RACINE, Jean
Nato a La Ferté-Milon nel 1639 (l'atto di battesimo porta la data del 22 dicembre), morì a Parigi il 21 aprile 1699. Orfano di madre nel 1641, del padre nel 1643, fu allevato dalla nonna, Marie des Moulins, la quale, come tutta la famiglia R., era affezionata a Port-Royal e vi si ritirò poco dopo il 1650, affidando il piccolo Jean al collegio di Beauvais; nel 1655, passava anch'egli a Port Royal, dove la sua istruzione si proseguì sotto eccellenti maestri, di fede giansenista e di dottrina umanistica: il R., fino da quegli anni, acquistò un possesso sicuro delle lingue classiche, il gusto della bellezza greca, e, certo, un primo senso, oscuro e profondo, dei problemi morali. Terminò i suoi studî al collegio d'Harcourt, di Parigi (1658-59); indi visse alcun tempo presso un suo cugino più anziano, Nicolas Vitart, intendente del duca di Luynes: frequentò la società, mondana e letteraria, con l'abate Levasseur e il La Fontaine; a Port-Royal aveva già incominciato a scrivere poesie di carattere elegiaco e religioso: ora compose un'ode, La Nymphe de la Seine per le nozze di Luigi XIV (1660) e vagheggiò il teatro, abbozzando le scene di un'Amasie e delle Amours d'Ovide, di cui non è rimasto nulla. La famiglia, temendo ch'egli si sviasse fra i nuovi amici nei diletti profani, provvide ad un suo soggiorno ad Uzès presso lo zio Antoine Sconin, vicario generale della diocesi: il giovine R. esitò nella scelta di una carriera ecclesiastica (e ottenne, ad ogni modo, più tardi qualche "beneficio" sotto forma di priorati), ma non tralasciò gli autori classici e la poesia moderna; di ritorno a Parigi nel 1663, scrisse l'Ode sur la convalescence du Roi e La Renommée aux Muses che gli valsero gli elogi della corte, una gratificazione reale e la conoscenza del Boileau, col quale strinse una fedele amicizia, durata sino alla morte. Alla fine di quell'anno, aveva pronta una tragedia, a cui aveva forse già lavorato a Uzès, La Thébaïde ou Les frères ennemis, che il Molière accolse e recitò sul suo teatro il 20 giugno 1664: l'argomento risulta dalla fusione delle Fenisse di Euripide e dell'Antigone sofoclea, sulla scorta di una recente imitazione del Rotrou. La compagnia del Molière rappresentava un'altra tragedia del R. il 4 dicembre 1665, Almandre le Grand, di spirito avventuroso e romanzesco; il successo fu molto lusinghiero, e parve che nell'eroe fosse raffigurato qualche lineamento del giovine re, a cui il R. fu sempre devoto, e che a sua volta lo protesse lungo tutta la sua carriera drammatica. Insoddisfatto della recitazione tragica del Molière e dei suoi compagni, ch'erano soprattutto dei comici, il R., dopo le prime rappresentazioni, affidò l'opera sua al teatro dell'Hôtel de Bourgogne (18 dicembre); e al Molière sottrasse anche, più tardi, una delle sue migliori attrici, la bella Marguerite Du Parc. Il carattere del poeta si rivela, in quel periodo, appassionato, pugnace, risentito; un accenno del Nicole, offensivo per gli autori drammatici, lo indusse ad attaccare aspramente il suo antico maestro, e quella ch'era stata, a Port-Royal, come la sua seconda famiglia: nel gennaio 1666 pubblicò una Lettre à l'auteur des Hérésies imaginaires et des deux Visionnaires, ch'è una difesa dei poeti e una satira dei giansenisti: questi risposero, e il R. aveva già preparato una seconda lettera, essa pure acre e vibrata, che, per consiglio del Boileau, non diede alle stampe.
