infatti, poco dopo, sua madre moriva di colera. Egli dovette allora pensare anche al sostentamento del padre cieco. Rimase perciò nel paese nativo, dove dapprima fece il maestro, poi ebbe la carica di vicenotaio al comune, carica che gli assicurò l'esistenza e gli permise dopo qualche tempo di passare a nozze e di ritornare con agio agli studî preferiti e alla poesia.
Col 1848, giunse frattanto per l'Ungheria quel periodo meraviglioso, che con la guerra per l'indipendenza diede al paese, seppure per un breve corso di tempo, la libertà. Lo spirito ungherese, che voleva liberarsi a tutti i costi dall'oppressione degli Asburgo, ebbe in quel momento, con a capo Luigi Kossuth, i massimi spiriti della letteratura e della storia magiare. Anche A. nell'autunno del 1848 prestò servizio nel corpo della Guardia Nazionale. Diventò redattore del giornale Népbarátja (Amico del popolo), organo del governo rivoluzionario. E contribuì con la sua parola a dar fede ed entusiasmo al popolo contro i tiranni stranieri. Morto nel 1849 nella battaglia di Segesvár il suo grande amico Petöfi, soffocata la guerra per l'indipendenza, seguì la sorte di altri eminenti ungheresi che sfuggirono alle persecuzioni riparando dalla capitale nella provincia, e si ritirò a Nagykörös, ove prese ad insegnare le lingue ungherese, latina e greca. Soltanto verso il 1860, quando l'assolutismo incominciò ad allentare le redini, fece ritorno a Budapest come direttore della Società letteraria Kisfaludy, massimo centro della vita culturale della nazione. Fondò e diresse due settimanali letterarî: lo Szépirodalmi figyel (Osservatore letterario) e più tardi il Koszorú (Ghirlanda). Nel 1870 ebbe la carica di segretario generale dell'Accademia delle scienze. In tutto questo tempo condusse vita ritirata e meditativa e priva di eventi notevoli: solo attraversò una grave e profonda crisi morale per la morte della figlia Giulia. Sebbene la sua fama di letterato fosse intanto andata sempre aumentando e anche il re si compiacesse dargli manifesti segni della sua benevolenza, continuò a restar fedele alla sua natura semplice e alla soave malinconia che lo accompagnò per tutto il corso della vita. Negli ultimi anni fu spesso ammalato. E più che gli uomini, in quegli anni malinconici, preferì la natura: quasi tutti i giorni dal Palazzo dell'Accademia, dove abitava, si recava all'isola di Santa Margherita, la più bella del Danubio, e là, in mezzo agli alberi e ai fiori, scriveva le deliziose liriche, che videro poi la luce, raccolte in volume, col titolo di Őszikék (Colchici autunnali). Morì a 67 anni, fra il lutto di tutta la nazione.
Arany iniziò la sua attività letteraria nel 1845 con un poemetto satirico in esametri Az elveszett alkotmány (La costituzione perduta), lodato dal Vôrösmarty e premiato dalla società Kisfaludy; ma riflessivo per natura, posato, contamplativo, artista sovrano della lingua e del ritmo, fu soprattutto grande come poeta epico.
La sua opera di più largo respiro è la trilogia epica Toldi (I, Toldi, 1847; II, L'amore di Toldi, 1879; III, La sera di Toldi, 1854): vi lavorò tutta la vita, e attingendo per la prima parte a un'arida cronaca cinquecentesca versificata da Pietro Ilosvay, diè vita a un quadro mirabile per intensità, varietà e penetrazione psicologica, dell'età cavalleresca d'Ungheria e delle avventurose spedizioni di Lodovico il Grande in Boemia e in Italia.
Nella prima parte (Toldi) si racconta come Nicola Toldi, giovane di eccezionale forza, pur essendo di origini nobili, vegeta tra i contadini del bassopiano ungherese, a Nagyfalu, mentre suo fratello Giorgio vive beato alla corte del re. Nicola vorrebbe essere anch'egli un "eroe" del re, ma la gelosia del fratello glielo impedisce: egli uccide uno dei servi del fratello che si erano permessi di prendersi beffe di lui; e allora deve fuggire e tenersi a lungo nascosto. Infine, attraverso ogni sorta di avventure, riesce a vincere ogni ostacolo; dopo che egli ha liberato il paese da un guerriero boemo che lo infestava, il re gli perdona ogni colpa e lo chiama a far parte del suo corpo di "eroi".
Nella seconda parte (L'amore di Toldi), Nicola prende parte a un torneo, dal quale esce vittorioso e ottiene in tal modo la mano della bella Piroska Rozgonyi; ma non l'ottiene per sé, bensì per Lorenzo Tar, che nel torneo egli aveva sostituito, appunto in virtù della sua forza straordinaria. Piroska ama Nicola, ma per puntiglio si dà a Lorenzo, sebbene anche Nicola ormai non nasconda più di esserne invaghito. Durante un'avventura che si svolge a Praga, Nicola è fatto prigioniero e, allorché ritorna in patria, s'incontra con Lorenzo e l'uccide. Ma tale omicidio diviene fonte d' innumerevoli disgrazie: egli perde il suo onore di cavaliere, viene scomunicato dalla Chiesa e abbandonato definitivamente dalla sua amata, che si ritira in un convento. Per espiare il suo peccato, egli si traveste e prende parte alla guerra condotta in Italia da re Lodovico. Compie numerosi atti eroici e salvando infine la vita al re ottiene completo perdono.
