Jazz
«Man, if you have to ask what jazz is, you’ll never know» (Louis Armstrong)
Il jazz oggi
di Luca Cerchiari
1° marzo
È in edicola con il suo 700° numero la rivista Musica Jazz, rassegna mensile d’informazione e critica musicale, fondata nel 1945 da Gian Carlo Testoni e divenuta una delle più autorevoli testate specializzate dedicate a questo genere musicale in tutta Europa. La sua longevità e il suo successo confermano la grande popolarità di cui il jazz gode oggi in Italia, mentre la critica più recente rintraccia con evidenza le molteplici connessioni che lo legano alla tradizione europea.
Internazionalizzazione del jazz
Il mensile Musica Jazz (edito da Hachette-Rusconi) nel numero di gennaio assolve il compito, ideato da testate statunitensi quali Esquire e Down beat, di attribuire vari riconoscimenti a titoli discografici e a solisti ritenuti, da un nutrito gruppo di esperti, particolarmente meritevoli per l’anno appena trascorso. Le varie categorie premiate nel 2009 riguardano pianisti, trombettisti e trombonisti, sassofonisti e clarinettisti, contrabbassisti e batteristi, titolari di complessi e orchestre, cantanti e interpreti di strumenti diversi, fra cui anche la viola e l’armonica. A ognuno di essi è riservato un brano del CD antologico che, come ogni mese, accompagna la rivista, e che si candida, analogamente ad altre pubblicazioni periodiche con CD allegato, alla doppia funzione di testimone della cronaca musicale e di viatico alla divulgazione di temi monografici, non sempre rinvenibili nella discografia distribuita nei punti vendita tradizionali, sia specializzati che non. La novità dell’edizione 2008 del referendum di Musica Jazz consiste nel fatto che le classifiche non hanno voluto premiare i protagonisti di uno scenario internazionale, ma al contrario i sempre più numerosi – e secondo la rivista qualificati – esponenti del jazz nazionale: in particolare Franco D’Andrea ed Enrico Pieranunzi, Gabriele Mirabassi, Gianluigi Trovesi e Francesco Bearzatti, il gruppo Quintorigo, Giovanni Tommaso e Roberto Gatto, Gianluca Petrella, Livio Minafra, Daniele D’Agaro, Stefano di Battista, Antonello Salis, Maria Pia De Vito. Una simile impostazione sarebbe apparsa improponibile soltanto mezzo secolo fa, quando nacquero i referendum indetti dalle riviste di settore. Il processo di internazionalizzazione del jazz, in realtà, nasce già dalle fonti: si tratta di una musica che come e più di altre ha le sue origini in una sintesi di diverse culture continentali. Ma la maturazione di esponenti non statunitensi della musica jazz, altrimenti detta afroamericana, ossia di musicisti europei o appartenenti ad altre aree del pianeta (Centro e Sudamerica, Asia, Oceania, Africa), risale al secondo dopoguerra, in particolare agli anni 1960 e successivi. Questa crescita deve la sua ragion d’essere innanzi tutto alla ricezione e all’assimilazione dei repertori discografici e degli stimoli provenienti dalle performance concertistiche dei solisti statunitensi in tournée. Inoltre sono state fondamentali sia l’interazione fra musicisti americani e non, sia la progressiva messa a punto di un tipo di jazz che si qualifica come europeo, asiatico o africano non tanto e non solo perché viene proposto da musicisti nati in questo o quel continente, quanto perché essi si rendono capaci di mediare l’assimilazione dell’originaria lingua sonora afroamericana e dei suoi sviluppi stilistici con prassi esecutive, repertori, stili compositivi, approcci timbrici appartenenti alle tradizioni orali e colte, nonché pop, delle proprie regioni native. Così facendo, i nuovi patrimoni jazzistici europei, asiatici, africani o latinoamericani (sempre più consistenti e interessanti, a partire dagli anni 1960) sono venuti definendosi entro una rete mondiale di interazioni e prestiti incrociati – resi possibili prima dai passaggi navali atlantici, poi dalle comunicazioni aeree, quindi da quelle su fibra ottica e via satellite – con le matrici statunitensi del jazz. Le quali a loro volta si sono definite all’inizio del Novecento, come accennato, dalla dialettica fra la musica degli Stati Uniti, in forte divenire identitario, e quelle delle culture diasporiche europee e africane insediatesi fra il Canada e le Antille dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento.
Il processo di internazionalizzazione del jazz è uno degli aspetti più significativi e consistenti della sua più recente vicenda. Rispetto agli altri numerosi generi musicali del panorama contemporaneo (che condividono, ovviamente, tale dimensione internazionale, accentuata dalla rete mondiale di scambi e comunicazioni), esso assume un carattere di spiccata peculiarità proprio per le interazioni con fonti culturali regionali e locali, per certi versi maggiori nel jazz in ragione delle sue specifiche caratteristiche di elaborazione sonora, fra cui la prassi improvvisativa e la sistematica tendenza ad appropriarsi di repertori nuovi e diversi. La storiografia musicale e la musicologia di settore, sia pur limitatamente, hanno iniziato a renderne conto, come testimonia fra l’altro il ponderoso saggio dello studioso inglese Alyn Shipton (New history of jazz, 2001) che per primo ha inteso includere nel tradizionale formato di una storia critica del jazz anche una sua declinazione geografica africana, russa, indiana ed europea. Arrigo Polillo, nel suo ormai classico volume Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana (1975), aveva accennato al solo jazz europeo, pur avendo egli stesso ospitato, come responsabile della rivista Musica Jazz (1966-83), articoli e contributi sui nuovi scenari asiatici e latinoamericani. Tuttavia, per quanto la dimensione asiatica del jazz abbia configurato contributi interessanti, soprattutto in Giappone (molto attivo in senso concertistico e discografico), e anche se lo scenario creativo del jazz latinoamericano (riferibile a un’area compresa fra New York, l’Avana e Porto Rico, da un lato, e ai panorami brasiliani e argentini, dall’altro) è ricco di virtuosi strumentali e di gruppi in grado di sintetizzare patrimoni ritmici e melodico-armonici in una brillante ‘salsa’ panamericana, il discorso più interessante resta effettivamente quello del contributo europeo, più che africano, al fenomeno della internazionalizzazione della musica jazz. Africa e jazz, nell’immaginario socioculturale e in una vasta letteratura non soltanto musicale, hanno sempre rappresentato un connubio denso di implicazioni simboliche, ideologiche e sonore. Le possiamo nominare in breve ricordando il ragtime pianistico Sounds of Africa di Eubie Blake (1899), lo stile orchestrale jungle del compositore Duke Ellington, impegnato in una sonorizzazione coerente alla scenografia volutamente africaneggiante del newyorkese Cotton Club (anni 1920 e 1930), i temi Jungle drums (1938) ed Egyptian fantasy (1941) del clarinettista-sassofonista Sidney Bechet, le frequenti citazioni paramusicologiche del trombettista Dizzy Gillespie, riferite a strumenti, danze o lemmi africani e alla loro sopravvivenza nel melting pot afroamericano, o ancora l’omaggio del trombettista Miles Davis (album Bitches brew, 1969) a un’Africa immaginaria, fra miti faraonici, scenari atlantici e riti magici, plasmato da inedite soluzioni elettroacustiche. D’altronde proprio a una nazione africana era stato intitolato uno dei più fortunati lavori di autori afroamericani dei primi anni del Novecento: la commedia musicale In Dahomey, del compositore Will Marion Cook e degli autori Jesse A. Shipp e Paul Lawrence Dunbar, vivacizzata dall’interpretazione di George Walker e Bert Williams, debuttò a Broadway nel 1903 ed ebbe grande successo anche a Londra, ove ne fu pubblicata la partitura. La dimensione al contempo ‘necessaria’, tropica e diffusionistica della relazione tra Africa e jazz, che ispira la letteratura di settore, è venuta progressivamente attenuandosi a partire dagli anni 1980 anche, ma non soltanto, perché la spinta ideologica e movimentista degli afroamericani, particolarmente accesa nel ventennio precedente, è sembrata riassorbita dai nuovi valori e disvalori della società statunitense. L’idea, in sede propriamente musicale e musicologica, che il jazz «in quanto prodotto della civiltà afroamericana» dovesse necessariamente discendere dall’Africa è stata progressivamente incrinata da una revisione prospettica sulle sue fonti, attuata dalla ricerca musicologica internazionale con forti contributi da quella europea o non americana (Ekkehard Jost, Franz Kerschbaumer, Laurent Cugny, Vincent Cotro, Mervyn Cooke e Peter van Der Merwe, fra gli altri). L’affermazione di una musicologia europea dedicata al jazz è andata di pari passo con la maturazione e il riconoscimento dello stesso jazz europeo ed è stata resa progressivamente possibile dal processo di istituzionalizzazione della didattica e della ricerca sul jazz avviato alla fine degli anni 1960 nei principali paesi europei, sia in ambito universitario sia in quello dei conservatori e delle iniziative private. In Italia gli insegnamenti dedicati a questa musica sono una settantina, di cui cinque quelli universitari (tenuti da Gianfranco Salvatore, Luca Cerchiari, Riccardo Scivales, Raffaele Borretti e Vincenzo Caporaletti, rispettivamente negli atenei di Lecce, Padova, Venezia, Cosenza e Macerata), mentre la didattica nei conservatori, ove il jazz è stato dichiarato materia ufficiale nel 1990 dopo un ventennio ‘sperimentale’ avviato principalmente da Giorgio Gaslini, prevede molte cattedre dedicate, con punte di eccellenza laddove le principali materie, strumentali e teoriche, sono state coordinate in appositi dipartimenti. Di fatto, l’individuazione di un jazz europeo diverso e complementare rispetto a quello americano si può far risalire già agli anni 1930 con il quintetto franco-tzigano Hot club de France, di Stéphane Grappelli e Django Reinhardt. Tuttavia la diffusione di questo genere musicale nel vecchio continente ha avuto un’impennata qualitativa nel secondo dopoguerra e, con l’emigrazione negli Stati Uniti di alcuni solisti europei, quali il pianista inglese George Shearing e l’armonicista belga Toots Thielemans, si è addirittura prefigurata una terza via, quella della pur circoscrivibile influenza del jazz europeo su quello americano o sul panorama internazionale. Fenomeno speculare, quest’ultimo, ai flussi culturali transatlantici di segno opposto del periodo compreso fra le due guerre mondiali, al quale possiamo riferire l’intensa attività esecutiva e compositiva di jazzmen europei successivi agli anni 1950, tra i quali ricordiamo i nomi di Martial Solal, Jean-Luc Ponty, Michel Portal, Daniel Humair, George Gruntz, Albert Mangelsdorff, Joachim Kuhn, Giorgio Gaslini, Enrico Rava, Tete Montoliu, Niels-Henning Orsted Pedersen, John Surman, John McLaughlin, Evan Parker, Jan Garbarek, Terje Rypdal, Matthias Ruegg, Franco Ambrosetti, Miroslav Vitous, Tomasz Stanko e Vyacheslav Ganelin. Anche l’inedita estetica dell’etichetta discografica tedesca ECM, della quale nel 2009 ricorre il quarantennale, si è imposta a livello internazionale come un marchio capace di veicolare solisti europei e statunitensi operanti nell’ambito del jazz e di proporre forme stilistiche confinanti in una cornice grafico-visiva di indubbio fascino paesaggistico, fotografico o astrattivo, coerente alla qualità fonica elegantemente omogeneizzata, ma sovente spersonalizzante, del proprio vasto catalogo discografico.