Il 17 novembre 1667, nelle stanze della regina, e nei giorni seguenti dinnanzi al pubblico dell'Hôtel de Bourgogne, il R. trionfava con un capolavoro, l'Andromaque, in cui tutti, amici e nemici (che non cessarono più di combattersi intorno all'opera del poeta) riconobbero i segni di un'arte nuova, potente, passionale. Nell'autunno del 1668 appariva sulla scena la sola commedia che abbia composto il R.: Les Plaideurs, satira della mania litigiosa, che veniva in parte a colpire (senza che ciò spiacesse al re) l'amministrazione della giustizia di quel tempo. Il 13 dicembre 1669, prima rappresentazione d'una grande tragedia romana, Britannicus; il R. entrava in lizza con Pierre Corneille, quasi a contendergli il primato nel suo stesso regno ideale ed eroico; il conflitto assunse un carattere ancor più personale, quando (in seguito ad un armeggio che non riesce ben chiaro, ma a cui pare non fosse estranea la principessa Enrichetta d'Inghilterra, protettrice del R.) il giovane poeta fece rappresentare, il 21 novembre 1670, la sua Bérénice, una settimana prima che il teatro di Molière recitasse la tragedia Tite et Bérénice del Corneille. Il duello letterario suscitò polemiche, satire, parodie; ma, nel giudizio del pubblico (che non s'ingannò sul valore delle due opere), il R. uscì vincitore. In seguito, egli compose due tragedie d'argomento orientale: l'uno moderno, il Bajazet (1ª rappresentazione, 5 gennaio 1672), l'altro antico, il Mithridate (gennaio 1673, e, secondo la tradizione, l'indomani del ricevimento di R. all'Académie Française, ch'ebbe luogo il 12 di quel mese).
Al di fuori della cronistoria teatrale e letteraria (le prime edizioni delle singole tragedie seguono a breve distanza la data delle rappresentazioni), si sa ben poco della vita del R. in questo periodo. Delle sue passioni d'amore, si ricordano quelle che l'unirono a due attrici: la Du Parc, alla cui morte, nel 1668, non celò un profondo dolore, e Marie Champmeslé, ch'egli amò, se non con minor fuoco, con minore gelosia. E la Champmeslé fu l'interprete ammirata delle sue eroine: le "creò", come si suol dire, sulla scena, a cominciare da Bérénice, fino alle ultime tragedie profane del R.: Iphigénie (rappr. dapprima alla corte di Versailles, nell'estate del 1674) e Phèdre (i° gennaio 1677).
Contro queste due opere del R., i suoi nemici, che vantavano l'appoggio della duchessa di Bouillon e del duca di Nevers, si strinsero in una "cabala" che tentò di rinnovare a suo danno la gara, in cui egli s'era altra volta impegnato col Corneille: all'Iphigénie opposero una tragedia d'uguale argomento, verseggiata da due autori mediocri, Le Clerc e Coras; alla Phèdre et Hippolyte (che fu il primo titolo della tragedia del R.), una Phèdre et Aricie di Nicolas Pradon, rappresentata due giorni dopo (il 3 gennaio 1677) dalla compagnia di Molière. Uno scambio di sonetti satirici, a cui presero parte, il Boileau da un lato, e dall'altro il duca di Nevers, prolungò la baruffa letteraria, al di sopra della quale si eleva, in tutta la sua purezza, il capolavoro raciniano.
