Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Jean-Baptiste Lully è nella musica francese ciò che il Re Sole è in politica: l’arbitro e il signore assoluto. Artisticamente dotato, scaltro uomo di corte e fedele interprete del disegno di autocelebrazione voluto dalla monarchia, Lully dota la Francia di una tradizione operistica nazionale che per più di un secolo sarà l’unica alternativa all’invadenza dell’opera italiana.
Introduzione
Se politicamente parlando il Seicento francese può essere definito, con una felicissima espressione di Voltaire, il secolo di Luigi XIV, non è un azzardo affermare che anche dal punto di vista musicale esso è un secolo caratterizzato dall’affermazione e dalla sovranità (non solo in senso figurato) di un solo uomo, Jean-Baptiste Lully (1632-1687).
Lully è sì il signore della musica francese solo per un quindicennio (dall’ottenimento del privilegio per la fondazione dell’Académie Royale de Musique alla morte), ma lo è in modo assoluto e incontrastato.
Dalla sua posizione di totale egemonia, Lully esercita una duplice dittatura che si concretizza, in vita, nell’uso spregiudicato del potere accordatogli da Luigi XIV; in morte, nell’imposizione ai musicisti delle nuove generazioni di canoni stilistici. Fino a buona metà del XVIII secolo, infatti, la musica di Lully avrà in Francia un valore paradigmatico il cui analogo difficilmente sarebbe rintracciabile nell’Italia coeva.
Il lascito artistico di Lully non è solo il prodotto di una personalità artistica forte e originale, il frutto di un momento straordinario e per certi aspetti irripetibile della storia culturale francese, ma anche e soprattutto il risultato di un esercizio assoluto del potere, tollerato e per certi aspetti incentivato dalla monarchia stessa.
La biografia di Lully, caratterizzata da una frenetica escalation alle cariche musicali più importanti alla corte di Francia, lascia intravvedere alla base di molti successi una miscela abilmente dosata di sincere qualità umane e artistiche, di spregiudicato opportunismo, di scaltra cortigianeria e di coscienza del proprio valore, messo al servizio del programma celebrativo del potere.
La produzione musicale di Lully è uno dei più efficaci strumenti di propaganda della nuova età dell’oro inaugurata dalla politica di autarchia culturale voluta dal Re Sole e pianificata nella sua attuazione da Colbert.
Lully creatore dell’opera francese
A dispetto della sua origine italiana (è nato a Firenze), Lully fonda una tradizione operistica autenticamente francese, universalmente riconosciuta come tale, capace di porsi come “altra” rispetto a quella italiana allora dominante e ritenuta anche oltre i confini nazionali degna di far scuola.
Creare ex novo un’opera nazionale poneva problemi di soluzione tutt’altro che ovvia, non ultimo dei quali era il fatto che il modello originale, quello italiano, non appariva idoneo per una costituenda opera francese, e per più ragioni.
Dal punto di vista ideologico-politico, dato il regime di autonomia culturale che la Francia si era imposto, si rendeva necessaria la costituzione di uno stile nazionale, e non era certamente ammissibile che l’opera francese scimmiottasse le produzioni d’oltralpe. Dal punto di vista estetico, il modello italiano era troppo distante dai canoni drammaturgici in voga nella Francia del tempo, e il fallimento dei ripetuti tentativi fatti da Mazzarino per impiantare in suolo francese l’opera italiana aveva rivelato nel pubblico di corte una certa refrattarietà verso quel genere di spettacolo.
Dal punto di vista propagandistico, il modello italiano, con la sua preferenza per libretti derivati da soggetti storici, zeppi di complicati intrecci amorosi, e nei quali non di rado trovavano spazio anche personaggi di basso lignaggio (servi cialtroni, vecchie nutrici dalla morale assai pratica), non offriva il terreno migliore per far crescere uno spettacolo che fosse anche magnifica celebrazione del potere e della gloria del sovrano.
Stretta era poi la “nicchia teatrale” rimasta libera: a differenza dell’Italia, la Francia possedeva una tradizione teatrale colta radicata da lungo tempo e di successo (le cui punte di diamante erano la tragedia, la commedia e il balletto), con la quale fare i conti.
Per la messa a punto di un’opera nazionale francese, Lully mette a frutto la lunga esperienza accumulata come compositore di ballets de cour, e, negli anni della collaborazione con Molière, di comédies ballets.
Per raggiungere lo scopo, Lully compie un’operazione di riassemblaggio e rifunzionalizzazione dei generi più fortunati della tradizione teatrale e musicale autoctona. Ne nasce un costrutto, la tragédie lyrique, in cui dell’opera italiana rimangono pochi elementi essenziali.
Lully riesce così a garantirsi il consenso di un pubblico che ritrova nella nuova opera nazionale a un tempo il già noto e il nuovo. La tragédie lyrique si inserisce tra i generi preesistenti non già in opposizione a essi, ma come commistione e reinterpretazione dei loro caratteri fondamentali.
Dalla tragedia di Jean Racine Lully, in accordo con Quinault, con il quale intrattiene un rapporto di pressoché esclusiva collaborazione, mutua non solo la preferenza per i soggetti di provenienza mitologica, ma anche l’estetica di fondo, che individua nel momento puramente declamatorio il canale privilegiato attraverso il quale i personaggi possono esprimere la loro affettività, dalla quale deriva il tacito precetto, poco “italiano”, che impone la completa intelligibilità del testo poetico, a scapito di uno stile canoro fiorito e belcantistico.