La questione africana
La messa in crisi della relazione tra jazz e Africa è la conseguenza, oltre che della rilevanza del jazz europeo e in genere del mutuo rapporto culturale e musicale fra Europa e jazz, anche della esiguità del jazz africano. Dato apparentemente sorprendente, ma non per chi abbia correttamente impostato la questione in un’ottica comparativa fra musica africana e afroamericana. Di fatto, una delle caratteristiche precipue del jazz, l’improvvisazione, nella musica africana appare marginalmente praticata: la sua occorrenza è riconducibile essenzialmente a referenti rituali e simbolici, più che a quell’esternazione/ostentazione virtuosistica che nella musica di tradizione africana è talora presente, ma mai come nella linea euroamericana del virtuosismo che, dal Barocco al Biedermeier a oggi, connette deduttivamente, ma linearmente, Niccolò Paganini a Jean-Luc Ponty (violino), Sigismund Thalberg a Keith Jarrett (pianoforte), Maurice André a Wynton Marsalis (tromba), Andrés Segovia a Joe Pass (chitarra). D’altronde, il jazz africano, per quanto le sue fonti documentarie siano tuttora limitate o poco accessibili, risulta oggettivamente un fenomeno marginale, in uno scenario così centrifugo
e internazionalizzato; appare complesso individuarne anche pochi esponenti e difficilmente, data la globalizzazione della diffusione mediatica e dei circuiti concertistici, ciò può derivare da una condizione di separatezza dalle scene americane, come prova invece la relativa diffusione della musica cubana in Africa dagli anni 1950. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano e riguardano il pianista Dollar Brand (Abdullah Ibrahim) che negli anni 1960, forse l’unico momento di relativa circolazione e pratica del jazz nel continente africano, fu uno dei fondatori del gruppo Jazz epistles, nonché i trombettisti Hugh Masekela e Mongezi Feza, il batterista Louis Moholo, il sassofonista Dudu Pukwana e il contrabbassista Johnny Dyani: sudafricani, avrebbero arricchito, emigrando, la scena musicale americana ed europea. Come si vede, Africa e jazz sono legati soprattutto sotto il profilo storico, evocativo e simbolico, ma assai meno da un punto di vista strettamente musicale; e anche dove ciò accade, la direttrice va dall’Africa all’Afro-America e riguarda la sopravvivenza nel jazz di tratti africani (come il call-and-response, la poliritmia, il dialogo voce-strumento) e non viceversa, come invece è accaduto sensibilmente in rapporto all’Europa.
La ‘questione africana’ concerne anche il blues, celebre genere ottocentesco di tradizione prima rurale e quindi urbana, rispetto al quale nel 20° secolo una serie di studiosi e musicologi ha avanzato, analogamente al jazz, ipotesi di radici africane; tali radici tuttavia non sono mai state provate, come hanno onestamente ammesso quei ricercatori (per esempio, l’inglese Paul Oliver e l’americano Samuel Charters) che per verificare le loro ipotesi si sono recati personalmente sul campo, in zone topiche del continente, comprese fra la fascia cosiddetta sudanica e quella equatoriale, senza però rinvenirvi riscontri utili alle ipotesi di partenza, nonostante la sistematica analisi comparativa fra i griots africani e i loro supposti discendenti del meridione rurale statunitense, i cantanti-chitarristi del blues classico. Più recentemente, l’austriaco Gerhard Kubik, eminente studioso di musica africana, ha rilanciato il tema in una brillante sintesi saggistica nella quale avanza ipotesi di vario genere relative ad alcuni tratti tipici del blues, di cui si possono riscontrare antecedenti africani. Peraltro vi sono tratti del blues che possono vantare altrettanti antecedenti europei, come ha sorprendentemente messo in luce, alcuni anni prima, il musicologo sudafricano di origini anglo-boere Peter van der Merwe, che nel suo saggio ha individuato inedite matrici inglesi del blues – precisate da un fitto e accurato numero di esempi musicali e dalle relative circostanze storico-sociali –, addirittura riconducibili a musiche da danza dell’Europa rinascimentale, come la celebre pavana. Tutto ciò da un lato rafforza la dimensione frammista di elementi europei e africani alla base della sintesi musicale afroamericana, e la sua relativa unicità, mentre dall’altro ci porta a riflettere sulla questione degli universali culturali, inclusi i tratti musicali, sollevata con profondità prospettica oggi forse dimenticata dalla musicologia comparata di fine Ottocento-inizio Novecento.
Jazz e tradizione europea
A fronte di queste annotazioni i rapporti fra Europa e jazz appaiono ben più ampi e complessi. Essi si possono riassumere in tre categorie, di cui quella già accennata (l’influenza del jazz europeo, per quanto ancora modesta, sullo scenario internazionale) risulta l’ultima in senso cronologico. La prima e la seconda categoria riguardano l’influenza delle musiche europee, colte e orali, urbane e mediatiche, sul processo di definizione del jazz e lo sviluppo di un jazz europeo, che se oggi appare numericamente e qualitativamente rilevante, già negli anni fra le due guerre mondiali iniziò a dar conto di sé stesso, come ha indicato per esempio il tedesco Rainer Lotz, al quale dobbiamo altresì una preziosa testimonianza saggistica sull’intensa circolazione tardo-ottocentesca in Europa di musicisti afroamericani. In particolare, il testo di Lotz su Michael Danzi mette in luce un singolare esempio di relazioni transatlantiche, attraverso il racconto della vita di un chitarrista e banjoista italoamericano che arrivò a Berlino in tournée come membro dell’orchestra statunitense di Alex Hyde e restò poi per quasi vent’anni nella metropoli tedesca. Il suo caso è interessante non tanto per il profilo artistico, di secondo piano, quanto per l’intensità di occasioni professionali (basti citare le 19.000 incisioni discografiche realizzate per varie etichette e la partecipazione a 55 film) che rende l’idea di quanto fosse effervescente, prima del nazismo ma anche dopo la sua affermazione, l’ambiente tedesco della musica e dello spettacolo. È difficile fare un paragone fra Parigi, Londra e Berlino, ma anche limitandosi a questi dati è forse possibile rivedere la tendenza storiografica che considera Francia e Inghilterra come le protagoniste indiscusse dell’importazione del jazz americano in Europa, e della maturazione di una sua controparte europea. Certo, esaminando il repertorio di Danzi, musicista pop ante litteram, si nota la tendenza a etichettare con il termine jazz, di moda e perciò attraente, musiche forse maggiormente radicate nella tradizione europea. Oggi come allora, la situazione è analoga. Un compositore italiano come Carlo Boccadoro, attivo dagli anni 1990 (da una decina anche saggista musicale presso la casa editrice Einaudi), viene più o meno correttamente ricondotto alla categoria del jazz (che nei suoi scritti dimostra di conoscere abbastanza bene), ma del resto è quanto accadeva negli anni 1920-30 negli Stati Uniti a George Gershwin e Paul Whiteman e in Europa a Jack Hylton, Pippo Barzizza o Bernhard Ettè, i quali alternavano melodie europee e afroamericane, allora dette ‘nuovi ritmi’. Di fatto, il confine spesso difficile da tracciare in modo netto fra jazz e musica europea non fa che rafforzare la rilevanza del rapporto fra queste due tradizioni. Il jazz e gli stili afroamericani precedenti e attigui hanno influenzato oltre cento composizioni di autori colti europei, da Claude Debussy a Igor Stravinskij, da Ottorino Respighi a Bruno Maderna, da Ernst Krenek a Dmitrij Shostakovich, da Karlheinz Stockhausen a Krzysztof Penderecki. Ma vale anche il ragionamento inverso: numerosi musicisti americani e afroamericani, inclusa la generazione dei primi autori di colore della musical comedy di Broadway, sono stati allievi di compositori europei, come per esempio Anton Dvorak (didatta e direttore del Conservatorio di New York a fine Ottocento). George Gershwin, che non può definirsi un jazzista ma un autore di songs e pagine orchestrali influenzate dalla musica afroamericana, europea ed ebraica, ha avuto un numero considerevole di maestri classici (fra i quali Joseph Schillinger, compositore e matematico russo, fondatore dell’attuale Berklee college of music) e desiderò essere allievo, senza riuscirci, anche di Maurice Ravel e di altri esponenti della scuola europea; da attento ascoltatore e assimilatore qual era, Gershwin finì invece per desumere elementi dello stile di Alban Berg (dal Wozzeck, in particolare) nel concepire alcuni passi dell’opera Porgy and Bess. Nell’ambito del jazz statunitense, musicisti bianchi e di colore quali Bix Beiderbecke, Duke Ellington, Woody Herman, Benny Goodman, Charlie Parker, Miles Davis, Claude Thornhill, Stan Kenton, Gil Evans, John Lewis, Gunther Schuller, George Russell, Anthony Braxton, Keith Jarrett e Richard Beirach hanno manifestato in modo diverso il loro interesse diretto o indiretto per autori europei o per i loro brani, da Bach agli impressionisti francesi, da autori spagnoli a Bela Bartok, dalla seconda scuola viennese all’avanguardia di Darmstadt. Il ragtime, stile compositivo prejazzistico di fine Ottocento, per lo più per pianoforte, attinse alla tradizione colta del vecchio mondo e il suo maggiore esponente, Scott Joplin, terminò nel 1911 un’opera in tre atti, Treemonisha, ispirata da fonti afroamericane ma anche europee, fra le quali il melodramma wagneriano.
