Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In armonia con le esigenze profonde del classicismo francese, La Fontaine focalizza la natura umana nei suoi tratti essenziali e perenni, riuscendo a disegnare, soprattutto nelle Favole, il ritratto dell’umanità del suo tempo e dei tempi a venire.
Fra progetti compiuti ed incompiuti
Il nome di Jean de La Fontaine — nato a Château-Thierry l’8 luglio 1621 e morto a Parigi il 13 aprile 1695 — è automaticamente associato alla sua opera più importante e più nota, le Favole (Fables). In realtà, La Fontaine ha tentato anche altre strade, talvolta senza grandi risultati, com’è il caso del teatro. Nel 1669, pubblica un romanzo poetico, Gli amori di Psiche e Cupido (Les Amours de Psyché et de Cupidon), insieme con Adonis, poema epico composto nel 1658, dedicato a Fouquet (1615-1680), sovrintendente delle finanze dell’epoca di Mazzarino (1602-1661), al cui servizio La Fontaine entra in quell’anno, dopo la morte del padre. Sempre per omaggiare Fouquet, inizia a redigere un testo con lo scopo d’immortalare il palazzo e la corte di Fouquet, a Vaux. Il sogno di Vaux (Le songe de Vaux) resterà, però, incompiuto, anche per l’arresto di Fouquet da parte di Luigi XIV (1638-1715). Dal 1663, quindi, La Fontaine passa al servizio della duchessa di Bouillon (1649-1714), nipote di Mazarino, e a quello della duchessa d’Orléans (1615-1672) di cui sarà uno dei “gentils-hommes servants”. Nel 1665, pubblica la sua prima raccolta di Racconti e novelle in versi (Contes et nouvelles en vers); una seconda segue l’anno successivo. Altre arrivano nel 1671 e nel 1674, anno in cui la pubblicazione viene ufficialmente vietata alla vendita. Il contenuto dei racconti, infatti, è giudicato licenzioso e, in vecchiaia, La Fontaine confesserà il suo pentimento per aver scritto opere “scandalose”. Dal punto di vista formale, i testi dei Racconti sono generalmente isometrici e prevalentemente scritti in decasillabi; lontani, per questo aspetto, dalla maggiore varietà formale che conoscono le Favole. Fra le sue fonti, sono riconoscibili Boccaccio (1313-1375), Ariosto (1474-1533), Machiavelli (1469-1527), Marguerite de Navarre (1492-1549) e Bonaventure Des Périers (1510 ca. - 1543 o 1544). Dal punto di vista contenutistico, in un’epoca come quella del classicismo francese, in cui dominano l’istanza di ordine e il primato delle regole, contenuti ai nostri occhi forse più frivoli che immorali possono non essere facilmente tollerati. Scomparsa la duchessa d’Orléans, La Fontaine si sposta nella sfera del salotto di Madame de La Sablière (1636-1693), fra i più brillanti del momento e alla quale, riconoscente, dedica il Discorso a Madame de La Sablière, in chiusura del nono libro delle Favole.
Le Favole
Anche la pubblicazione delle Favole si estende su un lungo periodo: dal 1668 al 1694. Fra queste due date, vedono la luce tre raccolte, ognuna divisa in un certo numero di libri, per un totale di circa 240 testi in versi, in genere d’ampiezza molto contenuta. La prima raccolta (1668) si apre con una dedica al Delfino di Francia, che all’epoca ha sei anni. Qui, La Fontaine definisce le sue favole “invenzioni” nel contempo “utili” e “piacevoli”. In perfetta sintonia con lo spirito classico francese, anche per La Fontaine l’arte ha innanzi tutto uno scopo didattico e il genere della favola si presta particolarmente a insegnare, attraverso la morale che ogni testo consegna al lettore. Questi può, come si legge sempre nella dedica, imparare “senza fatica, o, per meglio dire, con piacere” (“sans peine, ou, pour mieux parler, avec plaisir”): lo scopo didattico che il mondo classico assegna alle arti deve realizzarsi mediante l’appagamento intellettuale che l’opera deve assicurare.