Dopo Phèdre, il R. abbandonò il teatro. Quale profonda ragione poté indurlo a tale rinuncia? La gretta invidia dei suoi avversarî? Una conversione morale, che, richiamandolo ai severi principî appresi alla scuola di Port-Royal, abbia scolorato per il suo animo deluso le seduzioni dell'arte e della scena? La Phèdre apparve, nelle opposte interpretazioni dei critici moderni, come la causa di un intimo rivolgimento nella coscienza del R., quasi atterrito dalle passioni che prendevano voce e figura nella sua tragedia, oppure come l'indizio di un turbamento morale, d'una crudele meditazione sulle colpe funeste dell'amore, che sarebbe stata all'origine stessa, e non al termine del suo lavoro. Ed è certo che il R. seppe dimostrare ai teologi di Port-Royal, e soprattutto all'Arnauld, che la sua tragedia s'ispirava a una visione pietosa degli umani destini e ad una severa lezione di virtù. Ma ogni volta che la questione dell'abbandono del teatro, della famosa "retraite de R." s'imposti come un enigma di cui s'abbia a cercare la chiave, le singole soluzioni che si propongono, guidate da un esame parziale e specioso della psicologia del poeta, peccano sempre di una certa drammaticità romantica. Nella realtà, non fu una decisione improvvisa, determinata da un fatto esterno, o da un chiaro motivo, da un unico impulso del cuore e della volontà; ma un distacco graduale, che ci è dato seguire attraverso le vicende personali del R., il quale, nell'anno stesso di Phèdre, si accasò: le nozze, con Catherine de Romanet, furono celebrate il i° giugno 1677; nell'ottobre, il R. e il Boileau venivano insieme assunti al grado e all'ufficio di storiografi del re. Nuove dignità, nuove cure; non dimenticò le lettere, né la poesia: per invito della Montespan, s'era accinto a un dramma per musica, il Phaëton, e la badessa di Fontevrault gli richiese una versione del Convito platonico, ch'egli condusse molto innanzi ma non terminò. Ai suoi doveri di storico attese con diligenza, e insieme col Boileau assistette ad alcuni episodî della campagna di Fiandra. Compose, nel 1685, l'Idylle sur la paix; il suo brio satirico si sfogò ancora in qualche epigramma contro i letterati del tempo (Fontenelle, Pradon, Boyer, ecc.); all'Académie Française, pronunciò l'elogio del Corneille (morto nel 1684), in occasione della nomina del fratello Thomas. Vigilò con affetto l'educazione dei suoi figli: due maschi, il primo e l'ultimo, Jean-Baptiste (che s'avviò alla diplomazia) e Louis (che fu autore di poemi religiosi, e d'una vita del padre alquanto scialba e ingenua), e cinque figliole, di cui una sola si sposò, e le altre si volsero alla vita monastica ed alle opere pie. Su tutta la famiglia aleggiò via via più forte lo spirito di Port-Royal, a cui il R. era tornato, facendo ammenda dei suoi capricci e della sua ingratitudine giovanile; e a cui si tenne fedele sino all'ultimo, sebbene, ricevuto alla corte, egli sapesse quanto il giansenismo fosse inviso a Luigi XIV.
La signora di Maintenon trovò modo che il R. tornasse al teatro: un teatro di fanciulle, nel collegio di Saint-Cyr, ch'essa proteggeva con vivo zelo. Fra i temi biblici, consueti per tali rappresentazioni, il R. prescelse la storia di Assuero e di Ester, e la trattò con semplicità e con gentilezza, pure intessendovi qualche vaga allusione al tramonto della Montespan ed all'elevazione della Maintenon nei favori del re. La breve tragedia di Esther (in tre atti), in cui il R. introdusse per la prima volta il coro, sì da alternare i canti alla recita, fu rappresentata il 26 gennaio 1689 e riuscì una cosa squisita. L'incontestato successo deteminò il R. ad affrontare un dramma religioso di più vasta significazione, e alla fine del 1690 egli aveva compiuto l'Athalie: ma, frattanto erano sopravvenuti, nella direzione del collegio, e nella stessa Maintenon, alcuni scrupoli sulla mondanità di queste feste teatrali, e le poche recite dell'Athalie, in forma privatissima (fra il gennaio e il febbraio 1691), si ridussero a poco più di una lettura figurata; né si può dire che l'importanza di quella tragedia sia stata veramente compresa dai contemporanei. Alla stessa ispirazione dei cori dell'Athalie si collegano i Cantiques spirituels composti nel 1694. La vita del grande poeta si chiuse in un raccoglimento sempre più sereno e religioso; il suo corpo fu sepolto all'abbazia di Port-Royal e, dopo la distruzione di essa, trasferito (nel 1711) nella chiesa di Saint-Étienne-du-Mont a Parigi.