Fra tradizione europea e jazzistica si sono svolte le carriere di interpreti o autori (o entrambi) come il pianista austriaco Friedrich Gulda, il clarinettista francese Michel Portal, il pianista e compositore italiano Giorgio Gaslini, il pianista e direttore d’orchestra statunitense André Previn, il compositore francese André Hodeir, il pianista statunitense Uri Caine, il flautista cecoslovacco Jiri Stivin, il trombettista afroamericano Wynton Marsalis e quello tedesco Markus Stockhausen. Jacques Loussier, negli anni 1950-60, è divenuto celebre per sistematiche ‘jazzificazioni’ del repertorio di Bach per pianoforte, contrabbasso e batteria, come analogamente è accaduto (estendendosi anche a Händel, Mozart, Beethoven e Chopin) ai gruppi vocali francesi Double six of Paris e Swingle singers, fondati e diretti da un direttore corale e compositore americano, Ward Swingle. Recentemente, l’interpretazione in chiave più o meno jazzistica di autori colti europei è divenuta, da episodio occasionale e accattivante (per esempio nel repertorio delle big-band dell’epoca swing o in quello anni 1940-50 del pianista afroamericano Art Tatum), un fatto ricorrente, come dimostrano le più o meno recenti incisioni discografiche del clarinettista bergamasco Gianluigi Trovesi (All’opera, ECM), del pianista romano Enrico Pieranunzi (Plays Domenico Scarlatti, Cam Jazz), dell’orchestra austriaca Vienna Art di Matthias Ruegg (The minimalism of Eric Satie, Hat Art), del già citato Giorgio Gaslini (Schumann reflections, Soul Note).
Il melodramma europeo dell’Ottocento, inteso come patrimonio autoriale e come tradizione interpretativa, ha intrattenuto o svelato inediti rapporti con il jazz. Da un lato i musicisti ne hanno proposto con crescente interesse e varietà di soluzioni alcune melodie significative (al già citato Trovesi dobbiamo affiancare almeno il trombettista Enrico Rava, nel CD Rava l’opera va, Label Bleu), rilevando in questo una cantabilità – per esempio in Giacomo Puccini – che si avvicina alla sensibilità solistico-improvvisativa del jazz, comunque legata a un modello vocale, reale o mentale che sia. Dall’altro lato i musicologi hanno messo in luce come, al contrario, il melodramma abbia agito significativamente sulla nascita della musica jazz. Il caso di New Orleans risulta esemplare: nella capitale della Louisiana il jazz nacque come risultante di un processo di assimilazione e ricreazione di molte fonti, inclusi aspetti di repertorio e interpretativi tipici dell’opera italiana e francese, molto diffusa nei teatri di New Orleans, e non solo.
Jelly Roll Morton ha dichiarato di aver ripreso al pianoforte e nelle sue composizioni polifoniche passi dal Miserere di Giuseppe Verdi e dalla Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti. Ma lo stile operistico ha un suo risvolto altrettanto celebre nell’interpretazione vocale, e in particolare nella sua variante italiana detta bel canto, che sintetizza forza espressiva, virtuosismo e senso teatrale, appunto drammatico. L’affermazione del supporto discografico, negli anni del jazz, si dovette ad alcuni celebri interpreti vocali del melodramma, fra cui il tenore napoletano Enrico Caruso. L’ascolto fonografico (su dischi a 78 giri) di Caruso determinò, per diretta testimonianza degli interessati, la maturazione di alcuni aspetti dello stile strumentale di due padri del jazz di New Orleans, Louis Armstrong e Sidney Bechet. Il secondo, celebre per il suo elegante e plateale vibrato sul clarinetto e sul sassofono soprano, ne ha ricondotto il modello, appunto, alla vocalità del tenore. E d’altra parte anche Armstrong, che si è professato un ascoltatore entusiasta di Caruso, deve ad altre fonti europee la sua formazione musicale. Fra queste c’è il celebre Grande méthode complète pour cornet à pistons et saxhorn (1864) di Jean-Baptiste Arban, ancora oggi uno dei metodi di riferimento principali per lo studio della tromba e della cornetta. Il caso di New Orleans (alla cui musica e relativa interpretazione ha dedicato un saggio Bruce Raeburn) è però più articolato. Scoperta e colonizzata dai francesi e quindi governata da spagnoli, francesi, inglesi e americani, e popolata altresì da nativi americani, afroamericani importati direttamente dall’Africa o dai Caraibi, nonché da successive ondate di emigrati europei (italiani, tedeschi, scandinavi ecc.), la città ha dato vita a un melting pot musicale del quale è un gioco emozionante e complesso dipanare
le contribuzioni europee e non, derivanti dalle citate matrici geoculturali. I colori di varie culture rifulgono nell’esperienza jazzistica: è il caso dello spanish-tinge dei costrutti tematici e improvvisativi di Jelly Roll Morton, ma è anche quello di canzoni, melodie ed elementi sonori e ritmici di origine francese, italiana e britannica. Lo scotch-snap scozzese è un tratto ritmico-timbrico che ricorre nello stile di Louis Armstrong (per esempio in Cornet chop suey), probabilmente perché la formazione del giovane musicista di colore avvenne in una zona della città contigua agli insediamenti degli immigrati scozzesi, nelle cui esecuzioni violinistiche (per esempio in To answer the peacock) o vocali (in Comin’ thro’ the rye) esso figurava. Oh, didn’t he ramble, un tema tipico del repertorio neworleansiano del primo jazz, reso celebre da Kid Ory, Zutty Singleton, Bunk Johnson, Louis Armstrong e Jelly Roll Morton, è a sua volta di origine anglosassone.
Anche musicisti americani di origini siciliane come Wingy Manone, Sharkey Bonano e Leon Roppolo avrebbero interpretato un classico della canzone partenopea come ‘O sole mio in conseguenza del successo americano di Enrico Caruso, che lo incise più volte; purtroppo le loro attestazioni discografiche sono successive perché la New Orleans del primo jazz era sprovvista di studi di registrazione e di etichette fonografiche.
La scelta del mensile Musica Jazz di dedicare attenzione alla sola scena jazz italiana trova dunque riscontri più ampi nel processo in corso di precisazione dei molti rapporti fra musica europea e afroamericana. La rivista si occupa del fenomeno più apparente e focalizzato, ma la musicologia, come si è detto, sta al contrario mettendo in luce le numerose fonti europee della stessa musica afroamericana. In questo senso, l’Italia e il Vecchio mondo tornano in primo piano anche per altri aspetti, non ultimo quello del repertorio. Si è sinora ritenuto che il ‘libro tematico’ più frequentato del jazz comprendesse essenzialmente blues afroamericani e canzoni bianche (e nere) di origine e paternità autoriale-editoriale per lo più newyorkese. Ciò è confermato da un repertorio prevalente, dal punto di vista della fortuna esecutiva, di circa 700 brani (di Gershwin, Kern, Porter, Rodgers, Ellington, Monk e altri), di cui però almeno una cinquantina appartengono alla tradizione europea. Per motivi legati alla migrazione, alla trasmissione editoriale, alla circolazione negli spettacoli teatrali, alla diffusione e al gradimento nelle comunità dei musicisti e al successo mediatico, melodie orali e urbane, nordiche e mediterranee, sacre e profane, sono penetrate a più riprese e sopravvissute nell’ambito del jazz statunitense. ‘O sole mio di Edoardo di Capua, così come Gigolò del pianista toscano Leonello Casacci (divenuta Just a gigolo e resa celebre negli Stati Uniti da Bing Crosby, Louis Armstrong e Thelonious Monk), Estate nonché E la chiamano estate di Bruno Martino, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, Senza fine di Gino Paoli, E se domani di Carlo Alberto Rossi appartengono al ristretto ma significativo novero di italian songs rese nuove e diverse dall’interpretazione di grandi del jazz come Red Nichols, Louis Prima, Lou Bennett, Wes Montgomery, Lee Konitz o Michel Petrucciani. Allargando il discorso si scopre che Autumn leaves, uno dei vertici della balladry jazzistica, altro non è che Les feuilles mortes del poeta francese Jacques Prevert e del compositore dell’Est europeo Joseph Kosma, che Cherokee e These foolish things, due classici del bebop e del jazz strumentale o vocale, sono inglesi e che altrettanto anglosassone, ma risalente a un’epoca molto precedente, addirittura tardo-medievale, è Greensleeves, resa celebre da quasi 200 versioni jazzistiche su disco (da John Coltrane a Jimmy Smith, da Oscar Peterson a Kenny Burrell). Ancora: Mon homme, lanciata dall’attrice-cantante Mistinguett nelle riviste parigine degli anni 1920, fu ripresa da Billie Holiday, che ne fece un capolavoro, tradotto come My man (Lady Day si cimentò anche con l’ungherese Szomoru Vasarnap, divenuta Gloomy sunday, e la tedesca Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe Eingestellt, resa come Falling in love). C’est si bon e La vie en rose hanno avuto uno straordinario ‘rifunzionalizzatore’ in Louis Armstrong e il discorso potrebbe continuare includendo Ciribiribin, La Paloma e Ack, Varmeland, du Skona (Dear old Stockholm), riprese, fra gli altri, da Harry James, Charlie Parker e Stan Getz. Se dal jazz ci spostiamo indietro, all’epoca ottocentesca e anche settecentesca dei canti religiosi e profani, i legami fra America ed Europa si ribadiscono altrimenti, in un intreccio fra componenti testuali e strutture musicali di cui non sempre è agevole dipanare la matassa. Amazing Grace è un canto religioso inglese del Settecento, che poi diventa uno dei più commoventi e fortunati spiritual afroamericani. Abide with me, prima di essere intonato da regine del canto religioso afroamericano come Mahalia Jackson, risuonava abitualmente nelle chiese riformate inglesi. Just a closer walk with thee, un classico del jazz neworleansiano, eseguito dai gruppi processionali che fanno musica nei funerali, è un verso biblico, mentre il celebre innario ecclesiastico angloamericano di Richard Allen per decenni utilizzò negli Stati Uniti la melodia inglese detta Fol-de-rol, originalmente in uso nel teatro popolare, che ha un testo del tutto profano (Billy Taylor was a smart young feller/Full of mirth and full of glee/And he did his mind diskiver/To a Lady fair to see).