Nella terza parte (La sera di Toldi), il vecchio Nicola si è bisticciato col re un'altra volta e vive solitario nella sua antica capanna. Si prepara alla morte: e tutti i giorni per qualche tempo si scava la propria tomba. Ma si presenta un messo del re e gli comunica che nessuno è capace di strappare dalle mani di un eroe italiano lo stemma del paese. Nicola monta a cavallo e, vestito da frate, vince l'avversario, facendo la pace col sovrano. Ma l'ambiente della corte non è più fatto per lui. I giovani della corte si prendono beffe del vecchio eroe, ed egli, ritrovando per un attimo la sua forza, ne uccide tre e offende un'altra volta il sovrano. Il suo organismo però è già tanto indebolito che tali agitazioni lo prostrano definitivamente. Il re non manca di recarsi a salutare il suo vecchio eroe, il migliore dei suoi prodi.
Profondamente legato, come Petöfi, all'anima e alla vita del suo popolo, Arany impresse a tutta la sua arte un carattere schiettamente nazionale. Solo in alcune composizioni minori si rilevano influssi stranieri, come nel tetro Katalin, in giambi rimati, che ricorda la Parisina byroniana, o nel faceto Bolond Istok (Istok il pazzo, 1850), che richiama al Don Juan dello stesso poeta. Ma nazionali, come il Toldi, per l'ispirazione e per la forma, sono gli altri suoi poemi: L'assedio di Murany (1849), e La morte di Buda (1864), prima parte di una trilogia rimasta frammentaria, in cui è evocata la lotta fratricida dei re unni Buda e Attila. E nel colorito nazionale delle descrizioni e nell'intenso sentimento patrio trova la sua forza anche l'originalissimo poema satirico Gli zingari di Naugida, tutto soffuso di amaro umorismo, per il pensiero delle tristi condizioni in cui era caduto il paese in conseguenza degli errori commessi.
Gli zingari, guidati dal loro capo Czori, difendono il loro castello contro gli assalti del generale Mikael Puk. Ebbri di gioia per la prospettiva di riuscire a fondare finalmente il Paese degli Zingari, organizzano un grande banchetto, nel corso del quale adoperano tutta la loro polvere da sparo. E non solo esauriscono così, con spari di allegria, le loro riserve; ma, rimasti inermi, fanno anche sapere al nemico, con grida e con urli, che cosa farebbero se avessero ancora della polvere a loro disposizione. Naturalmente il nemico finisce col cacciarli dal castello.
La creazione più perfetta e più caratteristica del genio di Arany è tuttavia da cercarsi, forse, più ancora che nei poemi, nelle ballate. Ben 34 ne compose in appena quattro anni (1853-56 e 1877), togliendone gli argomenti dalla storia nazionale e dalla vita reale, specialmente del popolo; in una sola (I bardi gallesi) attinse a motivi stranieri, rna volgendoli ad allusioni contro l'assolutismo imperversante dopo il fallimento della rivoluzione. Sono generalmente brevi, concitate, rapide, con fratture e lacune nella narrazione secondo lo stile popolare. E quasi tutte son tetre, spesso tragiche, ché alla colpa tien dietro il castigo, o la coscienza tormentata si purifica nell'espiazione. Uniche nel loro genere, non risentono, come quelle composte sul principio dell'Ottocento, dell'imitazione di Schiller, Goethe, Uhland; ognuna di esse ha un ritmo proprio, un colorito proprio, direste quasi una lingua propria.
Queste qualità di stile fanno di Arany uno dei poeti che offrono maggiori difficoltà ad una adeguata traduzione; e ciò spiega come egli sia assai meno noto in Europa che Petöfi; ma non gli è, in realtà, per nulla inferiore.
Non si può affermare che gli sia inferiore, forse, nemmeno nella stessa lirica. Certo la sua lirica è meno varia d'ispirazione, e ha minore slancio e calore e colore; ma, nella sua purità semplice, severa e meditativa, ha momenti di grande elevazione. Una delle liriche più belle è quella dedicata al "sovrano spirito di Dante".
Nelle memorie dell'Accademia sono anche comparsi numerosi e interessanti studî suoi di critica e di erudizione su Zrinyi e il Tasso, sui poeti del sec. XVIII, sull'antica epica popolare e magiara, sul ritmo e i metri della poesia nazionale.
Edizioni: La raccolta completa delle Opere fu pubblicata, con la corrispondenza, da S. Markovics e dal figlio dell'A., Làszló, in 12 voll. (Budapest 1884-1889); essa è la base di tutte le edizioni posteriori, tra cui quella a cura di F. Riedl in 6 voll. (Budapest 1902-07) e un'altra in 4 voll. (Budapest 1926).
Numerose le traduzioni in francese e in tedesco: Toldi fu tradotto dal Koldemeyer, con un'introduzione di F. Hebbel (Budapest 1855-1884). In italiano, una versione del Toldi di S. Saladini (Verona 1909), affatto inservibile, e una, ora molto rara, pubblicata a Fiume; inoltre, una buona traduzione in prosa delle Ballate di S. Gigante (Palermo 1922).
Bibl.: P. Gyulai, Arany Janos életrajza (Biografia di J. A.), Budapest 1884; F. Riedl, A. J., Budapest 1893; id., 7ª ediz. tedesca, Lipsia 1920; L. Gyöngyösi, A. J., Budapest 1901; Pinter Jenö, A magyar irodalom története (Storia della letteratura magiara), Budapest 1921; A. Sikabonyi, A. és Petöfi baratsaga (L'amicizia di A. e di Petöfi), Budapest 1923; A. Schöpflin, Irok, könyvek, emlélek (Scrittori, libri, ricordi), Budapest 1925.