La leggenda vuole che per mettere a punto un recitativo idoneo al verso francese Lully abbia a lungo studiato la recitazione di Marie Desmares de Champmeslé, celebre attrice della Comédie Française e grande interprete raciniana. Fondato o meno che sia, l’episodio testimonia in modo significativo come i contemporanei sentissero vicine, sul piano della recitazione, tragedia e tragédie lyrique.
Dal ballet de cour Lully deriva, per la nuova opera francese, il gusto per lo splendore coreografico e scenografico, per la magnificenza solenne. Il divertissement che caratterizza ogni atto di tragédie lyrique ha in esso le sue radici.
Dalla gloriosa tradizione vocale profana francese Lully recupera stilisticamente, ampliando l’estensione della tavolozza degli affetti ad esso propria e drammatizzandolo, il vecchio air de cour, mentre dalla tradizione strumentale riprende l’ouverture che egli stesso, nei ballets de cour di sua composizione, aveva fissato nelle forme che rimarranno in voga fino a Rameau.
Consolidamento della nuova tradizione operistica e dittatura artistica di Lully
Per il consolidamento della tragédie lyrique, Lully impiega tutte le risorse che gli offrono le sue doti artistiche e personali, e utilizza tutti i mezzi che le sue cariche e i suoi privilegi gli mettono a disposizione.
La riuscita delle nuove produzioni è garantita dal perfezionismo maniacale con cui Lully si applica a garantire spettacoli di altissima qualità. Ogni nuova produzione è studiata nei minimi particolari. Oltre alla composizione musicale, ogni aspetto della messa in scena dipende da Lully stesso: dalla revisione del libretto, che viene più volte rinviato a Quinault per continue correzioni, alla preparazione dei cantanti, dalla supervisione delle coreografie, dei costumi e delle scenografie, alla conduzione delle prove e alla direzione dell’orchestra.
Ma Lully ottiene il dominio incontrastato in campo operistico soprattutto ostacolando le iniziative di chiunque possa anche solo lontanamente entrare in concorrenza con lui o con il suo teatro. La “lettera patente” con la quale a Lully è accordato il privilegio per l’istituzione di un’Académie Royale de Musique vieta a chiunque (a pena di una salatissima ammenda e della confisca di teatro, macchine, scene e costumi) la rappresentazione in proprio di spettacoli cantati da cima a fondo, mentre un’ordinanza successiva limita in modo assai restrittivo l’impiego di cantanti e strumentisti (rispettivamente due e sei) su palcoscenici diversi da quello dell’Opéra.
Nei quindici anni in cui Lully ha la gestione dell’Académie Royale de Musique, a nessun altro musicista sarà mai consentito di rappresentarvi una composizione propria. Chi voglia cimentarsi con l’opera potrà farlo ovunque (a corte, nei teatri di istituzioni religiose, come accadde a Marc-Antoine Charpentier nel collegio gesuita Louis Le Grand di Parigi), ma non nell’unico teatro deputato alle rappresentazioni operistiche esistente sull’intero territorio nazionale.
Tale strapotere porterà con sé due conseguenze di capitale importanza per la successiva storia della musica francese: la sedimentazione nel repertorio dell’Opéra dell’intero corpus delle tragédies lyriques di Lully, riprese anno dopo anno per far fronte alle esigenze di programmazione, e, cosa che ebbe ripercussioni pratiche ed estetiche per quasi un secolo, la fissazione di una concezione drammatico-musicale frutto non già dell’elaborazione collettiva di un gruppo di musicisti (come accadeva in Italia), ma della caparbia esperienza artistica di un singolo.
Quando nel 1687 alla morte di Lully seguirà una “liberalizzazione” dell’attività di compositore drammatico, lo stile a cui tutti indistintamente, e forse anche istintivamente, si uniformeranno sarà quello stabilitosi negli anni della dittatura lulliana.
Lully e la musica sacra
Lully, diviso tra gli impegni di compositore d’opere e di direttore dell’Académie Royale de Musique, e di compositore di balletti a corte, sulla cui vita musicale continua a esercitare un assiduo controllo (Charpentier, l’unico musicista che potrebbe realmente insidiare la sua primazia, non vi ricoprirà mai un incarico ufficiale), lascia campo pressoché libero nella musica sacra ai musicisti della sua generazione.
La musica da chiesa sarà allora per Charpentier, Delalande, Lorenzani, per non citare che i più importanti, l’unico tipo di musica praticabile. E in ciò trova spiegazione la sproporzione esistente tra gli sterminati cataloghi delle loro musiche sacre e quello sparuto di Lully.
A Lully, tuttavia, sensibile interprete della politica culturale del Re Sole, si deve comunque la definizione del modello più fortunato del grand motet, imponente, solenne, marziale, in cui “la glorificazione del monarca terreno sovrasta la celebrazione del rito sacro e sconfina nella degustazione estetica della potenza regia” (Bianconi).
Del grand motet di tipo lulliano un esempio oggi famosissimo è dato dalla sinfonia introduttiva del Te Deum di Charpentier, la fortunata sigla delle trasmissioni in Eurovisione, udibile e fascinatoria evidenza dello stile musicale celebrativo all’epoca del Re Sole, stile di cui Lully fu il più assiduo fautore e interprete.