Al jazz, oltre che con un’agguerrita progenie di solisti – da Django Reinhardt degli anni 1930 a Richard Galliano del 2000 –, l’Europa ha contribuito con la spinta vitalizzante e diversa, rispetto al contesto statunitense, del proprio retroterra culturale, ideologico e politico-istituzionale. La critica di settore deve sostanzialmente all’Europa il proprio avvio e sviluppo: dai pionieri-fondatori Hugues Panassié e Charles Delaunay (cui si deve la creazione del primo mensile mondiale, il parigino Jazz hot, 1934) al primo importante critico americano, l’inglese Leonard Feather (emigrato a New York nel 1939), da studiosi di spessore internazionale come Arrigo Polillo, Lucien Malson e Joachim Berendt agli esponenti della musicologia già citati, e infine ai promotori di collane saggistiche specificamente dedicate a questa musica, apparse in quasi ogni paese europeo a partire dagli anni 1980. La radio e la televisione pubblica, in tutto il continente europeo, hanno svolto un intenso ruolo informativo e produttivo a favore del jazz che oggi trova riscontro, tra l’altro, in ricchissimi lasciti archivistici, in gran parte da censire e valorizzare. Il cinema ha spinto registi di notevole spessore artistico (Louis Malle, Alfred Hitchcock, Michelangelo Antonioni, Bertrand Tavernier) a dedicare pellicole al jazz o a utilizzarlo creativamente come colonna sonora. La discografia ha attuato un ruolo capillare di promozione di artisti europei e americani (talora registrati quasi solo, o solo, in Europa, come Sam Wooding), e si è resa attiva per prima nel promuovere con ristampe in CD il repertorio storico su dischi a 78 o 33 giri (l’etichetta francese Chronological Classics, su tutte) con una qualità e una sistematicità documentaria che molto devono alla coscienza, tipicamente europea, della valorizzazione e della tutela dei patrimoni culturali. E le istituzioni hanno contribuito a conferire a questa musica, attraverso premi, riconoscimenti ed edizioni, nonché con finanziamenti diretti e indiretti e con la creazione di archivi e centri studi, uno status e un’immagine che non sempre, paradossalmente, gli Stati Uniti hanno saputo attribuirle.
Che cos’è il jazz?
Il jazz è un genere musicale nato negli Stati Uniti intorno all’inizio del 20° secolo quando, dopo un lungo processo di sincretismo tra forme musicali occidentali e poetiche africane, al repertorio bandistico (marce, trascrizioni operistiche ecc.) e da ballo (polche, mazurke, quadriglie ecc.) di fanfare e orchestrine afroamericane si sovrapposero alcuni tratti espressivi di matrice africana, che risalivano alla memoria culturale degli schiavi deportati nel continente americano fra il 16° e il 19° secolo, successivamente affrancati e progressivamente inurbati. Le influenze musicali euroamericane, che avrebbero fornito a questo jazz nascente strutture strofiche e sequenze armoniche, ebbero modo di filtrare nella rudimentale competenza musicale afroamericana del 19° secolo attraverso la popolazione creola (di cultura francese) della Louisiana, dove peraltro già agli schiavi era occasionalmente concesso di riunirsi a fare musica in luoghi (Congo Square a New Orleans) e occasioni particolari.
Questo concorso di circostanze ha suggerito alla storiografia jazzistica la convenzione di collocare la nascita del jazz a New Orleans. In realtà i presupposti musicali del jazz andarono formandosi più o meno contemporaneamente in vari centri degli Stati Uniti, sviluppando tradizioni orali di carattere rurale in una sorta di folclore urbano che mantenne per un certo tempo impronte stilistiche locali prima di amalgamarsi in un linguaggio comune. Fin dai suoi primordi, comunque, il jazz si rese riconoscibile più per le sue caratteristiche espressive che per le strutture formali, che furono – e continuano a essere – comuni anche ad altre musiche, in una osmosi tra i vari patrimoni musicali non accademici nella quale il jazz offre e riceve influenze che costantemente lo rinnovano, ridefinendo al contempo il suo rapporto con le altre musiche. Sul piano espressivo, tuttavia, il jazz tende a conservare la sua identità tradizionale, che dai vocalizzi (calls, hollers) dell’epoca schiavistica si trasmise dapprima all’innodia evangelica nera (spiritual, poi gospel) e in seguito al blues, dove trovò anche un primo adattamento strumentale (chitarra, banjo, armonica a bocca) delle sue caratteristiche vocali, poi esteso agli strumenti a fiato di uso bandistico. Tale identità si riconosce anzitutto nel modo di articolare le melodie: le note sono pronunciate con grande varietà di attacchi, stirate in caratteristici portamenti, ornate di fioriture e melismi, in un vasto repertorio di effetti che tende a personalizzarsi in maniere gergali e stilemi individuali, variabili da un musicista all’altro anche all’interno del medesimo stile.
Questa continua tensione fra espressività tradizionale e ricerca sonora fortemente individualizzata si concretizza in una prassi specifica del jazz, che considera lo strumento quale prolungamento del corpo del musicista, sottoponendolo continuamente alla ricerca di artifici tecnici intesi a produrre connotazioni emotive e slanci vitalistici, in una somatizzazione del ruolo solistico che può ricordare la funzione della maschera nelle tradizioni teatrali popolari. In altri termini, la disciplina tecnico-strumentale nel jazz gode di una libertà sconosciuta all’etica della musica accademica, ricorrendo sovente a usi impropri degli strumenti per la realizzazione di effetti particolari, la generazione di suoni spuri, l’esaltazione della componente materica del fiato o del tocco: procedura che chiama in causa, indirettamente, la musica africana, ma che alle origini, in epoca schiavistica, derivava dallo sforzo di adattare tecniche eterodosse agli strumenti musicali occidentali o addirittura a strumenti autocostruiti. Passando dal piano espressivo a quello strutturale, ritroviamo un analogo sforzo di adattamento della memoria etnica alle strutture formali della musica occidentale nell’originale concezione ritmica del jazz, la cui formazione si può ritenere anch’essa di natura sincretistica. Il tentativo di conciliare la natura poliritmica della musica africana con la quadratura della musica occidentale portò al trattamento sincopato delle melodie nel jazz tradizionale e alla progressiva definizione del cosiddetto swing, modalità metrico-ritmica impossibile da segnare sulle partiture secondo i sistemi semiografici occidentali, ma derivante in senso generale dalla sovrapposizione di scansioni binarie e ternarie. La tendenza agli abbellimenti, ai reiterati interventi sui fraseggi originali delle melodie e alle continue microvariazioni ritmiche contribuì ad alimentare l’attitudine all’improvvisazione, prima come semplice parafrasi tematica e poi come vera e propria invenzione melodica su canovaccio armonico: un’altra costante del jazz, questa, che si è continuamente rinnovata nel corso della sua evoluzione linguistica e che, oltre a costituirne il maggiore presupposto artistico e creativo, lascia sfogo a quella componente competitiva ed emulatoria del solismo jazzistico che, divenuta tradizionale, ne costituisce la più tipica componente spettacolare.
Storia e interpreti
Una storia del jazz, data la parte che in questo genere di musica svolge l’improvvisazione, può essere fatta non tanto sulle partiture musicali, quanto sulle incisioni discografiche, la prima delle quali risale al 1917 e venne realizzata dalla Original dixieland jazz band per conto della casa musicale Victor. Se non è possibile precisare, proprio per mancanza di registrazioni, quale fosse il carattere dei primi blues, cioè dei canti afroamericani che costituirono la prima fonte del jazz, documenti sufficienti si hanno invece a partire dagli anni intorno al 1920. I primi musicisti di jazz, come il trombettista Freddie Keppard, il pianista Jelly Roll Morton, il sassofonista Sidney Bechet e il trombettista King Oliver, iniziarono la loro attività musicale a Storyville, il quartiere dei divertimenti di New Orleans e, alla chiusura di questo, presero a suonare sui battelli che risalivano il Mississippi, da dove ben presto la nuova musica si diffuse a Chicago e in seguito a New York, acquistando di pari passo un certo ordine. La più importante orchestra di jazz di questo periodo fu quella di King Oliver, della quale faceva parte anche, come seconda tromba, Louis Armstrong: a essa si fanno risalire i caratteri tipici del cosiddetto stile New Orleans. Lasciata l’orchestra di King Oliver, Armstrong si affermò come il maggiore solista di jazz, incidendo tra il 1925 e il 1928, con i suoi complessi denominati Hot five e Hot seven, i più apprezzati dischi jazzistici.
