Cocteau, Jean
Regista e sceneggiatore cinematografico, poeta e drammaturgo, pittore e saggista francese, nato a Maisons-Laffitte (Yvelines) il 5 luglio 1889 e morto a Milly-la-Forêt (Essonne) l'11 ottobre 1963. La creatività di C. ha attraversato l'intera gamma delle espressioni estetiche del Novecento, sperimentando una molteplicità di movimenti artistici, ma affermando una propria singolarità sottratta al conformismo delle mode, e tenendo fede a un'idea di poesia, come cifra di stile che si irradia nella visibilità dell'opera per mostrarne il lato 'invisibile' e 'irreale'. Definendo poésie cinématographique il suo lavoro nel cinema, come intento di "girare la poesia", o esprimere uno stato poetico, C. proponeva una concezione del film come strumento capace di illuminare le ombre dell'interiorità e la notte arcaica del mito. Il suo contributo al cinema, eclettico e rapsodico, reca il segno di una continuità formale e tematica che si è esplicata in figure ricorrenti: la metafora dello specchio, l'enigma crudele dell'infanzia, i travestimenti mitologici, la dilatazione e la contrazione spazio-temporale, la quotidianità impregnata di soprannaturale, la bellezza angelica e androgina, la fatalità del meccanismo tragico, il gusto barocco del meraviglioso e infine il senso di un'arcana solidarietà tra eros e morte. Nato in una colta famiglia borghese, nel 1898 C. si trasferì a Parigi dove, alunno riottoso, interruppe gli studi ai licei Condorcet e Fénelon. Si dedicò precocemente alla scrittura poetica e drammatica: le suggestioni del fiabesco e la classicità del mito già traspaiono in La lampe d'Aladin (1909), la sua prima raccolta poetica, e in La patience de Pénélope (1910) la sua prima pièce, rappresentata in un salotto parigino. Ben introdotto nell'ambiente letterario e mondano, conobbe M. Proust, A. Daudet, E. Rostand, A. Gide e incontrò il giovane scrittore R. Radiguet, con cui avviò un sodalizio che influenzò la sua predilezione per la figura del poeta-ragazzo, angelicato e destinato a un precoce e oscuro rapporto con la morte. Ebbe frequenti contatti con i circoli dadaisti, cubisti e surrealisti, mentre l'incontro con musicisti innovatori, come E. Satie e I.F. Stravinskij, lo indusse all'esercizio di una sperimentazione funambolica; così il balletto Parade (1917, su musica di Satie), di cui C. scrisse il libretto e P. Picasso disegnò scene e costumi, suscitò le reazioni scandalizzate del pubblico del Théâtre du Châtelet. Collaborò poi, come autore di soggetti, con i Ballets russes di S.P. Djagilev e V.P. Nižinskij, e con coreografi come M. Fokine e L. Massine. In questi primi esperimenti teatrali, C. manifestò quel gusto circense del vaudeville e del music hall, ma anche dell'illusionismo, del dinamismo, dell'apparizione metafisica, che sarà cifra stilistica anche del suo cinema. La sintonia con il clima dell'avanguardia storica e le frequentazioni salottiere modellarono poi il suo personaggio pubblico: una maschera mondana capace di stupire e scandalizzare, ma anche di battersi contro i conformismi e di spiazzare ogni aspettativa.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, benché riformato, raggiunse il fronte e diventò autista d'ambulanza; da quella esperienza ricavò il materiale per il romanzo Thomas l'imposteur (1923), cui Georges Franju nel 1965 s'ispirò per il film omonimo. Nel 1925 ricusò le suggestioni disordinate dei surrealisti, con cui aveva ingaggiato una polemica, e sollecitò un ritorno all'ordine, riaffermando la necessità di una libertà che crea servendosi di canoni classici, e del recupero di un senso laico del mistero attraverso l'enigmaticità delle forme del mito. In questo contesto nacque una