La grandezza del R. sta nell'aver creato col suo teatro un'opera di pura poesia; movendo dalla tragedia classica, provò dapprima quella tecnica, quell'organismo; commisurò, per così dire, con esso le sue attitudini d'arnista (e la Thébaïde e l'Alexandre ci rappresentano ad un tempo lo studio ch'egli fece dei suoi predecessori, soprattutto il Rotrou e il Corneille, e la sua scelta personale di quanto meglio gli consentiva di disporre in un intreccio di scene un conflitto psicologico) e giunse così a svincolare, nella trama offertagli dalla tradizione, un tipo di dramma, ancor più semplice, più stretto, più lineare: un tipo che fu interamente suo. Le "tre unità" della tragedia classica, imposte al teatro moderno dal Castelvetro, dallo Scaligero, e dagli altri chiosatori della Poetica di Aristotele, le famose unità che inceppavano e angustiavano il Corneille, furono invece per il R. un ausilio felice per ottenere sulla scena quella prospettiva sintetica di un'azione veloce e violenta, in cui egli chiudeva una visione della vita umana, travolta e distrutta dalla passione.
E al centro della tragedia del R., sì da attrarne e da esaurirne a pieno l'interesse, sta sempre la passione: ch'è una passione d'amore, ma tanto cupida e furente da tener pronto in sé, ove sia sdegnata o respinta, l'odio che saprà vendicarla: l'amore e l'odio sono anzi fatalmente commisti, complementari, nelle creature del R.: il corso delle loro avventure è breve, intenso, mortale. Nell'Andromaque la vedova prigioniera è amata da Pirro, figlio di Achille, il quale la costringe alle nozze, minacciando la vita del fanciullo Astianatte; e Pirro dimentica e sprezza la promessa che l'unisce ad Ermione, mentre questa è amata da Oreste, e si vale della sua cieca passione per avventarlo contro Pirro: ma, consumato appena il delitto, essa ha orrore dell'omicida, di cui pure aveva armato la mano, e il delirio di Oreste, che termina la tragedia, par che ci additi la disperata vanità di tutto il tumulto di affetti, bramosi, irosi, indomiti, che ha illuso e ottenebrato quelle anime. E la predilezione estetica del poeta, di cui è prova l'effetto più vivo e profondo che ne riceve lo spettatore, va appunto alle anime più fosche, più chiuse ad ogni altra voce che non sia quella del loro desiderio: cioè ad Ermione ed Oreste. Sorgono così quei terribili caratteri raciniani, d'un fiero egoismo, di una maligna, implacata energia, quali Nerone e Agrippina nel Britannicus (dove i personaggi "simpatici" per lealtà e nobiltà di sentimenti, Britannico e Giunia, sono confinati in una zona d'ombra), Rossana nel Bajazet, che propone alla pari, all'uomo ch'essa ama e che esita, o le nozze o la morte; Mitridate, nella tragedia omonima, ch'è rivale in amore di suo figlio e impiega tutta la sua perversità e la sua doppiezza in difesa della passione senile che l'agita.
Per il riflesso di questi caratteri, il mondo ideale del R. si colora di una singolare crudeltà; e ciò che sopra ogni altra cosa ci colpisce è come il R. abbia oggettivato lucidamente gl'impulsi più smaniosi, e talora più brutali, come sia penetrato in quelle anime cupe, ne abbia messo a nudo gli aspetti belluini e viperei, e tanto furore, e tanta crudeltà si esprima nel canto più armonioso che si sia mai effuso sul teatro.
Nella Bérénice, ch'è l'oasi più serena nel dramma del R., l'intreccio dell'azione, ridotto a poche linee, si dissolve nella risonanza che suscita nel cuore dell'eroina: Tito e Berenice s'amano ancora, ma Tito, assunto all'impero di Roma, sente che l'amor suo, già così fiammante, appartiene ormai al passato; e Berenice resiste, s'illude, poi cede, e, mentre sdegna l'amore fedele e silenzioso di Antioco, si allontana col suo sogno ed il suo rimpianto, superba ancora e gentile nella sua desolazione.