Fra gli altri musicisti di jazz affermatisi in questo periodo figurano il clarinettista Jimmie Noone, i pianisti Fletcher Henderson ed Earl Hines, i sassofonisti Coleman Hawkins e Benny Carter, il trombettista Bix Beiderbecke. Intorno al 1930 l’orchestra di Duke Ellington, con il suo senso ritmico, la sua ricchezza coloristica, i suoi elaborati arrangiamenti, la sua spregiudicatezza, gli a solo del sassofonista Johnny Hodges e dei trombonisti Lawrence Brown e Juan Tizol, dette l’ultimo decisivo impulso all’autonomia artistica e professionale delle orchestre jazz.
Verso il 1935 ha inizio quella che è stata chiamata l’era dello swing, nella quale il jazz acquista maggiore libertà ed elasticità. I musicisti tendono a differenziarsi tra loro anziché a modellarsi sui loro predecessori, lo stile dei solisti diviene più complesso, si costituiscono orchestre di dimensioni maggiori. Nel 1938 il jazz fa il suo ingresso al Carnegie Hall di New York. Fra i nomi più notevoli di questo periodo sono quelli dei pianisti Count Basie, Fats Waller e Teddy Wilson, del clarinettista Benny Goodman, del trombettista Harry James, dei batteristi Gene Krupa e Chick Webb, del vibrafonista Lionel Hampton.
Una radicale trasformazione stilistica si ebbe negli anni a partire dal 1940 con la nascita del bebop, che modifica sostanzialmente la struttura del jazz, rinunciando alle regolari pulsazioni ritmiche costituenti la base su cui si sviluppano le improvvisazioni jazzistiche e dando così vita a una musica piacevole e brillante, essenzialmente melodica, assai lontana dai ritmi brevi e serrati e dalle squadrate armonie della grande swing band e dotata di un’indiscutibile attrattiva per i musicisti tendenzialmente solisti. Il raffinamento tecnico perseguito soprattutto dal sassofonista Charlie Parker e dal trombettista Dizzy Gillespie, affiancati da altri musicisti quali il trombettista Roy Eldridge, il trombonista Jay Jay Johnson, il pianista Bud Powell e il batterista Kenny Clarke, porta il bebop ad avvicinarsi alle forme della musica da camera. Sulla scia dei cultori del bebop è sorta una nuova schiera di raffinati musicisti, tra i quali vanno ricordati i trombettisti Miles Davis e Chet Baker e i sassofonisti Gerry Mulligan e Lee Konitz. Essi hanno dato vita a un tipo di jazz estremamente controllato nelle sonorità e nel ritmo, chiamato cool jazz, nel quale spunti e idee si riallacciano non solo alla diretta tradizione del jazz, ma anche al più ampio settore della musica classica, a cui questi musicisti diressero la loro attenzione, prendendone ispirazione.
Nel corso degli anni 1950 il quadro jazzistico internazionale era caratterizzato da una straordinaria pluralità di correnti e di stili, spesso antitetici tra loro. La spinta innovativa del bebop venne progressivamente esaurendosi dopo la scomparsa, avvenuta nel 1955, di Charlie Parker e di altri capiscuola, il declino del pianista Bud Powell e il trasferimento in Europa del batterista Kenny Clarke e di Oscar Pettiford. Tuttavia, le grandi conquiste tecniche dei boppers, elaborate fin dal 1941 nelle storiche jam sessions al Minton’s e alla Monroe’s Uptown House di New York, sarebbero state alla base di tutto il jazz successivo. Tali innovazioni erano costituite dall’adozione di armonie dissonanti, di intervalli di quinta diminuita, di frequenti salti d’ottava, di temi spigolosi, di un discorso solistico brusco e spezzettato, dall’eliminazione quasi totale del vibrato nei fiati e da una scansione ritmica che, pur non prescindendo dal canonico 4/4 in levare, appariva comunque più libera e variamente accentata. Inoltre, l’avvento del microsolco permetteva la registrazione di brani più lunghi, ben al di là dei tre minuti consentiti dal 78 giri.
Continuavano lo stile bebop, con risultati artistici elevati, primo fra tutti Dizzy Gillespie e quindi il trombettista Howard McGhee, i trombonisti Kai Winding, Earl Swope e Benny Green, i sassofonisti Cecil Payne, Dexter Gordon e Sonny Stitt, il clarinettista Buddy De Franco, i pianisti Herbie Nichols, Duke Jordan ed Elmo Hope, il chitarrista Barney Kessel, il contrabbassista Ray Brown, il batterista Max Roach, gli arrangiatori Tadd Dameron e Gil Fuller.
Molto attivi risultavano gli esponenti del cool jazz, che orientarono il bebop in una direzione estetizzante e cerebrale, sotto l’influsso della musica europea contemporanea (Debussy, Stravinskij e Ravel, in particolare); i coolsters adottarono sonorità diafane e ovattate, un fraseggio distaccato, ritmi rilassati. Caposcuola di questa corrente fu il pianista Lennie Tristano che, dopo aver inciso nel 1949 celebri brani per la Prestige e per la Capitol, realizzò per la Atlantic due incisioni in cui utilizzava la tecnica di sovrapporre più parti di piano da lui eseguite in fasi differenti.
Grande popolarità raggiungevano, nel frattempo, alcuni complessi ispirati al cool jazz: il quintetto del pianista inglese George Shearing, il trio del vibrafonista Red Norvo e soprattutto il quartetto del pianista Dave Brubeck e il Modern jazz quartet, formato dal pianista John Lewis, dal vibrafonista Milt Jackson, dal contrabbassista Percy Heath e dal batterista Kenny Clarke. Sia Brubeck sia Lewis avevano una solida preparazione accademica; in particolare Lewis, utilizzando elementi della musica barocca come fughe e contrappunto, creò un jazz ‘da camera’ e più tardi, con il compositore Gunther Schuller, fece esperimenti di jazz sinfonico, preceduto nel periodo 1944-47 dall’orchestra del sassofonista Boyd Raeburn, che si era giovato degli avanzati arrangiamenti di George Handy. Il principale responsabile dell’orientamento del jazz nella direzione cool fu, tuttavia, l’esponente più geniale della scuola swing di Kansas City: il sax tenore Lester Young, membro dell’orchestra di Count Basie tra il 1934 e il 1944. La sua sonorità esile e un po’ nasale, assolutamente priva di vibrato, e il suo fraseggio semplice e rilassato, agli antipodi dello stile poderoso e irruente di Coleman Hawkins, esercitarono un influsso indelebile su sax tenori come Brew Moore, Zoot Sims, Al Cohn e Stan Getz, nonché sul sax baritono Mulligan.
Il grosso pubblico, che non aveva aderito al jazz moderno a causa delle sue complessità armonico-melodiche, contribuì al rilancio del jazz tradizionale, che venne favorito anche dai concerti delle All stars di Louis Armstrong, comprendenti, tra gli altri, il trombonista Jack Teagarden, il clarinettista Barney Bigard e il pianista Earl Hines. Il movimento del New Orleans revival, sorto nel 1938 per opera del critico francese Hugues Panassié, che organizzò sedute di incisione per la Victor con i veterani di New Orleans, conobbe una rinnovata fortuna specie per l’attività del clarinettista George Lewis e influenzò i musicisti della scuola di San Francisco.
Anche i musicisti dello stile Dixieland-Chicago parteciparono attivamente al rilancio del jazz tradizionale: i trombettisti Muggsy Spanier e Wild Bill Davison, il trombonista Miff Mole, i clarinettisti Pee Wee Russell e Matty Matlock, i sassofonisti Bud Freeman, Eddie Miller ed Ernie Caceres, i pianisti Jess Stacy e Joe Sullivan, i chitarristi Eddie Condon e Carl Kress, i batteristi George Wettling e Gene Krupa e il violinista Joe Venuti. In Europa, l’arrivo delle truppe americane alla fine della Seconda guerra mondiale, i concerti di Armstrong e il trasferimento in Francia del clarinettista creolo Sidney Bechet, che acquisì una popolarità immensa prima nei circoli esistenzialisti e quindi presso un pubblico vastissimo, favorirono la formazione di complessi di jazz tradizionale di buon livello, come la Dutch swing college band, olandese, e l’italiana Roman New Orleans jazz band, fondata nel 1949 da un gruppo di musicisti operanti a Roma (Giovanni Borghi, Luciano Fineschi, Marcello Riccio, Ivan Vandor, Giorgio Zinzi, Bruno Perris, Pino Liberati e Peppino D’Intino).
Permaneva inoltre, più che mai vitale, la lezione dei grandi solisti della swing era, alcuni dei quali si accostarono in parte al bebop. Incisioni di alto livello furono realizzate dai trombettisti Rex Stewart e Henry Red Allen, dai trombonisti Lawrence Brown e Vic Dickenson, dai clarinettisti Edmond Hall e Buster Bailey, dai sassofonisti Johnny Hodges e Benny Carter, dal vibrafonista Lionel Hampton, dai violinisti Eddie South e Stuff Smith, dai bassisti Milt Hinton e George Duvivier, dai batteristi Cozy Cole e Sidney Catlett e dai pianisti Mary Lou Williams e Art Tatum. Tra i musicisti di mainstream bianco si segnalavano il trombettista Sonny Barman, i trombonisti Bill Harris ed Eddie Bert, i sassofonisti Vido Musso e Flip Phillips, i contrabbassisti Eddie Safranski e Chubby Jackson e il batterista Don Lamond.