delle sue opere teatrali più riuscite, l'Orphée (1927), moderna rielaborazione del mito, che rilegge Orfeo ed Euridice come inquiete figure contemporanee. Si venne così elaborando la cifra tipica dello stile di C.: quel realismo allucinato, nato da una percezione alterata e risultato di un'estrema attenzione alla resa plastica delle immagini, al fine di restituirne pienamente la risonanza in una dinamica classicità/sperimentazione, caos/ordine, chiarezza/mistero, che è elemento costante nella produzione di C. tanto sulla scena, quanto sullo schermo. Tra il 1925 e il 1939 fu intensa la sua attività letteraria. Oltre agli scritti giornalistici per "Le Figaro" e "Ce soir", ai pamphlet estetici e alle pagine critico-diaristiche, già nei romanzi Le Potomak (1919) e La fin du Potomak (1939) la frammentazione del punto di vista, l'andamento visivo e il montaggio nervoso della sua scrittura preludono al cinema. Nell'impianto narrativo di Les enfants terribles (1929, da cui fu ricavato nel 1950 il film omonimo, sceneggiato dallo stesso C. e diretto da Jean-Pierre Melville) l'universo alterato e percorso da furori visionari di un'adolescenza maledetta e insieme eletta da un destino di tragica bellezza, racchiude già in sé quell'atmosfera convulsa e allucinata che si ritrova un anno dopo nel suo primo film, Le sang d'un poète (1930). Si comprese in seguito come tale film condensasse, insieme ai successivi Orphée (1950; Orfeo) e Le testament d'Orphée (1960; Il testamento di Orfeo), una costellazione di immagini ruotanti intorno al mito del poeta implicato in un tragitto di morte e rinascita, riconducibile a uno schema di iniziazione misterica e filosofica. Questa trilogia va intesa come un unico cammino cinematografico protratto negli anni, di cui il primo film costituirebbe il prologo in forma di "documento realista di avvenimenti irreali", come recita il suo incipit. Essa si configura come trascrizione delle esperienze visionarie di uno sguardo che scandaglia la zona d'ombra tra sogno e realtà e intercetta, nel ritmo dilatato del dormiveglia, i soprassalti dell'immaginario, concentrandosi sulle immagini ossessive del fanciullo sanguinante e del passaggio attraverso lo specchio che si scioglie in uno schermo d'acqua. La costruzione onirica e il procedere quasi per stazioni di una iniziazione all'aldilà ritornano nel film del 1960, non solo epilogo dei due precedenti, ma anche compendio di una concezione del cinema inteso come macchina meravigliosa, capace di inaugurare una nuova e sconosciuta dimensione del reale. Lo stesso C. vi appare, in un incedere da sonnambulo e accompagnato da un angelo, ripercorrendo un sentiero costellato di apparizioni, ibridi mitologici, personaggi reali e inventati, che sono al tempo stesso tracce del suo universo filmico e tappe di una vita fattasi carico di alimentare i suoi sogni. Cerniera fra questi due film, che si presentano come due cerimoniali di uno stesso rito cinematografico, fu la struttura drammaturgica di Orphée, costruita enucleando dalla omonima pièce teatrale del 1927 un sottotesto disegnato come viaggio agli inferi, che procede tra due scenari urbani altrettanto inquietanti: una città moderna percorsa da fremiti irreali e da irruzioni funebri, e una città dei morti illuminata nelle sue macerie e nei suoi ambulacri con l'incisività del documentario. Nel film il poeta, con l'ausilio di guanti magici che sciolgono gli specchi e permettono l'accesso al territorio dell'aldilà, si fa irretire dal fascino glaciale della principessa-morte più che dal desiderio di ritrovare Euridice, e ha i tratti ambigui e statuari di Jean Marais, l'attore fonte di ispirazione di C., incontrato negli anni Trenta.