La Fontaine, anche in ciò in sintonia con lo spirito del classicismo — in cui la letteratura tende anche a far rivivere la saggezza degli Antichi —, accoglie il genere della favola dalla letteratura greca e latina, non dimenticando, però, le sue realizzazioni medievali e rinascimentali. Le fonti delle favole, nel loro insieme, sono numerose. Alcuni autori a cui La Fontaine è palesemente debitore sono ricorrenti e, come per i Racconti, facilmente identificabili: Esopo, Fedro, certo, ma anche Lorenzo Astèmio (1440 ca. -1508 ca.), Pilpay (o Bidpay), bramino indù semileggendario del III secolo, Bonaventure Des Périers, Plutarco, Ovidio.
Le favole di La Fontaine hanno, molto spesso, animali come protagonisti; animali con caratteristiche psicologiche umane e che nulla o quasi hanno a che vedere con i tratti specifici della loro effettiva natura. Da tutte le favole, è possibile, come già ricordato, estrarre una morale. Sovente essa è implicita nel testo, spesso vivacizzato dai dialoghi che l’autore inserisce nei brevi episodi che ne compongono la materia narrativa; talvolta, essa è esplicitata, quasi in forma epigrammatica, alla fine del componimento. Attraverso gli episodi che coinvolgono la cicala e la formica, il corvo e la volpe, la rana che intende diventare grossa come il bue, il lupo e l’agnello, il topo di città e il topo di campagna, ma anche attraverso figure come quella del taglialegna che incontra la Morte o dell’avaro che ha perduto il suo tesoro, La Fontaine mette in evidenza difetti, errori comuni, vizi generali e invita il lettore a riflettere e a imparare la lezione che la favola sistematicamente gli offre. Non si tratta esattamente di una critica a una condizione o a una classe sociali più o meno riconoscibili: La Fontaine, soprattutto nella prima raccolta, focalizza piuttosto dei tratti dell’umanità in generale, della natura profonda che la caratterizza, una natura che è valida sempre, ovunque e in modo universale. Nonostante qua e là, nei testi, appaiano allusioni alla realtà – chiare per il lettore contemporaneo di La Fontaine, ma difficilmente accessibili a chi quell’epoca non la vive direttamente –, ciò che passa attraverso questi testi, non è satira sociale o politica, quanto piuttosto un insegnamento morale, a partire dall’osservazione dell’Uomo e che all’Uomo parla. Proprio per tale motivo, l’opera – che, all’epoca, conosce un grande successo – è in grado di parlare, sempre in modo pertinente, anche con i lettori dei secoli successivi.
Nella seconda raccolta, pubblicata fra il 1678 ed il 1679, si aggiungono diverse favole inedite. Questi nuovi volumi non sono più dedicati al Delfino, ma Madame de Montespan (1640-1707), amante ufficiale di Luigi XIV sul quale ha grandissima influenza: ciò suggerisce che la prospettiva adottata sia diversa di quella scelta per presentare testi per la formazione di un bambino che si prepara ad essere re. In queste nuove favole, si percepisce maggiormente la presenza della corte e della vita pubblica [La corte del Leone (La Cour du Lion); Il topo che si è ritirato dal mondo (Le Rat qui s’est retiré du monde)]. Si avverte anche un’atmosfera che evoca in lontananza la satira sociale e politica, riconoscibile nelle azioni poco esaltanti di ministri, giudici, sacerdoti [Il curato e il morto (Le Curé et le Mort)]. Sono presenti anche alcune eco dei dibattiti teologici dell’epoca, come quello relativo all’anima degli animali — che oppone, fra gli altri, Gassendi (1592-1655) a Cartesio (1596-1650) – e che risuona nei versi di Un animale sulla luna (Un animal dans la lune). Nel 1693 (anche se pubblicata con data 1694), esce l’ultima raccolta di Favole. La Fontaine ha sconfessato pubblicamente i Racconti, si è riavvicinato sensibilmente alla religione e l’ultima favola, Il Giudice Arbitro, l’Ospedaliero ed il Solitario (Le Juge arbitre, l’Hospitalier et le Solitaire), acquisisce la natura di un testamento spirituale, in cui filtra chiaramente il senso della fine imminente [“Questa lezione sarà la fine di queste Opere” (“Cette leçon sera la fin de ces Ouvrages”)], ma in cui è sempre, prima d’ogni cosa, irrinunciabile la funzione didattica dell’arte, come dimostra la chiusa della favola, in cui La Fontaine lascia il suo contributo ai posteri ai quali, si augura, di poter “essere utile ai secoli futuri!” (“être utile aux siècles à venir!”).