Delannoy, Jean
Regista cinematografico francese, nato a Noisy-le-Sec (Seine-Saint-Denis, Île-de-France) il 12 gennaio 1908. La perizia nella costruzione narrativa del film, maturata grazie alla sua iniziale attività di montatore, ha fatto sì che il suo cinema sia risultato impeccabile nell'impaginazione, ma sovente privo di una propria cifra emozionale, tanto da diventare, alla fine degli anni Cinquanta, un facile bersaglio per gli strali critici della nascente Nouvelle vague (in particolare di François Truffaut). Sotto l'apparente patina di convenzionalità, dai suoi film emerge tuttavia una costante tensione morale e religiosa (D. è di fede protestante) e un ricorrente interesse per la trascrizione visiva, elegante e rigorosa, di atmosfere letterarie che lo ha spinto alla collaborazione con celebri scrittori come J. Cocteau, A. Gide, J.-P. Sartre, R. Peyrefitte, H. Queffelec, G. Cesbron. Queste qualità vennero valorizzate anche dalle giurie dei festival di Cannes e Venezia, che attribuirono riconoscimenti rispettivamente a La symphonie pastorale (1946; La sinfonia pastorale) e a Dieu a besoin des hommes (1950; Dio ha bisogno degli uomini).La sorella Henriette fu attrice del muto, e fin da ragazzo D. subì il fascino del cinema, tanto che a diciassette anni si fece scritturare come generico per diversi film, tra cui Casanova (1927) di Alexandre Volkoff (propr. Aleksandr Volkov). Dopo aver esitato tra varie professioni (la carriera bancaria e quella di giornalista) e aver frequentato le università di Parigi e di Lille (dove si laureò in lettere), D. fece il suo apprendistato cinematografico in qualità di montatore, tra il 1935 e il 1937, lavorando a una settantina di film. Nel frattempo fu anche aiuto regista e girò alcuni corto e mediometraggi, fra i quali Paris-Deauville (1935). I suoi primi film (Ne tuez pas Dolly!, 1937; Diamant noir, 1941, Il diamante nero; Fièvres, 1942; L'assassin a peur la nuit, 1942, L'ombra del male) si caratterizzarono per l'accuratezza della fattura nell'ambito di un cinema popolare, di genere poliziesco o avventuroso, con un certo gusto per l'intrigo da feuilleton. Ma già in La Vénus de l'or (1938; La Venere dell'oro, diretto insieme a Charles Méré e con la partecipazione del grande attore-regista teatrale Jacques Copeau) si avverte la sensibilità di D. nella descrizione puntuale di dissidi morali e la capacità di tenere insieme narrativamente intrecci melodrammatici; qualità, queste, che furono confermate anche dal mélo di ambientazione esotica Macao, l'enfer du jeu (1939; Macao, l'inferno del gioco) in cui Erich von Stroheim fu sostituito, a lavorazione iniziata, da Pierre Renoir, con conseguente rifacimento del film, che uscì solo nel 1942. Mentre in Pontcarral, colonel d'empire (1942; L'ultimo bacio) ‒ intrigo di epoca napoleonica dove la passione e il sentimento dell'onore sono i motori della vicenda ‒ si legge una velata denuncia della Francia collaborazionista di Pétain, nell'enfatico assolutismo neoromantico di L'éternel retour (1943; L'immortale leggenda), che riprende la leggenda wagneriana di Tristano e Isotta ambientandola negli anni Quaranta, alcuni vollero vedere (quando il film ebbe una distribuzione europea, cioè nel dopoguerra) un cedimento al clima nazista; in realtà il dissidio tra ordine e disordine al centro della vicenda è tipico del mondo poetico di Jean Cocteau, autore della sceneggiatura e il cui contributo risultò determinante per la realizzazione dell'opera. Ma fu proprio a partire da quest'ultimo film che lo stile di D. si precisò, da un lato, in una eleganza lievemente frigida e nella predilezione per i climi ieratici e letterari e per i dilemmi etico-religiosi e, dall'altro, come costruzione pomposa di melodrammi macchinosi. Alla prima tendenza si possono ascrivere tanto La symphonie pastorale, in cui D. distilla del romanzo di Gide, in un'atmosfera rarefatta, quei temi che gli sono più congeniali, come l'interrogativo etico e il dibattersi umano nelle trame della sorte, coadiuvato da una palpitante Michèle Morgan nel ruolo dell'orfana cieca, quanto Les jeux sont faits (1947; Risorgere per amare), in cui il tema del destino viene orchestrato, sulla base della sceneggiatura di Sartre, in una fantasia sospesa tra i vivi e i morti, mescolati insieme in una bizzarra ambientazione che unisce visivamente il mondo terreno e quello ultraterreno. Alla seconda tendenza appartengono film come Le bossu (1944; Il cavaliere di Legardière), Le secret de Mayerling (1949; Il segreto di Mayerling), Marie-Antoinette (1956; Maria Antonietta regina di Francia), Notre-Dame de Paris (1956) da V. Hugo, La princesse de Clèves (1961; La principessa di Clèves), Vénus impériale (1962; Venere imperiale), dove fonti letterarie e storiche sono solo materiale per accurate ambientazioni e ricostruzioni. Ma fu Dieu a besoin des hommes la prova più riuscita di D., dal momento che la trasposizione del romanzo di Quéffelec, sceneggiata con abilità da Jean Aurenche e Pierre Bost, riuscì a compendiare, nel ritratto d'epoca della comunità di isolani bretoni che mette in campo tormenti spirituali e miserie umane, un sobrio rigore delle immagini (che richiama lo spirito del Neorealismo italiano) nell'evocazione dell'ambiente e un'economia narrativa di stringente efficacia.Negli anni Cinquanta e Sessanta la parabola stilistica di D. andò stemperandosi in una convenzionalità che rese ancor più anodina la sua tendenza all'accademismo, esponendolo agli attacchi dei giovani critici dei "Cahiers du cinéma" che vedevano in lui il campione del conformistico cinema de qualité. D. perseguì ancora il suo interesse per le trasposizioni letterarie, accompagnato da una capacità di raccontare i turbamenti adolescenziali o la difficile condizione dell'infanzia, in film come Chiens perdus sans collier (1955; Cani perduti senza collare), da Cesbron, o Les amitiés particulières (1964; Le amicizie particolari), da Peyrefitte. Tradusse per lo schermo due romanzi di G. Simenon della serie dedicata al commissario Maigret, Maigret tend un piège (1958; Il commissario Maigret) e Maigret et l'affaire Saint-Fiacre (1959; Maigret e il caso Saint-Fiacre), trovando nel volto e nella recitazione sorniona di Jean Gabin una perfetta incarnazione del personaggio letterario. Negli anni Settanta e Ottanta D. si è dedicato prevalentemente all'attività televisiva, per tornare più tardi al cinema con due singolari film che riprendono esplicitamente le tematiche religiose, sottese nella sua opera, ma con un certo spirito laico e razionalista: Bernadette (1988) e Marie de Nazareth (1995). Nel 1975 D. era stato nominato presidente del prestigioso IDHEC.
C. Guiget, E. Papillon, J. Pinturault, Jean Delannoy: filmographie, propos, témoignages, Aulnay-sous-Bois 1985.