Dallo sfondo oscuro e grandioso del Mithridate (la tragedia in cui forse il R. concedette di più al gusto, e in certo modo al fasto del Re Sole e della sua corte) si aderge con tutta la schiettezza di un'anima fiera e soave l'immagine di una giovine greca, Monime, che vince con la sola forza della sua virtù e del suo dolore le insidie e le minacce del vecchio re. E da quel punto vediamo che un'idea di "purità" domina l'ispirazione del R.: egli ritorna alla tragedia greca, leggo l'Alceste di Euripide, ne traduce alcuni versi (e forse meditò di comporne una sua); stende, in prosa, lo scenario del primo atto di un'Iphigénie en Tauride; e scrive l'Iphigénie (en Aulide), rinnovando la trama di Euripide e animando di uno spirito nuovo l'antica figura della fanciulla innocente, destinata al sacrificio dal padre. L'Ifigenia del R. ci appare fino dal principio come una creatura eletta alla gioia; è innamorata di Achille, ed è stata chiamata con la madre al campo dei Greci per la celebrazione delle nozze; vi giunge fiduciosa; ma via via, la freddezza paterna, il luttuoso presagio che la circonda d'ogni parte, la verità che infine si scopre in tutto il suo orrore, invece di accasciarla, esaltano in lei la nobiltà nativa, sì ch'ella si offre consapevole e pura al sacrificio: il quale, per il mutamento introdotto dal R. nella favola di Euripide, si compie, non su di lei, ma su Erifile, che l'odiava, e si mostrava impaziente della sua morte. Il R. ha voluto salvare Ifigenia, ma soprattutto ha salvato in lei l'ideale di una più ardua bellezza, temprata alla prova del dolore: prova che le si offre improvvisa, ma a cui la sua natura, la qualità dell'anima sua, l'avevano preparata in segreto.
E la tragedia di Fedra si genera da questa coscienza di una purità, cui s'oppone il peccato, come una forza sconosciuta e ostile. Fedra sa pure che si distrugge nella sua passione, e fra le depressioni, il pianto, l'abbandono, procede ogni volta, per balzi felini di seduzione, verso la rovina, ch'ella sente inchiusa nel suo male: poiché si è fatto per lei un male dell'anima ciò che per la Fedra antica era il destino. La Fedra di R. finisce per considerare sé stessa, contaminata e avvinta dalla colpa (ch'è ancor tutta, e soltanto, nel suo pensiero), come un ingombro, un groppo tenebroso, una macchia su quella luce del mondo ch'essa restituisce, morendo, alla sua purità (come suonano le sue ultime parole: "Et la mort à mes yeux dérobant la clarté, Rend au jour qu'ils souillaient toute sa pureté").
Dalla Thébaide alla Phèdre, il R. diede alla sua interpretazione tragica della vita, come illusione passionale, un senso, e un valore, sempre più profondo; il dramma si formava per lui dall'intimo delle sue creature che non ci appariscono mai come trasposte da una realtà esterna, o storica, a una convenzione scenica; la loro unica vita è quella, nelle linee, semplici e chiuse, di quel mondo: la loro storia è la loro poesia.
Le due tragedie sacre del R., sebbene composte a gran distanza di tempo da quelle profane, non dimostrano ch'egli avesse rinnovato la sua concezione drammatica: l'Esther è trattata con grazia, sì da velare, per il teatro giovanile a cui era destinata, quanto di più acre e voluttuoso animava quel racconto; ma i caratteri, a cominciare da quello dell'eroina, serbano un risalto deciso e volontario, che s'accorda con la vastità della vendetta che gli Ebrei traggono del loro nemico Aman. L'Athalie è un'opera di larga fattura: una congiura sacerdotale minaccia la vecchia regina per ricondurre sul trono la stirpe legittima (che farà capo a Davide), rappresentata dal fanciullo Gioas; ma l'anima stessa di Atalia è inquieta e desolata: la memoria dei suoi delitti, la solitudine morale che l'opprime, il breve orizzonte che le sta dinnanzi senza promesse e senza speranze, sono assai più tristi della lotta politica e militare. Né ai suoi nemici arride una fortuna più serena, ché il re giovinetto, per cui essa verrà uccisa, sarà egli pure, un giorno, colpevole e indegno: un giudizio amaro dell'umanità percorre ogni scena della tragedia, su cui si eleva la profezia centrale della redenzione, di cui tutti quei personaggi sono i lontani e ignari strumenti. Qui è lecito veramente distinguere un'eco della dottrina giansenista, così sfiduciata nelle forze umane, ove non le soccorra la grazia di Dio, che governa l'azíone dei buoni e dei malvagi ai suoi fini impenetrabili.