Il canto nel jazz subì una trasformazione profonda per opera di Billie Holiday: dallo stile espressionistico e trasgressivo, influenzato in parte dalla cantante di blues Bessie Smith, la voce umana si trasformò in un vero e proprio strumento. Altri cantanti rappresentativi furono Jimmy Rushing, Mildred Bailey, Helen Humes, Billy Eckstine, Joe Williams, Anita O’Day - la più grande cantante bianca di jazz - e soprattutto Ella Fitzgerald, lanciata nel 1935 dal batterista Chick Webb. In seguito si imposero Carmen McRae, Dinah Washington, Sarah Vaughan, che esordì nel 1945 con Parker e Gillespie, June Christy, Mel Tormé, Helen Merrill e vari complessi vocali. Un posto a parte occupano Mahalia Jackson - la massima interprete della musica gospel - e Ray Charles, che fuse in uno stile personale, solo in parte influenzato da Armstrong, le tradizioni del blues e dello spiritual. Una piega sempre più commerciale prendevano invece Frank Sinatra e Nat King Cole.
Le grandi orchestre, dopo la crisi protrattasi tra il 1943 e il 1946, godettero di un periodo di prosperità. Duke Ellington, che aveva riscosso un trionfo al Festival di Newport del 1956, si cimentò nella composizione di impegnative suite come A drum is a woman (1956), Such sweet thunder (1957) e New Orleans suite (1970), che approfondivano il discorso iniziato nel 1943 con Black, brown and beige, il suo capolavoro. Count Basie, pur distaccandosi in parte dalla tipica maniera di Kansas City, che aveva caratterizzato la sua orchestra negli anni 1930 e 1940, continuò ad adottare partiture non complesse e a fare ricorso ai caratteristici riffs, brevi frasi fortemente ritmate reiterate ostinatamente, adattissime per ‘lanciare’ i solisti; perno della sezione ritmica, di proverbiale fluidità, rimaneva il chitarrista Freddie Green.
Fra le orchestre bianche, dopo la morte di Glenn Miller, avvenuta in Europa durante la Seconda guerra mondiale, e la riduzione dell’attività da parte di Benny Goodman, Tommy Dorsey, Artie Shaw e Charlie Barnet, il ruolo di maggiore spicco fu rivestito dalle formazioni del clarinettista Woody Herman e del pianista Stan Kenton, il quale, dopo un periodo di esperimenti di jazz sinfonico (il cosiddetto progressive jazz o third stream), tornò a una maniera più autenticamente jazzistica fin dal 1952.
Proprio dall’orchestra di Kenton dovevano uscire i musicisti che diedero vita al West coast jazz, il cui manifesto è rappresentato dal disco Modern sounds, inciso il 10 agosto 1951 dai Giants del trombettista-arrangiatore Shorty Rogers, un ottetto che si riallacciava direttamente al complesso di Miles Davis e Gil Evans che due anni prima aveva realizzato Birth of the cool. Lo stile dei californiani, brioso e piacevole, era il risultato della sapiente fusione di elementi disparati; si trattava, in sostanza, di un bebop riletto attraverso la rigorosa lezione dei coolsters, ma reso meno intellettualistico grazie al recupero di stilemi dello swing di Kansas City: in questo senso l’influsso di Lester Young risultava determinante. Il successo fu immediato: vennero fondate due case discografiche - la Pacific Jazz e la Contemporary - che incisero una quantità di dischi che servirono ad accostare il pubblico al jazz moderno.
Centro propulsore della nuova musica fu il Lighthouse di Hermosa Beach, presso Los Angeles, un locale diretto dal contrabbassista Howard Rumsey, leader delle Lighthouse all stars. Gli altri complessi che concorsero al trionfo del jazz californiano in tutto il mondo furono il quartetto del sassofonista Art Pepper, il quintetto dei sassofonisti Bob Cooper e Bud Shank, i Men del batterista Shelly Manne, l’ottetto del clarinettista Dave Pell e il quintetto dei sassofonisti Jack Montrose e Bob Gordon. In contrasto con le sofisticate atmosfere del West coast jazz, che fu essenzialmente un jazz ‘bianco’, dalla metà degli anni 1950 si sviluppò sulla East coast, a opera di musicisti prevalentemente neri, uno stile che si richiamava direttamente a quello dei boppers e che venne denominato hard bop. Si trattava di un bop armonicamente semplificato, più aggressivo, dal ritmo martellante, lontanissimo dalle preziosità timbriche dei californiani, che prediligeva, per contro, sonorità grevi (donde il nome di funky jazz, dato a una corrente dello hard bop) ed era fondato soprattutto sul blues. La nuova scuola si affermò rapidamente anche grazie all’attività di due case discografiche: la Riverside e la Blue Note. I complessi più rappresentativi dello hard bop furono il quintetto diretto dal trombettista Clifford Brown e dal batterista Max Roach, i Jazz messengers del batterista Art Blakey, il quintetto del pianista Horace Silver che, utilizzando parzialmente elementi della musica gospel, dette vita a uno stile definito soul jazz, il Jazztet del trombettista Art Farmer e del sassofonista Benny Golson e il sestetto del sassofonista Cannonball Adderley. L’orchestra migliore fu quella di Quincy Jones del 1959-61. Nell’area post-bop si muovevano altri musicisti di altissimo livello artistico, che non possono essere catalogati come hardboppers e che sfuggono a una caratterizzazione stilistica precisa: tra questi spicca soprattutto il trombettista Miles Davis che, dopo essere passato attraverso le esperienze del bebop e del cool jazz, costituì nel 1956 un formidabile quintetto, divenuto sestetto nel 1958, nel quale si alternarono i più avanzati musicisti del momento: il sassofonista John Coltrane, i pianisti Red Garland, Bill Evans e Wynton Kelly, il contrabbassista Paul Chambers e i batteristi Philly Joe Jones e Jimmy Cobb. La sonorità esile, quasi ipnotica, della tromba di Davis, agli antipodi di quella aggressiva di Clifford Brown o di quella pirotecnica di Gillespie, contrastava efficacemente con lo stile irruento di Coltrane che, parzialmente influenzato dai sassofonisti di scuola texana, prediligeva lunghe frasi eseguite con tale rapidità da fondersi completamente tra loro (le cosiddette sheets of sound, «pareti di suono»). Davis registrò dischi memorabili per la Prestige e, nel 1959, per la Columbia Kind of blue, che segnò una tappa fondamentale nell’evoluzione del jazz, in quanto vi figuravano i primi esempi di improvvisazione modale, basata cioè non più sugli accordi di un brano, ma sui diversi tipi di scale o modi.
La diffusione del jazz moderno, favorita dalla circolazione dei dischi e dai concerti di jazzisti americani, provocò l’affermazione delle nuove correnti in Europa, che nell’anteguerra aveva visto un solo complesso di livello internazionale: il Quintette du Hot Club de France, diretto da Django Reinhardt, uno zingaro belga eccezionale chitarrista, con il quale collaborò il violinista francese Stéphane Grappelli. Le incisioni di Reinhardt sono le più alte realizzazioni del jazz europeo, totalmente originali, in quanto indipendenti dal modello americano.
Anche in Italia il jazz moderno cominciò ad attecchire grazie al trio del pianista Armando Trovajoli e agli arrangiatori Roberto Nicolosi e Piero Piccioni, già leader nel 1943-46 dell’orchestra 013, i quali ebbero un importante ruolo pionieristico. Tra i musicisti di alto livello espressi dal jazz italiano vanno ricordati innanzitutto il trombettista Oscar Valdambrini e il sax tenore Gianni Basso, quindi i trombettisti Nunzio Rotondo, Sergio Fanni, Cicci Santucci e Paolo Fresu, i trombonisti Dino Piana e Marcello Rosa, il flautista Nicola Stilo, i sassofonisti Eraldo Volonté, Glauco Masetti e Gino Marinacci, i pianisti Renato Sellani, Umberto Cesari e Amedeo Tommasi, i chitarristi Franco Cerri, Carlo Pes e Lanfranco Malaguti, i contrabbassisti Giorgio Azzolini, Berto Pisano e Giovanni Tommaso, i batteristi Gil Cuppini, Gegè Munari e Franco Mondini e l’italo-argentino Pichi Mazzei e infine il compositore e direttore d’orchestra Piero Umiliani.
Nei primissimi anni 1960 l’hard bop entrò in crisi e si cominciarono a elaborare forme più avanzate di jazz. Uno dei precursori più geniali del jazz d’avanguardia fu il contrabbassista e compositore Charles Mingus, il quale con le sue polifonie espressionistiche, tendenti alla cacofonia, rivoluzionò il linguaggio orchestrale. John Coltrane, lasciato Davis, costituì nel 1960 un quartetto formato dal pianista McCoy Tyner, dal contrabbassista Jimmy Garrison e dal batterista Elvin Jones, destinato a diventare il più importante complesso jazz per un lungo periodo. La musica modale di Coltrane, a un tempo lirica e orgiastica, ricca di echi africani, dalle sequenze di accordi ripetute ossessivamente e dai ritmi asimmetrici, esercitò un fascino straordinario sui giovani musicisti, che presero a imitare l’inconfondibile voce dei suoi strumenti: il sax tenore e il soprano. Tra il 1960 e il 1964 Coltrane incise i suoi massimi capolavori: Giant steps, My favorite things, At the village vanguard, Impressions, At Birdland e A love supreme, una suite in quattro movimenti nella quale la tendenza mistica dell’arte coltraniana trova la sua più compiuta espressione.