A parte un precedente film amatoriale, Jean Cocteau fait du cinéma (1927), andato perduto, C., dopo l'esperimento di Le sang d'un poète, si era dedicato al teatro. Nel 1930 scrisse La voix humaine, il delirio possessivo di una donna al telefono con l'amante, che Roberto Rossellini filmò nel 1948 (come episodio del film L'amore) con un'intensa Anna Magnani. In seguito, C. scrisse drammi come La machine infernale (1934) e Les chevaliers de la Table Ronde (1937). Tornò al cinema solo nel 1939 come dialoghista di La comédie du bonheur (1942; Ecco la felicità) di Marcel L'Herbier, Le baron fantôme (1943; Il barone fantasma) di Serge de Poligny, in cui fu anche attore, e di Les dames du Bois de Boulogne (1945; Perfidia) di Robert Bresson; fu inoltre soggettista e sceneggiatore di L'éternel retour (1943; L'immortale leggenda) di Jean Delannoy, ripresa moderna e ieratica del mito di Tristano e Isotta. Nel 1946, assistito tecnicamente da René Clément, ritornò alla regia con La belle et la bête (La bella e la bestia), che vinse il premio Louis Delluc, dove l'incanto barocco della fiaba di Madame Leprince de Beaumont viene incastonato su uno sfondo che conferisce una fisicità inquietante alle fantasmagorie, ai trucchi e ai giochi visivi. L'incisione chiaroscurale della fotografia di Henri Alekan, che richiama le illustrazioni di G. Doré, il minuzioso trucco in sembianze di animale del volto di Marais, dai cui occhi traspaiono sentimenti dolenti, il labirintico e fastoso décor di Christian Bérard, l'arcana risonanza della musica di Georges Auric, diffondono sugli oggetti, sui paesaggi, sui gesti un'aura da incantesimo crudele e il senso di dolore e stupore che si accompagna alla solitudine della mostruosità. Nello stesso anno scrisse la pièce L'aigle à deux têtes (nel 1980 Michelangelo Antonioni ne trasse spunto per la sperimentazione televisiva di Il mistero di Oberwald) che poi filmò nel 1948 (L'aquila a due teste), accentuandone la messinscena eccessiva, il bric-à-brac melodrammatico, la teatralità diafana. Il film racchiude nella soffocante geometria dei piani-sequenza la crudele allegoria dell'amore folle e fatale tra una regina e il suo assassino, visto come ambiguo angelo giustiziere su cui si riverbera l'ombra del re defunto. Sempre del 1948 è Les parents terribles (I parenti terribili), altra trasposizione dalla scena allo schermo, questa volta depurata da ogni convenzione teatrale e circoscritta in un interno opprimente, perlustrato da una macchina da presa usata con la nettezza e l'implacabilità di un bisturi. Il torbido groviglio familiare viene vivisezionato da un gioco di piani e di prospettive, di angolazioni e di frantumazioni, focalizzato sulla linea visiva dei rapporti vischiosi tra i personaggi con un'alterazione continua del realismo e del punto di vista. Nel 1949 girò nella sua casa di campagna un inedito divertissement privato in 16 mm, Coriolan, e poi, tra il 1950 e il 1953, il documentario La villa Santo Sospir, in cui filmò gli affreschi da lui stesso eseguiti a Saint Jean-Cap Ferrat. Nel 1948 aveva scritto la sceneggiatura per Ruy Blas di Pierre Billon, e i dialoghi per Noces de sable di André Zwobada, a cui prestò la voce recitante, così come fece per il commento di numerosi altri film, tra cui alcuni documentari d'arte di Luciano Emmer. Tornato alla sceneggiatura con Corona negra (1951) di Luis Saslavsky, collaborò a La voce del silenzio (1953), film italo-francese di Georg Wilhelm Pabst, e, ancora per Delannoy, scrisse La princesse de Clèves (1961; La principessa di Clèves), un adattamento per lo schermo dal romanzo di Madame de La Fayette.
Negli anni Cinquanta, con Jacques Doniol-Valcroze, ideò il Festival du film maudit (1950) di Biarritz, e fu per i giovani della Nouvelle vague, a cominciare da François Truffaut, un compagno di strada e al tempo stesso un punto di riferimento. I suoi scritti sul cinema furono raccolti nel volume Du cinématographe (1973; trad. it. 1979) e le sue interviste in Entretiens autour du cinématographe (1951; trad. it. 1987). Nel 1985 il regista e critico Edgardo Cozarinsky gli dedicò il documentario Jean Cocteau, autoportrait d'un inconnu. Insignito del titolo di Accademico di Francia nel 1955 e, nello stesso anno, della laurea honoris causa presso l'Università di Oxford, si sottrasse tuttavia a ogni consacrazione conformista, irriducibile nella scelta di uno stile e di un mondo estetico sempre originali.
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