Anche dell'Athalie, si può riconoscere lo studio che il R. pose in Euripide, da lui preferito fra i poeti tragici dell'antichità; le scene del tempio e il personaggio del fanciullo Gioas rammentano il dramma Jone. Con l'Iphigénie e la Phèdre, egli era tornato all'esempio di Euripide, già visibile nelle prime tragedie (Thébaïde, Andromaque). Dei poeti moderni, è certo che gli era presente il Corneille, ma sempre attraverso una riflessione critica, di cui ci è dato talora scorgere la traccia nella sua stessa opera di poesia, nelle diverse soluzioni ch'egli recava ad alcuni problemi tecnici, affrontati già dal suo grande rivale. È poi notevole come le tre sole tragedie che il Rotrou aveva derivato dal teatro classico, l'Antigone, l'Hercule mourant e l'Iphigénie, abbiano tutte giovato in qualche modo al R. Assai lievi, i riscontri col Gilbert e il Du Ryer. Una novella del Segrais (nel Divertissement de la Princesse Aurélie) appare come la fonte principale del Bajazet.
La commedia Les Plaideurs, in tre atti, prende le mosse dalle Vespe di Aristofane; il R. la destinava alla compagnia italiana di Scaramuccia, accentuando così l'elemento grottesco e istrionico di cui si compiacque in quelle scene. Il giudice Dandin, divenuto maniaco, sfoga tra le pareti domestiche la sua passione dei tribunali; un processo ridicolo contro un cane si svolge con tutte le forme d'un vero giudizio; Chicaneau e la contessa, due vivaci macchiette di litiganti, completano il quadro, a cui non manca l'idillio di Leandro e d'Isabella, che finiscono per unirsi in matrimonio. La commedia, trattata come un giuoco abilissimo di ritmi e di stile, scopre nel fondo una certa aridità: ci dà come la riprova d'una scarsa simpatia umana, o più propriamente d'una facilità di distacco (che nei Plaideurs è totale) onde l'animo del R. osservava e dominava i suoi personaggi.
Le poesie liriche del R. (le sette odi giovanili su Le Paysage ou promenade de Port-Royal des champs, le odi d'occasione per il re, l'Idylle sur la Paix, gli Hymnes traduits du Bréviaire romain, i Cantiques spirituels, poche Stances e sonetti) risentono della tradizione del Malherbe, in quanto sono costrutte con chiarezza e con eleganza; ma l'ispirazione, sebbene contenuta, e quasi velata dall'arte, appare più sensibile nelle visioni della natura e nei canti religiosi, fra i quali si levano a grande altezza i cori dell'Athalie.
Di quanto il R. aveva scritto come storiografo di Luigi XIV, quasi tutto andò perduto nell'incendio della casa di Valincour, successore di R. e Boileau in quell'ufficio, la Relation du siège de Namur e i pochi frammenti conservati da Louis Racine non lasciano dubbio che il poeta s'era dato con impegno alla raccolta delle notizie e disegnava un'opera sostanziosa e dignitosa. Il Précis historique des campagnes de Louis XIV depuis 1672 jusqu'en 1678, rimasto anch'esso tra le carte del figlio, doveva probabilmente servire come prefazione a una storia militare tracciata su di una serie di medaglie, a cura della "Petite Académie" fondata dal Colbert (primo nucleo della futura Académie royale des Inscriptions et Belles Lettres). Fra le altre prose del R., meritano speciale ricordo l'Abrégé de l'Histoire de Port-Royal (ediz. a cura di A. Gazier, Parigi 1913), i discorsi accademici, le versioni sparse dal greco (dal Convito di Platone, dal primo libro della Poetica di Aristotele, dal trattato di Luciano Come si debba scrivere la storia, dalla Storia ecclesiastica di Eusebio, oltre alla vita di Diogene Cinico scritta da Diogene Laerzio). L'epistolario del R., nei suoi due gruppi principali - lettere al Boileau e lettere al figlio primogenito - è prezioso per la conoscenza del suo carattere e del concetto ch'egli ebbe nell'età matura della vita familiare e sociale.