Con Mingus e Coltrane collaborò Eric Dolphy che, affermatosi nel quintetto del batterista Chico Hamilton, esponente del jazz californiano nero, si impegnò in una severa opera di ricerca e di sperimentazione su vari strumenti (il sax contralto, il clarinetto basso e il flauto), palesandosi come il più originale innovatore del linguaggio di Parker. Il musicista che più di ogni altro orientava il jazz nella direzione di una più ampia libertà dalle concezioni armoniche e ritmiche tradizionali era tuttavia il sax alto, e in seguito anche trombettista e violinista, Ornette Coleman il quale, prima con un quartetto senza pianoforte in cui militarono il trombettista Don Cherry, il contrabbassista Charlie Haden e i batteristi Eddie Blackwell o Billy Higgins, e quindi con un trio formato dal contrabbassista David Izenzon e dal batterista Charles Moffett, propose un jazz libero, tendente all’atonalità, con strutture strofiche asimmetriche, ricco di pathos per il sound angoscioso del suo singolare sassofono di plastica. Il manifesto della sua arte è rappresentato dal disco Free jazz (1960), un’improvvisazione collettiva, dal flusso sonoro sconvolgente, lontanissima da tutto il jazz precedente, realizzata da un doppio quartetto del quale faceva parte anche Dolphy.
Era nato il free jazz, chiamato anche new thing; esso si impose rapidamente tra i giovani musicisti, specie quelli di colore, i quali lo caricarono di valenze politiche e, ispirati dallo scrittore LeRoy Jones, se ne servirono per protestare contro la segregazione razziale e contro la guerra del Vietnam, in un’operazione di fiancheggiamento artistico-culturale al movimento del Black Power. Il musicista più impegnato sul versante del free jazz politico (detto anche great black music) fu senza dubbio il sax tenore Archie Shepp, discepolo di Coltrane e autore, dapprima con i New York contemporary five e quindi con un sestetto, di brani come The funeral (1963), Rufus (1964), Malcom, Malcom, semper Malcom (1965), dedicato a Malcom X, e del lavoro teatrale The communist (1965).
Le principali caratteristiche del free jazz erano il ritorno alla polifonia e all’improvvisazione collettiva, come nel New Orleans arcaico; l’improvvisazione libera, non più fondata sulle armonie di un tema; l’abbandono dello swing, cioè del caratteristico 4/4 in levare; il rifiuto delle tecniche strumentali accademiche e uso dello slap nel suonare il contrabbasso, le cui corde venivano schiaffeggiate (donde il nome), e del growl per i fiati; la tendenza alla cacofonia e l’interesse per i rumori parassiti, in una sorta di jazz ‘concreto’.
I musicisti più rappresentativi del free jazz, al quale si interessarono varie case discografiche (la Fontana, la Impulse e soprattutto l’artigianale ESP), furono il trombettista Bill Dixon, che nel 1964 organizzò una serie di concerti sotto il provocatorio nome di October revolution in jazz, il trombonista bianco Roswell Rudd, direttore del New York art quartet, il sax tenore Albert Ayler, autore di pantomime rabbiosamente beffarde nelle quali marcette e fanfare venivano deformate e stravolte (per esempio Ghosts), ma anche di brani di un lirismo violento come Spirits, Angels e Love cry, incisi tra il 1964 e il 1967, e il pianista Cecil Taylor, dallo stile magmatico e fortemente percussivo. Un ruolo a sé occupa il pianista compositore Sun Ra (Herman Blount), creatore di un free jazz ‘astrale’, nel quale hanno gran parte danze rituali, effetti ottici e un cerimoniale bizzarro. Con Sun Ra collaborarono strumentisti di grande valore come i sassofonisti Marshall Allen, Pat Patrick e John Gilmore.
All’interno del free jazz operava un gruppo di musicisti bianchi che si ricollegavano agli esperimenti di musica libera e atonale di Tristano, il quale fin dal 1949 aveva realizzato brani avanzatissimi come Intuition e Digression e nel 1953 aveva inciso Descent into the Maelström, che anticipava il pianismo magmatico di Taylor. Esponenti di tale indirizzo furono il trombettista Don Ellis e il pianista canadese Paul Bley, che collaborò anche con Konitz in registrazioni di tipico free bianco, di estrema raffinatezza armonica e timbrica. Gli artisti del free jazz costituirono un’associazione sindacale per sostenere la loro musica, osteggiata da gestori di locali, organizzatori di concerti e direttori delle grandi case discografiche, in quanto totalmente priva di aspetti commerciali: la Jazz composer’s guild, da cui sorse la Jazz composer’s orchestra, diretta dalla pianista Carla Bley e dal trombettista austriaco Mike Mantler.
In Europa, dove molti musicisti americani di free jazz si trasferirono, numerosi jazzisti si convertivano al nuovo linguaggio; fra loro il sax baritono inglese John Surman, che può essere considerato il miglior esponente del jazz contemporaneo europeo, il pianista tedesco Alexander von Schlippenbach, direttore della Globe unity orchestra, e gli italiani Giorgio Gaslini (pianista e compositore), Mario Schiano (sax), Giorgio Buratti (contrabbasso) ed Enrico Rava (tromba).
Al free jazz si accostò negli ultimi anni della sua vita anche John Coltrane che, sciolto il vecchio quartetto, iniziò a collaborare con i musicisti della new thing, con i quali realizzò vari dischi, meno convincenti, tuttavia, dei precedenti. Lontano dal free si tenne invece Miles Davis, che approfondì il discorso dell’improvvisazione modale con un nuovo quintetto, del quale facevano parte il sassofonista George Coleman, il pianista Herbie Hancock, il contrabbassista Ron Carter e il batterista Tony Williams. Il complesso suonò una musica di altissimo livello, estetizzante e intessuta di preziosità timbriche, e incise dischi memorabili: My funny Valentine (1964) innanzitutto e poi, tra il 1965 e il 1968, ESP, Miles smiles, Nefertiti e Filles de Kilimanjaro, con il quale Davis incominciò ad avvicinarsi ai ritmi e alle atmosfere del rock. La svolta decisiva in tale direzione avvenne con l’album Bitches brew (1969), nel quale venivano impiegati strumenti elettrici e il suono della sua tromba, un tempo di cristallina purezza, era volutamente alterato dal pedale wah-wah. La musica distorta e violentemente percussiva di Bitches brew affascinò il pubblico giovanile di tutto il mondo e spinse Davis in un’irreversibile direzione commerciale, che ne segnò la fine artistica.
Seguendo l’esempio di Davis, molti musicisti si convertirono al jazz rock, detto anche fusion, e formarono complessi di successo: il Weather report di Wayne Shorter e del pianista austriaco Joe Zawinul, il Return to forever del pianista Chick Corea, gli Headhunters di Herbie Hancock, la Mahavishnu orchestra del chitarrista inglese John McLaughlin, il Lifetime di Tony Williams e gli Steps ahead del sassofonista Michael Brecker. Il jazz rock, con il massiccio uso degli strumenti elettrici e dei ritmi binari e la ricerca di effetti e di sonorità tali da catturare il pubblico giovanile, si allontanò subito dal jazz autentico, divenendo una musica a volte di buona qualità, visto il livello degli strumentisti che la suonavano, un tempo in gran parte jazzisti di vaglia, ma irrimediabilmente commerciale.
Ben più valido il jazz prezioso e calligrafico proposto dal vibrafonista Gary Burton e dal pianista Keith Jarrett, influenzato dalla musica ‘dotta’ europea, ma soprattutto dal raffinato pianismo di Bill Evans e dalle sue incisioni con il grande contrabbassista Scott La Faro.
A continuare e approfondire gli esperimenti del free jazz erano i musicisti dell’Association for the advancement of creative musicians, fondata a Chicago nel 1965 dal pianista Muhal Richard Abrams. I principali complessi della scuola di Chicago furono l’Art ensemble of Chicago, formato dal trombettista Lester Bowie, dai sassofonisti Roscoe Mitchell e Joseph Jarman e dal contrabbassista Malachi Favors, gli Air del sassofonista Henry Threadgill e il Revolutionary ensemble del violinista Leroy Jenkins. Il massimo artista di questa corrente musicale fu il sassofonista Anthony Braxton, le cui composizioni geometrico-matematiche costituiscono la punta più avanzata dell’avanguardia jazzistica.
Anche a New York il free jazz permaneva vitale, specie a opera di un gruppo di musicisti, guidati dal sassofonista Sam Rivers, che cominciarono a riunirsi nei loft dei quartieri di Soho e di Lower East Side a sud del Greenwich Village e che nel 1976 organizzarono una serie di concerti pubblicati sotto il titolo Wildflowers. The New York loft jazz sessions. Musicisti tipici del loft jazz che, pur partendo dal free jazz, tendeva al recupero di elementi della tradizione come il blues e lo stesso swing, erano i sassofonisti Julius Hemphill, Oliver Lake, Hamiett Bluiett e David Murray, fondatori del World saxophone quartet, un quartetto di soli sassofoni; inoltre il flautista James Newton, il pianista Anthony Davis, il violoncellista Abdul Wadud e i batteristi Barry Altschul e Charles Bobo Shaw.
In reazione alle obiettive complessità del free jazz e al commerciale e deludente jazz rock, si è avuto dalla metà degli anni 1960 un rilancio del jazz nelle sue forme più tradizionali: il nuovo Dixieland della World’s greatest jazz band, diretta dal trombettista Yank Lawson e dal contrabbassista Bob Haggart, e del Soprano summit, fondato da Bob Wilber e Kenny Davern, e il mainstream o middle jazz dei trombettisti Harry Edison e Joe Newman e del sassofonista Eddie Lockjaw Davis, ai quali si affiancavano giovani talenti come il sassofonista Scott Hamilton e il pianista Monty Alexander. Tornavano di moda le grandi orchestre grazie alle formazioni di Thad Jones (tromba) e Mel Lewis (batteria), di Kenny Clarke e del pianista francese Francy Boland, di Buddy Rich (batteria), di Louis Bellson (batteria) e ai Supersax del sassofonista Med Flory.