La fortuna letteraria del R. fu immensa nel primo Settecento: l'esempio di quell'arte infuse, nel romanzo del Prévost, nella commedia del Marivaux, un nuovo spirito di bellezza e di passione, che vale assai più dell'imitazione esterna della tragedia classica, imperniata anch'essa sulla tradizione del R. Voltaire ammirò l'opera del R. e tentò seguirne le orme nel suo teatro, ch'è però governato da tutt'altre preoccupazioni morali. La critica del Voltaire, del La Harpe, e in genere della scuola classicista, fu troppe volte inceppata dal parallelo fra il R. e Corneille; come, nella critica dei romantici, che attribuirono tanta importanza alla poetica del dramma, si venne delineando (dallo Schlegel allo Stendhal) un parallelo, anzi un contrasto, ch'era tanto meno legittimo, fra il R. e lo Shakespeare. Certo, il romanticismo francese, soprattutto per l'influenza di V. Hugo, oscurò in parte la fama del R.; ma, più dei critici, i poeti stessi provvidero a risollevarla, consapevoli (dal Baudelaire a P. Valéry) della originalità e della purezza di quell'arte.
In Italia, le tragedie del R. vennero tradotte assai presto: il Mitridate si recitava a Bologna nel 1694; una versione dell'Alessandro il Grande fu pubblicata nel 1697, della Berenice nel 1699, e via via tutte le altre: una traduzione in prosa, pedestre, ma fedele, dell'intero teatro del R. si deve a Luisa Bergalli Gozzi (Venezia 1736); e fra i traduttori del Settecento s'incontrano varî nomi assai noti: per l'Andromaca, Eustachio Manfredi (1705 circa), Jacopo A. Sanvitale (1776); per la Berenice, Ippolito Pindemonte (1775); per l'Ifigenia, Francesco Albergati Capacelli (1764), che nello stesso anno diede anche la Fedra; per l'Ester, Girolamo Gigli (1720), Paolo Rolli (1756), Pietro Buratti (1795); per l'Atalia, Antonio Contì (1739) ed il Rolli (1754).
Il Metastasio s'ispirò più volte al teatro del R., e soprattutto all'amorosa Bérénice; la Merope del Maffei rinnova in parte la situazione e il conflitto dell'Andromaque; l'Alfieri giovine ammirava la Phèdre: e d'altre tragedie, e figure, del R. ebbe a rammentarsi di poi ("Il Polinice, gallo anch'egli, lo trassi dai Fratelli nemici del Racine": Vita, Ep. IV, cap. 2°); fra i tragici minori, l'imitazione del R. si ravvisa nel teatro di Apostolo Zeno, di Pier Iacopo Martelli, d'Annibale Marchese, G. Gorini-Corio, Paolo Emilio Campi, ed altri. La critica, pur quando s'oppose al predominio del gusto straniero, riconobbe, col Muratori, l'Orsi, il Conti, il Calepio, l'eccellenza del R. "il quale spinse tant'oltre la gloria del teatro francese". E anche nell'Ottocento, nonostante la reazione dei romantici francesi, l'estimazione del R. si mantenne assai alta, come bastano a provare gli equi giudizî del Manzoni ed il mirabile saggio del De Sanctis sulla Fedra: oltre alle nuove traduzioni, fra cui si notano quelle di P. Napoli-Signorelli (Ifigenia in Aulide e Fedra, 1804-1805) di A. Buttura (Ifigema, 1815), di P. Maspero (Teatro scelto: Mitridate, Ifigenia, Fedra, Atalia, 1858), di F. Dall'Ongaro (Fedra, 1859: è il testo che servì per le recite di Adelaide Ristori, la più grande interprete italiana della tragedia del R.), di G. Zanella (Ester, 1888), di M. Giobbe (Fedra, 1904).
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