Nuovi cantanti s’imponevano sulla ribalta internazionale: Abbey Lincoln, Al Jarreau, Dee Dee Bridgewater, Bobby McFerrin, Diane Schuur e il gruppo vocale dei Manhattan transfer. Il canto gospel era rivitalizzato da Aretha Franklin, l’erede di Mahalia Jackson. Tuttavia, erano proprio l’hard bop e il West coast gli stili che più sapevano rinnovarsi grazie all’assimilazione di elementi del jazz successivo (la modalità, il linguaggio di Coltrane, Bill Evans e McCoy Tyner, i tempi dispari che affiancavano il canonico 4/4 ecc.). Così proseguivano nella loro attività i Jazz messengers di Blakey e gli altri hardboppers della vecchia generazione, mentre si affermavano nuovi strumentisti.
Tra i talenti impostisi soprattutto negli anni 1970 e 1980 si segnalano i trombettisti Kenny Wheeler, Woody Shaw e Wynton Marsalis, i sassofonisti Joe Henderson, Billy Harper, Bobby Watson e Brandford Marsalis, i pianisti Ronnie Mathews e Mulgrew Miller, i contrabbassisti Chuck Israels, Steve Swallow ed Eddie Gomez, il vibrafonista Bobby Hutcherson, i chitarristi Pat Martino e John Abercrombie e i batteristi Paul Motian e Billy Hart.
Un ruolo decisivo alla riaffermazione della linea ha rivestito il sax alto Phil Woods, mirabile esecutore soprattutto di ballads, specie dopo il suo ritorno negli Stati Uniti (1972). Anche gli esponenti del jazz californiano riprendevano a pieno ritmo l’attività favoriti dal rilancio della Contemporary e dalla nascita della Concord e della Fresh Sounds, casa discografica spagnola molto interessata al West coast.
Il musicista più notevole di questa seconda ondata del jazz californiano è stato il sax alto Art Pepper, il quale, dopo le incisioni degli anni 1950 e 1960, venne progressivamente rinnovando il suo stile in chiave espressionistica, divenendo autore di capolavori quali But beautiful e You go to my head (1977), Close to you alone (1980) ed Everything happens to me (1981).
Il jazz degli ultimi vent’anni del 20° secolo è stato caratterizzato dalla mancanza di una linea di tendenza fondamentale e dal prevalere di una pluralità di situazioni e di orientamenti. Tra le caratteristiche principali di questo periodo, oltre al venir meno della profonda distanza che storicamente ha separato il jazz statunitense da quello europeo, occorre segnalare l’elevata preparazione, non solo tecnica, dei suoi musicisti, spesso formatisi in jazz schools e in corsi dedicati all’interno di università e conservatori. L’accettazione del jazz in tutta la sua ampiezza da parte del sistema culturale ha portato al riconoscimento ufficiale della sua importanza per il Novecento, e d’altra parte l’istituzionalizzazione della didattica è stata alla base della formazione di una eterogenea corrente di artisti, che si ispira a una matrice stilisticamente ‘classica’ di questo genere musicale. Sotto il profilo della contaminazione e dell’avanguardia, territorio caratterizzato da differenze profonde sia per le specificità stilistiche dei diversi protagonisti sia per la varietà degli ambiti di ricerca perseguiti (spesso connessi con gli universi sonori dell’elettronica, campo particolarmente sviluppato dal jazz nordeuropeo), una delle espressioni più importanti emerse a cavallo degli anni 1980 e 1990 è stato il collettivo M-Base (Macro-Basic array of structured extemporization), guidato dal sassofonista Steve Coleman, che ha elaborato un’articolata integrazione tra il rap e la musica jazz. Di diversa impostazione, instancabile sotto il profilo della ricerca, è John Zorn, sassofonista nei cui progetti confluiscono attitudini free, derive rock e musica klezmer (stile popolare sviluppatosi in Europa centro-orientale all’interno delle comunità ebraiche, principalmente chassidiche, in cui si incontrano ritmi e melodie di diverse culture musicali dell’area). Le intersezioni tra jazz e tradizione classica hanno invece segnato gran parte dei progetti del pianista Uri Caine, con rielaborazioni che vanno da Bach a Mozart, da Schumann a Mahler. Senza necessarie caratteristiche comuni, ma con la condivisa impostazione di muoversi oltre i confini classici del jazz o all’interno della tradizione free, sono: i sassofonisti Ornette Colemann, Archie Sheep e Roscoe Mitchell, i pianisti Cecil Taylor e Carla Bley, il sassofonista e flautista Henry Threadgill, la tromba Dave Douglas, il clarinettista Don Byron, i clarinettisti e sassofonisti Michel Portal e David Murray, il contrabbassista Charlie Haden, i batteristi Han Bennink e Ikue Mori, i chitarristi John McLaughlin, Bill Frisell e Marc Ribot.
Quasi un’anomalia, per quanto riguarda l’ibridazione dei diversi linguaggi musicali, è invece quella delineatasi attraverso la trasposizione della grammatica jazz all’interno della popular music. Così deve considerarsi l’emergere di star della musica pop come Norah Jones e di una generazione di nuovi crooner, tra i quali spicca Michael Bublé, che hanno divulgato un’idea di jazz che utilizza congelati stilemi jazzistici all’interno della forma canzone e che non assegna un ruolo determinante all’improvvisazione. Suscettibile di diverse considerazioni è invece la commistione tra jazz e sonorità new age perseguita a fasi alterne dal chitarrista statunitense Pat Metheny. Per quanto riguarda l’unione tra jazz e rock, la cosiddetta fusion, la cui data di nascita si fa coincidere con la pubblicazione nel 1969 di Bitches brew di Miles Davis, ha smarrito fortuna commerciale e propositività estetica, anche per via della scomparsa nei linguaggi del rock dell’impiego di virtuosi tecnicismi in favore della ricerca sulla materia sonora. Di maggiore interesse si è rivelato lo scambio avvenuto tra alcune nuove forme del rock e territori musicali jazz e free jazz, come nel caso del progetto Original silence che ha visto dialogare, nel 2003, i jazzisti Bennink, Gustafsson e Paal Nilssen-Love con musicisti di estrazione rock. Continua poi il dialogo tra jazz e tradizioni musicali non occidentali, con contaminazioni che spaziano dall’Est Europa all’Asia, dall’Africa alle culture musicali sudamericane, alcune delle quali – in modo particolare la bossa nova – vengono spesso affiancate al jazz durante le rassegne musicali, in considerazione di comuni radici afroamericane. A stretto contatto con la colta dimensione del tango di Astor Piazzolla opera il fisarmonicista francese Richard Galliano il quale, oltre ad aver unito i due linguaggi in un proprio stile espressivo, divide la sua produzione musicale tra progetti jazz e tributi alle musiche del compositore argentino.
In Italia il jazz ha goduto di una rinnovata vitalità grazie all’attività dei suoi protagonisti storici, alla maturazione di una nuova generazione di musicisti, alla vivacità della discografia indipendente, a una crescente, anche se episodica, attenzione dei media e delle istituzioni (come, nel 2005, la nascita della Casa del jazz a Roma) e alle diverse iniziative organizzate a livello nazionale. Vi si svolgono numerosi festival, tra i quali spiccano per importanza l’Umbria Jazz (storica rassegna che si svolge a Perugia durante i mesi estivi), con l’edizione invernale Umbria Jazz Winter; il Clusone Jazz Festival; il Roccella Jazz Festival della città calabra di Roccella Jonica; in Sardegna, il festival Time in Jazz di Berchidda (curato artisticamente da Paolo Fresu); il Torino International Jazz Festival; il Bergamo Jazz (nel 2006 sotto la direzione artistica di Uri Caine); il Roma Jazz Festival, il Villa Celimontana Jazz Festival e il festival Controindicazioni di Roma. Manifestazioni che, sempre più spesso, articolano le proprie programmazioni concertistiche al di fuori di un’area musicale propriamente jazz. L’attenuazione, in alcuni casi, delle attenzioni verso le forme più puristiche del jazz è un fenomeno non soltanto italiano, che coinvolge anche gli aspetti compositivi, con la rivisitazione in chiave jazz di brani appartenenti a una dimensione popular, la strutturazione in forma di canzone di composizioni jazz e la declinazione jazzistica di pop songs. Proprio la riscoperta e la rivisitazione del patrimonio melodico italiano, dalle arie d’opera alla canzone italiana, costituisce uno dei tratti caratterizzanti il linguaggio jazzistico italiano. Sintomatici in questo senso sono la fortuna e i riconoscimenti ottenuti dal trio, formatosi nel 1997, dei Doctor 3 (Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria) nel cui repertorio compaiono numerose riletture jazz di brani che spaziano dai Beatles a Fabrizio De André.
Il jazz italiano vede sempre protagonista la tromba di Enrico Rava, tra i jazzisti italiani storicamente più noti all’estero, a cui è stato assegnato nel 2004 dalla Académie du jazz il premio Musicien européen récompensé pour son oeuvre in occasione dell’uscita dell’album Easy living pubblicato dall’etichetta tedesca ECM, a ulteriore conferma della crescente attenzione che il panorama jazzistico internazionale sta riservando al jazz italiano. Sempre alla tromba si distingue Paolo Fresu, tra le figure di maggiore spicco della generazione nata negli anni 1960; mentre ai sassofoni, strumento con il quale ha eccelso Massimo Urbani, si segnalano Mario Schiano, Gianluigi Trovesi, Maurizio Giammarco, Javier Girotto, Stefano Di Battista, Rosario Giuliani e Francesco Cafiso. Numerosa la schiera di pianisti, tra i quali Giorgio Gaslini, Franco D’Andrea, Enrico Pieranunzi, Rita Marcotulli, Stefano Bollani e Antonello Salis; si ricordano ancora i batteristi Aldo Romano e Roberto Gatto, i contrabbassisti Giovanni Tommaso, Paolo Damiani e Furio Di Castri, il trombonista Giancarlo Schiaffini, le cantanti Tiziana Ghiglioni, Ada Montellanico e Maria Pia De Vito, il gruppo Nexus e la Italian instabile orchestra, formazioni nate a cavallo tra gli anni 1980 e 1990.
riferimenti bibliografici
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